Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/62

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CAPITOLO LXII

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CAPITOLO LXII.

Gl'Imperatori greci di Nicea e di Costantinopoli. Innalzamento e regno di Michele Paleologo. Finta riconciliazione del medesimo col Papa e colla Chiesa latina. Divisamenti ostili del Duca d'Angiò. Ribellioni della Sicilia. Guerra dei Catalani nell'Asia e nella Grecia. Sommossa di Atene, e stato presente di questa città.

Il dispetto di avere perduta Costantinopoli rianimò alcun poco il vigore de’ Greci. I Principi e i Nobili, dimenticato il lusso de’ lor palagi, corsero all’armi, e i più forti, o i più abili di questi s’impadronirono degli avanzi della monarchia. Sarebbe difficil cosa il trovare ne’ lunghi e sterili volumi degli Annali di Bisanzo1 due principi degni di essere paragonati a Teodoro Lascaris, e a Giovanni Duca Vatace2, [p. 178 modifica]che collocarono e mantennero sulle mura di Nicea nella Bitinia il romano stendardo. Diversi d’indole, l’uno dall’altro, i due principi, questa medesima diversità alle condizioni in cui posti erano conveniva.  [A. D. 1204-1222] Nel tempo de’ suoi primi sforzi, il fuggitivo Lascaris non possedea che tre città, non comandava che a duemila soldati; ma una generosa disperazione in tutti gli atti del regno suo lo sostenne; in ogni sua fazion militare, pose la sua vita e la sua corona in pericolo. Sorprese per solerzia i suoi nemici dell’Ellesponto e del Meandro; per intrepidezza pervenne a ridurli; regnando e continuando a vincere per diciotto anni diede al principato di Nicea tale estensione che ad un impero addiceasi.  [A. D. 1222-1225] Fondato sopra base più salda e sostenuto da più abbondanti forze, questo trono pervenne a Vatace, genero e successore di Teodoro Lascaris. Così l’indole sua propria, come le cambiate circostanze di questo regno, condussero Vatace a calcolare ponderatamente i pericoli, a spiar le occasioni, a preparare il buon successo de’ suoi ambiziosi disegni. Nel narrare la caduta dell’Impero latino, ho accennate di volo le vittorie de’ Greci, il contegno prudente e i successivi progressi di un conquistatore, che nel durare di trentatre anni di regno, liberò le province dalla tirannide de’ nativi e degli stranieri, e strinse per ogni lato una Capitale, divenuta ignudo tronco, smosso dalle radici, e presto a cadere al primo colpo di scure. Ma più degni ancora di encomio e di ammirazione sono l’interna economia, e il pacifico governo del successore di Teodoro3. Egli [p. 179 modifica]ne assunse le redini in tempo che le calamità della guerra aveano scemata la popolazione, e toltele pressochè tutte le vie di sussistenza; perchè non vi essendo più nè modi nè allettamenti a coltivare la terra, i fondi più fertili rimanevano abbandonati e sol coperti di ginestre e di rovi. L’imperatore ne fe’ dissodare una parte a suo conto, talchè fra le sue mani, e per la sua vigilanza, diedero più copiosi ricolti di quanti sperar ne potesse la sollecitudine di un fittaiuolo. Divenuti i dominj reali il giardino e il granaio dell’Asia, il Principe non ebbe d’uopo di vessare i popoli per assicurarsi una fonte di ricchezze perenni e legittime. Giusta la natura dei terreni, questi divenivano, per le imperiali cure, o campi da grano, o selve, o vigneti, o prati, ove numerose greggie andavano al pascolo. Nel presentare l’Imperatrice di una corona ricca di perle e di diamanti, l’Imperatore le fece intendere sorridendo che questo prezioso ornamento era stato comperato coi danari ricavati dalla vendita delle uova del suo immenso pollaio. La rendita dei dominj imperiali bastava alle spese del palagio, al mantenimento degli ospitali, al sostegno della dignità e del lusso del trono, e più vantaggiosa di questa rendita divenne allo Stato la forza del buon esempio. Tornarono i primi onori e l’antica sicurezza all’aratro. Schifi allora i Nobili di riparare la fastosa loro indigenza o colle spoglie involate al povero, o con favori mendicati alla Corte, una rendita più certa e non abbietta si procacciarono dai propri dominj. Affrettatisi i Turchi a comperare il superfluo delle [p. 180 modifica]biade, e delle mandrie dello Stato, Vatace si mantenne accuratamente in corrispondenza con essi, ma non quindi incoraggiò l’introduzione delle produzioni dell’industria straniera e della seta del Levante, come tenne lontane da’ suoi dominj le manifatture dell’Italia. „I bisogni della natura, solea dire Vatace, sono indispensabili da soddisfare: ma il capriccio della moda in un giorno nasce e perisce„ con tai precetti e col proprio esempio, il saggio Monarca e la semplicità de’ costumi, e l’industria del popolo, e l’economia domestica, favoriva. Primo scopo di premure gli furono l’educazione della gioventù e lo splendore delle lettere4: solito a dire con verità che un principe ed un filosofo sono i due più eminenti personaggi della società umana, non si arrogava decidere qual dei due avesse la preferenza. La prima sposa del medesimo, Irene, figlia di Teodoro Lascaris, più illustre per merito personale e per le virtù del suo sesso, che pel sangue Comneno trasfuso nelle sue vene, avea dato in dote al marito l’Impero. Dopo la morte di lei, Vatace sposò Anna, o Costanza, figlia naturale dell’imperatore Federico II. Ma non essendo questa ancor giunta alla pubertà, l’Imperatore accolse nel proprio letto una Italiana del suo seguito: e i vezzi e le arti della concubina ottennero dall’amante, tranne il titolo, tutti gli onori ad una Imperatrice dovuti; debolezza del Monarca, che come enorme delitto divulgarono i frati; ma la violenza delle costoro invet[p. 181 modifica]tive, non giovò che a far risplendere maggiormente la pazienza del Sovrano. La filosofia del nostro secolo perdonerà, non v’ha dubbio, a questo principe una debolezza cui compensava un complesso raro di virtù; e quegli stessi contemporanei che mitemente giudicarono le più impetuose e fatali passioni di Lascaris, non seppero negare ai falli di Vatace un’indulgenza ai restauratori degl’Imperi dovuta5. Que’ Greci, i quali, privi di leggi e di tranquillità, gemevano tuttavia sotto il giogo latino, invidiavano la felicità di quei lor confratelli che già riacquistata aveano la civile libertà; e Vatace con una politica non condannevole, metteva ogni sollecitudine a persuaderli de’ vantaggi che migrando al regno di lui avrebbero trovati.

[A. D. 1255-1259] Appena ci facciamo a paragonare i regni di Giovanni Vatace, e di Teodoro, figlio di lui e successore, appaiono manifesti il tralignamento e la differenza tra il fondatore, poi reggitore dell’Impero fondato, e l’erede in cui non era che lo splendore a lui preparato dal padre6. Non vuole cionnullameno negarsi qualche forza d’animo a Teodoro; allevato alla scuola paterna, addestrato nella caccia e nella guerra, poteva egli del tutto mancarne? Benchè Costantinopoli non abbia ceduto all’armi di [p. 182 modifica]questo principe, pure ne’ tre anni che il suo regno durò, ei condusse per tre volte i suoi eserciti vittoriosi fin nel cuore della Bulgaria. Ma ogni pregio da lui posseduto oscuravano l’ira e la diffidenza, il primo dei quali difetti può attribuirsi alla consuetudine di non essere stato mai contraddetto; l’altro forse gli derivava da alcune confuse e vaghe nozioni sulla depravazione dell’uman genere. Stando in cammino per una delle sue spedizioni nella Bulgaria, consultò sopra un caso di politica i suoi principali ministri, fra i quali, il gran Logoteta, Giorgio Acropolita osò con sincerità sostenere una opinione che feriva il Sovrano. Questi, portata primieramente la mano all’elsa della sua scimitarra, fu rattenuto indi dal nuovo pensamento di punire in modo più obbrobrioso il Ministro. Cotesto uffiziale, un de’ primarj dell’Impero, ebbe dal suo Signore il comando di scendere da cavallo, e spogliato delle sue vesti alla presenza del Principe e dell’esercito, e steso sul suolo, soggiacque ai colpi di bastone, che due guardie, od esecutori senza pietà gli menarono addosso; gastigo durato sì lungo tempo, che quando per ordine imperiale fu fatto tregua alle percosse, il misero paziente quasi non ebbe bastante forza per sorgere da terra e trascinarsi alla sua tenda. Dopo essere stato ritirato per alcuni giorni, gli stessi comandi assoluti di Teodoro lo richiamarono nel Consiglio; e, ciò che prova quanto i Greci d’allora ad ogni sentimento di onore e di vergogna fossero morti, è il saper noi l’obbrobrio cui fu sottoposto Acropolita, dalla sua narrazione medesima7. Questa crudeltà [p. 183 modifica]ingenita dell’Imperatore ebbe maggior alimento da un penoso morbo che gli presentava di continuo imminente la morte, e dai timori destatisi nel medesimo di doverlo alle forze di un veleno, o di un sortilegio. Ogn’impeto di collera che lo assaliva, costava or le sostanze, or la vita, o gli occhi, o alcun membro del corpo a qualche individuo della famiglia imperiale, o a qualche grande uffiziale della Corona; laonde sul terminar de’ suoi giorni, il figlio di Vatace si meritò dal popolo, o certamente dalla sua Corte, il nome di tiranno. Venuto una volta in deliberazione di maritare una nobile ed avvenentissima donzella ad un vil plebeo, cui solo merito era il capriccio del Sovrano che lo favoriva, e non acconsentendo a tai nozze la madre della giovane che apparteneva alla famiglia de’ Paleologhi, Teodoro, per sin dimenticati i riguardi e al grado, e all’età dovuti, la fe’ mettere fino al collo entro un sacco insieme a diversi gatti, delle quali bestie veniva aizzato a punture di spille il furore. [A. D. 1259] Giunto agli ultimi del viver suo questo Principe, mostrò rincrescimento delle passate crudeltà e desiderio con successivi atti clementi di cancellarle. Lo crucciavano ad un tempo i pensieri di un figlio che non avendo più di otto anni, egli vedeva avventurato ai pericoli di una lunga minorità; ne confidò pertanto la tutela alla santità del patriarca Arsenio, e al valore di Giorgio Muza- [p. 184 modifica]lone, gran domestico. Questo secondo quanto godea il favore del Principe, altrettanto della pubblica esecrazione era scopo; tanto maggiormente che le corrispondenze fra i Greci e i Latini avendo introdotto nelle monarchie de’ primi i titoli e i privilegi ereditarj, le famiglie nobili8 si adiravano in veggendo l’innalzamento di un favorito privo di meriti, e che, per giunta, incolpavano di tutti gli errori del Sovrano e delle calamità della patria. Nondimeno nel primo Consiglio tenutosi dopo la morte di Teodoro, Muzalone dall’alto del trono aringò in difesa della propria condotta e delle intenzioni da cui fu mossa, con tanta arte, che per allora lodatane la modestia, e largheggiatogli di proteste di stima e di fedeltà, i più inviperiti nemici del favorito si mostrarono i primi ad onorarlo col titolo di custode e salvator de’ Romani. Ma otto giorni bastarono agli apparecchi di una congiura che scoppiò nel nono, mentre si celebravano le pompe funerali del Monarca defunto nella cattedrale di Magnesia9, città del[p. 185 modifica]l’Asia, situata in riva all’Ermo, alle falde del Sipilo, poichè in questa città Teodoro era spirato. Interrotta la cerimonia da una sommossa delle guardie, Muzalone, i fratelli e i partigiani di questo, vennero trucidati a piè dell’altare, datosi per nuovo collega al Patriarca, assente in quel punto, Michele Paleologo, uno de’ Greci d’allora il più illustre per meriti e per natali10.

Fra tanti che invaniscono de’ loro antenati, la maggior parte è ridotta a contentarsi di una gloria municipale, o domestica, e avene assai pochi i quali osassero consegnare i privati fasti delle lor famiglie agli Annali della propria nazione. Ma sino dalla metà dell’undecimo secolo, la nobile schiatta de’ Paleologhi11 luminosa nella Storia di Bisanzo si mostra. Incominciatone lo splendore col valoroso Giorgio Paleologo che collocò il padre de’ Comneni sul trono di Costantinopoli, i congiunti, o discendenti dello stesso Giorgio continuarono nelle successive generazioni a segnalarsi or comandando gli eserciti, or presedendo ai Consigli di Stato. La famiglia imperiale non disdegnò il lor parentado, talchè, se l’ordine di successione fosse stato a rigore osservato rispetto alle donne, la moglie di Teodoro Lascaris avrebbe ceduto alla sua sorella primogenita, madre [p. 186 modifica]di quel Michele Paleologo, che in appresso innalzò al trono la propria famiglia. Al vanto di una illustre nascita Michele aggiungea quello che dalle sue nozioni politiche e militari gli derivava. Asceso fin dagli anni della prima giovinezza alla carica di Contestabile o comandante de’ Franchi mercenarj, la sostenne splendidamente, e avido e prodigo ad un tempo la sua ambizione il rendea; perchè, se la spesa necessaria al mantenimento suo personale, non eccedea le tre piastre d’oro, molto danaro abbisognavagli per far donativi, che alle sue maniere affabili e buone qualità sociali accrescevano pregio. Questa affezione ch’egli si era guadagnata dal popolo e dai soldati, diede ombra alla Corte; nondimeno Michele si sottrasse per tre volte ai pericoli che o la sua imprudenza, o quella de’ suoi partigiani gli suscitarono.

1. Sotto il regno di Vatace, che era pur quello della giustizia, essendo nato litigio fra due uffiziali12, l’un de’ quali accusava l’altro di sostenere il diritto ereditario de’ Paleologhi al trono, si pensò definirlo con un combattimento giudiziario, usanza che i Greci aveano tolta di recente dalla giurisprudenza dei Latini. Comunque soggiacesse l’accusato, si mantenne sempre fermo nel protestare sè essere il solo colpevole, e i discorsi o imprudenti, o criminosi da lui tenuti non solamente non avere ottenuta approvazione dal suo protettore Michele Paleologo, ma a non saputa di questo essere stati fatti. A mal grado di ciò, forti sospetti aggravavano tut[p. 187 modifica]tavia il Contestabile, fatto scopo per ogni dove alle dicerie della malevolenza, onde l’arcivescovo di Filadelfia, scaltrito cortigiano, lo sollecitava a sottomettersi al Giudizio di Dio, e a far palese colla prova del fuoco la sua innocenza13. Il qual partito se Paleologo avesse accettato, tre giorni prima innanzi le prove, doveasi, secondo quelle costumanze, avvolgergli il braccio in un sacchetto, fasciatura che l’imperiale suggello guarentiva indissolubile; poi gli facea mestieri portar tre volte dall’altare alla balaustrata del santuario una palla di ferro rovente; e il non riceverne danno, o dolore, comunque non si fosse premunito con verun’arte, assoluto lo rimandava. Ma con una piacevole accortezza il Contestabile da una tal prova pericolosa si liberò. „Io sono soldato, diss’egli, e pronto a combattere, brandendo l’armi, i miei accusatori, ma ad un profano, ad un peccatore mio pari, Dio non comparte il dono di far miracoli. Ben la vostra pietà, o prelato santissimo, può meritarmi questa grazia celeste. Riceverò pertanto, ma solo dalle vostre mani, la palla arroventata che debb’essere il mallevadore della mia innocenza„. L’arcivescovo rimase scompigliato, l’Imperatore sorrise; nuovi servigi meritarono a Michele assoluzione e perdono e onori novelli. [p. 188 modifica]

2. Sotto il regno successivo, essendo Paleologo governator di Nicea, fu avvertito, in tempo che Teodoro era lontano, dei pericoli da temersi dalla diffidenza di questo principe, che probabilmente accigneasi a compensarne i servigi col dargli morte, o privarlo per lo meno degli occhi. Per non fare una tale esperienza, il Contestabile, seguito da alcuni servi, abbandonò la città e gli Stati di Teodoro; spogliato indi dai Turcomani nell’attraversare il Deserto, trovò nondimeno alla Corte del Sultano ospizio e buon’accoglienza. Ridotto ad una tanto equivoca condizione di vita l’esule illustre, seppe unire i doveri che gli imponea la gratitudine verso il Sultano a quelli di cittadino; laonde mentre i Tartari respingea dai dominj del suo benefattore, mandava salutevoli avvisi alle guernigioni romane delle frontiere, e pervenne ad ultimare un Trattato di pace, fra le cui condizioni vi fu quella, decorosa per lui, della sua grazia e del suo ritorno alla patria.

3. Intanto ch’egli stava difendendo l’Oriente contra le fazioni del despota dell’Epiro, il Principe, sul solo fondamento di nuovi sospetti, lo condannò, e questa volta Michele, fosse debolezza, o fedeltà, porse la mano alle catene, e si lasciò condurre da Durazzo a Nicea, cammino di circa seicento miglia. Il ministro incaricato di una commissione sì odiosa, per altro la mitigò coi riguardi usati verso del prigioniere; ne andò guari che i pericoli sovrastanti ad esso, dileguarono per l’infermità dell’Imperatore, e cessarono affatto allor quando questi giunto all’istante della morte raccomandò al medesimo Paleologo il proprio figlio; col quale atto nel modo il più evi[p. 189 modifica]dente manifestò di riconoscere e l’innocenza, e il potere d’un uomo sì ragguardevole.

Ma oltre alla rimembranza dell’oltraggio che questa sua innocenza avea ricevuto, troppo manifesto era il potere, perchè vi fosse speranza di arrestarne il corso in sulla via che l’ambizione gli apriva14. Nel Consiglio tenutosi dopo la morte di Teodoro, primo Michele a giurar fedeltà a Muzalone, fu indi il primo ad infrangere un tal giuramento; ma si condusse con tanta scaltrezza, che trasse profitto dalla strage accaduta pochi giorni dopo, senza partecipar del delitto, o almeno del rimprovero del delitto. Quando si venne alla scelta di un reggente, ponendo destramente in conflitto le passioni e gli interessi contrarj de’ candidati, se ne cattivò i voti, in guisa che ciascuno per parte sua protestava non esservi alcuno, dopo di sè, che più di Paleologo meritasse la preferenza. Col titolo di gran Duca, accettò, o si arrogò il potere esecutivo dello Stato, sintanto che durasse la lunga minorità del giovine Cesare. Nulla avendo a temere dal Patriarca, che era solamente un fantasma insignito d’onori, seppe colla superiorità del suo ingegno o allettare, o dileguare le fazioni de’ Nobili. Avea Vatace depositati i tesori, venuti dalla sua assegnatezza, entro un Forte situato alle rive dell’Ermo, e da’ suoi fedeli Varangi difeso; ma il Contestabile, che avea mantenuta la [p. 190 modifica]sua autorità, o la sua prevalenza sulle truppe straniere, adoperò le guardie per impadronirsi del tesoro, il tesoro per corrompere le guardie; inoltre sì accorto, che comunque delle pubbliche ricchezze abusasse, di avarizia, o avidità personale non fu giammai sospettato. Tutti i discorsi di lui e de’ suoi partigiani intendevano a far credere ai sudditi di ogni classe che la loro prosperità sarebbe cresciuta in proporzione del suo potere. Mitigò il rigor delle tasse, perpetuo argomento delle querele del popolo, e proibì le prove del fuoco e i combattimenti giudiziarj, barbare instituzioni, già abolite, o venute in discredito, così nella Francia15 come nell’Inghilterra16, alla qual considerazione si arroge che il giudizio per via della spada opponeasi egualmente alla ragione di un popolo ingentilito17, e alle propensioni morali [p. 191 modifica]di un popolo pusillanime, siccome i Greci lo erano. Si guadagnò l’amore de’ veterani assicurando il vitto alle mogli e ai figli de’ medesimi. Col proteggere il progresso delle Scienze e la purezza della religione, ebbe per sè i filosofi e i Sacerdoti; largo promettitore di ricompense al merito, fece sì che tutti gli aspiranti a cariche applicassero a sè medesimi queste promesse. Non ignorando quanta fosse la prevalenza del clero, si studiò con buon successo per procacciare i suffragi di un Ordine così poderoso, al quale scopo gli somministrò un onorevole colore il dispendioso viaggio che da Nicea a Magnesia intraprese. Visitandoli di notte tempo, con nuove liberalità seduceva i prelati, e lusingò la vanità dell’incorruttibile Patriarca coll’omaggio di condurne egli medesimo la mula per le strade della città, allontanando colla propria mano la calca, onde si tenesse alla dovuta rispettosa distanza. Senza rinunziare ai diritti che gli venian dalla nascita, incoraggiò la libertà delle discussioni sui vantaggi di una monarchia elettiva, per lo che i partigiani di lui poneano in aria di trionfo la seguente interrogazione: quale infermo vorrebbe affidare la cura della propria salute, qual mercatante la condotta della sua nave, all’ingegno d’un medico o d’un nocchiero ereditarj? La fanciullezza dell’Imperatore, e i pericoli da una lunga minorità minacciati, rendeano necessaria allo Stato la protezione di un Reggente adulto ed esperto, di un [p. 192 modifica]collegato al trono che non dovesse paventare la gelosia de’ suoi pari, e insignito de’ titoli e delle prerogative reali. Dopo le quali cose apparve che sol per vantaggio del principe e de’ popoli, senza viste d’interesse o per sè, o per la propria famiglia, il gran Duca acconsentiva ad assumersi la tutela e l’educazione del figlio di Teodoro; del rimanente aspettava egli con impazienza il felice istante, in cui già ferma al regno la mano del giovine Principe, potesse questi liberare il suo tutore dal peso dell’amministrazione, e restituirgli il conforto di vivere nella sua pacifica oscurità. Gli vennero primieramente conferiti i titoli e le prerogative di despota, per cui godea degli onori della porpora, e del secondo grado della monarchia romana. Convenutosi indi che Giovanni e Michele sarebbero acclamati Imperatori colleghi, e sollevati entrambi sopra lo scudo, salva per Giovanni la preminenza derivatagli dal diritto di successione, i due augusti colleghi si giurarono amicizia inviolabile, permettendo ai sudditi di obbligarsi con giuramento a chiarirsi contro l’aggressore; espressione equivoca ed atta a somministrare pretesto alla discordia e alla guerra civile. Di tutto ciò Paleologo parea soddisfatto: ma nel dì della cerimonia della coronazione che accader dovea nella cattedral di Nicea, gli amici di Paleologo levarono un grido per sostenere la preminenza dovuta, questi diceano, all’età e al merito del nuovo Cesare; ed a tale contrasto fuori di luogo si cercò per temperamento il differire a più favorevole circostanza la coronazione di Giovanni Lascaris. Laonde il giovine principe, fregiato unicamente di una lieve corona, comparve seguendo il suo tutore, che solo ricevè dalle mani del Patriarca [p. 193 modifica]il diadema imperiale.  [A. D. 1260] Non senza un’estrema ripugnanza Arsenio abbandonò in tal guisa gl’interessi del pupillo: ma i Varangi, sollevata la loro azza da guerra, prevalsero alla timida fanciullezza del principe legittimo che diede un segno di approvazione; e nondimeno si fecero udire alcune voci sulla necessità che l’esistenza di un fanciullo non fosse omai ostacolo alla felicità d’uno Stato. Grato Paleologo ai suoi amici, d’impieghi civili e militari li presentò, e creando nella propria famiglia un despota e due sebastocratori, conferì al vecchio generale Alessio Strategopolo il titolo di Cesare, che rendè ampio guiderdone al suo benefattore col farlo padrone di Costantinopoli.

[A. D. 1261] Correva il secondo anno del regno di Michele, allorchè, risedendo egli nel palagio e ne’ giardini di Ninfea18 presso Smirne, ricevette di notte tempo la prima notizia di questo incredibile buon successo, ad annunziargli il quale si andò con molto riguardo innanzi destarlo, per condiscendere alle tenere sollecitudini della sorella del medesimo, Eulogia. Il messaggiero, uomo di niun conto e sconosciuto, non portava con sè alcuna lettera del generale vincitore; laonde Paleologo, pensando alla sconfitta di Vatace, e alla inutilità dei tentativi che egli stesso [p. 194 modifica]avea di recente operati, nè potendo persuadersi che ottocento soldati avessero potuto sorprendere Costantinopoli, ebbe per sospetto il messo, e fattolo arrestare, gli promise grandi ricompense, qualora un tale annunzio si fosse verificato, altrimenti gli minacciò morte. La Corte rimase per alcune ore in queste alternative di tema e di speranza, fino al momento in cui i messi di Alessio arrivarono apportatori de’ trofei della vittoria, della spada cioè e dello scettro19, dei calzaretti, e del berrettone20 di Baldovino l’Usurpatore, i quali arredi nel momento della sua precipitosa fuga gli eran caduti. Venne tantosto convocata un’assemblea de’ Prelati, dei Nobili e de’ Senatori, e sì universale ed intensa era l’allegrezza, che niun altro fausto avvenimento avea per lo innanzi destato un giubilo simile a questo. Il nuovo Sovrano di Costantinopoli, con elaborata Orazione magnificò la propria fortuna e quella del popolo. „Fuvvi un tempo, ei dicea, un tempo assai remoto, allorchè l’Impero de’ Romani, dal golfo Adriatico al Tigri e ai confini dell’Etiopia si dilatava. Vennero i giorni di calamità, ne’ quali, do[p. 195 modifica]po la perdita di molte province, la medesima Capitale cadde fra le mani dei Barbari dell’Occidente. Dall’ultimo grado della sciagura, il flutto della prosperità ci ha nuovamente innalzati; ma non ostante erravamo sempre esuli e fuggitivi, e a chi ne chiedeva ove fosse la patria de’ Romani, additavamo arrossendo il clima del Globo e la regione del Cielo. La Providenza favorevole alle nostr’armi ne ha restituita Costantinopoli, sedia dell’Impero e della Religione. Spetta al nostro valore e al nostro coraggio il far sì che questo prezioso acquisto sia presagio e mallevadore di novelle vittorie„.  [A. D. 1261] Tanta era nel Principe e nel popolo l’impazienza, che venti giorni dopo l’espulsione de’ Latini, Michele fece il suo trionfale ingresso in Costantinopoli. Al suo avvicinare, apertasi la Porta d’Oro, il pio conquistatore, sceso da cavallo, si fece portare innanzi la miracolosa immagine di Maria la Conduttrice, affinchè apparisse che la Vergine stessa lo conduceva al tempio del proprio figlio nella cattedrale di S. Sofia. Ma dopo essersi abbandonato ai primi impeti della divozione e dell’orgoglio, contemplò sospirando la rovina e la solitudine che regnavano per ogni dove della derelitta sua Capitale. Lordati di fumo e fango i palagi, offrivano per ogni lato l’impronta della salvatica licenza de’ Franchi; vedeansi intere contrade consumate dal fuoco, o guaste dall’ingiuria de’ tempi; gli edifizj sacri e profani spogliati de’ loro arredi, e, come se i Latini avessero preveduto l’istante di essere discacciati, ogni industria loro era stata posta nel saccheggiare e distruggere; annichilato il commercio dall’anarchia, e dall’indigenza; sparita colla ricchezza pubblica la popolazione. Essendo [p. 196 modifica]stata una fra le prime cure dell’Imperatore il restituire ai Nobili i palagi de’ loro antenati, tutti coloro che poterono offrire valevoli documenti, tornarono a trovarsi nel ricinto delle lor case, o almeno sugli spianati ov’esse stettero un giorno. Ma questi proprietarj essendo periti in gran parte, la maggiore eredità fu del fisco. Le sollecitazioni di Michele trassero gli abitanti delle province a popolare nuovamente Costantinopoli, ove i prodi Volontarj che l’aveano liberata, ottennero possedimenti. I Baroni francesi e le primarie famiglie, insieme coll’Imperatore, si erano ritirate. Ma una moltitudine paziente di oscuri Latini, affezionatasi al paese, alcun fastidio del cambiato padrone non si prendea. Anzichè privare delle lor fattorie i Pisani, i Veneti, i Genovesi, il saggio conquistatore, dopo avere da questi ricevuto il giuramento di fedeltà, protesse la loro industria, ne confermò i privilegi, e permise ad essi di conservare la loro giurisdizione e i lor magistrati. I Pisani e i Veneziani continuarono ad occupare i loro rioni a parte nella città; ma i Genovesi, più meritevoli degli altri di gratitudine per parte de’ Greci, eccitata ne aveano la gelosia; perchè la loro independente colonia che aveva sulle prime posta dimora ad Eraclea in un porto della Tracia, condiscese alla sollecitazione che li chiamava a popolare il sobborgo di Galata; ma la opportunità del sito essendo stata ad essi giovevole per rinvigorire il primitivo loro commercio non andò guari che la maestà dell’Impero di Costantinopoli ne sofferse21. [p. 197 modifica]

[A. D. 1261] Il ritorno de’ Greci a Costantinopoli venne celebrato, siccome l’epoca di un novello impero: il solo conquistatore, fondato sul diritto della propria spada, rinovò la cerimonia della sua incoronazione nella Cattedrale di S. Sofia; Giovanni Lascaris, pupillo di Michele, e legittimo Sovrano, vide a poco a poco sparire le prerogative della sua dignità, e cancellato dagli atti del governo il suo nome; ma i diritti di lui vivevano ancora nella ricordanza de’ popoli, ed egli intanto avanzavasi verso gli anni della virilità e dell’ambizione. Fosse timore, o ribrezzo, Paleologo non lordò nel sangue di un innocente Principe le sue mani; ma perplesso fra i sentimenti dell’usurpatore e que’ del parente, si affrancò il possedimento del trono, mercè uno di que’ delitti imperfetti, co’ quali i moderni Greci eransi già addimesticati, e poichè la privazione della vista rendea un principe incapace di governare l’Impero, a questo colpevole espediente ricorse; ma invece che all’infelice giovane fossero strappati gli occhi, si pensò a distruggere in esso la forza del nervo ottico esponendolo alla riflessione ardente di un arroventato bacino22; dopo di che confinato in un lontano castello, [p. 198 modifica]vi languì dimenticato per molto volgere d’anni. Benchè questo meditato delitto sembri incompatibile coi rimorsi, possiam credere, che Paleologo avesse nel commetterlo una disadatta, quanto per lui comoda, fiducia nella misericordia del Cielo; ma non quindi rimanea meno esposto al biasimo e alla vendetta degli uomini. Applaudissero pure, o, intimoriti dalle sue crudeltà, si stessero silenziosi i vili cortigiani dell’usurpatore; ma il clero potea parlare a nome di un invisibile padrone, e condotto da un Prelato inaccessibile alla speranza come al timore. Vero è che Arsenio23, dopo rassegnata per breve tempo la sua dignità, si era prestato ad occupare la sede ecclesiastica di Costantinopoli; onde sotto la presidenza di lui la Chiesa greca fu restaurata. Egli sperava di ammollire per via di pazienza e di sommessioni l’animo del tiranno, e di rendersi per tal via utile al giovine Imperatore; ma troppo a lungo gli artifizj di Paleologo si erano presa a giuoco la pietosa semplicità del Prelato; il quale appena seppe il destino infausto di Lascaris, prese il partito di adoperare le armi spirituali, e questa volta la superstizione protesse la causa dell’umanità e della giustizia.  [A. D. 1262-1263] Pertanto in un Concilio di Vescovi, che l’esempio del loro Capo facea coraggiosi, pronunziò anatema contro Michele, avendo nondimeno la prudenza di continuare a fare menzione di lui nelle pubbliche [p. 199 modifica]preci. I prelati d’Oriente non avevano ancora abbracciate le pericolose massime dell’antica Roma, nè si credeano quindi in diritto di far forti le loro censure spirituali col gridare rimossi dal trono i monarchi, e sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà; però il colpevole, separato in tal guisa da Dio e dalla Chiesa, diveniva scopo al pubblico orrore, orrore che, in una Capitale abitata da turbolenti fanatici, era valevole ad armare il braccio di un assassino, o ad eccitare una sedizione. Paleologo che comprendeva il pericolo, confessò il proprio delitto, implorando la clemenza del giudice: la colpa non avea più riparo; chi l’avea commessa ne godeva il frutto; una rigorosa penitenza potea cancellarla, ed innalzare il peccatore agli onori di un Santo; ma l’inflessibile Patriarca ricusò di additar vie di espiazione, o di concedere alcuna speranza di pietà celeste al colpevole, e solamente condiscese a rispondere che ad un sì atroce delitto una straordinaria espiazione voleasi. „È necessario ch’io rassegni l’Impero?„ sclamò Michele, rimettendo, o facendo l’atto di rimettere la spada imperiale. E già Arsenio portava la mano a questo pegno della Sovranità; ma non tardò ad accorgersi che l’Imperatore non si sentiva inclinato a pagare a sì caro prezzo l’assoluzione implorata24; per lo che acceso di sdegno il Prelato cercò la sua cella, lasciando il mo[p. 200 modifica]narca piangente e prostrato in sulla soglia del tempio.

[A. D. 1266-1312] Lo scandalo e i pericoli di una tale scomunica durarono più di tre anni. Il tempo e la penitenza di Michele avendo acchetati i gridori del popolo, i Prelati greci giunsero a condannare il rigore d’Arsenio, siccome opposto alla evangelica mansuetudine. Intanto l’Imperatore non si stette dal fare accortamente antivedere, che quando si continuasse a ributtare la sua sommessione, ei potrebbe trovare a Roma un giudice più indulgente; ed era cosa più semplice e più conforme agli interessi della Chiesa bisantina il procurarsi nel proprio seno un Capo che proferisse i suoi giudizj a norma delle brame imperiali. Si fece comparire il nome di Arsenio in mezzo ad alcuni rumori vaghi di scontento e di cospirazioni; alcune irregolarità che si pretese scoprire nel reggimento spirituale del medesimo, somministrarono pretesto ad un sinodo per giudicare e rimovere il Prelato, che sotto buona scorta di armati, fu trasferito in una isoletta della Propontide. Prima di essere condotto al luogo dell’esilio, il Patriarca pretese dignitosamente che si facesse un inventario de’ tesori della chiesa, manifestò non possedere egli in proprio che tre piastre d’oro guadagnate nel copiar salmi, serbò tutta l’independenza dell’animo suo, e continuò fino all’ultimo respiro nelle proteste che quanto a lui non avrebbe mai assoluto l’Imperatore25. Qualche tempo dopo la partenza di Arsenio, [p. 201 modifica]Gregorio vescovo di Andrinopoli, venne ad occupare la sede patriarcale di Bisanzio; ma non avendo egli stesso bastante prevalenza per dare all’assoluzione dell’Imperatore tutta l’autenticità che bramavasi, Giuseppe, accreditato monaco, adempiè questa rilevantissima cerimonia che accadde alla presenza del Senato e del popolo. Solo in termine di sei anni, l’umile penitente potè essere riammesso nella Comunion de’ Fedeli; ed è pur vero dire un conforto per l’umanità, il pensare che la prima condizione impostagli onde ottenere il perdono celeste, fu quella di mitigare la sorte del misero Lascaris. Ma lo spirito di Arsenio dominando tuttavia sopra una potente fazione surta nel monachismo e nel clero, mantenne uno scisma che oltre ai quarant’otto anni durò. Michele e il figlio di lui, rispettando gli scrupoli de’ pii faziosi, posero il massimo riguardo nell’affrontarli, onde la riconciliazione degli Arseniani divenne un affar serio di Chiesa e di Stato. Animati da una fiducia figlia del fanatismo, proposero questi di provare con un miracolo la giustizia della lor causa. Vennero gittate sopra un rogo ardente due carte, in una delle quali trovavasi registrato il voto degli Arseniani, nell’altra quel de’ contrarj; non dubitando i primi che le fiamme avrebbero portato rispetto alla verità; ma sfortunatamente entrambe le carte bruciarono; non preveduto incidente che restituì la pace per un giorno, prolungò le discordie per una generazione26, al finir [p. 202 modifica]della quale fu la vittoria per gli Arseniani. In quel tempo la parte vinta del clero dovette astenersi per quaranta giorni dagli uffizj ecclesiastici; ad una leggiera penitenza si sottomisero i laici, e deposto il cadavere di Arsenio nel Santuario, in nome del Santo defunto, il Principe e il popolo ricevettero l’assoluzione dei peccati de’ loro padri27.

[A. D. 1259-1282] Il delitto di Paleologo, non avendo avuto altro motivo, o almen pretesto che l’innalzamento della sua famiglia, egli fu sollecito di assicurarne la successione al trono, col far partecipe degli onori della porpora il suo primogenito.  [A. D. 1273-1332] Andronico, soprannominato indi il Vecchio, venne coronato e acclamato Imperator de’ Romani, nel sedicesimo anno dell’età sua, titolo augusto che ei portò durante un regno, lungo quanto povero di gloria, nove anni, come collega del padre, cinquanta come successor del medesimo. Lo stesso Michele sarebbe stato creduto più meritevole del trono se asceso mai non vi fosse; perchè le fazioni de’ nemici spirituali e domestici breve tempo gli concedettero, onde adoperarsi alla propria [p. 203 modifica]ria o alla felicità de’ suoi sudditi. Nondimeno tolse ai Franchi diverse isole delle più importanti che questi possedevano sull’Arcipelago, Lesbo, Chio e Rodi; e l’armi del fratello di lui Costantino, governatore di Sparta e della Malvasia, ricuperarono tutta la parte orientale della Morea da Argo e Napoli insino al Capo di Tenaro. Il Patriarca censurando agramente lo spargimento del sangue cristiano, ebbe l’audacia di opporre all’armi de’ Principi i suoi scrupoli timorosi; e per vero dire, mentre questi intendevano a far conquiste nell’Occidente, i Turchi devastavano le contrade poste al di là dell’Ellesponto, e con immense depredazioni giustificavano il parere di un Senatore greco; il quale morendo predisse che il nuovo conquisto di Costantinopoli avrebbe costato ai suoi concittadini la perdita di tutta l’Asia. Vincitore, col solo braccio de’ suoi capitani, Michele, la spada di lui irrugginì nell’imperiale palagio, e le negoziazioni che egli ebbe coi Pontefici, e col Re di Napoli, sol per tratti di una politica perfida e sanguinaria lo han segnalato28.

[A. D. 1274-1277] I. Il Vaticano era l’asilo più naturale cui potesse riparare un Imperatore latino scacciato dal trono, e il Pontefice Urbano IV si mostrò commosso dalle sciagure del principe fuggitivo, e deliberato a sostenerne i diritti. Bandite una Crociata contra i Greci [p. 204 modifica]scismatici, la scomunica contro i loro confederati ed amici, un'indulgenza plenaria a chi li guerreggiava, sollecitò i soccorsi di Luigi IX a favore dell'infelice congiunto di questo Monarca, chiedendo pel servigio della guerra santa la decima parte delle rendite ecclesiastiche della Francia e dell'Inghilterra29. Lo scaltro Michele, che spiava attentamente i progressi della nascente procella, si adoperò a sospendere gli atti nimichevoli del Pontefice, e a calmarne lo sdegno per via di supplichevoli ambascierie, e di lettere rispettose, nelle quali però destramente insinuava che un saldo Trattato di pace sarebbe stato il primo passo verso la riconciliazione delle due Chiese. Ma un sì patente artifizio, non potea far breccia negli animi della Corte di Roma, la quale rispose a Michele essere d'uopo che la penitenza del figlio precedesse il perdono del padre, e spettar solo alla Fede il preparar le basi della lega e dell'amicizia. Dopo molti indugi e politici andirivieni, la vicinanza del pericolo e lo stile incalzante di Gregorio X, costrinsero Paleologo ad imprendere una seria negoziazione: egli allegò l'esempio del gran Vatace al clero greco, il quale credendo leggere nell'animo del principe, non mostrò rifuggire dalle prime vie rispettose e conciliatorie propostegli; ma allor quando vide imminente la conclusione di un definitivo Trattato, i prelati in chiare note si espressero, che essendo i Latini, non solo di nome, ma di fatto, eretici, ogni Greco si trovava nell'obbligo di disprezzarli come la più vil feccia del genere umano30. [p. 205 modifica]Paleologo studiò tutti gli espedienti atti a persuadere, ad intimorire, a corrompere gli ecclesiastici più apprezzati dal popolo, e ad ottenerne partitamente i suffragi, or motivi di pubblica sicurezza, ora argomenti di carità cristiana adducendo. Pesati nella bilancia della politica e della teologia, il testo de' Santi Padri e l'armi de' Franchi, i più moderati senza però approvare il supplimento31 aggiunto al Simbolo di Nicea, s'indussero a confessare che credeano non impossibile l'accordo delle due proposizioni dalle quali derivava lo scisma, riducendo ad un senso cattolico ed ortodosso la processione dello Spirito Santo del Padre per il Figlio, o del Padre e del Figlio32. Quanto poi alla supremazia del Papa, benchè fosse una materia men ardua dell'altre a comprendersi, era più difficile il trovar sovra essa i prelati e i monaci greci d'accordo. Nondimeno, Michele non si stancava di rimostrar loro che poteano, senza pericolo, considerare il Vescovo di Roma come il primo fra i patriarchi, trovandosi in tale [p. 206 modifica]distanza da lui, che dipendea dalla loro prudenza il salvare dai perniciosi effetti del diritto di appellazione la libertà della Chiesa orientale; egli poi, per parte sua, assicuravali che avrebbe sagrificato l'impero e la vita, anzichè cedere nel menomo articolo di Fede ortodossa, o di independenza della sua patria: la quale protesta del sovrano venne suggellata e autenticata da una Bolla d'Oro. Il Patriarca Giuseppe si ritrasse nel suo monastero per prender tempo a risolvere, giusta le conseguenze del Trattato, se abbandonerebbe la cattedra patriarcale, o se gli tornerebbe il risalirvi; intanto l'Imperatore, il figlio del medesimo, Andronico, trentacinque Arcivescovi, e Vescovi metropolitani e i loro sinodi sottoscrissero le lettere di unione e di obbedienza, alle quali sottoscrizioni furono aggiunti i nomi de' Vescovi di molte diocesi distrutte dalla invasione degl'Infedeli. Poi un'ambasceria composta di ministri e di prelati di confidenza del principe, da esso istrutta segretamente e con gran calore di non serbar limiti nel mostrarsi condiscendenti al sommo Pontefice, mosse verso l'Italia portando seco profumi e preziosi ornamenti da offerirsi all'altar di San Pietro. Papa Gregorio X, che a capo di cinquecento Vescovi nel Concilio di Lione li ricevè33, versava lagrime d'allegrezza su questi suoi figli smarriti per sì lungo tempo, e finalmente venuti a penitenza, e ricevuto il giuramento dalle mani degli ambasciatori, che a nome de' due sovrani lo scisma abbiurarono, e insigniti i [p. 207 modifica]Prelati dell'anello e della mitra, cantò in greco e in latino il simbolo di Nicea coll'aggiunta del filioque, ringraziando Dio che lo avea predestinato alla gloria di riconciliar le due Chiese. Indi i Nunzj del Papa accompagnarono i deputati nel lor ritorno a Bisanzo, a fine di dar compimento a questa rigenerazione dei Greci; e ben apparisce dalle istruzioni che questi ebbero, come la politica del Vaticano di uno specioso titolo di supremazia non fosse contenta. Secondo queste, doveano indagare accuratamente l'animo del sovrano e del popolo; assolvere que' membri del Clero scismatico, che, abbiurati i loro errori, presterebbero giuramento di obbedienza alla Sede Appostolica; mettere in uso per tutte le Chiese il simbolo ortodosso; preparar le cose al ricevimento di un Cardinale Legato munito dei poteri alla sua dignità e all'uffizio suo pertenenti; imprimere nell'animo dell'Imperator greco il sentimento de' vantaggi che la protezione temporale del romano Pontefice poteva fruttargli34.

[A. D. 1277-1282]

Ma questi deputati non trovarono un sol partigiano presso una nazione che profferiva con orrore i nomi di Roma e di riconciliazione con essa. Per vero dire non tenea più il Patriarcato Giuseppe, in luogo del quale stavasi allora Vecco, ecclesiastico ornato di dottrina come di moderati sentimenti. Gli stessi motivi obbligavano tuttavia l'Imperatore nelle sue proteste pubbliche di riconciliazione colla Chiesa romana: ma in privato, ostentando disapprovazione dell'orgoglio [p. 208 modifica]de' Latini e delle cose nuove che andavansi introducendo, oltre che inviliva con questa duplice ipocrisia la sua dignità, incoraggiava e puniva nel medesimo tempo la disobbedienza de' proprj sudditi. Col consenso di entrambe le Chiese, essendosi pronunziata sentenza di anatema contro tutti gli scismatici pertinaci, non arrossì Paleologo di farsi egli medesimo delle censure ecclesiastiche esecutore, e di adoperare, quando le vie della persuasione tornavano inutili, le minacce, le prigionie, gli esigli, i flagelli, le amputazioni di membra, le quali provvisioni, dice uno Storico, sono la pietra di paragone del coraggio e della viltà. Due principi greci, i quali regnavano tuttavia con titolo di despoti sull'Italia, sull'Epiro e sulla Tessaglia, benchè si fossero sottomessi al sovrano di Costantinopoli, ricusarono le catene del Pontefice di Roma; e armata mano, e con buon successo, il loro rifiuto sostennero. Protetti da essi, i vescovi e i monaci fuggitivi adunarono sinodi d'opposizione, che rinversavano i nomi d'eretici e per giunta i più ingiuriosi di apostati, sui loro persecutori. Il principe di Trebisonda avendo assunto il titolo imperiale, di cui veniva divulgato indegno il vil Paleologo, gli stessi Latini di Negroponte, di Tebe, di Atene e della Morea, perdettero il merito della conversione, collegandosi, quali apertamente, quali in segreto coi nemici dell'Imperator di Bisanzo. I generali più prediletti da esso, e che faceano parte di sua famiglia, disertavano, tradivano un dopo l'altro una causa cui riguardavano come sacrilega. Contro di lui cospirarono e la sorella Eulogia e la nipote, e due cugine, Maria, regina de' Bulgari, altra nipote di Paleologo, che negoziò col sultano d'Egitto la perdita [p. 209 modifica]dello zio, e tali atti di perfidia, siccome prove di virtù sublimissime dall'opinione pubblica venian divulgate35. Intanto le insistenze de' Nunzj pontifizj per veder mandata a termine la santa opera, facendosi vie più forti presso Michele, questi si vide ridotto ad una sincera narrazione di quanto avea fatto e sofferto per essi. Non poteano revocare in dubbio che i settarj d'entrambi i sessi e di tutti i gradi, non fossero stati per opera di lui spogliati e d'onori, e di beni, e di libertà. Il registro delle confiscazioni e de' gastighi contenea inoltre personaggi fra i più cari all'Imperatore, e che maggiormente ne aveano meritati i favori. I medesimi Nunzj vennero condotti nelle carceri, ove furono mostrati loro incatenati a quattro angoli d'una prigione quattro principi di sangue imperiale, che si divincolavano, e scoteano con impeto di rabbia i lor ferri. Due di questi uscirono, l'uno sottomettendosi, l'altro andando alla morte; i due rimanenti, in pena di lor pertinacia, perdettero gli occhi; per la qual crudele e funesta tragedia, dolenti apparvero que' pochi Greci medesimi che propensi all'unione con Roma si erano manifestati36. Non v'ha [p. 210 modifica]tra i persecutori chi non debba aspettarsi di essere scopo all'odio delle sue vittime. Ma hanno la maggior parte un qualche compenso, se non nella testimonianza della propria coscienza, almeno negli encomj de' lor partigiani, e fors'anche nel buon successo de' feroci atti operati. Michele, l'ipocrisia del quale non avea impulso che dai fini di una crudele politica, era costretto ad odiare sè medesimo, a disprezzare i suoi complici, a stimare ed invidiare quei coraggiosi ribelli, che lo aveano a vile ed abborrivano nel tempo stesso. Intanto che gli abitanti di Costantinopoli per la sua barbarie lo detestavano, i Romani lo accusavano di lentezza e di doppia fede, talchè finalmente il Pontefice Martino escluse dalla comunion de' fedeli cotesto uomo adoperatosi con tanto entusiasmo a restituire al suo pastore un ovile scismatico.

[A. D. 1283]

Dopo la morte del tiranno, abbiurata per consenso unanime di tutti i Greci l'unione delle due Chiese, vennero purificati i templi, ribenedetti i penitenti, e Andronico, versando copiose lagrime sui falli della sua gioventù, negò pietosamente alle ceneri del padre le esequie solite tributarsi ad un Principe e ad un Cristiano37.

[A. D. 1266]

Il Paleologo ordinò si riedificassero e munissero le torri di Costantinopoli; che i Latini in mezzo alle sofferte calamità aveano lasciato cadere in rovina, e le fece copiosamente provvedere di grani e [p. 211 modifica]carni salate, per timor d'un assedio che per parte delle potenze occidentali si vedea minacciato. Il più formidabile fra i vicini dell'Imperator greco era il Monarca delle due Sicilie, ma sintanto che Manfredi, figlio naturale di Federico II, stava in quel trono, gli Stati di questo principe divenivano baluardo, anzi che oggetto d'inquietudine ai principi d'Oriente. Benchè industre e valoroso l'usurpatore Manfredi, separato dalla causa de' Latini, e percosso dai successivi anatemi di molti Papi, avea bastanti brighe per difendere sè medesimo, intantochè la Crociata bandita contro di questo immediato nemico di Roma, tenea in faccende gli eserciti che avrebbero potuto assediare Costantinopoli.

[A. D. 1270]

Il fratello di S. Luigi, Carlo Conte di Angiò e di Provenza, che condusse a tale santa spedizione la cavalleria della Francia38 fattosi vendicatore di Roma, la corona delle due Sicilie in premio ne riportò. Venuto Manfredi in odio ai suoi sudditi cristiani, si vide costretto a chiamare sotto i proprj stendardi una colonia di Saracini che, sotto la protezione del padre di lui Federico, stanziata erasi nella Puglia; odioso espediente, che rende ragione della diffidenza con cui il guerriero [p. 212 modifica]cattolico rifiutò ogni proposta di accomodamento speditagli da Manfredi. «Portate», dicea Carlo d'Angiò, «questa risposta al Sultano di Nocera; ditegli che Dio e le nostre spade decideranno fra noi, e che se egli non mi manda in paradiso, io lo manderò sicuramente all'inferno». Gli eserciti vennero a scontro; non so in qual parte dell'altro Mondo andasse Manfredi, ma in questo perdè presso Benevento la battaglia, gli amici, la corona e la vita. Napoli e la Sicilia furono immantinente popolate da una schiatta bellicosa di Nobili francesi, l'ambizioso Duce de' quali si riprometteva la conquista dell'Affrica, della Grecia e della Palestina. Non mancando speciosi motivi che lo potevano indurre a sperimentare primieramente le sue armi contro Costantinopoli, Paleologo, che poco fidavasi sulle proprie forze, portò per più riprese appellazione dalle ambiziose mire di Carlo ai sensi umani di S. Luigi, che sul feroce animo del fratello una giusta prevalenza serbava. Indugiò qualche tempo di più ne' novelli Stati il fratello del Re di Francia per l'invasione di Corradino, ultimo erede della Casa imperiale di Svevia; ma soggiaciuto questo giovine Principe ad una impresa maggiore delle sue forze, la testa di lui cadendo pubblicamente sopra di un palco, indicò ai rivali di Carlo che non solo per gli Stati, ma per le proprie vite dovean paventare. Portò nuova tregua alle inquietudini dell'Imperatore di Bisanzo l'ultima Crociata che San Luigi imprese sulla costa dell'Affrica; perchè era cosa naturale che il Re di Napoli, mosso parimente da riguardi di dovere e d'interesse avrebbe coi soldati suoi e colla persona secondate le sante armi del proprio fratello; ma la [p. 213 modifica]morte di S. Luigi spacciò Carlo dall'importuna soggezione di un censore virtuoso; ed inoltre il Re di Tunisi essendosi riconosciuto vassallo e tributario della corona di Sicilia, rimaneva agl'intrepidi cavalieri francesi piena libertà di movere sotto lo stendardo di un vittorioso capitano le loro armi contro l'Imperatore della Grecia. Un maritaggio e un Trattato strinsero maggiormente gl'interessi della Casa di Courtenai a quelli di Carlo, che promise la propria figlia Beatrice a Filippo figlio ed erede dell'Imperator Baldovino, concedendogli un assegnamento annuale di seicento once d'oro per sostenere la sua dignità; ed intanto il padre dello sposo distribuiva generosamente ai suoi confederati i regni e le province dell'Oriente, non riserbando per sè che la città di Costantinopoli e i suoi contorni fino alla distanza di una giornata di cammino39. In sì imminente pericolo, Paleologo si affrettò a sottoscrivere il Simbolo, e ad implorare la protezione del Papa, che in quel momento, vero angelo di pace e padre comune de' Fedeli si dimostrò; e negando di benedire le armi e consagrare l'impresa meditata contro Costantinopoli, oppose colla sua voce un ritegno al valore e alla spada di Carlo d'Angiò, che fu veduto dagli ambasciatori greci, allorchè, nell'anticamera pontifizia, irritato dal rifiuto, il suo scettro d'avorio per rabbia mordea. Cotesto principe, nondimeno, portò, giusta quanto apparve, rispetto alla disinteressata mediazione di Gregorio X; ma in appresso i modi orgogliosi di Nicolò III della [p. 214 modifica]famiglia degli Orsini, la parzialità di questo pontefice verso i congiunti, offendendo il Franco, alienarono dagl'interessi della Chiesa uno de' suoi più valevoli difensori. Finalmente asceso al soglio pontifizio Martino IV, di nazione francese, approvò, e stava per sortire il suo effetto la Lega instituita contra i Greci, Lega alla quale partecipavano, Filippo, Imperatore latino, il Re delle due Sicilie, la repubblica di Venezia, il primo prestandole il proprio nome, il Papa una Bolla di scomunica, Carlo il Formidabile un rinforzo di quaranta Conti, di diecimila sergenti, di un numeroso corpo d'infanteria e di un navilio di trecento legni da trasporto, i Veneti una squadra di quaranta galee. Il giorno dato al ritrovo di questa numerosa armata nel porto di Brindisi non era ancora giunto, che già trecento cavalieri, impadronitisi dell'Albania, aveano tentato, ma indarno, d'intraprendere la Fortezza di Belgrado. La sconfitta di questi allettò per pochi momenti la vanità della Corte di Costantinopoli; ma Paleologo, assai accorto per vedere l'inferiorità delle sue forze contro tanta oste, affidò la propria sicurezza agli effetti di una congiura, e se è lecito esprimersi in cotal guisa, alla segreta opera di un sorcio che rodea la corda all'arco del tiranno della Sicilia40.

[A. D. 1280]

Era fra i dispersi partigiani della Casa di Svevia Giovanni di Procida, scacciato da un'isoletta di questo nome, situata nella baia di Napoli, suo retaggio domestico. Discendente da nobil famiglia, e [p. 215 modifica]avendo sortita una colta educazione, potè sottrarsi all'indigenza che insieme all'esilio avrebbe sofferta, professando la medicina, già da lui appresa a Salerno. Sprezzatore oltre ogni credere della vita, come è proprio di chi congiura, non rimanendogli fuor d'essa altra cosa da perdere, possedeva inoltre l'arte di negoziare, di far valer le sue ragioni e di nascondere i proprj fini; per le qual cosa ne' diversi parlamenti che ebbe e con nazioni, e con privati, qualunque parte questi tenessero, sol de' loro interessi sapea mostrarsi studioso. Intanto non eravi genere d'angheria o fiscale, o militare, di cui non avessero a dolersi i novelli Stati dell'Angioino41, che sagrificava gli averi e le vite de' suoi sudditi dell'Italia alla propria ambizione e alla licenza dei cortigiani. Ben la sua presenza era valevole freno all'odio che gli portavano i cittadini di Napoli; ma la debole amministrazione, e i vizj de' suoi capitani, o governatori si erano fatti scopo al disprezzo e all'indignazione ad un tempo de' Siciliani. Procida pervenuto colla sua eloquenza a ridestare ne' popoli il sentimento di libertà, persuase inoltre ai Baroni che l'interesse di ciascuno di loro stavasi nel difendere la causa comune. Colla speranza di stranieri soccorsi, Giovanni visitò a mano a mano le Corti [p. 216 modifica]dell'Imperatore greco, e di Pietro Re d'Aragona42, che possedeva i paesi marittimi di Valenza e della Catalogna. All'ambizioso Pietro offerse una corona, che questi potea giustamente pretendere, fondandosi sui diritti già acquistati nello sposarsi alla sorella di Manfredi, e sugli estremi voti di Corradino; che dal ferale talamo disegnò, gettando il proprio anello, l'erede dei suoi diritti e il vendicatore della sua morte. Quanto a Paleologo era facile l'indurlo a favorire una impresa che interrompendo al suo nemico il divisamento di portar la guerra fra gli stranieri, gli dava inoltre la briga di difendersi ne' proprj Stati da una congiura: laonde somministrò mille once d'oro, divenute opportunissime ad armare una flotta di Catalani, che sotto bandiera sacra, e col pretesto di mover guerra ai Saracini dell'Affrica, spiegaron le vele. Travestito or da frate, or da mendicante, l'instancabile ministro della congiura corse da Costantinopoli a Roma, e dalla Sicilia a Saragossa. Nel medesimo tempo, Papa Nicolò, nemico personale di Carlo, sottoscrisse un Trattato e un atto di donazione, che trasportava i feudi di S. Pietro dagli Angioini agli Aragonesi. Il segreto di una tanta cospirazione, benchè diffuso in sì grande numero di paesi, e liberamente comunicato a tanta moltitudine di persone che ad essa partecipavano, fu conservato oltre a due anni con una gelosia senza esempio; perchè ciascun cospiratore imbevuto erasi della massima di [p. 217 modifica]Procida, il quale avea protestato, che s'ei sospettasse la sua mano sinistra consapevole delle intenzioni della sua destra, non indugierebbe a reciderla. Con tale artifizio profondo e terribile apparecchiava la mina, benchè non potrebbe accertarsi, se la sedizione di Palermo, da cui lo scoppio ne derivò, fosse accidentale o premeditata. Nel giorno della vigilia di Pasqua, intanto che una processione di cittadini, allor disarmati visitava, una chiesa fuor di città, una donzella d'illustre nascita fu villanamente insultata da un soldato francese43, la cui audacia venne punita subito colla morte. I colleghi dell'ucciso che sopravvennero, dispersero per un momento la calca; ma il numero e il furor prevalendo, i cospiratori afferrarono l'occasione, onde dilatatosi l'incendio per tutta l'isola, ottomila Francesi rimasero indistintamente trucidati in questa catastrofe cui fu dato il nome di Vespero Siciliano44. Dispiegata in tutta la città la bandiera della libertà e della Chiesa, per ogni dove o la presenza, o lo spirito di Procida incoraggiava la sommossa, intantochè Pietro d'Aragona, veleggiando dalla costa d'Affrica [p. 218 modifica]a Palermo, entrò nella città fra i plausi de' cittadini che Monarca e liberatore della Sicilia il nomavano. Eguali furono la costernazione e lo stupore di Carlo in udendo la ribellione di un popolo, cui per sì lungo tempo e impunemente avea calpestato; per lo che nel primo impeto di dolore e di divozione fu udito esclamare: «Gran Dio, se hai risoluto umiliarmi, fa che almeno io non discenda con tanto precipizio dal sommo della grandezza». Richiamata dalla guerra di Grecia la sua armata navale con tanta rapidità che già i porti dell'Italia ne erano pieni, Messina per sua giacitura, si trovò esposta ai primi colpi della regale vendetta. Privi di fiducia nelle proprie forze, e di speranze di soccorso dagli stranieri, i cittadini avrebbero aperte le porte, se il Monarca avesse voluto assicurarli del perdono, e del mantenimento degli antichi lor privilegi; ma questi avea già riassunto l'orgoglio primiero; e le supplichevoli istanze, fattegli dal Legato pontifizio, non valsero ad ottenere da lui che la promessa di risparmiare la città, a patto che gli venissero consegnati ottocento ribelli, de' quali avrebbe egli somministrato il catalogo, e la cui sorte sarebbe intieramente dall'arbitrio suo dipenduta. Mentre la disperazione de' Messinesi riaccendeva il loro coraggio, Pietro d'Aragona in lor soccorso accorrea45, e la scarsezza de' viveri, e i [p. 219 modifica]pericoli dell'equinozio costrinsero l'Angioino a ripararsi alle coste della Calabria. Nel medesimo tempo, l'ammiraglio de' Catalani, il celebre Ruggero da Loria conducendo la sua invincibile squadra a sgomberare il canale, la flotta francese, più abbondante di navigli da trasporto che di galee, rimase, in parte arsa, in parte calata a fondo; il quale avvenimento assicurò l'independenza alla Sicilia, e a Paleologo il trono. Ma questo principe trovavasi agli estremi del viver suo, ed ebbe solamente prima di morire il conforto di sapere la sciagura d'un nemico da lui abborrito quanto apprezzato, perchè si era forse lasciato convincere dall'opinione allor generale, che se Carlo non avesse avuto Paleologo per avversario, era venuto l'istante in cui Costantinopoli e l'Italia obbedissero ad un sol padrone46. Da quel punto in appresso, la vita di Carlo non fu che una sequela continua di infortunj. Minacciata dai nemici la sua Capitale, fattogli prigioniero il figlio, Carlo morì senza avere ricuperata la Sicilia; che dopo una guerra di venti anni, venne per Trattato disgiunta dal regno di Napoli, e come regno independente, in un ramo secondogenito della Casa d'Aragona fu trasferita47. [p. 220 modifica] [A. D. 1303-1307]

Uom non mi taccierà, almeno lo spero, di superstizione: ma non posso starmi dall'osservare che anche su questa terra, l'ordine naturale degli avvenimenti offre talvolta apparenze fortissime di una retribuzione morale. Il primo Paleologo avea salvato il suo Impero ingombrando i regni dell'Occidente di ribellioni e di stragi; e da questi germi di discordia nacque una generazione d'uomini formidabili che assalirono e crollarono il trono del successore di Paleologo. Ne' secoli più moderni, i debiti e le tasse sono il segreto veleno che rodono gli Stati in seno alla pace; ma ne' governi deboli e irregolari del Medio Evo, questa pace veniva turbata continuamente dalle calamità istantanee che derivavano dall'avere licenziati gli eserciti. Troppo amici dell'ozio per darsi al lavoro, troppo superbi per mendicare la sussistenza, i mercenarj vivevano di ladronecci, e millantando il nome di qualche Capo, la cui bandiera spiegavano per apparir meno spregevoli, si rendevano più molesti; il Sovrano che non abbisognava più del loro braccio, e dalla presenza de' medesimi incomodato, cercava spacciarsene col regalarli agli Stati vicini. Dopo la pace della Sicilia, migliaia di Genovesi, Catalani e d'altre patrie48, che aveano combattuto per terra e per mare in difesa degli Aragonesi e degli [p. 221 modifica]Angioini, si radunarono formando un corpo di nazione per costumanze ed interessi eguali congiunta. Appena seppero l'invasione fattasi dai Turchi nelle province asiatiche dell'Impero d'Oriente, deliberarono procacciarsi, combattendo contr'essi, stipendj e prede; nel qual disegno, Federico Re di Sicilia di tutto buon grado li secondò, largheggiando loro di soccorsi che alla presta gli allontanassero. Dopo venti anni che una cotal gente facea la guerra, non conoscea per sua patria che i campi o le navi; istrutta sol nel combattere, non aveva altra proprietà fuor dell'armi; non sapea ravvisare altra virtù fuor del valore. Le donne che seguivano cotali bande, erano divenute non meno intrepide de' lor mariti od amanti; ed immaginandosi le popolazioni che i Catalani con un sol colpo di sciabola avessero la virtù di spaccare in due parti il cavaliere e il cavallo, questa opinione era già di per se stessa un'arma di più in loro soccorso. Ruggero di Flor, sopra ogni altro Capo di simil genìa, acquistatosi fama, offuscava per merito personale i suoi rivali, i feroci Aragonesi. Figlio di un Gentiluomo alemanno della Corte di Federico II, che avea sposata una nobile donzella di Brindisi, Ruggero fu a mano a mano Templario, apostata, pirata, e per ultimo il più ricco e possente ammiraglio del Mediterraneo. Da Messina a Costantinopoli indirisse il suo corso, seguendolo diciotto galee, quattro più grossi navigli e ottomila venturieri. Andronico il Vecchio, che avea sottoscritto con questo generale un Trattato, prima che ei salpasse dalla Sicilia, tenne la data fede, ed accolse questo formidabile soccorso con un sentimento misto di terrore e di gioia. Assegnate stanze nella sua reggia [p. 222 modifica]al valoroso straniero, gli diede in isposa la propria nipote, conferendogli il titolo di Gran Duca, o Ammiraglio della Romania. Dopo qualche tempo di riposo, varcato l'Ellesponto colle sue truppe, Ruggero assalì arditamente i Turchi, e periti per le sue armi trentamila Musulmani in due sanguinose battaglie, liberò dall'assedio che la strignea Filadelfia, e meritossi il nome di liberatore dell'Asia. Ma non andò guari che la schiavitù e la rovina di quelle misere popolazioni venne dietro ad un lampo brevissimo di prosperità. Quegli abitanti, dice uno Storico, fuggirono dal fumo per cader nelle fiamme, e la nimistà de' Turchi era men funesta dell'amicizia dei Catalani. Questi consideravano come loro proprietà le vite e le sostanze di coloro che aveano salvati; le giovani donzelle non si erano sottratte alle persecuzioni di amanti circoncisi che per venire, o di lor grado, o dalla forza costrette, fra le braccia di scorridori cristiani. Ogni riscossione di ammende, o sussidj andava congiunta a sfrenate rapine e ad esecuzioni arbitrarie, dalle quali avendo voluto liberarsi coll'oppor resistenza Magnesia, città dell'Impero, il Gran Duca per gastigarla vi pose l'assedio49. Di cotale violenza si scusò in appresso allegando il risentimento di un esercito vittorioso e irritato, capace di non rispettare l'autorità stessa del comandante, e forse anche di minacciarne la vita, se si fosse accinto a punir l'impeto di una fedele soldatesca, provocata [p. 223 modifica]a giusto sdegno dal rifiuto con cui la popolazione si sottraeva dal concederle il prezzo pattuito agli ottenuti servigi. Le minacce e le querele di Andronico non giovavano che a far vie più palese la debolezza e lo stato deplorabile dell'Impero. Comunque la Bolla d'Oro imperiale non chiedesse a Ruggero di Flor che cinquecento uomini a cavallo e mille fanti, nonostante il Monarca avea presa al servigio e nodrita tutta la ciurma de' volontarj accorsa ne' suoi Stati sotto le bandiere del condottier catalano. Mentre le più prodi milizie collegatesi coll'Impero si contentavano di uno stipendio di tre bisantini d'oro al mese, ognuno di tai fuorusciti riceveva una, o due once d'oro, il che formava un soldo annuale di cento lire sterline. Uno de' costoro Capi avea modestamente attribuito un valore di trecentomila scudi ai suoi servigi avvenire. Laonde pel mantenimento di questi dispendiosi mercenarj, era già uscito più di un milione fuor dell'erario imperiale. Percossi con disastrosissime tasse i ricolti degli agricoltori, tolto un terzo de' loro salarj agli uffiziali pubblici, il titolo della moneta avea sofferta una sì obbrobriosa alterazione che in ventiquattro parti di essa più di cinque d'oro non se ne trovavano50. Avendo l'Imperatore intimato a [p. 224 modifica]Ruggero di sgomberar la provincia, questi obbedì di buon grado, perchè non vi restava più cosa da saccheggiare; ma ricusò di licenziare le truppe, e comunque fosse annunziato in termini rispettosi un simil rifiuto, non dimostrava meno independenza e ribellione; perchè protestò che, se l'Imperatore avesse mosso contro di lui, ei sarebbe andato quaranta passi verso il medesimo per baciare la terra prostratoglisi innanzi; ma che poi nel rialzarsi da quell'umil postura, non avrebbe potuto dimenticare che sacre erano ai proprj fratelli d'armi la sua sciabola e la sua vita. Egli si degnò accettare il titolo di Cesare e le insegne di tal dignità; ma propostogli il Governo dell'Asia, e un sussidio in biade e danari col patto di ridurre le sue truppe al picciol numero di tremila uomini, ricusò tale offerta. Essendo l'assassinio il provvedimento cui per ultimo i codardi soglion ricorrere, e la curiosità avendo condotto il nuovo Cesare alla reggia di Andrinopoli, ove risedeva allora la Corte, gli Alani della guardia imperiale lo trafissero negli appartamenti e alla presenza della medesima Imperatrice; nè v'è troppo luogo a dire che ei cadesse vittima di una vendetta particolare di costoro, come si pretese far credere, perchè gli altri compatriotti di Ruggero, mentre se ne stavano tranquillamente, e riposando sulla fede de' Trattati, in Bisanzo, vennero nel medesimo tempo compresi [p. 225 modifica]in una proscrizione generale che il Principe e il Popolo profferirono congiuntamente. La maggior parte di questi venturieri, sbigottiti per la perdita del loro Capo, e rifuggiti ai propri navigli, salparono per cercarsi dimora in varie parti della costa mediterranea. Però una vecchia banda composta di mille cinquecento Catalani, o Francesi, mantenutasi sulla Fortezza di Gallipoli nell'Ellesponto, ivi spiegò la bandiera aragonese, offrendosi a giustificare e vendicare il suo Generale, mercè un combattimento di dieci, o cento guerrieri contra un egual numero di nemici. Anzichè accettare l'ardimentosa disfida, l'Imperatore Michele, figliuolo e collega di Andronico, venne in sentenza di opprimerli colla superiorità del numero. Senza badare che ei riducea con ciò ad ultimo impoverimento l'Impero, raccolse un esercito di tredicimila uomini a cavallo, e di trentamila fanti, coprendo la Propontide di greci e genovesi navigli. Ma di queste sì ragguardevoli forze, e per terra e per mare, trionfarono i Catalani, animati dalla disperazione, e superiori ai Greci per disciplina. Il giovine Imperatore, riparatosi al suo palagio, lasciò un corpo di cavalleria leggiera, che difendeva il paese. Per cotali vittorie rialzatesi le speranze de' venturieri, ben tosto crebbero anche di numero, perchè guerrieri di tutte le nazioni, si unirono sotto lo stendardo e il nome della Grande Compagnia; alla qual congrega militare si aggiunsero tremila Maomettani convertiti che abbandonarono le bandiere imperiali. Il possedimento di Gallipoli dava abilità ai Catalani d'impacciare il commercio di Costantinopoli e del mar Nero, intanto che i lor compagni da' due lati dell'Ellesponto disastravano le frontiere dell'Europa [p. 226 modifica]e dell'Asia. Non trovando miglior modo di tenerseli lontani, i Greci, diedero eglino stessi il guasto a tutti i dintorni di Bisanzo: i contadini si ritrassero entro le mura della città colle loro mandrie, uccidendo in un sol giorno tutta quella parte di esse che non poteano nè rinchiudere, nè nudrire. Per quattro volte Andronico rinovò proposte di pace che sempre furono inflessibilmente respinte; se non che la scarsezza de' viveri e le discordie de' Capi, costrinsero finalmente i Catalani a sottrarsi dalle rive dell'Ellesponto e dalle vicinanze della Capitale. Gli avanzi della Grande Compagnia, dopo essersi divisi dai Turchi, continuarono le loro corse per traverso alla Macedonia e alla Tessaglia, cercandosi nuove stanze nel cuor della Grecia51.

[A. D. 1204-1458]

Dopo alcuni secoli che i Greci erano stati dimenticati, l'invasione dei Latini non li ridestò che per sottometterli a nuovi disastri. Durante due secoli e mezzo che trascorsero fra la prima e l'ultima conquista [p. 227 modifica]di Costantinopoli, una moltitudine di tirannetti si disputò la venerabile greca contrada. Le sue antiche città erano in preda a tutti i mali delle guerre civili e straniere, senza che i vantaggi almeno del genio e della libertà li confortasse; a tal che, se la servitù è da preferirsi all'anarchia, la Grecia non dee dolersi di riposare sotto il giogo degli Ottomani. Non mi accingerò presentemente a tessere l'oscura storia delle diverse dinastie che successivamente sorsero e caddero sul continente e nell'isola, ma un senso di gratitudine verso il primitivo soggiorno delle Muse e della filosofia dee far sì che ciascun istrutto leggitore prenda parte al destino di Atene52. Nel parteggiamento dell'Impero, il principato di Atene e di Tebe era stato dato in ricompensa ad Ottone De la Roche, nobile guerriero della Borgogna53, che governò col titolo di Gran Duca54, al qual titolo i Latini attribuivano un particolare significato, e i Greci una ridicola origine che fino ai giorni di Costantino ascendea55. Il ridetto Ottone seguiva gli stendardi del Marchese di Monferrato; e il figlio e due pronipoti [p. 228 modifica]del medesimo conservarono tranquillamente il vasto patrimonio, che o per un miracolo di buona condotta, o per fortuna era stato acquistato dal Capo di lor famiglia56, sino al momento in cui l'erede di tale famiglia contrasse tai nozze, che senza distoglierlo dalle mani de' Francesi lo trasportarono nel ramo primogenito della Casa di Brienne. Gualtieri di Brienne, nato da questo maritaggio, e succeduto alla madre nel ducato d'Atene, prese al suo servigio alcuni mercenarj Catalani, che presentati di feudi dal Gran Duca, lo fecero padrone di più di trenta castelli, spettanti dianzi a diversi Nobili, o vassalli del principato d'Atene, o che solamente vi confinavano. Avvertito Gualtieri dell'avvicinamento e delle intenzioni della Grande Compagnia adunò settecento cavalieri, seimila sergenti, e circa ottomila uomini di fanteria, a capo delle quali truppe corse incontro al nemico sino alle rive del Cefiso in Beozia. Comunque le forze dei Catalani non sommassero che a tremila cinquecento uomini a cavallo, e a quattromila fanti, la buona disciplina e l'astuzia lor tenea luogo di numero; laonde avendo essi innondati artifizialmente i dintorni del proprio campo, e il Gran Duca, seguìto dai suoi [p. 229 modifica]cavalieri essendosi innoltrato senza timore, nè cautela nel mezzo di quella valle, i cavalli affondarono nella melma, e la maggior parte della francese cavalleria fu tagliata a pezzi. Scacciati della Grecia i Francesi, e la famiglia di Gualtieri, il figlio di lui, di nome parimente Gualtieri, Duca titolare d'Atene, tiranno di Firenze e Contestabile di Francia, ne' campi di Poitiers perdè la vita. I vittoriosi Catalani, scompartitisi fra loro l'Attica e la Beozia, sposaron le vedove e le figlie de' vinti, e per quattordici anni la Grande Compagnia fece tremare tutta la Grecia. Ma dilacerata da intestine discordie, si vide alla necessità di riconoscere un Sovrano nel Capo della famiglia di Aragona; per lo che sino alla fine del secolo XIV, i Re di Sicilia arbitrarono sopra Atene, siccome governo, o appannaggio spettante ai loro dominj. Dopo de' Francesi e de' Catalani, la famiglia Acciaiuoli, plebea a Firenze, possente a Napoli, sovrana in Grecia, fondò la terza dinastia e abbellì di nuovi edifizj Atene, divenuta capitale d'un regno, che comprendeva Tebe, Argo, Corinto, Delfo e una porzione della Tessaglia. Ma questo governo disparve per l'armi vincitrici di Maometto II, che fece strozzare l'ultimo Gran Duca, e allevarne i figli nella disciplina e religione del Serraglio. Benchè oggidì non rimanga che l'ombra di Atene57, [p. 230 modifica]cotesta città contiene tuttavia otto o diecimila abitanti. I tre quarti son Greci di lingua e di religione; il rimanente Turchi, che contraendo vincoli di consuetudine co' primi hanno alquanto mansuefatto l'orgoglio e la gravità nazionale. L'olivo, dono di Minerva, verdeggia tuttavia nelle campagne dell'Attica, e il mele del monte Imeto, nulla ha perduto del suo squisito profumo58. Ma il commercio ivi languisce, e sta affatto nelle mani degli stranieri: la coltura di quello sterile territorio è abbandonata agli erranti Valacchi. Ciò nullameno gli Ateniesi si contraddistinguono tuttavia per acume e vivacità d'ingegno, ma son tai vantaggi, che, se non li regola, o coltiva lo studio, se il sentimento della libertà non li nobilita, tralignano in una vil propensione all'inganno; quindi è che gli abitanti di que' dintorni hanno adottato il proverbio. «Dio ne liberi dagli Ebrei di Tessalonica, dai Turchi di Negroponte, dai Greci di Atene». Di fatto questo scaltrito popolo ha evitata la tirannide dei Pascià, mediante un espediente, che mitigandone la schiavitù, ha fatto maggiore l'obbrobrio della nazione. Verso la metà dello scorso secolo, gli Ateniesi scelsero per loro protettore il Kislar-Agà, ossia Capo degli eunuchi negri del Serraglio; e a questo schiavo di Etiopia, che gode di molta confidenza presso il Gran Signore, porgono un annuale tributo di trentamila [p. 231 modifica]scudi. Il Vevoda, luogotenente del Kislar-Agà, che per mantenersi nella sua carica, debbe esservi confermato ogni anno dal suo superiore, ha il diritto di gettare un'imposta d'altri cinque, o seimila scudi che sono per lui; e tale è l'accorta politica degli Ateniesi, che arrivano quasi sempre a far punire, o rimovere un Governatore contro del quale abbiano motivi di querelarsi. Nelle particolari loro contese prendono per giudice l'Arcivescovo, il più ricco di tutti i prelati della Chiesa greca, che gode una rendita di circa mille lire sterline. Evvi inoltre un tribunale di otto geronti, ossia vecchi scelti negli otto rioni della città. Le famiglie nobili non possono provare autenticamente una nobiltà più antica di tre secoli, ma i primarj fra essi distinguonsi ostentando portamento grave, la lor berretta foderata di pellicia, e il pomposo nome di Arconti. Coloro che si dilettano di trovare per ogni dove le antitesi, ne vogliono dar a credere che l'odierno gergo degli Ateniesi sia il più barbaro di tutti i settanta dialetti greci corrotti59. Avvi per vero dire esagerazione in ciò; ma non sarebbe cosa sì facile, nella patria di Platone e di Demostene, il trovare un leggitore degli ammirabili componimenti di questi sommi uomini, o forse neppure una copia di questi scritti medesimi. Gli Ateniesi calpestano con insultante indifferenza le gloriose [p. 232 modifica]rovine dell'Antichità, giunti a tal grado d'invilimento che li rende perfino incapaci di ammirare la sublimità delle menti de' loro predecessori60.


Note

  1. Non abbiamo per descrivere i regni degl’Imperatori di Nicea, e principalmente di Vatace e del figlio di lui, altro Scrittore contemporaneo che Giorgio Acropolita, ministro d’entrambi i nominati Principi; però Giorgio Pachimero era tornato insieme co’ Greci a Costantinopoli in età di diciannove anni (Hankius, De Script. byzant., c. 33, 34, p. 564-578; Fabricius, Bibl. graec., t. VI, pag. 448-460). Oltrechè, la Storia di Niceforo Gregoras, benchè scritta nel quattordicesimo secolo, è un’eccellente relazione di tutti gli avvenimenti accaduti incominciando dall’epoca di Costantinopoli presa dai Latini.
  2. Niceforo Gregoras (l. II, cap. 1) fa distinzione tra la οξεια ορμη impetuosità di Lascaris, e la ευσταθεια fermezza di Vatace. Entrambi i ritratti sono effigiati a dovere.
  3. V. Pachim. (l. I, cap. 23, 24); Nicef. Greg. (l. II, c. 6). Leggendo gli Storici di Bisanzo, ciascun potrà accorgersi, quanto sia raro il trovare in essi così preziose particolarità, come in questo periodo.
  4. Μονοι γαρ απαντων ανθρωπων ονομασοτατοι βασιλευς και φιλοσοφος i soli nomi più insigni fra tutti gli uomini sono re e filosofo (Greg. Acropol., c. 32). Ne’ suoi famigliari intertenimenti, l’Imperatore esaminava e ad un tempo incoraggiava gli studj del futuro suo Logoteto.
  5. Si paragonino i due primi libri di Niceforo Gregoras con Acropolita (c. 18-52).
  6. Correa un proverbio persiano: Ciro padre, Dario padrone; il qual proverbio venne applicato a Vatace e al figlio di Vatace; ma Pachimero ha confuso Dario, umano principe, con Cambise, despota e tiranno del popolo. Furono le gravose tasse imposte da Dario, che gli procacciarono il nome meno odioso e più spregevole di Καπελος, merciaiuolo o sensale (Erodoto, III, 89).
  7. Direbbesi che Acropolita mena vanto della sua paziente fermezza nel ricevere le percosse, e della rassegnazione con cui si allontanò dal Consiglio fino al momento di venire richiesto di nuovo. Continua indi dal cap. 53 fino al 74 della sua Storia, narrando le geste di Teodoro e i successivi servigi che gli prestò. V. il terzo libro di Niceforo Gregoras.
  8. Pachimero (l. I, c. 21) nomina e distingue quindici, o venti famiglie greche; και οσοι αλλοι, οις η μεγαλογενης σειρα και κρυση σογκεκροτητο e quanti altri al collo de’ quali sonava una magnifica catena d’oro. Tal decorazione era ella, secondo lo Storico, una catena metaforica, o realmente una materiale catena d’oro? Forse entrambe le cose.
  9. Gli antichi Geografi, nel qual novero è il Cellario, d’Anville e i nostri viaggiatori, massimamente Pocock e Chandler, ne insegnano a distinguere le due Magnesie dell’Asia Minore; l’una del Meandro, l’altra del monte Sipilo. La seconda, qui menzionata, se si consideri che appartiene ai Turchi, può dirsi tuttavia una fiorente città. Posta a greco di Smirne ne è lontana otto ore di cammino, ossia otto leghe (Tournefort, Viaggi del Levante, t. III, lett. XXII, Viaggi di Chandler nell’Asia Minore).
  10. V. Acropolita (cap. 75, 76, ec.) che vivea in questi tempi, Pachimero (lib. I, cap. 13-25), Gregoras (lib. III, c. 3, 4, 5).
  11. Il Ducange (Fam. byzant. p. 230, ec.) dà schiarimenti intorno alla genealogia di Paleologo. I fatti della vita privata di cotest’uomo leggonsi in Pachimero (l. I. c. 7-12) e in Gregoras (l. II, 8, l. III, 2-4, l. IV, 1) favorevole in aperto modo al fondatore della dinastia regnante.
  12. Acropolita (c. 50) racconta le circostanze di questo fatto singolare, sfuggito, a quanto sembra, agli Storici più moderni.
  13. Il Pachimero (l. I, c. 12) commemorando una sì barbara prova col disprezzo del quale è degna, afferma di avere vedute in sua gioventù persone che senza soffrirne alcun danno la superarono. Egli era Greco, e la credulità è retaggio dei Greci; ma può anche darsi che l’accorgimento connaturale di questa nazione avesse suggerito ai pazienti qualche rimedio, o qualche gherminella da opporre alla superstizione dei loro concittadini, o alle voglie crudeli de’ loro tiranni.
  14. Senza paragonare Pachimero a Tacito, o a Tucidide, mi è forza commendarne l’eloquenza, la chiarezza, ed anche, fino ad un certo punto la franchezza, adoperata allorchè racconta l’innalzamento di Paleologo (l. I, c. 13-32, l. II, c. 1-9). Più circospetto Acropolita, meno esteso Gregoras si dimostra.
  15. S. Luigi abolì i combattimenti giudiziarj ne’ suoi dominj; indi il suo esempio coll’andar del tempo prevalse in tutta la Francia (Esprit des lois, l. XXVIII, c. 29).
  16. Nelle cause civili, Enrico II lasciava l’elezione al difensore. Glanville preferisce le prove testimoniali; il combattimento giudiziario è condannato nel Fleta: ma la legge inglese non ha mai abolita cotesta prova, e sull’incominciare del trascorso secolo vi fu il caso in cui venne ordinata dai giudici.
  17. Cionnullameno, un amico mio, uomo d’ingegno mi ha addotte molte ragioni in difesa di una tal costumanza. 1. Essa conveniva forse a popoli che di recente toglieansi dalla barbarie; 2. moderava la licenza delle guerre fra’ particolari e i furori delle arbitrarie vendette; 3. era meno assurda delle prove del fuoco, dell’acqua bollente o della croce, l’abolizione delle quali ad essa in parte è dovuta; e somministra per lo meno una prova di valore, pregio che rade volte all’abbiezione dei sentimenti va unito; si aggiugne che il timore della disfida potea divenire un freno alle persecuzioni della malevoglienza, e un ostacolo all’ingiustizia dal poter sostenuta. Il prode, quanto infelice Conte di Surrey avrebbe forse sfuggito un immeritato destino, se fosse stato accolto il partito del combattimento giudiziario ch’egli propose.
  18. Le antiche e moderne geografie non accennano con precisione il luogo, ove era posta Ninfea; ma dai racconti che si riferiscono agli ultimi tempi dalla vita di Vatace, apparisce chiaramente che i palagi e i giardini preferiti da cotesto principe per abitarvi, erano in vicinanza di Smirne (Acropolita, cap. 52): nè dovremmo a un dipresso ingannarci collocando Ninfea nella Lidia (l. VI, 6).
  19. Cotesto scettro, emblema della giustizia e della possanza, era un lungo bastone, siccome quello che usavano gli eroi di Omero. I Greci moderni lo chiamarono dicanice; ma il bastone ad uso di scettro imperiale distingueasi, non meno degli altri fregi del trono, dal suo colore di porpora.
  20. Acropolita afferma (c. 87) che questo berrettone era foggiato alla francese; però il Ducange (Hist. C. P., l. V, c. 28, 29) a motivo del nastro che vi sovrastava, lo giudica un cappello all’usanza di quelli che i Greci portavano. Ma come supporre che, in ordine a ciò, Acropolita avesse preso un equivoco?
  21. V. Pachimero (l. II, 28-33), Acropolita (c. 88), Niceforo Gregoras (l. IV, 7), e quanto al trattamento usato verso i sudditi latini, il Ducange (l. V, c. 30, 31).
  22. Questo modo men barbaro di privar gli uomini della vista vuolsi trovato da Democrito, che stanco di vedere il Mondo, ne abbia fatta l’esperienza sopra sè stesso; ma è una favola. Il vocabolo abbacinare, latino e italiano, ha offerta occasione al Ducange (Gloss. latin.) di passare in rassegna i diversi modi adoperati per accecare. I più violenti erano, arderli con un ferro rosso o con aceto bollente, ovvero stringer la testa del paziente con una corda sin tanto che gli occhi ne uscissero. Come è ingegnosa la tirannide!
  23. V. la prima ritirata e il ritorno di Arsenio, in Pachimero (lib. II, c. 15, l. III, c. 1-2), e in Niceforo Gregoras (l. III, c. 1, l. IV, c. 1). La posterità biasima giustamente in Arsenio αφελεια e ραθυμια la frugalità e l’umiltà, virtù in un eremita, vizj in un ministro (l. XII, c. 2).
  24. Il delitto e la scomunica di Michele vengono raccontati con imparzialità da Pachimero (l. III, c. 10, 14, 19 ec.) e da Gregoras (l. IV, cap. 4). Essi dovettero la libertà alla confessione e alla penitenza del principe.
  25. Pachimero da cui si ha il racconto dell’esilio di Arsenio (l. IV, c. 1-16) fu uno de’ commissarj che lo visitarono nell’isola deserta ove fu confinato. Rimane tuttavia l’ ultimo testamento dell’inflessibile Patriarca (Dupin, Bibl. ecclés., t. X, p. 95).
  26. Pachimero (l. VII, c. 22) serba contegno di filosofo nel raccontare questa prova miracolosa, e cita con eguale disprezzo una trama degli Arseniani, che si adoprarono a nascondere una rivelazione entro il sepolcro di qualche antico Santo (l. VII, c. 13); ma fa poi ammenda di tale sua incredulità co' successivi racconti di una Immagine che piange, di un'altra che manda sangue (l. VII, c. 30), e della cura miracolosa di un uomo sordo e muto dalla nascita (lib. XI, cap. 32).
  27. Pachimero ha sparsa per tutti i suoi tredici libri la storia degli Arseniani; ma ha lasciata la cura di narrare la loro riunione e il loro trionfo a Niceforo (l. VII, 9), che non sentiva per essi nè amore, nè stima.
  28. I sei primi de’ tredici libri di Pachimero, e il quarto e quinto di Niceforo Gregoras, contengono il regno di Michele Paleologo, il quale morì quando Pachimero avea quarant’anni. In vece di dividere la Storia scritta dal medesimo in due parti, come ha fatto l’editore di essa, il padre Poussin, mi è piaciuto seguire il Ducange e il Cousin, che ridussero i tredici libri in una sola serie.
  29. V. Ducange (Hist. C. P., l. V, c. 33, tolta dalle lettere di Urbano IV).
  30. Attese le corrispondenze mercantili che passavano fra i Genovesi ed i Veneziani, i Greci chiamavano con insulto i Latini καπηλοι, βανανυσοι merciaiuoli e meccanici (Pachimero, l. V, c. 10). Gli uni sono eretici di nome, gli altri di fatto, come i Latini, dice il dotto Vecco (l. V, c. 12) che si convertì poco dopo (c. 15, 16), e fu fatto Patriarca (c. 24).
  31. Abbiamo già detto di questa aggiunta. (Nota di N. N.)
  32. In questo novero è da porsi lo stesso Pachimero il cui racconto compiuto ed imparziale occupa il quinto e sesto libro della sua Storia. Ciò non di meno egli non fa menzione del lionese Concilio, mostrandosi anzi persuaso che i Papi risedessero sempre a Roma, o nell'Italia.
  33. V. gli Atti del Concilio di Lione dell'anno 1274, Fleury (Hist. eccles., t. XVIII, p. 181-199); Dupin (Biblioth. eccl. t. X, p. 135).
  34. Queste singolari istruzioni che il Wading e Leone Allazio hanno tolte, qual con maggiore, qual con minore esattezza, dagli archivj dei Vaticano, trovansi o compilate, o tradotte nel Fleury (t. XVIII, p. 252-258).
  35. Questa confessione sincera ed autentica della estremità cui si vedea ridotto Michele, è stata scritta in un latino barbaro da Ogier, che s'intitola protonotario degl'interpreti; indi il Wading l'ha copiata dai manoscritti del Vaticano, A. D. 1278. n. 3. Dello stesso scrittore ho trovati a caso gli Annali dell'ordine Franciscano, Fratres Minores, in 17 volumi in folio, a Roma nell'anno 1741, in mezzo agli scartafacci d'un libraio.
  36. V. il sesto libro di Pachimero, e soprattutto i capitoli 1, 11, 16, 18, 24, 27; tanto più meritevoli di fiducia, perchè, parlando di questa persecuzione, manifesta piuttosto il dolore che l'astio.
  37. V. Pachimero (l. VII, c. 1-11-17). Il discorso tenuto da Andronico il Vecchio (l. XII, c. 2), è un monumento degno di curiosità, servendo a provare che se i Greci erano schiavi dell'Imperatore, questi non soggiacea meno alla superstizione e alla tirannide del Clero.
  38. Le più esatte narrazioni della conquista di Napoli fatta da Carlo d'Angiò, le più contemporanee all'impresa, e ad un tempo compiute e dilettevoli, si trovano nelle Cronache fiorentine di Ricordano Malaspina (175-193), e di Giovanni Villani (l. VII, c. 1-10, 25, 30) pubblicate dal Muratori nell'ottavo e tredicesimo volume degli Storici dell'Italia; questo medesimo Scrittore ha compilati ne' suoi Annali (t. XI, p. 56-72) questi grandi avvenimenti raccontati ancora nella Istoria civile del Giannone (t. II, l. XIX, t. III, lib. XX).
  39. V. Ducange, Hist. C. P., l. V, c. 49-56; l. VI, c. 1-13, Pachimero, l. IV, c. 29; l. V, c. 7-10-25; l. VI, c. 30-32-33, e Niceforo Gregoras, l. IV. 5, l. V, 1, 6.
  40. I lettori di Erodoto si ricorderanno, in qual modo miracoloso l'esercito assiro, condotto da Sennacherib, fu disarmato e distrutto (l. II, c. 141).
  41. Giusta il dire di un Guelfo zelante, Saba Malaspina (Storia di Sicilia, l. III, c. 16) Muratori (t. VIII, p. 832), i sudditi di Carlo che avevano perseguito Manfredi, siccome un lupo, lo sospiravano come un agnello; lo stesso Scrittore giustifica il pubblico scontento descrivendo la tirannide del governo francese (l. VI, c. 2-7). V. il manifesto Siciliano in Nicola Speciale (l. I, c. 11, Muratori, t. X, p. 930).
  42. V. il carattere e i pensamenti di Pietro Re d'Aragona nel Mariana (Storia di Spagna, l. XIV, c. VI, t. II). Il lettore perdonerà i difetti del Gesuita in grazia dello stile, e spesse volte in grazia del discernimento dello Storico.
  43. Nicola Speciale dopo avere enumerati gli aggravj che i suoi compatriotti patirono, aggiunge ritraendo la vera indole della gelosia italiana: Quae omnia et graviora quidem, ut arbitror, patienti animo Siculi tolerassent, nisi quod primum cunctis dominantibus cavendum est, alienas faeminas invasissent (l. 1, c. 2, p. 924).
  44. Fu ricordata per lungo tempo ai Francesi questa terribil lezione. «Se mi fanno montare la stizza, dicea Enrico IV, andrò a far colezione a Milano e a desinare a Napoli» — «Vostra maestà, rispondea l'Ambasciatore spagnuolo, potrebbe arrivare in Sicilia all'ora del Vespero».
  45. Due Scrittori del paese raccontano le particolarità di questa sommossa e della vittoria che ne venne in appresso, Bartolommeo di Neocastro (nel Muratori, t. XIII), e Nicola Speciale (nel Muratori, t. X) l'uno contemporaneo, l'altro vissuto nel secolo successivo. Lo Speciale animato da patriottici sentimenti si sdegna del vocabolo ribelle, e nega esservi stata una precedente corrispondenza con Pietro d'Aragona (nullo communicato consilio), il quale si trovò a caso con una flotta e con un esercito alla costa dell'Affrica (lib. 1, c. 4-9).
  46. Niceforo Gregoras (l. V, c. VI) ammira la saggezza della Providenza in questo mutuo equilibrio degli Stati e dei Principi. Per l'onore di Paleologo gli augurerei che tale osservazione fosse stata fatta da un Italiano.
  47. V. la Cronaca del Villani, il volume undecimo degli Annali d'Italia del Muratori, e i lib. XX, XXI della Istoria civile del Giannone.
  48. I più valorosi di questa truppa di Catalani e Spagnuoli erano conosciuti dai Greci sotto il nome di Almugavares, nome che si davano da sè medesimi. Il Moncada li fa discender dai Goti, Pachimero (l. XI, c. 22) dagli Arabi. A malgrado di vanità nazionale e religiosa, credo che il secondo abbia ragione.
  49. Per formarsi meglio un'idea sulla popolazione di queste città, si osservi che Tralle riedificata sotto il precedente regno, poi devastata dai Turchi, contenea trentaseimila abitanti. Pachimero (l. VI, c. 20, 21).
  50. Ho raccolte queste particolarità da Pachimero (l. XI, c. 21, l. XII, c. 4, 5-8-14-19), il quale ne dà a conoscere le alterazioni che a mano a mano la moneta d'oro sofferse. Anche nei dì più felici del regno di Giovanni Duca Vatace, i bisantini conteneano una meta d'oro, e l'altra metà di lega. Michele Paleologo, costretto dalla povertà, fabbricò nuove monete, nelle quali entravano nove parti o caratti d'oro e quindici di rame. Dopo la morte di questo, il titolo si alzò a dieci caratti, fintantochè, cresciute oltre modo le pubbliche sciagure, venne ridotto a metà. Il principe ne ebbe un istantaneo sollievo, ma passeggiero sollievo che irreparabilmente distrusse il commercio e il credito della nazione. In Francia il titolo è di ventidue caratti, e di una dodicesima parte di lega; più alto ancora è il titolo d'Inghilterra, e d'Olanda.
  51. Pachimero, ne' suoi libri XI, XII, XIII, fa un minutissimo racconto della guerra de' Catalani insino all'anno 1308; Niceforo, diffondendosi meno, la descrive più compiutamente (l. VII, 3-6). Il Ducange che riguarda questi venturieri come francesi, ne ha seguiti i passi colla esattezza ad esso connaturale (Hist. C. P. l. VI, c. 22-46): cita una Storia d'Aragona che ho letta con piacere, e che gli Spagnuoli esaltano siccome un modello di componimento e di stile (Expedicion de los Catalanos y Aragones contra los Turcos y Griegos; Barcellona 1623 in 4; Madrid 1777, in 8.). Don Francisco de Moncada, conte di Ossona, avrà imitato Cesare o Sallustio, avrà tradotti i contemporanei greci, o italiani; ma egli non addita mai le sue autorità, nè trovo veruna testimonianza nazionale che confermi le imprese de' suoi compatriotti.
  52. V. la Storia del laborioso Ducange, e l'accurata tabella delle dinastie francesi; ove trovansi raccolti i trentacinque passi della stessa Storia che citano i Duchi d'Atene.
  53. Il Villehardouin in due luoghi, fa menzione onorevole di Ottone De la Roche (n. 151-235), e nel primo d'essi il Ducange aggiugne tutto quanto si è potuto sapere intorno alla persona e alla famiglia di questo Duca d'Atene.
  54. Da questi Principi latini del secolo XIV il Boccaccio, il Chaucer, il Shakespeare, hanno tolto il loro Teseo, Duca di Atene. Un secolo ignorante attribuisce ai tempi i più remoti la propria lingua e i proprj costumi.
  55. Non in diversa guisa Costantino ha dato un Re alla Sicilia, alla Russia un magnus dapifer dell'Impero, a Tebe il primicerius. Il Ducange (ad Niceph. Gregor., l. VII, c. 5) parla di queste assurde favole col disprezzo che ad esse è dovuto. I Latini chiamavano per corruzione il signor di Tebe Megas Kurios, o Gran Sire.
  56. Quodam miraculo, dice Alberico. Fu forse per merito di Michele il Coniate, Arcivescovo, che avea difesa Atene contro il tiranno Leone Sguro (Niceta, in Balduino). Michele era fratello dello storico Niceta, e il suo elogio di Atene conservasi ancor manoscritto nella Biblioteca Bodleana (Fabr., Bibl. graec. t. VI, p. 405).
  57. Questi cenni intorno alla moderna Atene sono tolti dallo Spon (Viaggio in Grecia, t. II, p. 79-190), dal Wheeler (Viaggio in Grecia, p. 337-414), dallo Stuart (Antichità d'Atene, passim), dal Chandler (Viaggio in Grecia, p. 23-172). Il primo di questi viaggiatori visitò la Grecia nell'anno 1676, il secondo nel 1765; e il volgere di più d'un secolo non avea su questo tranquillo teatro operato alcun cambiamento.
  58. Gli Antichi, o almeno gli Ateniesi credevano che tutte le Api del Mondo venissero dal monte Imeto, e che il mangiar mele e il fregarsi d'olio erano cose bastanti a conservar la salute e a prolungare la vita (Geoponica, l. XV, c. 7, p. 1089-1094, edizione di Niclas).
  59. Il Ducange (Gloss. graec. praef. pag. VIII) cita per suo testo Teodosio Zigomalas, moderno gramatico. Nondimeno lo Spon (t. II, p. 194) e il Wheeler (p. 355), che possono aversi per giudici competenti, portano sul dialetto dell'Attica un'opinione più favorevole.
  60. Non possiamo per altro tacciarli di avere corrotto il nome di Atene, che chiamano anche Atini. Dalle voci εις της Αθηνην, noi abbiamo formata la barbara denominazione Setine.

Note