Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1890)/X
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X.
L’ultima voce di questo secolo è Franco Sacchetti, l’uomo discolo e grosso. Di mezzana coltura, d’ingegno poco al di là del comune, ma di un raro buon senso, di poca iniziativa e originalità, ma di molta semplicità e naturalezza, era nella sua mediocrità la vera eco del tempo. Gli facea cerchio la turba de’ rimatori, ripetizione stanca del passato, il lucchese Guinigi e Matteo da San Miniato, e Antonio da Ferrara, e Filippo Albizi, e Giovanni d’Amerigo, e Francesco degli Organi, e Benuccio da Orvieto, e Antonio da Faenza, e Astorre pur da Faenza, e Antonio Cocco, e Angelo da San Geminiano, e Andrea Malavolti, e Antonio Piovano, e Giovanni da Prato, e Francesco Peruzzi, e Alberto degli Albizi, e Benzo de’ Benedetti, che lo chiama Eros gentile, e parecchi altri. E il nostro eroe gentile riceveva e mandava sonetti, cambiando lodi con lodi. Ultime voci de’ trovatori italiani. Luoghi comuni e forma barbara annunziano un mondo tradizionale ed esaurito. Ci trovi anche sentimenti morali e religiosi, ma insipidi e freddi come un’avemaria ripetuta meccanicamente tutt’i giorni. Per questo lato il Sacchetti continua il passato, fa perchè gli altri fanno, pensa così, perchè gli altri così pensano, piglia il mondo come lo trova, senza darsi la pena di esaminarlo. Questa è la sua parte morta. Ma ci è una parte viva, quella a cui partecipa, e che suona nel suo spirito, quella in cui apparisce la sua personalità. Ed è appunto quel mondo di cui il Boccaccio è così vivace espressione.
Franco è il vero uomo della tranquillità. Il Boccaccio sdegnava l’epiteto, e talora voleva sonare la tromba e rappresentare azioni e passioni eroiche. Franco non ha pretensioni, e si mostra com’è, ed è contento di esser così. È uomo stampato all’antica, in tempi corrotti, buon cristiano e insieme nemico degl’ipocriti e mal disposto verso i preti e i frati, diritto ed intero nella vita, alieno dalle fazioni, benevolo a tutti, talora mordace, ma senza fiele, modesto estimatore di sè e lontanissimo di mettersi allato a’ grandi poeti di quel tempo, che erano, secondo lui e i contemporanei, Zanobi da Strada, il Petrarca e il Boccaccio. Quali erano i desiderii del nostro brav’uomo? Menare una vita tranquilla e riposata; ed era il più contento uomo del mondo, quando in villa o in città potea darsi buon tempo fra le allegre brigate, motteggiando, novellando, sonetteggiando. Ci è in lui dell’idillico e del comico. Ama la villa, perchè in città
Mal vi si dice, e di ben far vi è caro;
e nelle sue cacce, nelle sue ballate senti non di rado la freschezza dell’aura campestre, come è quella così briosa delle donne che givano cogliendo fiori per un boschetto, e l’altra delle montanine, di una grazia così ingenua. In città è un burlone, pieno il capo di motti, di facezie, di fatterelli, e te li snocciola come gli escono, con tutto il sapore del dialetto e con un’aria di bonomia che ne accresce l’effetto. I suoi sonetti e le canzoni sono molto al di sotto de’ madrigali e ballate o canzoni a ballo, di un andare svelto e allegro, dove non mancano pensieri galanti e gentili: dietro il poeta senti l’uomo che ci piglia gusto e vi si sollazza, e sta già con l’immaginazione nella lieta brigata dove i versi saranno cantati, tra musica e ballo. Veggasi la ballata del pruno e il madrigale del falcone.
Le novelle del Sacchetti hanno per materia lo stesso mondo boccaccevole in un aspetto più borghese e domestico: frizzi, burle, amorazzi, ipocrisie fratesche, aneddoti, pettegolezzi vengon fuori, bassa vita popolana in forma popolana. Alcuni le pregiano più che il Decamerone, per lo stile semplice e naturale e rapido, non privo di malizia e di arguzia fiorentina. Ma la naturalezza del Sacchetti è quella dell’uomo a cui le Muse sono avare de’ loro doni. Non è artista, e neppure d’intenzione. Gli manca ogni sorta d’ispirazione. Quel mondo con tanta magnificenza organizzato nel Decamerone è qui un materiale grezzo, appena digrossato. Perciò delle sue trecento novelle si ricorda appena qualche aneddoto; nessun personaggio è rimasto vivo.
Il Sacchetti sopravvisse al secolo. Nel suo buon umore ci è una nota malinconica, che all’ultimo manda più lugubre suono. Non piace al brav’uomo un mondo, in cui chi ha più danari, vale più, e grida che vertù con pecunia non si acquista, e che gentilezza e virtù son nella mota. Dipinge al vivo gli avvocati de’ suoi tempi:
Legge civile e ragion canonica
Apparan ben; ma nel mal spesso l’usano:
Difendono i ladroni, e gli altri accusano.
Chi ha danari e chi più puote scusano:
Tristo a colui che con costor s’incronica,
Se non empie lor man sotto la tonica.
Ora se la piglia con le vecchie. Ora è tutto stizzoso per le nuove fogge di vestire portate a Firenze da altri paesi. Grida contro la turba de’ rimatori e de’ cantatori:
Pieno è il mondo di chi vuol far rime:
Tal compitar non sa che fa ballate,
Tosto volendo che sieno intonate.
Così del canto avvien, senz’alcun’arte
Mille Marchetti veggio in ogni parte,
E quando muore il Boccaccio, copioso fonte di eleganze, esclama:
Ora è mancata ogni poèsia,
E vote son le case di Parnaso.
S’io piango, o grido, che miracol fia,
Pensando che un sol c’era rimaso
Giovan Boccaccio, ora è di vita fore?
. . Quel duol che mi punge
È che niun riman, nè alcun viene,
Che dia segno di spese
A confortar, che io salute aspetti,
Perchè in virtù non è chi si diletti.
Sarà virtù giammai più in altrui?
O starà quanto medicina ascosta,
Quando anni cinquecento perdè il corso?
Chi fia in quella etate,
Forse vedrà rinascer tal semenza;
Ma io ho pur temenza,
Che prima non risuoni l’alta tromba,
Che si farà sentir per ogni tomba.
Ne’ numeri ciascuno ha mente pronta,
Dove moltiplicando s’apperecchia
Sempre tirare a sè con la man destra.
E le meccaniche arti
Abbraccia chi vuol èsser degno ed alto.
Ben veggio giovanetti assai salire
Non con virtù, perchè la curan poco,
Ma tutto adopran in corporea vesta,
. . . . . giammai non cercan loco
Dove si faccia delle Muse festa.
Come deggio sperar che surga Dante,
Che già chi il sappia legger non si trova?
E Giovanni che è morto ne fe’ scola.
Tutte le profezie che disson sempre
Fra il sessanta e l’ottanta essere il mondo
Pieno di varii e fortunosi giorni,
Vidon che si dovean perder le tempre
Di ciascun valoroso e gire al fondo
E questo è quel che par che non soggiorni.
E s’egli è alcun che guardi,
Gli studii in forni vede già conversi.
Questa canzone di cui abbiamo citati alcuni brani è l’elogio funebre del trecento, pronunziato dal più candido e simpatico de’ suoi scrittori, l’ultimo trecentista. Sulla fine del secolo il vecchio burlone gitta uno sguardo malinconico indietro e gli si affaccia la grande figura di Dante, e l’Africa col suo alto poeta, e Giovan Boccaccio non col suo festevole Decamerone, ma co’ dotti e magni volumi latini, de’ Viri illustri, delle donne chiare, e il terzo.
Bucolica, il quarto monti e fiumi,
Il quinto degl’Iddii e lor costumi.
Oimè! Dante è morto. Morto è Boccaccio. Petrarca muore. Chi rimane? E l’ultimo trecentista guarda intorno e risponde: Nessuno. Ricorda le infauste profezie, nunzie di sciagure fra il sessanta e l’ottanta, e gli pare venuto il finimondo. La forte semenza da cui uscirono i tre grandi e tanti altri dottissimi, teologi, filosofi, legisti, astrologi, è perita per sempre? o risurgerà dopo cinquecento anni, come fu della medicina? o non verrà prima il giudizio finale? Il mondo è dato all’abaco, e alle arti meccaniche: nuda è l’adorna scuola da tutte sue parti,
Non si trova fenestra
Che valor dentro chiuda.
La nuova generazione è tutta dietro alle mode e a’ sollazzi e al guadagno, e non cura virtù, e spregia le Muse, e non ci è chi sappia leggere Dante, e gli studi sono mutati in forni. Il poeta accomiata la canzone in questo modo:
Orfana, trista, sconsolata e cieca,
Senza conforto e fuor d’ogni speranza,
Se alcun giorno t’avanza,
Come tu puoi, ne va peregrinando,
E di’ al cielo: io mi ti raccomando.
Con questi tristi presentimenti si chiude il secolo. Il dugento finisce con Cino e Cavalcanti e Dante già adulti e chiari, finisce come un’aurora entro cui si vede già brillare la vita nuova, una nuova era. Il trecento finisce come un tristo tramonto, così tristo e oscuro che il buon Franco pensa: chi sa se tornerà il sole?
Antonio da Ferrara, sparsasi voce della morte del Petrarca, intuona anche lui un poetico Lamento. Piangono intorno al grand’uomo Grammatica, Rettorica, Storia, Filosofia, e lo accompagnano al sepolcro di Parnaso
E Pallass Minerva venuta dall’angelico regno conserva la sua corona. In ultimo della mesta processione spunta l’autore col suo nome, cognome, e soprannome:
È Anton de’ Beccar, quel da Ferrara,
Che poco sa ma volentieri impara.
È anche un brav’uomo costui, vede anche lui tutto nero:
Del mondo bandita è concordia e pace:
Per l’universo la discordia trona:
Sommerso è ogni bene;
L’amor di Dio ha bando;
E parmi che la Fè vada mancando.
Quella nota malinconica è la stessa forza che tirò alla Certosa il vecchio Boccaccio, e volse a Maria gli ardori del Petrarca e rattristò le ultime ore di Franco Sacchetti, e piegò le ginocchia di Giovanna innanzi a Caterina da Siena. Perchè quella forza, contraddetta e negata nella vita, occupava ancora l’intelletto, e tra le orgie di una borghesia arricchita e gaudente comparirà talora come un rimorso, e chiamerà gli uomini alla penitenza.
La fede va mancando, grida il ferrarese. E gli studii si convertono in forni, nota il fiorentino. Non si potea meglio dipingere la fisonomia che andava prendendo il secolo, e che comunicava alla nuova generazione. Possiamo disegnarla in brevi tratti.
Come il popolo grasso piglia il sopravvento in Firenze, così nelle altre parti d’Italia la borghesia si costituisce, si ordina, diviene una classe importante per industrie, per commerci, per intelligenza e per coltura. E lo stacco si fa profondo tra la plebe e la classe colta. La coltura non è privilegio di pochi, ma si allarga e si diffonde, e fa del popolo italiano il più civile d’Europa.
La vita pubblica e la vita religiosa rimane stazionaria fra l’universale indifferenza. Continuano le stesse forme, ma sciolte dallo spirito che le rendea venerabili, quelle persone, quei riti e quel linguaggio appariscono cosa ridicola e diventano il motivo comico delle liete brigate.
La vita privata viene su. Ed è vita socievole, spensierata, condita dallo spirito. Gli uomini si uniscono in compagnie o brigate non per discutere, ma per sollazzarsi, in città e in villa. E si sollazzano a spese delle classi inculte. Trovatori, cantori e novellatori non sono più il privilegio delle castella e delle corti. L’allegria feudale si spande anche nelle case de’ ricchi borghesi, e i racconti e i piacevoli ragionamenti condiscono i loro piaceri, e in una forma spesso licenziosa e cinica. La licenza del linguaggio era il solletico dell’allegria.
Così venne una letteratura sensuale e motteggiatrice, profana e pagana. Le novelle e i romanzi tennero il campo. L’allegra vita della città si specchiava in forme liriche svelte e graziose, rispetti, strombotti, frottole, ballate e madrigali. D’allegra vita de’ campi avea pur le sue forme, le cacce e gl’idillii. L’anima di questa letteratura è lo spirito comico e il sentimento idillico.
La forma dello spirito comico è la caricatura penetrata di un’ironia maliziosa, ma non maligna. La forma idillica è la descrizione della bella natura penetrata di una molle sensualità. Traspare da tutta questa letteratura una certa quiete e tranquillità interiore, come di gente spensierata e soddisfatta.
Giovanni Boccaccio è il grande artista che apre questo mondo allegro della natura.
Il misticismo perisce, ma ben vendicato, traendosi appresso religione, moralità, patria, famiglia, ogni semplicità e dignità di vita. Vengono nuovi ideali: la voluttà idillica e l’allegria comica. Sono le due divinità della nuova letteratura.
Ma come l’antica letteratura vede i suoi ideali attraverso un involucro allegorico scolastico, così la nuova non può trovare sè stessa se non attraverso lo involucro del mondo greco-latino.
La vita del Boccaccio è in compendio la vita letteraria italiana, come si andrà sviluppando. Comincia scopritore instancabile di manoscritti, e tutto mitologia e storia greca e romana. Non è ancora un artista, è un erudito. La sua immaginazione erra in Atene e in Troia. Tenta questo e quel genere, e non trova mai se stesso. Quel mondo è come un denso velo che muta il colore degli oggetti e gliene toglie la vista immediata. Imita Dante, imita Virgilio, petrarcheggia e platoneggia come il buon Sacchetti. Scrive magni volumi latini, ammirazione de’ contemporanei. E si scopre artista, quando, gittato via tutto questo bagaglio, scrive per sollazzo, abbandonato alla genialità dell’umore. Dove cerca il piacere, trova la gloria.
Questa vita ne’ suoi tentennamenti, nelle sue imitazioni, nelle sue pedanterie, ne’ suoi ideali, è la storia della nuova letteratura.
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