Storia della letteratura italiana (Tiraboschi)/I-3/III/I

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Capo I: Poesia

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III - III III - II

[p. 165 modifica] Molti altri autori hanno qual più qual meno illustrata la storia letteraria di questi tempi de' quali entriamo a parlare; e forse più di tutti Gian Niccolò Funcio nel suo trattato De virili ætate linguæ latinæ stampato a Marpurgh l'an. 1736. Io non ho lasciato di consultarli, ma ho giudicato insieme che gli antichi scrittori dovessero esser la principal mia scorta in queste ricerche; e che non mi fosse lecito di affermar cosa alcuna che alla loro autorità non si appoggiasse. Il che da alcuni, e dal Funcio singolarmente, non sempre si è fatto.

CAPO I


Poesia

I. La poesia de' Romani era stata finora comunemente una semplice imitazione di quella de' Greci. I tragici e i comici altro quasi non avean fatto che recar dal greco in latino qual più qual meno i tragici e i comici greci. Ma vergognaronsi finalmente di parere schiavi di una nazione cui avevano soggiogata. C. Lucilio cavalier romano che accompagnato avea il giovane Scipione nella guerra di Numanzia (Vell. Paterc. Hist. l. 2, c. 9), e che fu prozio materno del gran Pompeo (Porphir. in Comm. ad l. 2, Sat. 1 Hor.), un nuovo genere di poetico componimento in versi esametri tra' Latini introdusse, di cui non avea tra' Greci esempio alcuno, cioè la satira. Io non saprei dire per quale ragione l'ab. le Moine abbia a questo genere di componimento dichiarata guerra (Considerations, ec. l. 27, ec.), escludendolo con troppo severa sentenza dal ruolo de' componimenti poetici, e affermando che per esso, non che abbellirsi, si disonora anzi la poesia. [p. 166 modifica]Ma qual conto si debba fare di tal giudizio, si comprenderà facilmente al riflettere, ch'egli altre poesie non riconosce fuorchè il dramma, l'ode e il poema epico. Quindi le satire di Lucilio, di Orazio e di altri poeti potranno agevolmente prender conforto dall'avere a compagne in questo esilio dal poetico regno l'elegie di Tibullo, di Properzio, di Ovidio, gli epigrammi di Catullo, e l'egloghe ancora e le georgiche di Virgilio. Or tornando a Lucilio, nacque egli, secondo la Cronica eusebiana, l'an. 605 di Roma, e morì in Napoli, secondo la stessa Cronaca, l'an. 651 in età di quarantasei anni (54) . Egli è vero che Orazio di lui favellando usa l'aggiunto senis (l. 2, sat. 1); ma questa voce può ancor dinotare uomo vissuto a' tempi antichi. Ch'egli fosse il primo scrittor di satire, chiaramente lo affermano Orazio (ib.), Quintiliano (Instit. l. 10, c. 1), e Plinio il vecchio (in præf. ad Hist. Nat.), le quali autorità hanno presso di me assai maggior forza che non tutte le ragioni dal Dacier allegate (préface au IV tome d'Hor.) a provare il contrario. Veggiamo per qual maniera ne parli Orazio che più notizie ancora ci somministra intorno a questo poeta. ...............Quid? cum est Lucilius ausus Primus in hunc operis componere carmina morem, Detrahere et pellem, nitidus qua quisque per ora Cederet, introrsum turpis? Natii Lælius, aut qui

Duxit ali oppressa meritum Chartagine nomen, [p. 167 modifica]

Ingenio offensi? aut læso doluere Metello?
Famosisque Lupo cooperto versibus? Atqui
Primores populi arripuit populumque tributim:
Scilicet uni æquus virtuti, atque ejus amicis.
Quia ubi se a vulgo et scena in secreta remorant
Virtus Scipiadæ et mitis sapientia Læli,
Nugari cum illo, et discincti ludere, donec
Decoqueretur olus, soliti.

Da' quali versi noi raccogliamo che piene di amaro fiele erano le satire di Lucilio; ch'egli non la perdonava a chi che fosse, e ciò non ostante godeva dell'amicizia de' più ragguardevoli cittadini, quali erano Lelio e Scipione.

II. Per ciò nondimeno ch'è dello stil di Lucilio, confessa Orazio che non era esso Loro stile.colto abbastanza, e che la fretta di scrivere e l'insofferenza della fatica non gli permetteva di usare, come era d'uopo, la lima a ripulire i suoi versi. Ecco come egli ne parla (l. 1, sat 4):

Hinc omnis pendet Lucilius, hosce sequutus,
Mutatis tantum pedibus numerisque facetus,
Emunctæ naris, durus componere versus.
Nam fuit hoc vitiosus; in hora sæpe ducentos,
Ut magnum, versus dictabat, stans pede in uno.
Quum flueret lutulentus, erat quod tollere velles;
Garrulus atque piger scribendi ferre laborem
Scribendi recte; nam ut multum, nil moror.

E perchè ad alcuni pareva che Orazio forse per invidiosa rivalità riprendesse lo stil di Lucilio, altrove difendesi da tale accusa e mostra che Lucilio stesso, se allor vivesse, avrebbe ripuliti meglio i suoi versi (ib. sat. 10):

......Fuerit Lucilius, inquam,
Comis et urbanus: fuerit limatior idem
Quam rudis; et græcis intacti carminis auctor,
 Quamque poetarum seniorum turba Sed ille,
Si foret hoc nostrum fato dilatus in ævum,
Detereret sibi multa, recideret omne, quod ultra
Perfectum traheretur, et in versu faciendo



(1) Lib. I. Szu IV. (1) Ib. Sat. X. [p. 168 modifica]Sæpe caput scaberet, vivos et roderet ungues. Ma Quintiliano, il quale se non uguagliò nello stile l'eleganza de' più antichi scrittori, se ne mostra però finissimo conoscitore, si dichiara di sentimento contrario ad Orazio: Satyra quidem, dic'egli (loc. cit.), tota nostra est, in qua primus insignem, laudem adeptus est Lucilius; qui quosdam ita deditos sibi adhuc habet amatores, ut eum non ejusdem modo operis auctoribus, sed omnibus poetis proeferre non dubitent. Ego quantum ab illis, tantum ab Horatio dissentio, qui Lucilium fluere lutulentum, et esse aliquid, quod tollere possis, putat. Nam et eruditio in eo mira et libertas, atque inde acerbitas et abunde salis. Noi non dobbiamo e, ove pure il volessimo, non possiamo entrar giudici in tal quistione, poichè de' trenta libri di satire, ch'egli avea composti, appena ci son rimasti pochi frammenti. Altre poesie ancora egli compose che si possono vedere annoverate dal Fabricio1 e dal Vossio2. Pare innoltre che un poema, o qualche altro poetico componimento egli scrivesse in lode di Scipione, perciocchè Orazio introduce uno che così gli ragiona3:

Attamen & justum poteras et scribere fortem
Scipiadem, ut sapiens Lucilius.

Ma di ciò non trovasi altra menzione presso gli antichi scrittori.

III. Assai maggiore ornamento ricevette la latina poesia da T. Lucrezio Caro. Nacque egli, secondo la Cronaca d'Eusebio, l'anno secondo dell'olimp. CLXXI, cioè l'anno di Roma 658, undici anni dopo la nascita di Cicerone, e morì l'anno di Roma 702 in età di quarantaquattro anni. Ma Donato, scrittore della Vita di Virgilio a quest'epoca contradice; perciocchè egli afferma che "Virgilio nell'anno Notizie di Lucrezio.diciassettesimo dell'età sua prese la viril toga, essendo per la seconda volta consoli di que' medesimi nel primo consolato de' quali egli era nato (cioè Pompeo e Crasso), e avvenne che in quel giorno medesimo morì Lucrezio". Or Pompeo e Crasso furon consoli la seconda volta l'an. 698, e converrebbe dire perciò o che Lucrezio morisse in età di quarant'anni, se era nato l'anno 658, o ch'ei nascesse l'anno 654, [p. 169 modifica] se morì veramente in età di 44 anni. Benchè questo scrittore ancora contradice a se stesso. Dice che Virgilio era nato nel primo consolato di Pompeo e di Crasso, e che nel secondo lor consolato in età di 17 anni prese la toga virile. Or questi furon consoli prima l'anno 683, poscia l'anno 698, e quindi non diciassette, ma quindici anni soli dovea allor contare Virgilio. Il Bayle due intere colonne del suo Dizionario ha impiegate a disputare sull'epoca della vita e della morte di Lucrezio. Io accenno i diversi sentimenti, e lascio che ognun segua, qual più gli piace. Della maniera di sua morte così racconta la stessa Cronaca eusebiana: "Quindi da un amoroso beveraggio tratto in furore, avendo negli intervalli di sua pazzia scritti alcuni libri che da Cicerone furon poscia emendati, di sua mano si uccise l'anno quarantesimo quarto di sua vita". Questo beveraggio amoroso appena sembra credibile al Fabricio (Bibl. lat. l. I. c. 4). E certo il non aversi altro indizio di tal fatto che nella Cronaca eusebiana, non ci toglie ogni dubbio che non sia questa per avventura una falsa popolar tradizione. Niun altro antico autore abbiam parimenti a testimonio di ciò che nella Cronaca si afferma, cioè che il poema di Lucrezio fosse da Cicerone corretto ed emendato. Egli è vero però che nelle opere a noi pervenute degli antichi autori appena troviamo alcuna menzion di Lucrezio; onde non è maraviglia che delle circostanze di sua vita nulla essi ci abbiano tramandato.

IV. Checchè sia di ciò, abbiam il poema De rerum Natura, da lui composto, che basta a renderne il nome immortale. Niuno eravi stato ancor tra' Romani, che un filosofico sistema avesse preso a spiegar poetando. Lucrezio il primo ardì di cimentarsi a tale impresa, ed egli stesso se ne dà il vanto dicendo al principio del quarto libro:

Avia Pieridum peragro loca nullius ante
Trita solo: juvat integros accedere fontes,
Atque haurire, juvatque novos decerpere flores;
Insignemque meo capiti petere inde coronam,
Unde prius nulli velarint tempora Musæ.

Così avesse egli trascelto un miglior sistema, ma si [p. 170 modifica]Così avesse egli trascelto un miglior sistema, ma si appigliò al peggior di tutti in ciò che appartiene a morale, cioè a quel di Epicuro, e quindi negò arditamente e Provvidenza e Dio, e nel piacere ripose tutta l'umana felicità. Il Bayle nondimeno, e dopo lui qualche altro scrittor moderno ne hanno voluto fare l'apologia, e osservano che egregie massime regolatrici del buon costume s'incontrano in questo poema, e che Lucrezio la sola superstizione e il ridicoloso culto di tanti iddii, quanti ve n'avea al mondo, ha voluto combattere. Ma che giovan le altre massime, se quella si Pregi e difetti del suo poema. toglie ch'è il fondamento di tutte, la religione? E uno che ogni divinità vuol toglier di mezzo, nè provvidenza alcuna ammette, nè alcuna vita avvenire, si può egli dire che alla sola superstizione dichiari guerra? A me però non appartiene l'entrare in controversie di tal natura, che dallo scopo di quest'opera son troppo aliene. Io osserverò in vece che noi dobbiamo a Lucrezio la tradizione di molte opinioni degli antichi filosofi, delle quali altrimenti non rimarrebbe forse memoria alcuna. E alcune cose ancora noi vi veggiamo felicemente spiegare in quella stessa maniera che da' più dotti filosofi de' nostri giorni si sogliono dichiarare. Odasi come fra le altre cose espone felicemente Lucrezio, e in modo, dice m. Dutens (Recherches sur les découvertes des Modernes t. I. p. 139), che farebbe onore al più sperimentato fisico di quest'età, la ragione della diversa velocità con cui cadono i corpi:

Nam per aquas quæcumque cadunt, atque æra deorsum,
Hæc pro ponderibus casus celerare necesse est:
Propterea quia corpus aquæ, naturaque tenuis
Æris haud possunt æque rem quamque morari,
Sed citius cedurit gravioribus exsuperata.
At contra nulli de nulla parte, neque ullo
Tempore inane potest vacuum subsistere rei,
Quin, sua quod natura petit, concedere pergat.
Omnia quipropter debent per inane quietum
Atque ponderibus non æquis concita ferri


(l. 2. v. 225 e [p. 171 modifica] Suo stile, e poemi fatti a imitazione di esso. V. Lucrezio si annovera a ragione tra' più eccellenti poeti. Vedesi in lui ancora qualche affumicato avanzo dell'antica rozzezza; ma l'eleganza, la grazia, la proprietà di espressione, che in lui trovasi comunemente, è singolare, e tanto più maravigliosa, quanto più difficile era l'argomento da lui preso a trattare. Quindi giustamente disse di lui Ovidio4:

Carmina divini tunc sunt moritura Lucreti,
Exitio terras cum dabit una dies.

E degno d'eterna memoria egli è ancora per questo, che a lui incerta guisa dobbiamo molti eccellenti poemi filosofici che in questi ultimi tempi a imitazione di Lucrezio sono stati composti, e due singolarmente che sembrano sopra gli altri saliti in pregio e in fama, l'uno fatto a impugnazion di Lucrezio, cioè l'Anti-Lucrezio del cardinale di Polignac, l'altro a imitazion dello stesso cioè la Filosofia Moderna del ch. monsig. Stay, il quale un sistema troppo migliore, cioé quello di Newton, preso avendo a spiegare in versi, ha fatto vedere fin dove possa giungere il valore di un poeta nello spargere di tutte le poetiche grazie le più spinose ed intralciate quistioni, e nel soggettare la poesia a tutta la precisione e la forza delle filosofiche prove e delle matematiche dimostrazioni.

VI Traduzione fattane dal Marchetti. VI. Moltissime son le edizioni che abbiam di Lucrezio, e molti son quelli che il poema ne hanno o illustrato con comenti, o nelle volgari lingue recato. Si posson veder tutti presso il Fabricio5. Noi ne accenneremo al fine di questo tomo le principali edizioni. Qui rammenterò solo l'elegantissima traduzione italiana fattane in versi sciolti da Alessandro Marchetti, a cui non credo che abbiano gli oltramontani a contrapporre la somigliante. L'ab. Lazzarini una severa critica ha pubblicato di questa celebre traduzione6 tacciandola qual meno esatta, e il traduttor riprendendo come non abbastanza versato nel sistema di Epicuro; anzi alcuni passi da se tradotti ci ha egli dati come migliori assai di que' del Marchetti. [p. 172 modifica] sempre goduto. Così avesse questi alla religione e al costume provveduto più saggiamente, e i più pericolosi e seducenti passi di questo poema non avesse posto in maggior luce che non conveniva, o gli avesse almeno con opportune annotazioni impugnati. Forse un egregio antidoto avrebbevi ei contrapposto, se avesse potuto condurre a fine un suo filosofico poema a cui erasi accinto, ma che forse dalla morte gli fu vietato finire. Il solo principio ne abbiamo nel Giornale d'Italia (t. 21. p. 258) (55) . VII. Pochi anni prima di Lucrezio, cioè l'anno di Roma 696, se creder vogliamo alla Cronaca eusebiana, era morto C. Valerio Catullo in età di soli 30 anni. Ma quest'epoca non par sicura. Lascio da parte l'opinion singolare di Giuseppe Scaligero il qual vuole (Animadv. in Euseb.) che Catullo morisse solo dopo l'anno 737, opinione che lungamente è stata confutata dai Bayle (Diction. art., "Catullus"). Certamente però fino all'an. 706 dovette ei vivere, poichè accenna il consolato di Vatinio, che cadde appunto in quell'anno, così dicendo: Per consulatum pejerat Vatinius (Carm. 52). Che in Verona precisamente e non in Sirmione egli nascesse, lo ha provato il m. Maffei (Verona illustr. P. 2. lib. 1), presso del quale ancora più cose si posson vedere intorno alla famiglia e alla condizion di Catullo (56) . Pare che il più de' suoi giorni ei passasse in Roma, e che in una sua causa difeso fosse da Cicerone, a cui perciò egli scrisse un suo epigramma, nel quale col lodare espressamente Cicerone (Carm. 49) come ottimo patrocinatore sembra accennare ch'ei ne provasse l'effetto. Da' suoi versi medesimi si raccoglie ch'egli col pretore Memmio fu in Bitinia. Sembra però ch'egli punto non aspirasse ai pubblici onori; e gli stessi suoi versi troppo chiaramente ci mostrano che i più molli piaceri e gli amori più disonesti, de' quali bruttamente macchiò, erano il solo oggetto de' suoi pensieri.



(4) Carm. LII. (O Verona illuftr. P* IL ab. L Ce) Carm. XUX» 56 Ha voluto, sembra, scherzare il sig. co. Giovio quando tra' i suoi Illustri Comaschi ha annoverato Catullo, accennando che non mancherebbero argomenti a provarlo (p. 336). Egli ha una buona dose di un lodevole amor patriottico. Ma io non cederò mai ch'ei se ne lasci sedurre a tal segno. [p. 173 modifica] Sembra però ch'egli punto non aspirasse ai pubblici onori; e gli stessi suoi versi troppo chiaramente ci mostrano che i più molli piaceri e gli amori più disonesti, de' quali bruttamente macchiò, erano il solo oggetto de' suoi pensieri. Piacevasi egli ancora di mordere altrui; nè perdonò a Cesare stesso, il quale, come narra Svetonio 7, benchè ne avesse contezza, pago nondimeno di una qualunque soddisfazione, che gliene diede Catullo, tennelo seco quel giorno stesso alla cena e proseguì, come usato avea fin allora, ad alloggiare presso il padre dello stesso poeta, quando nelle sue spedizioni avvenivagli di passar per Verona. Anche su questo fatto lo Scaligero ha mosse alcune difficoltà; ma queste pure ha mostrato il Bayle non essere di forza alcuna.

VIII. Catullo fu il primo tra' poeti latini che ci son rimasti, il quale tanta varietà di metri usasse ne' suoi componimenti, e forse molti di essi furon da lui primamente introdotti nella lingua latina. La grazia e l'eleganza del suo scrivere è tale, che ne viene a ragione proposto per esemplare. Gellio il disse il più elegante tra' poeti 8. Sembra che Ovidio un'ugual gloria conceda a Mantova ed a Verona, a quella per essere patria di Virgilio, a questa per aver prodotto Catullo:

Mantua Virgilio gaudet, Verona Catullo 9.
<poem>
E più chiaramente Marziale:
<poem>
Tantum magna suo debet Verona Catullo,
Quantum parva suo Mantua Virgilio 10.

A me sembra però, che alcuni troppo siansi innoltrati e nel lodarlo e nell'imitarlo. Io certo non ardirei di anteporlo così facilmente a Tibullo, come altri fanno; nè Giudizio dello stile delle sue poesie.so intendere qual pregio abbiano mai i versi di certi poeti a' quali sembra di aver uguagliato Catullo quando hanno scritto versi di una maravigliosa durezza, perchè Catullo alcuni ne ha di tal fatta. Egli è certo che l'armonia e la dolcezza è una delle pregevoli doti di ogni poesia, che con essa ancora dee distinguersi dall'usata maniera di favellare. E come sono a riprendersi quelli che una perpetua monotonia vi introducono, quale comunemente tro [p. 174 modifica] vasi in Ovidio; così non meritan lode coloro che studiano d'introdurvi un'affettata durezza, e a questa più che alla sceltezza dell'espressioni pongono mente. Alcuni han fatto Catullo autore dell'antico inno intitolato Pervigilium Veneris; ma veggasi l'edizione che di esso ha fatta il celebre presidente Bouhier, ove egli mostra che lo stile non è quale si usava all'età di Cesare e di Augusto, e molto meno è lo stil di Catullo; e conghiettura che sia stato composto circa i tempi di Nerva.

IX. Seguendo l'ordin de' tempi dovremmo qui far menzione di Cicerone, il quale nella poesia ancora volle esercitarsi, e forse con isperanza di averne fama di valoroso poeta. Prese egli in primo luogo, essendo ancora in età giovanile (De Nat. Deor. l. 2, n. 41), a recare in versi il poema greco di Arato sull'astronomia intitolato Phænomena, e inoltre un altro poema de' Pronostici dello stesso autore. Un poema ancora sulla Vita di Mario compose, e finalmente, oltre altri più brevi componimenti, un lungo poema diviso almeno in tre libri sulle imprese del suo consolato, nel quale certo non avrà egli perdonato a studio e a diligenza, ma ottenne egli perciò in poesia quella fama che in altre scienze ottenne meritamente? Io so che alcuni anche ne' versi di Cicerone ritrovano maravigliose bellezze; che questo è privilegio degli uomini grandi, che grande sembri ad alcuni qualunque ancorchè piccola cosa a loro appartenga. Fra gli altri l'ab. Regnier des Marais, nella traduzion francese ch'egli ci ha data de' libri de Divinatione, afferma che ne' poeti latini, ove se ne tolgano que' di Virgilio, pochi versi vi sono che a que' di Cicerone si possano paragonare (57) . Ma invero niun antico scrit11 [p. 175 modifica] ttore ci ha parlato di Cicerone, come di eccellente poeta; nè grande sollecitudine vi è stata di tramandarci i suoi versi, de' quali poco più abbiamo che ciò ch'egli in altre sue opere ci ha conservato. Noi ci contenteremo adunque di dir con Plutarco (in Cicer.), che dapprima ei fu riputato il primo tra' romani poeti, quando cioè, il poema di Lucrezio, non che quelli de' posteriori scrittori. non avea ancor veduta la pubblica luce. Ma che sorgendo poscia altri assai più eccellenti poeti, la gloria poetica di Cicerone venne meno in tutto e svanì. Perciò lasciando in disparte le poesie di Cicerone, di lui ci riserberemo a parlare quando dell'eloquenza dovrem tenere ragionamento, al qual luogo potrassi egli mostrare senza pericolo che alcun gli contrasti il primo onore, e frattanto ci volgeremo a favellare di tre poeti da' quali la poesia latina fu alla maggior perfezione condotta a cui ella arrivasse giammai. X. Parlo di Tibullo, di Orazio, e di Virgilio, che vissuti al medesimo tempo furono i tre principali ornamenti del felice secol d'Augusto, e i tre migliori poeti, ardisco dirlo, che allora e poscia vivessero tra' Latini. Per cominciar da Tibullo, assai scarse son le notizie che di lui ci sono rimaste. Se di lui fosse veramente quel verso che tra le sue poesie si legge (lib. 3, el. 5), in cui dice ch'ei nacque a quell'anno Cum cecidit fato Consul uterque pari, noi avremmo certa l'epoca del suo nascimento; perciocchè in questo verso chiaramente sono indicati i due consoli Irzio e Pansa, che l'an. 710 di Roma morirono nella guerra civile contro di M. Antonio. Ma il ch. Giovannantonio Volpi nella Vita di Tibullo premessa alla bella edizione da lui fattane in Padova l'an 1749 reca più argomenti di Giuseppe Scaligero e di Giano Dousa a provare che quel verso non è di Tibullo, ma sì tolto da Ovidio, tra le cui opere veramente si trova, e che Tibullo nacque certamente assai prima. Anche l'epoca della [p. 176 modifica] sua morte è affatto incerta. Pare ch'egli morisse in età giovanile, come singolarmente raccogliesi da un epigramma di Domizio Marso:

Te quoque Virgilio comitem non æqua, Tibulle,
Mors juvenem campos misit ad Elysios.

Ma gli autori sopracitati osservano che la parola giovane dee prendersi in più ampio senso, e che non toglie il credere che Tibullo giugnesse ancora oltre i quarant'anni. Quelle parole: Virgilio comitem mors misit ad Elysios sembrano indicar chiaramente che Tibullo morisse nell'anno stesso in cui Virgilio, cioè nel 735. Certo ciò non dovette accader molto dopo, poichè Ovidio, che era nato l'an. 710, si duole che la morte troppo immatura di Tibullo non aveagli permesso di

stringere con lui amicizia:

...............Nec avara Tibullo
Tempus amicitiæ fata dedere meæ

12).

XI. Fu Albio Tibullo cavalier romano; ma dalle sue elegie, e dalla prima singolarmente, raccogliesi ch'egli era povero (58) e che amava anzi di starsene nel riposo di 13 una sua villa, che fra lo strepito e il tumulto della città. Ciò che fa maraviglia si è, che essendo egli vissuto a' tempi di Augusto e di Mecenate, protettori sì splendidi de' poeti, non troviamo indizio alcuno di favore da lor prestatogli. Ma anche nelle poesie che ci restano di Tibullo, indizio alcuno non vedesi di lode da lui data a Mecenate, o ad Augusto. Forse qualche particolar motivo ebbe Tibullo per non accostarsi ad Augusto e al suo favorito; e questa forse fu ancor la ragione per cui egli non ebbe parte, come tanti altri, a' lor beneficj. Il grande amico e l'eroe, per così dire, di Tibullo fu M. Valerio Messala Corvino a cui spesso ancor fu compagno nelle spedizioni militari che lo renderon famoso, e che a molte elegie di Tibullo diedero occasione. Di [p. 177 modifica] Orazio sembra che fosse amico. Questi un'ode e un'epistola (l. 1, od. 23; l. 1 ep. 4) gl'indirizzò e chiamollo sincero giudice de' suoi versi, e più altre cose ne disse in lode. Tibullo al contrario, qualunque ragion se ne avesse, ne' suoi versi non fece mai menzione alcuna di Orazio.

XII. Il genere elegiaco fu da lui coltivato quasi unicamente; e quando volle levarsi più alto e tessere in versi eroici un panegirico al suo Messala, pare che non avesse troppo felice successo. Benchè havvi chi vuole che quel panegirico e quasi tutte l'elegie del quarto libro Ma questa maniera di favellare ci fa nascer sospetto che Tibullo fosse bensì nato e vissuto per qualche tempo fra le ricchezze, ma poscia o per sua, o per altrui colpa fosse venuto in povero stato. non sian di Tibullo; e queste vengon da alcuni attribuite a Sulpizia moglie di Caleno al tempo di Domziano (V. Journal des Sçavans 1708, p. 94; Fabric. Bibl. Lat t. 1, p. 302, edit. ven; Vulpii Præfat. ec.). Quanto allo stil di Tibullo, io credo che Quintiliano non mal si apponesse quando a tutti gli altri scrittori di tal genere lo antepose: "Nell'elegia ancora, dic'egli (l. 10, c. 1.), noi sfidiamo i Greci, di cui sembrami che terso ed elegante scrittore sia singolarmente Tibullo". E in vero la dolcezza, l'eleganza, l'armonia, l'affetto e tutti gli altri ornamenti della elegiaca poesia risplendono in lui maravigliosamente. Sempre facile e chiaro, sempre tenero e passionato, sempre colto ed elegante, dipinge al naturale i sentimenti e gli affetti, nè coll'abuso dell'ingegno non gli altera mai, nè colla incolta espressione non gli abbassa, degno veramente di esser proposto ad esemplare in tal genere di poesia, ove non l'ha egli pure, come il più degli antichi poeti, benchè meno arditamente degli altri, di sozze immagini imbrattata. Abbiamo un'elegia di Ovidio nella morte di Tibullo, da cui raccogliesi in quanto pregio ne avesse le poesie. Veggasi il giusto e diligente confronto che ha fatto l'ab. Souchay de' tre principali poeti elegiaci tra' Latini (Mém. de l'Acad. des Inscr. t. 7, p. 351), cioè Ovidio, Properzio, e Tibullo, in cui non teme di dare a Tibullo la preferenza sopra gli altri due. Nè io credo certo che il p. Rapin il quale Ovidio antepone a tutti gli altri (Réflex. sur la Poét., n. 29), sia per avere molti seguaci del suo sentimento.

XIII. Più cose e con maggior certezza possiam dire di Q. Orazio Flacco, poichè egli molto di se stesso ho parlato nelle

Tom. I. 2* fue zio* O) L. L Od. X«IL L. L EpAV. {# L X. r. L (2) V. Journal des Scàvans 1708. p. ’^4. (4) Mena, de P Acad. des Infcr. t. VII. Fabric. Bibl. Lat. t. I. pag. 302. Edit. p. 552, Ven., Vulpii Praefat. &c {5) Reflex, fiir la Paet. n. 2?. [p. 178 modifica]sue poesie. Oltre un'antica Vita di questo poeta attribuita a Svetonio, un'altra ce ne ha data Giovanni Masson con somma diligenza descritta di anno in anno, e stampata in Leyden nel 1708. Ma degna è sopra tutte d'essere letta quella che ne ha scritto il co. Francesco Algarotti (Opere t. 3 ediz. livorn.), in cui le diligenti ricerche sulla vita e su' costumi d'Orazio abbellisce con una singolare e tutta sua propria leggiadria di stile. Io dunque ripeterò in breve ciò che questi autori ne hanno scritto copiosamente; e qualche cosa mi verrà forse fatto d'aggiugnere all'erudite loro ricerche. Orazio stesso c'insegna l'anno in cui egli nacque, ove con un orciuol di vino parlando dice che amendue eran nati ad un anno medesimo sotto il consolato di Manlio.

>
O nata mecum consule Manlio, ec. (l. 3. od. 21).

Or questi non può essere che L. Manlio Torquato, il quale l'an. 688 fu console, insieme con L. Aurelio Cotta. Di Venusia ancora sua patria egli parla non rade volte, e singolarmente ove dice essere incerto se essa alla Lucania appartenga ovvero all'Apulia, poichè posta ai confini di queste due provincie:

...... Lucanus, an Appulus anceps,
Nam Venusinus arat finerri sub utrumque colonus (l. 2,
sat. 1).

Ma di se e della sua fanciullezza parla egli assai lungamente (l. 1, sat. 6); e dice in prima, che di padre Nascita e condizione di Orazio.libertino era egli nato ed esposto perciò all'invidia del volgo, perchè ciò non ostante nella grazia di Mecenate erasi avanzato tant'oltre che aveva quasi comune il tetto con lui.

Nunc ad me redeo libertino patrem natum,
Quem rodunt omnes libertino patre natum,
Nunc quia, Mæcenas, tibi sum convictor.

Al qual luogo osserva e prova il Masson, che nascer di padre libertino vuol dire nascer di padre che una volta sia stato schiavo, ma che già avuta abbia la libertà, i cui figliuoli tenevansi perciò in conto di ingenui, come avea di sopra accennato Orazio stesso;

Quam referre negas, quali sit quisque parente
Natus, dum ingenuus.

[p. 179 modifica]

Di suo padre aggiugne ch'ei fu esattor di tributi: perciocchè questo è il senso della voce coactor da lui usata.

Nec timuit, sibi ne vitio quis verteret olim,
Si præco parvas, aut (ut fuit ipse) coactor
Mercedes sequerer.

XIV. Rammenta quindi con sentimento di figliale riconoscenza con quale impegno procurasse suo padre ch'ei fosse e nelle lettere e nelle arti liberali istruito; perciocchè dice che benchè povero esso fosse, non volle nondimeno mandarlo alla scuola di un cotal Flavio, ove Sua educazione e suoi studj. pur molti andavano ancor de' più ragguardevoli ad apprendervi l'arte di conteggiare: ma condusselo a Roma, perchè vi coltivasse gli studj, e che con tale accompagnamento e con tal decoro lo manteneva, che di leggieri l'avresti creduto figliuolo di ricco padre.

Caussa fuit pater his, qui macro pauper agello
Noluit in Flavi ludum me mittere, magni
Quo pueri magnis e centurionibus orti,
Lævo suspensi loculos tabulamque lacerto,
Ibant octonis referentes idibus æra.
Sed puerum est ausus Romam portare docendum
Artes quas doceat quivis eques atque senator
Semet prognatos; vestem servosque sequentes
In magno ut populo si quis vidisset, avita
Ex re præberi mihi sumptus crederet illos.

Nè de' suoi studj solamente, ma de' suoi costumi ancora un custode sollecito egli ebbe nel padre, come egli stesso soggiugne:

Ipse mihi custos incorruptissimus omnes
Circum doctores aderat. Quid multa? pudicum
(Qui primus virtutis honos) servavit ab omni
Non solum facto, verum opprobrio quoque turpi.

Nomina egli altrove il suo maestro, cioè Orbilio da cui dice (l. 2, ep. 1) che gli venivan dettati i versi di Livio Andronico, e pare che anche nella greca poesia si esercitasse; di che egli narra che fu una volta ripreso in sogno da Romolo (l. 1, sat. 10). Sembra

(1) Lib. II. Ep. L ti)L. L Su. Z. [p. 180 modifica] Sembra che da Roma ei passasse in Atene, perciocchè così dice di se medesimo (l. 2, ep. 2):

Romæ nutriri mihi contigit, atque doceri,
Iratus Graiis quantum nocuisset Achilles:
Adjecere bonæ paullo plus artis Athenæ,
Scilicet ut possem curvo dignoscere rectum.

>

Le quali ultime parole, benchè sembrino accennare che egli allo studio della geometria si rivolgesse, dal Masson nondimeno e da altri sono intese in senso allegorico, come se voglia dire Orazio, che la filosofia morale apprese in Atene o per cui s'impara a discernere il ben dal male. XV. In tal maniera passati i primi anni di sua gioventù, e formato alle scienze, abbracciò la milizia e vi giunse all'onore di tribun militare, come gli stesso afferma (l. 1. sat. 6): Quod mihi pareret legio romana tribuno. Ma non pare ch'egli vi si mostrasse uom di coraggio. Certo egli confessa di aver gittato vergognosamente lo scudo nella battaglia di Filippi, e d'aver presa la fuga: Tecum Philippos et celerem fugam Sensi, relicta non bene parmula (l. 2, od. 7) : L'esito infelice di questa battaglia fe' deporre ad Orazio ogni pensier di milizia. Tornato a Roma si volse interamente alla poesia, e questa gli acquistò in breve tempo gran nome. Ma poco forse gli avrebbe essa giovato, se non avesse avuta la sorte di essere ammesso Tenore della sua vita e della sua morte. all'amicizia di Mecenate. Descrive egli stesso in qual maniera la prima volta fosse a lui introdotto per opera di Virgilio e di Vario, e come gli parve allora d'essere freddamente accolto; perciocchè Mecenate uomo, come altrove dice Orazio (l. 1, sat. 9), di non molte parole e difficile in sulle prime a scoprirsi ad altrui, rispostogli brevemente, gli die' commiato, e solo dopo nove mesi a se richiamollo:

Virgilius, post hunc Varius, dixere quid essem.
Ut veni coram, singultim pauca locutus,
(Infans namque pudor prohibebat plura profari)
Non ego me claro natum patre, non ego circum


(1) Lib. IL Epift. IL (j) L. IL Od. VIL (i) Uu L Sai* VI- U> X~ L Sa** IX. Digitized by

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Me Saturjano vectari rura caballo,
Sed quod eram, narro. Respondes (ut tunc est mos)
Pauca: abeo; et revocas nono post mense, jubesque
Esse in amicorum numero (l. 1, sat. 6)

.

Così, introdotto Orazio nell'amicizia di Mecenate ne godette poscia costantemente senza che essa venisse mai per alcuna vicenda alterata, di che abbiamo a testimonio tante delle sue ode a lui indirizzate. La qual amicizia se fu vantaggiosa ad Orazio, che trovò in Mecenate un sì splendido protettore, niun meno fu a Mecenate gloriosa, che trovò in Orazio un sì degno celebratore delle sue lodi. Dall'amicizia di Mecenate venne ad Orazio la protezione e l'amore d'Augusto. Alcune lettere da lui scritte ad Orazio ci ha tramandate l'antico scrittore della vita di questo poeta mentovato di sopra, dalle quali apertamente raccogliesi quanto egli gli fosse più caro. Ma meglio ancor ciò raccogliesi da molti de' poetici componimenti di Orazio stesso; in cui i più sinceri sentimenti di gratitudine verso di lui si veggono espressi. Amicissimo di Virgilio ne fece spesso menzione ne' suoi versi con somma lode. Alcuni si maravigliano che Virgilio al contrario non mai facesse motto d'Orazio. Ma come poteva egli farlo, se gli argomenti da lui presi a trattare non gliene offrivano occasione alcuna? E nondimeno mylord Orrery nelle sue Osservazioni sulla vita e sugli scritti dei dottor Swift (V. Journal Britannique de m. Maty t. 7, p. 61) pretende di aver trovata in Virgilio menzion di Orazio. Crede egli che questi versi:

....... Et amicum Cretea Musis,
Cretea Musarum comitem, cui carmina semper,
Et cythararæ cordi, numerosque intendere nervis,
Semper equos, atque arma virum, pugnasque, canebat
(Æneid. l. 9, v. 774, ec.)

da Virgilio fosser composti per

disegnare Orazio. E perchè? Perchè Orazio dice di se stesso: Musis amicus tristitiam et metum Tradam protervis in mare Creticum Portare ventis (l. 1, od. 26.) Eccovi dunque, dice il ragionatore mylord, Orazio disegnato da Virgilio sotto due nomi, cioè di amico

(1) t. L San Vr. (j> ^Eneid.. I IX. v^ 774, 8& Ci) V. Journal Britanni^ie de VL (4) L. L. Od. XXVLMary u VIL pw 6u n [p. 182 modifica]Eccovi dunque, dice il ragionatore mylord, Orazio disegnato da Virgilio sotto due nomi, cioè di amico delle Muse, di cui Orazio piacevasi, e di Creteo, perchè Orazio volea gittare nel mar di Creta tutti i mesti pensieri. Io crederei di abusar troppo del tempo, se mi trattenessi i ribattere tai conghietture. A questo modo non vi sarebbe poeta alcuno, o alcun ragguardevole personaggio che non vedessimo rammentato da Virgilio, o da qualunque altro scrittore. Morì finalmente Orazio nel consolato di C. Marcio Censorino e di C. Asinio Gallo l'anno di Roma 745 a' 27 di novembre nel 57 anno dell'età sua, cioè nell'anno stesso in cui morì il suo protettor Mecenate (Dio. Hist. l. 55), avverandosi in fatti ciò che Orazio per espressione di affettuosa riconoscenza avea già scritto, che l'amicizia avrebbeli uniti perfino in morte.

XVI. Tal fu la vita di Orazio, uomo, come dalle sue poesie si raccoglie dato a' piaceri e nemico di qualunque cosa gli potesse recar turbamento; ma che di mezzo a molti lascivi componimenti molti ne ha ancora pieni di morali giustissimi sentimenti. Qui però dobbiam solo considerarne il valore poetico, e la gloria che da lui ne venne a' Romani. Egli si vanta, e a ragione, di essere stato il primo tra loro che ardisse di tentare la lirica poesia. Catullo qualche picciolo saggio di questo genere ci ha lasciato; ma non si può veramente chiamarne autore. Orazio tutto vi si consacrò e coltivollo con felicità così grande, che merita certo di stare al paro co' più rinomati tra' Greci. Egli modestamente ricusa di esser detto imitatore di Pindaro (l. 4, od. 2); ma le sue poesie stesse ci vietano di dargli fede. L'enfasi, l'entusiasmo, la forza che in esse regna, e i rapidissimi voli a cui spesso si abbandona, cel mostran pieno di quel qualunque siasi furore che solo forma i poeti; ma Sue poesie liriche e loro eccellenza.nel più vivo entusiasmo egli sempre conserva quella proprietà ed eleganza e nobiltà di espressione, che li rende perfetti. Ciò ch'è più ammirabile, si è che Orazio imitator sì felice di Pindaro quando ha tra le mani un argomento sublime, è ancora imitator nulla meno felice di Anacreonte negli argomenti più scherzevoli e più leggiadri. Intorno a che veggansi le belle riflessioni del co. Algarotti nel Sag(1) Dio Hill. 1. IV. t») Ito. IV. Od IL [p. 183 modifica]Saggio altre volte da noi citato. E nondimeno come non vi ha paradosso che non trovi qualche sostenitore, così pure non è mancato chi si dichiarasse di non trovare Orazio sì gran poeta quale comunemente si vanta. Tale è stato l'anonimo inglese autore del Saggio sugli scritti e sul genio di m. Pope, il quale si sdegna delle lodi finor date a Orazio, e vuole che sulla sua parola crediamo che nulla egli ha di sublime; e quel poco che pur vi si scorge, tutto è tratto da Pindaro e da Alceo. Ma veggasi la bella risposta che gli ha fatta il celebre m. Maty nel suo Giornale Britannico (t. 21, p. 34). Io non prenderò qui a confutare gl'ingegnosi sogni del p. Arduino che tutte le ode vuol supposte ad Orazio, come pur l'Eneide a Virgilio. Egli ha voluto scherzare, io credo, e mostrare fin dove si possa giugnere coll'abusar dell'ingegno.

XVII. Di genere in tutto diverso si è lo stile da Orazio usato nelle Satire, nell'Epistole, e nell'Arte Poetica; perciocchè come nell'Ode egli ci dà esempio della più sublime e della più nobile poesia, così in queste egli ci Altre sue opere poetiche e loro stile. porge un modello della più semplice e più famigliare; ma in questa semplicità medesima egli sa usare una grazia e un'eleganza così maravigliosa; ch'io stimo men malagevole l'imitarlo in quelle che in queste. L'Arte Poetica che contiene per altro savissimi ammaestramenti, è sembrata a molti non troppo bene ordinata. Quindi Daniello Einsio ha creduto che per negligenza de' copisti sia essa stata scompaginata e sconvolta; e alcuni passi ne ha egli voluto trarre dal luogo in cui erano, e porgli ove parevagli più opportuno (59) . Una somigliante impresa, benchè per diversa maniera, ha tentata il celebre presidente Bouhier, il quale però non so se abbia pubblicata l'Arte Poetica così da se riordinata. [p. 184 modifica]a. Solo io ho veduta una sua dissertazione (Mélanges de m. Michault, t. 1. art. 2) su questo argomento, ove ne parla come di cosa già eseguita (60) . Ad altri nondimeno ne sembra diversamente, e un giusto ordine riconoscono essi nella Poetica di Orazio, e le sue parti e le sue divisioni tra loro ottimamente connesse. Veggasi singolarmente il Dacier (préf. à l'art. Poét.) e l'ab. Goujet (Biblioth. franc. t. 3, p. 63, ec.) il quale ha trattato diligentemente di questo punto, e esposta ha ancor lungamente una contesa che sulla spiegazione di un passaggio dell'Arte Poetica si accese tra il suddetto Dacier e il marchese di Sevignè.

XVIII. L'ultimo de' tre poeti da noi mentovati poc'anzi è P. Virgilio Marone. Alcuni antichi gramatici ne scrisser la Vita, e tra essi più lungamente degli altri Tiberio Donato di cui non sappiamo a qual età precisamente fiorisse; ma ei fu certamente posteriore a Seneca che da lui è citato. Tra' moderni assai diligentemente l'ha scritta il p. Carlo la Rue, e amendue queste Vite sono state dal Masvicio premesse alla bella edizion di Virgilio da lui fatta in Leovardia l'an. 1717. Noi da esse raccoglieremo ciò che vi ha di più degno a sapersi, aggiugnendo ove fia d'uopo ciò che più sarà opportuno a meglio illustrare la storia di sì famoso poeta. Un picciol villaggio del Mantovano detto allora Andes ne fu la patria. Il m. Maffei ha creduto di poterci determinatamente indicare ove fosse situato, e a lui pare che altro esser non possa che una terricciuola presso il confin veronese, che or appellasi Bande. Si posson presso lui (Verona Illustr. par. 2, ubi de Catullo) vedere le conghietture a cui appoggia questa sua opinione (61) .

(1) Melanges de M. Michault t. I. IO BibKoth. Frane, t. IH. p. 65.ee Art. U. (4) Verona Illulir. P. IL ubi de Ca(2) Pre£ à l’Art Poet. tulio. [p. 185 modifica]Roma 683 essendo consoli la prima volta Pompeo e Licinio Crasso a' 15 d'ottobre. Lascio da parte i prodigi che all'occasion di sua nascita avvennero al dir di Donato. Al giorno d'oggi il rammentare prodigi è lo stesso che risvegliare le risa; e per ciò che appartiene a questi di cui ora parliamo, volentieri li ripongo io pure tra' puerili racconti. In Cremona primi, poscia in Milano, come anche la Cronaca eusebiana racconta, e finalmente in Napoli attese agli studj della filosofia in cui ebbe a maestro un cotal Sirone epicureo (Servius ad Ecl. 6. Virg.) della matematica e singolarmente della poesia. Anzi vi ha chi pensa che in quella prima era scrivesse alcuni di que' piccioli componimenti che vanno sotto il suo nome, e che in molte edizioni delle sue opere si veggono impressi sotto il nome di Catalecta. Taluno di essi si vuol da alcuni che abbia veramente avuto ad autore Virgilio. Ma troppo deboli sono gli argomenti a provarlo, se se ne tragga quello della zenzala, latinamente culex, su cui certo Virgilio avea verseggiato (V. Fabric. Bibl. lat. l. 1, c. 12). Donato aggiugne ch'egli poscia sen venne a Roma, e che fu introdotto per maniscalco nella corte d'Augusto. Ma sì sciocche e sì inverisimili sono le cose ch'egli a questa occasione ci narra, che tutto questo racconto deesi a ragione avere per favoloso. E osserva il p. la Rue, che dalla prima egloga di Virgilio, in cui non vi ha dubbio alcuno che sotto il nome di Titiro non ci volesse rappresentare se stesso, raccogliesi chiaramente che Virgilio non venne a Roma che all'occasione della divisione di campagne, che a que' tempi si fece tra' soldati di Ottavio e di Antonio. Tra quelle che rapite furorno agli antichi loro padroni per darle in ricompensa al valor militare ebbevi un picciol podere che Virgilio avea sul Mantovano da cui egli si vide violentemente cacciato. Venne egli dunque a Roma, e adoperossi tanto felicemente che ottenne di rientrare al possesso del suo podere. La divi

(1) Servius ad EcK VI. Vhfr (a) V. Fabric. Bibl. lat. lib. I. e XIL [p. 186 modifica]

sion di campagne, e quindi la venuta di Virgilio a Roma, accadde l’anno 612 secondo il parere di tutti gli antichi Scrittori. E’ dunque falso, come il Bayle74 ed altri hanno già osservato, ciò, che da alcuni raccontasi, cioè che Cicerone udito avendo Virgilio, mentre recitava alcuni suoi versi, preso egli pure da estro poetico, ma in mezzo all’estro non dimenticando le sue proprie glorie, esclamasse: Magnæ spes altera Romæ. Ciò, dissi, è falso; perciocché Cicerone già da due anni era morto.

XIX. La venuta di Virgilio a Roma, e i versi, ch’egli cominciò a comporre e a pubblicare, gli dierono occasione di essere conosciuto da Mecenate e da Augusto, dell’amicizia e della protezione de’ quali godé egli poscia costantemente. L’Egloghe furono le prime Poesie, che il renderono illustre. Prese in esse ad imitare Teocrito, e l’imitator certamente o superò il suo originale, o almen pareggiollo. Veggasi ciò, che si è detto nella Parte seconda di quest’opera, ove si è parlato di Teocrito. Nella Vita scrittane da Donato si dice, che tre anni egli impiegasse a comporle; e che l’altra opera, a cui poscia per imitare Esiodo si accinse, cioè le Georgiche, in sette anni da lui fosse condotta a fine75. Egli intraprese finalmente il gran Poema dell’Eneide, intorno a cui affaticossi lo spazio di undici o dodici anni. E nondimeno non era egli ancor pago del suo lavoro. Quindi portossi in Grecia, ove godendo di un più dolce riposo pensava di dargli l’ultimo compimento. Ma avvenutosi in Augusto, che l’anno 734 tornava di Grecia a Roma, e invitato ad unirsegli nel viaggio, giunto a Brindisi vi morì a’ 22 di Settembre in età di presso a cinquantun’anni; intorno alla qual epoca si posson vedere le riflessioni del Bayle76. Vicino a morte, come racconta Donato, chiese più volte della sua Eneide, risoluto di gittarla alle fiamme come cosa non ancora compiuta, e perciò non degna di sopravvivergli. Ma a ciò opponendosi i suoi confidenti a [p. 187 modifica] amici, che gli assistevano, Tucca e Vario, comandò nel suo testamento, ch’essa fosse bruciata. E perché essi gli fecero intendere, che Augusto non l’avrebbe permesso, allora diella lor nelle mani, ma a patto, che né cosa alcuna vi aggiugnessero, e i versi ancora, che da lui non erano stati finiti, lasciassero così, com’erano, imperfetti. Essi nondimeno per comando d’Augusto emendarono in qualche parte il Poema; ma non si ardirono, come scioccamente hanno osato di fare alcuni moderni, né di aggiugnere un nuovo libro all’Eneide, né di compire i versi, ch’eran rimasti imperfetti. I versi, che sotto il nome d’Augusto abbiamo alle stampe, con cui comanda, che non diasi alle fiamme l’Eneide, appena vi ha chi li creda da lui composti.

XX. Varj aneddoti intorno a Virgilio si leggono nella Vita scrittane da Donato; ma tante cose in essa si incontrano inverisimili e false, che è troppo difficile l’accertare, quali sian le vere. Nulla dirò io pure delle puerili inezie, che sono state scritte da alcuni intorno alla Magia da Virgilio appresa ed esercitata. Il Naudè lo ha bravamente difeso nella sua Apologia degli uomini dotti accusati di Magia. E lungamente ne parla anche il Bayle. Ciò che è costante presso tutti si è, che Virgilio fu di dolce indole e di piacevoli maniere, modesto nel conversare, sincero amico, e da Augusto, da Mecenate, da Orazio, e da tutti i più celebri uomini di quella età sommamente amato. Un frammento di lettera da lui scritta ad Augusto ci ha conservata Macrobio77, in cui troppo bene ci fa egli conoscere la sua modestia, perché qui debba essere ommesso: Ego vero frequentes a te 115 literas accipio... De Ænea quidem meo, si me hercule jam dignum auribus haberem tuis, libenter mitterem; sed tanta inchoata res est, ut pœne vitio mentis tantum opus ingressus mihi videar; cum præsertim, ut scis, alia quoque studia ad id opus multoque potiora impertiar. Ma questa sua modestia non tolse, che in sommo onore non fosse egli in Roma; che sembra anzi, che tanto più volentieri si dian le lodi ad alcuno, quanto più ei se ne mostra schivo e nemico. Accadde talvolta, che recitati essendosi in teatro alcuni suoi versi, tutto il popolo levossi in piedi, e a Virgilio, che vi [p. 188 modifica] levossi in piedi, e a Virgilio, che vi era presente, prestò quel rispetto e quell’onore medesimo, che render soleva ad Augusto78 . XXI. Gli elogj, de’ quali è stato onorato Virgilio, son tali, quali appunto convengono al Principe de’ Latini Poeti. Quintiliano il chiama Autore eminentissimo79, e uomo di finissimo intendimento80, e parlando de’ Latini Poeti lo dice il primo, e in tal maniera ne forma il paragon con Omero81

Itaque ut apud illos Homerus, sic apud nos Virgilius auspicatissimum dedit exordium,

omnium ejus generis Poetarum Græcorum nostrorumque illi haud dubie proximus. Utar enim verbis eisdem, quæ ex Afro Domitio juvenis accepi, qui mihi interroganti, quem Homero crederet maxime accedere: secundus, inquit, est Virgilius, propior tamen primo quam tertio. Et hercle, ut illi naturæ cælesti atque immortali cesserimus, ita curæ & diligentiæ vel ideo in hoc plus est, quod ei fuit magis laborandum, & quantum eminentioribus vincimur, fortasse æqualitate pensamus. Più breve, ma forse ancor più magnifico, si è l’elogio, che gli fa Macrobio: Homericæ perfectionis per omnia imitator Maro, nullius disciplinæ expers, & Quem nullius disciplinæ error involvit82. Al qual proposito, oltre molti altri trattati di tal natura, degno è singolarmente d’essere letto il Saggio sopra la scienza militare di Virgilio del Conte Francesco Algarotti. Molti de’ moderni Scrittori han preso a fare il confronto di Virgilio e d’Omero, e diversi sono i pareri, chi de’ due debba all’altro anteporsi. Nel che è avvenuto, come in più altri argomenti, che lo spirito di partito più che l’amore del vero abbia per lo più condotta la penna degli Scrittori. Altri per innalzare Virgilio hanno oltre il dovere abbassato Omero: altri non riconoscon Poeta alcuno, trattone Omero, e fanno di Virgilio un imitatore servile e poco men che plagiario. A me pare, che più giustamente di tutti abbiano scritto su questo argomento il P. Rapin83, e l’Abate Trublet84, benché quegli ampiamente e saggiamente abbia esaminati e confrontati tra loro amendue i Poemi; questi in brevi tratti, e talvolta un po’ raffinati, abbia unicamente adombrati i lor diversi caratteri. [p. 189 modifica]nati e confrontati tra loro amendue i Poemi; questi in brevi tratti, e talvolta un po’ raffinati, abbia unicamente adombrati i lor diversi caratteri. Di questo secondo recherò io qui qualche parte: Homere, dic’egli, est plus Poete; Virgile est un Poete plus parfait. Le premier possede dans un degré plus eminent quelquesunes des qualités, que demande la Poesie; le second rèunit un plus grand nombre de ces qualités, et elles se trouvent toutes chez lui dans la proportion la plus exacte. L’un cause un plaisir plus vif; l’autre un plaisir plus doux... L’homme de génie est plus frappé d’Homere; l’homme de goût est plus touché de Virgile... Il y a plus d’or dans Homere; ce qu’il y en a dans Virgile est plus pur & plus poli... L’Eneide vaut mieux que l’Iliade; mais Homere valoit mieux que Virgile. Une grande partie des defauts de l’Iliade sont ceux du siecle d’Homere; les defauts de l’Eneide son ceux de Virgile. Il y a plus de fautes dan l’Iliade, & plus de defauts dans l’Eneide... Il y a plus de talent et d’abondance dans Homere, plus d’art et de choix dans Virgile &c. Un altro confronto, ma di diversa maniera, ha fatto Macrobio tra questi due Poeti, il qual merita di essere letto, perciocché egli ha diligentemente raccolti tutti i passi, ne’ quali Virgilio o ha tradotto, o ha imitato Omero; e inoltre tutti i versi, che Virgilio o interamente o in parte ha preso da’ più antichi Poeti Latini. Ma de’ diversi sentimenti di quegli, che hanno fatto il paragone di Virgilio con Omero veggasi singolarmente il Baillet, che assai lungamente li riferisce85 . Una cosa sola aggiugnerò qui io su questo argomento, cioè, che comunque si conceda ad Omero la preferenza sopra Virgilio, a gran lode di questo deesi però ascrivere, che non con Omero soltanto, ma con due altri de’ migliori Poeti Greci prendesse a gareggiare egli solo, e gli imitasse per modo, che non fosse così agevole a diffinire, se non abbiali superati, o uguagliati almeno86 .

(*) Merita ancora di e/Ter Ietto Piti- tolga punto delle meritate Iodi al Poeta gegnofo e giufto confronto, che ha pò- Greco, fi moftra nondimeno più favorefeia fatto il fopraccitato Ab. Andres tra vole al Latino, e analizza diligentemenOmero e Virgilio, e tra’ lor Poemi te ratte le particelle quali gli fembra, (Del? Origine e progreffi cToqni Le t ter. che il fecondo fuperi il primo • r. IL p. USO, nel quale, benché non (i) Jugement des Scavans t. IIL p. 214, &c [p. 190 modifica] XXII. Edizioni, Comenti ec. XXII. Infinite sono le edizioni, le dichiarazioni, i comenti, le traduzioni in ogni lingua, che delle opere di Virgilio abbiamo alle stampe. Il diligente Fabricio più pagine ha impiegato a noverarne le principali14, e molte nondimeno ne ha tralasciate, parte perché a lui non note, parte perché pubblicate dopo l’edizione della sua Biblioteca. E per parlare solo delle Egloghe, quattro o cinque nuove traduzioni Italiane ne abbiamo avuto in questi ultimi anni. Ma, come già ho detto, non è qui mia intenzione di favellarne. Al fine di questo volume accennerò alcune delle migliori. Si può vedere ancora ciò, che intorno a Virgilio ha scritto l’Ab. Goujet15, il quale annovera eruditamente e discorre di tutti i libri, che in Francia sulle Poesie di Virgilio, o contro di esse, o a lor difesa, e su varj passi del Poema si son pubblicati. Io non ho fatta menzione degli osceni Epigrammi, che sotto il nome di Priapeja sono stati in alcune edizioni aggiunti alle Poesie di Virgilio. Ma intorno al vero autore di essi vi ha quasi tanti pareri, quanti Scrittori. A me certo non pare, che il carattere comunemente modesto di Virgilio ci permetta il crederlo autore di tante laidezze; e più probabil fra tutte mi sembra l’opinion di coloro, che pensano, ch’ella sia una raccolta di Poesie di diversi Poeti, tra’ quali possa avervi avuta parte Virgilio ancora, e Catullo, e Ovidio, ed altri16.

XXIII. Notizie, e carattere di Properzio.

XXIII. Sesto Aurelio Properzio richiede a ragione di non andare disgiunto da’ tre Poeti, di cui abbiam finora parlato. Assai scarse son le notizie, che ne abbiamo. Poco di sé stesso, e quasi solo de’ suoi amori egli parla nelle sue Elegie. Caro ad Augusto e a Mecenate canta spesso le loro lodi; e quindi è certo, che a’ loro tempi egli visse; anzi è evidente, che egli scriveva fino da’ primi tempi d’Augusto, perciocché un’Elegia abbiamo da lui composta per la battaglia di Azzio17. Certo è ancora, ch’egli fiorì di mezzo a Tibullo e ad Ovidio; perciocché questi parlando di Tibullo dice18: [p. 191 modifica]

Successor fuit hic tibi, Galle: Propertius illi;
Quartus ab his serie temporis ipse fui.

Nacque nell’Umbria, come egli stesso afferma19; ma in qual Città precisamente nè egli il dice, nè verun altro antico scrittore. Quindi, come suole avvenire, non vi ha quasi Città nell’Umbria, che nol voglia suo. Ognuna ne adduce argomenti e pruove, che a lei sembrano convincenti, ma che dalle altre si giudicano di niun peso in confronto alle loro. Veggansi intorno a questa contesa la prefazione del Brouckuse all’edizion di Properzio da lui premessa a’ suoi comenti su questo Poeta, il Giornale de’ Letterati d’Italia20, le Memorie di Trevoux21, gli Atti di Lipsia22, e singolarmente la Nuova Raccolta di opuscoli scientifici23ec., in cui una lunga ed erudita Dissertazione si legge di Monsig. Fabio degli Alberti Vicario Generale di Sinigaglia, nella quale con assai forti argomenti dimostra, che la Patria di Properzio fu Bevagna. Il Volpi conghiettura, che l’importuno ciarlone, cui sì elegantemente deride Orazio24, altri non fosse che Properzio. Ma troppo deboli sono tai conghietture, nè par verisimile, che Orazio parlasse con tal disprezzo di un egregio Poeta. Callimaco e Fileta Poeti Greci furon quegli, ch’egli nelle sue Elegie prese ad imitare, e aprì in tal modo una nuova strada a’ Latini Poeti, com’egli stesso si vanta25. Il suo stile in fatti non è lo stil di Catullo, nè quel di Tibullo. Superiore ad amendue nella vivacità della fantasia e nella forza dell’espressione, è nondimeno inferiore nella grazia al primo, nella facilità e nell’affetto al secondo. Le sue Poesie ci mostran lo studio, che de’ Poeti Greci avea egli fatto, perciocché piene sono di favole, di figure, di espressioni Greche, che loro accrescono gravità e forza non ordinaria.

XXIV. A questa età medesima appartiene Grazio dalla sua patria soprannomato Falisco. Appena sapremmo, a qual tempo egli fosse vissuto, se Ovidio non avesse di lui e del suo Poema fatto menzione nel distico stesso, in cui parla di Virgilio, e con ciò indicato, che presso al tempo medesimo vissero amendue: [p. 192 modifica]

Tityrus antiquas & erat qui pasceret herbas:
Aptaque venanti Gratius arma daret
26.

Della caccia adunque, che si fa coi cani, scrisse egli un Poema intitolato Cynegeticon, non indegno del tempo, a cui egli visse. Erasene nondimeno perduta ogni memoria, e solo l’anno 1534 videsi uscire alla luce, benché mancante del finimento, dalle stampe di Paolo Manuzio per opera di Giorgio Logo, il quale ebbelo tratto da un antico codice, che il Sannazzaro avea seco portato in Italia tornando di Francia, ove forse era stato prima dall’Italia trasportato.

XXV. A questi Poeti, che vissero e morirono a’ tempi di Augusto, e le cui opere ci son pervenute, più altri voglionsi aggiugnere, le Poesie de’ quali si sono infelicemente smarrite, o se alcune leggonsi sotto il lor nome, non è abbastanza certo, ch’essi ne siano autori. Tra questi il più degno di lode pare che fosse C. Cornelio Gallo, seppure gli eruditi Maurini Autori della Storia Letteraria di Francia ci permettano di chiamarlo Italiano. Essi senza punto esitare ci assicurano, che Cornelio Gallo... nacque a Frejus nella Gallia Narbonese27. Ma a non parere di averlo asserito senza alcun fondamento, aggiungono a piè di pagina questa nota: Siccome la parola latina, di cui si val S. Girolamo (nella Cronaca Eusebiana, ove il chiama Forojuliensis) per segnar la patria di Gallo, significa e la Città di Frejus in Provenza, e il Friuli in Italia, alcuni Italiani seguiti da alcuni moderni Francesi l’hanno intesa in questo ultimo senso. Ma sembra indubitabile, che si debba intender di Frejus, che era allora una Colonia Romana più celebre che non il Friuli. Ed ecco la prima ragione, per cui sembra indubitabile, che Cornelio Gallo nascesse in Frejus anzi che nel Friuli. Frejus era una Colonia più celebre che non il Friuli. Ma come provasi ciò? E qual autorità se ne adduce? Senza che qual argomento è questo? Frejus era Colonia più celebre che non il Friuli: dunque San Girolamo dicendo Gallo Forojuliese intende parlar di Frejus e non del Friuli. Dunque perché, a cagion d’esempio, Valenza di Spagna è più celebre che non Valenza di Francia, o Valenza d’Italia, basterà il dire, che uno fu natio di Valenza, perché si [p. 193 modifica]debba intender senz’altro, che e’ fu Spagnuolo? Ma veggiamo quali altre ragioni si arrechino a provarlo: Per altra parte, oltrecché il nome di Gallo significa un uomo Gallo di origine, S. Girolamo disegna qui il luogo fisso della nascita di questo Poeta, anzi che il nome generale e indeterminato del suo paese. Due ragioni per vero dire fortissime. Il nome di Gallo suppone un uomo di origine Gallo. Sarebbe difficil cosa a provarlo. Pur si conceda. Ma di qual Gallia? Non poteva egli essere della Cisalpina, cioè dell’Italia, a cui appunto secondo molti apparteneva anche il Friuli? In oltre non potevano forse i suoi primi Antenati essere stati ancora, se così si voglia, oriondi dalla Gallia Narbonese; e i lor discendenti passati già da molto tempo in Italia? Che poi S. Girolamo segni qui il luogo preciso della nascita di Gallo, e non il suo paese in generale, primieramente come pruovasi mai? In oltre il nome di Forum Julii significa egli forse solo il Friuli in generale, o non anche una Città di esso collo stesso nome chiamata, e che or dicesi Cividal del Friuli? Non pare dunque indubitabile, che Cornelio Gallo fosse nativo di Frejus, e non se ne adduce a provarlo ragione alcuna. Anzi Monsignor Fontanini28, e dopo lui il Signor Gian Giuseppe Liruti29 assai buoni argomenti arrecano a provare, ch’egli nacque in Cividal del Friuli; e quindi tale opinione, se non indubitabile, sembra certo assai più probabile che non la contraria. Io non tratterrommi a riferire gli accennati argomenti, che altro non potrei far che ripetere ciò, che si è detto da questi Autori, cui potrà consultare chi di ciò sia vago30. [p. 194 modifica] XXVI. I citati Maurini il fanno nascere verso l’anno 688 di Roma. Ma si può più precisamente determinare col Fontanini l’anno 685 essendo certo, come lo stesso autore dimostra, che egli morì in età di 43 anni l’anno 728. La Serie della Vita da lui condotta e degli onorevoli impieghi da lui sostenuti è diligentemente descritta da’ due mentovati Autori, che a lungo, e il Fontanini singolarmente, hanno trattato questo punto di Storia. Io accennerò solamente, ch’egli ebbe stretta amicizia con Asinio Pollione, di cui poscia avremo a parlare; che fu uno de’ più confidenti amici di Virgilio, e forse il principale autore della grazia di Mecenate, di cui questi godette; che da Augusto fu adoperato nella guerra contro di Antonio e di Cleopatra, in cui dié pruove di militare coraggio e di singolare prudenza; e che da lui ancora gli fu affidato il governo di tutto l’Egitto. Ma poscia per varie accuse a lui date presso ad Augusto ed al Senato Romano spogliato di tutti i beni, ed esiliato, da sé medesimo si uccise l’anno 728 come si è detto. Se veri fossero o falsi i delitti apposti a Cornelio Gallo, lungamente si esamina dal Fontanini, a cui pare, che almeno in gran parte ei ne fosse innocente.

XXVII. Delle Poesie di Gallo quasi niun frammento non ci è rimasto. Ma egli è certo, che per esse fu in gran nome. Virgilio ne parla con lode nell’Egloga X, che dal nome di esso volle intitolata; e Servio comentando l’Egloga stessa afferma, che molti versi di Gallo avea Virgilio in essa inseriti. Anzi racconta Donato31, che l’ultima parte del quarto libro delle Georgiche avea egli consecrata alle lodi dell’amico Poeta; ma che poscia per comando di Augusto le tolse, e vi sostituì la favola di Aristeo. Alcuni, e singolarmente il P. la Rue, hanno su questo punto mosse difficoltà, alle quali dal Fontanini si è fatta risposta. Ovidio ancora ne parla in più luoghi con somma lode. Ci basti l’arrecarne due passi:

Gallus & Hesperiis, & Gallus notus Eois,
Et sua cum Gallo nota Lycoris erat32
.
E altrove: 33
Quis potuit lecto durus discedere Gallo?

[p. 195 modifica]Né con minor elogio parlan di lui Properzio107, Marziale108, ed altri antichi. Anzi un certo Partenio

di Nicea, che a que’ tempi viveva in Roma, scritto avendo un libro in Greco su gli effetti d’amore, a lui dedicollo. Quattro libri di Elegie avea egli scritto in lode della sua Licoride; e più libri di Euforione avea dal Greco in Latin linguaggio recati. Il Poemetto intitolato Ciris, che in certe edizioni si aggiugne all’opere di Virgilio, a cui da alcuni è stato attribuito, da altri credesi esser veramente di Gallo. Di questo parere è il Fontanini, e presso lui si posson vedere le ragioni, che ne arreca109. Ciò che è certo si è, che le Elegie, che sono stampate col nome di Gallo, non sono suo lavoro. Fu Pomponio Gaurico, che al principio del XVI secolo le pubblicò; ma la frode fu tosto da alcuni Italiani scoperta; e comunemente si crede, che esse siano di un certo Massimiano Etrusco, che fiorì a’ tempi di Boezio, e di cui a suo tempo ragioneremo. Intorno a che veggasi il più volte citato Mons. Fontanini.

XXVIII. Degli altri poeti, che a questo tempo fiorirono, io non farò, che accennar brevemente i nomi e le cose più memorabili, che di essi sappiamo. E primieramente il dottissimo M. Terenzio Varrone, di cui poscia avremo a parlar lungamente, fu Poeta egli pure, e un gran numero singolarmente scrisse di satire miste di prosa e di versi a varj metri, che da Menippo Poeta Greco, il quale fu il primo a darne l’esempio, ebbero il nome di Menippee110. Non parlo qui di un altro Varrone detto Atacino, perché a ragione potrebbon di noi dolersi i Francesi, che dopo aver tolto loro Cornelio Gallo, questo ancora volessimo loro rapire, che per comun consenso degli antichi e moderni scrittori è detto Gallo di patria, cioè nato in Atace luogo della Gallia Narbonese. Giulio Cesare, che in mezzo al rumore dell’armi e al tumulto delle guerre civili seppe sì felicemente coltivare le scienze, fu buon Poeta; e un Poema fatto nel suo viaggio da Roma in Ispagna, e una sua Tragedia in età giovanile composta rammenta Svetonio111. Ma di questo grand’ [p. 196 modifica]uomo avremo poscia a parlare più lungamente. Un Cornificio Poeta, e una sua Sorella, di cui si dice leggersi tutt’ora insigni Epigrammi, si mentova nella Cronaca Eusebiana112. Di Cassio Parmigiano parla con somma lode Orazio113, e l’antico comentatore di questo Poeta ne loda assai le Elegie e gli Epigrammi, e aggiugne, che per ordin d’Augusto fu ucciso da Q. Varo, il quale trovato avendolo immerso ne’ suoi poetici studj, poiché l’ebbe ucciso, seco ne portò lo scrigno co’ libri; onde correva voce, che la Tragedia intitolata Tieste, che dicevasi composta da Varo, fosse veramente opera del Parmigiano Cassio. Questi è stato confuso dal Vossio con un altro Cassio, di cui pure ragiona Orazio114, Poeta esso pure, ma celebre solo per la quantità prodigiosa di versi ch’ei componeva, e di cui dice esser comune opinione, che fosse arso insiem con tutti i suoi versi. Questi è da lui detto Etrusco; e quindi parmi strano, che il Vossio, il quale pure amendue i passi di Orazio, e quello dell’antico comentatore al medesimo tempo ha recati, non abbia poi posto mente alla diversa patria, che loro assegna, e alle diverse cose, che di lor narra. Di questi e di altri Cassii si può vedere ciò che diffusamente disputa il Bayle115, e ciò che più brevemente insieme e più chiaramente ne dice il Marchese Maffei116. Di un Rabirio è fatta onorevol menzione da Ovidio:

Magnique Rabirius oris117

. Ma valoroso Poeta singolarmente esser dovea L. Giulio Calidio, di cui così parla Cornelio Nipote118

L. Julium Calidium, quem post Lucretii Catullique mortem multo elegantissimum Poetam

nostram tulisse ætatem, vere videor posse contendere. Vario ancora e Tucca, i due grandi amici di Virgilio e di Orazio, esser dovettero eccellenti Poeti. Certo di Vario parla Orazio con grande elogio, singolarmente ove dice: Scriberis Vario, fortis & hostium Victor, Mœnio carminis aliti119 [p. 197 modifica]Scriberis Vario, fortis & hostium Victor, Mœnio carminis aliti119 . Emilio Macro Veronese di patria scrisse in versi dell’erbe, de’ velenosi serpenti, e degli uccelli. Di lui parla Ovidio:

Sæpe suas volucres legit mihi grandior ævo;
Quæque nocet serpens, quæ iuvet herba, Macer120

Intorno a questo Poeta più cose si posson vedere presso il M. Maffei121. Vuolsi però avvertire, che un Poemetto su tale argomento, che ora abbiamo sotto il nome di Emilio Macro, è di autore assai 119 più recente, come osserva lo stesso Marchese Maffei. Di questi tempi fu pure C. Pedone Albinovano. Vuolsi da alcuni, che a lui appartengano tre Elegie inserite ne’ Cataletti attribuiti a Virgilio, e che separatamente ancora sono state stampate sotto il nome di Albinovano, e fralle altre edizioni in quella di Amsterdam l’anno 1703 colle note di Teodoro Goral, ossia di Giovanni le Clerc, che sotto un tal nome si ascose. Ma altri vogliono, che sian di tempo e di autor posteriore122 . Egli avea ancora composto un Poema, rammentato da Ovidio123 sulle azioni di Teseo, e più altre Poesie. E finalmente Cornelio Severo, a cui molti attribuiscono il poemetto intitolato Ætna, stampato in alcune edizioni colle Poesie di Virgilio, in altre co’ Cataletti, e separatamente nella mentovata edizione di Amsterdam124. Ma di questi meno illustri Poeti basti il detto fin qui. Più copiose notizie se ne potranno avere da chi le desideri presso i due più volte citati autori, dico il Fabricio e il Vossio, e presso il Funccio nell’erudita sua Storia della Virilità della lingua Latina.

XXIX. Più a lungo ci tratterrà P. Ovidio Nasone, di cui abbiam differito a parlare finora, perché, quantunque egli fiorisse a’ tempi di Augusto, toccò nondimeno ancor qualche parte di que’ di Tiberio. Ci ha fatto egli stesso nell’ultima Elegia del libro IV delle sue Poesie scritte in tempo del suo esilio, e da lui perciò intitolate Malinconiche, ci ha fatto, dico, un sì esatto racconto della giovanile sua vita, che appena ci rimane a esaminare cosa alcuna. Io ne farò qui un breve compendio, che non abbisogna di pruove, perciocché tratto dalla medesima Elegia [p. 198 modifica]Io ne farò qui un breve compendio, che non abbisogna di pruove, perciocché tratto dalla medesima Elegia. Narra egli dunque di sé medesimo, che era nato in Sulmona, Città che ora appartiene all’Abbruzzo, l’anno stesso, in cui morirono i due Consoli Irzio e Pansa, cioè l’anno di Roma 710; ch’era di antica equestre famiglia; che aveva un fratello maggior di un anno, insiem col quale mandato a Roma, e posto sotto la direzione de’ più celebri Precettori, che allor ci vivessero, mentre il fratello un singolar genio mostrava per l’eloquenza, egli al contrario sentivasi unicamente allettare dalla Poesia; che sgridato dal Padre e ripreso, perché abbracciasse uno studio, per cui invano sperato avrebbe di arricchire, sforzavasi egli pure di applicarsi all’eloquenza: ma che mentre prendeva a scrivere in prosa, faceva, quasi suo malgrado, de’ versi; che finalmente in età di venti anni gli morì il fratello, ed egli cominciò ad entrare nelle cariche della Repubblica; ma che venutigli a noja cotali onori, abbandonò ogni cosa, e di altro più non curossi che della Poesia. Annovera quindi i Poeti da lui conosciuti e trattati, le diverse Poesie, che ne’ primi anni compose, le tre mogli, che una dopo l’altra egli ebbe, la figlia, che dalla terza gli nacque, e i nipoti, che questa gli diede, la morte finalmente de’ suoi Genitori accaduta non molto prima del suo esilio. Ed eccoci giunti al famoso esilio di Ovidio, su cui da molti molto si è scritto, e di cui ciò non ostante non è ancor certo il vero motivo. Penso, che non sarà cosa ingrata a chi legge, se entrerò io pure a trattare sì famosa quistione, e che non sarà questa mia fatica mal impiegata, quando qualche nuova luce mi venga fatto di arrecarle.

XXX. Tre cose sono a cercare intorno all’esilio di Ovidio. I. In qual tempo accadesse. II. Qual ne fosse il motivo. III. Quanto tempo durasse. La prima e la terza quistione sono tanto più facili a sciogliersi, quanto è più difficile la seconda. Per riguardo alla prima, Ovidio dice, che egli dieci lustri ossia cinquant’anni avea felicemente passati, quando fu costretto a partire da Roma: Jamque decem lustris sine labe peractis Parte premor vitæ deteriore meæ125 . Egli è vero, che altrove sembra accennare, che sol ne avesse quaranta, perciocché dice, che dalla sua nascita eran trascorse dieci Olimpiadi: Postque meos ortus Pisæa vinctus Oliva Abstulerat decies præmia victor eques126 . Ma a non credere, che Ovidio contraddica tanto a sé stesso, convien dire, ch’egli prendesse un’Olimpiade per lo spazio di cinque anni, come osserva il Vossio127 aver fatto anche il Poeta Ausonio. Essendo dunque, come sopra si è detto, nato Ovidio l’anno 710, necessariamente raccogliesi, che circa l’anno 760 ei fu esiliato. Dissi circa l’anno 760, perché dieci lustri, o le dieci Olimpiadi da Ovidio nominate non bastano a farci credere, che egli con tali parole voglia precisamente determinare il cinquantesimo anno di sua vita; che Poeta egli era, e non già Cronologo; e poteva perciò usar di que’ termini, ancorché i dieci lustri o fossero oltrepassati di 120 poco, o non fosser per anco interamente compiti. Ma il P. Bonin in una sua Dissertazione inserita nelle Memorie di Trevoux128 ha preteso di persuaderci con Astronomiche dimostrazioni, che l’anno 760 appunto fu precisamente quello, in cui Ovidio fu rilegato. A dimostrarlo, oltre le ragioni da noi recate, e che non pruovano se non che ciò accadde circa quel tempo, egli osserva, che Ovidio, come egli stesso ci mostra129, partì per l’esilio poco innanzi al Dicembre, poiché in questo mese ei navigava sull’Adriatico, e che partì di notte avanzata e cadente, mentre la Luna era alta sull’Orizzonte, e mentre Venere già spuntava in Cielo130. Egli stabilisce in oltre, che Ovidio compisse il cinquantesim’anno di età nell’anno di Roma 761, perché segue l’opinione di quelli, che ritardan di un anno il cominciamento de’ Consoli, e quindi pone il Consolato d’Irzio e di Pansa nell’anno 711. Ciò presupposto egli si vale delle Tavole Astronomiche del Cassini, e dimostra, che nell’anno 761, ed anche nel seguente anno 762 Venere non vedevasi verso il Dicembre [p. 199 modifica] quaranta, perciocché dice, che dalla sua nascita eran trascorse dieci Olimpiadi:

Postque meos ortus Pisæa vinctus Oliva
Abstulerat decies præmia victor eques126

. Ma a non credere, che Ovidio contraddica tanto a sé stesso, convien dire, ch’egli prendesse un’Olimpiade per lo spazio di cinque anni, come osserva il Vossio127 aver fatto anche il Poeta Ausonio. Essendo dunque, come sopra si è detto, nato Ovidio l’anno 710, necessariamente raccogliesi, che circa l’anno 760 ei fu esiliato. Dissi circa l’anno 760, perché dieci lustri, o le dieci Olimpiadi da Ovidio nominate non bastano a farci credere, che egli con tali parole voglia precisamente determinare il cinquantesimo anno di sua vita; che Poeta egli era, e non già Cronologo; e poteva perciò usar di que’ termini, ancorché i dieci lustri o fossero oltrepassati di 120 poco, o non fosser per anco interamente compiti. Ma il P. Bonin in una sua Dissertazione inserita nelle Memorie di Trevoux128 ha preteso di persuaderci con Astronomiche dimostrazioni, che l’anno 760 appunto fu precisamente quello, in cui Ovidio fu rilegato. A dimostrarlo, oltre le ragioni da noi recate, e che non pruovano se non che ciò accadde circa quel tempo, egli osserva, che Ovidio, come egli stesso ci mostra129, partì per l’esilio poco innanzi al Dicembre, poiché in questo mese ei navigava sull’Adriatico, e che partì di notte avanzata e cadente, mentre la Luna era alta sull’Orizzonte, e mentre Venere già spuntava in Cielo130. Egli stabilisce in oltre, che Ovidio compisse il cinquantesim’anno di età nell’anno di Roma 761, perché segue l’opinione di quelli, che ritardan di un anno il cominciamento de’ Consoli, e quindi pone il Consolato d’Irzio e di Pansa nell’anno 711. Ciò presupposto egli si vale delle Tavole Astronomiche del Cassini, e dimostra, che nell’anno 761, ed anche nel seguente anno 762 Venere non vedevasi verso il Dicembre che alla sera; dunque nell’anno 760 veramente, in cui Ovidio entrava nel cinquantesimo di sua vita, egli fu esiliato. Ma è cosa troppo mal sicura il fon [p. 200 modifica]dare calcoli Astronomici su’ versi de’ Poeti. In primo luogo non è abbastanza certo, che il Consolato d’Irzio e di Pansa cadesse nel 711 e l’opinione ora più ricevuta lo stabilisce nel 710. In oltre si ha egli a credere, e ci può egli assicurare il P. Bonin, che Ovidio vedesse veramente Venere allora, quando altro certo doveva avere pel capo, che osservare i pianeti? A me sembra anzi probabile, ch’egli parli a quel luogo secondo il costume de’ Poeti, che, di qualunque giorno essi parlino, il fanno o torbido o sereno, non com’esso fu veramente, ma come la fantasia o il capriccio lor suggeriscono, e come al loro argomento torna più opportuno. Conchiudiam dunque, che certamente Ovidio fu esiliato verso l’anno 760 di Roma, e in età di presso a 50 anni, ma che non abbiam quanto basta a determinarne l’anno precisamente.

XXXI. Così potessimo a un di presso determinar la cagione di questo esilio. Ma qui è appunto, ove incontrasi la maggiore difficoltà. Ovidio ne parla sempre in aria misteriosa ed oscura, a guisa d’uomo, che vorrebbe pur, ma non osa, chiaramente spiegarsi. Niun Autore a lui coetaneo o posteriore di poco ne fa menzione, e il primo, ch’io sappia, che abbiane qualche cosa accennato, è Sidonio Apollinare autore del quinto secolo, di cui più sotto diremo, e troppo perciò lontano dall’età di Ovidio, per poterci ciecamente affidare alla sua opinione. Perciocché quanto ad Aurelio Vittore, che pur ne ragiona nell’Epitome de vita & moribus Imperatorum, questa vuolsi comunemente opera di autor più recente131. Or come venire in chiaro di una cosa, di cui non vi ha antico monumento, che ci istruisca, anzi di cui pare, che siasi usato ogni sforzo per tenerci al bujo? Quindi non è maraviglia, che i moderni Autori dividendosi in varj pareri qual uno qual altro motivo abbian recato di questo esilio. Sia lecito a me ancora entrare in questa oscura quistione, che troppo bene è connessa coll’argomento, di cui io scrivo. Per procedere con chiarezza esaminerò prima i diversi passi, in cui Ovidio ce ne favella, perciocché alcuni di essi non sono stati ancora bene osservati. Mostrerò in secondo luogo, che niuna delle sentenze finor proposte non si può sostenere a confronto de’ [p. 201 modifica]passi di Ovidio, che avrò allegati. Proporrò per ultimo una opinione, che non so, che da altri sia stata ancora proposta; non perché io voglia sostenerla per vera, ma solo per soggettarla all’esame degli eruditi, e perché essi possano giudicare, qual fondamento ella abbia.

XXXII. E in primo luogo è certo, che due furono le ragioni, per cui Augusto il condannò all’esilio, cioè i versi osceni da lui composti, e un fallo da lui commesso, del qual fallo però Ovidio dice di non voler far motto, per non rinnovarne il dolore ad Augusto:

Perdiderint cum me duo crimina, Carmen, & Error,
Alterius facti culpa silenda mihi;
Nam tanti non sum, renovem ut tua vulnera, Cæsar,
Quem nimio plus est indoluisse semel.
Altera pars superest, qua turpi carmine lectus
Arguor obscœni doctor adulterii132.

Quanto agli osceni versi da lui composti, come è indubitabile, che molti pur troppo ei ne compose, onde non vi è forse tra gli antichi Poeti il più sozzo e il più disonesto, e come indubitabile è parimenti, che fu questo il motivo da Augusto allegato per condannarlo, poiché su questo singolarmente ei fa ad ogni passo le sue doglianze, così ancora pare evidente, che questo fosse un 121 apparente pretesto anzi che la vera ragione del suo esilio. Io non penso certo, che fosse Augusto tanto sollecito dell’onestà de’ Romani, che solo per versi osceni volesse rilegare Ovidio. Molti altri Poeti avrebbe egli dovuto per la ragione medesima cacciar di Roma; anzi se questo ne fosse stato il motivo, avrebbe egli dovuto sopprimere le Poesie, anzi che esiliare il Poeta; il che però non leggesi ch’egli facesse; e che nol facesse, cel persuade il vedere, che fino a noi esse son pervenute. Ma a che recar conghietture? Ovidio compose i libri d’amore in età ancor giovanile, e non fu dannato all’esilio, che in età di cinquant’anni, e, come egli si chiama, già vecchio:

Ergo quæ juveni mihi non nocitura putavi
Scripta parum prudens, nunc nocuere seni?133

E altrove: [p. 202 modifica]

Carmina cum primum populo juvenilia legi,
Barba resecta mihi bisve semelve fuit:
Moverat ingenium totam cantata per Urbem
Nomine non vero dicta Corinna mihi134.

Dunque in età già avanzata pagò egli la pena di quelle Poesie oscene, che giovane avea composte; e questo basta a farci conoscere, che non furono esse la vera, o almen la sola cagione del suo esilio; poiché non avrebbe Augusto indugiato tanto a punirlo. La vera, o certo la principal cagione di esso convien dunque cercarla nel fallo, ch’egli oscuramente accenna. Ma qual fallo fu questo? Osserviamo attentamente gli altri passi, in cui Ovidio ne parla.

XXXIII. Ovidio primieramente ripete l’origine della sua sventura dall’aver voluto troppo innoltrarsi nella familiarità co’ Grandi; perciocché scrivendo ad un suo amico lo esorta a tenersene lungi, il che se avesse egli fatto, non sarebbe forse in esilio:

Usibus edocto si quidquam credis amico,
Vive tibi, & longe nomina magna fuge.
Vive tibi, quantumque potes prælustria vita:
Sævum prælustri fulmen ab arce venit.
Hæc ego si monitor monitus prius ipse fuissem,
In qua debebam, forsitan Urbe forem135.

Dice in secondo luogo, che era bensì stato fallo ed errore quello, per cui trovavasi in esilio, ma non già delitto, e che da quel fallo non avea egli preteso di trarre vantaggio alcuno: Hanc quoque, qua perii, culpam scelus esse negabis, Si tanti series sit tibi nota mali136 . E in altro luogo parlando all’ombre de’ suoi Genitori:

Scite precor caussam (nec vos mihi fallere fas est)
Errorem jussæ, non scelus, esse fugæ137

. E altrove:

Nil igitur referam, nisi me peccasse; sed illo
Prœmia peccato nullam petita mihi138.

Aggiugne ancora, che la sua colpa era stata cagionata da errore


pri<t) Ib. lib. IV. El. X. (4) Ib. EI. X. (2) Ibid. lib. III. EL IV. (5) Lib.IH.Trift.ELVL (3) Lib. IV. Trifl El. IV. [p. 203 modifica]prima, e poscia ancor da timore, e ch’essa a lui solo era stata dannosa:

Aut timor, aut error: nobis prius obfuit error139
E più chiaramente altrove:
Est mea culpa gravis, sed quæ me perdere solum
Ausa sit, & nullum majus adorsa nefas.
Nec nisi non sapiens possum timidusque vocari:
Hæc duo sunt animi nomina vera mei140.

XXXIV. Ma questa colpa, questo qualunque siasi fallo, qual fu egli mai? Fu certamente l’aver a caso veduto un vergognoso e disonesto delitto:

Inscia quod crimen viderunt lumina, plector,
Peccatumque oculos est habuisse meum141
.
E altrove: 122
Nec breve, nec tutum est, quo sint mea dicere casu
Lumina funesti conscia facta mali142
.

Anzi in altro luogo con una similitudine, che arreca, sembra che accenni meno oscuramente il delitto, ch’egli vide, e per la vista del quale egli fu esiliato:

Cur aliquid vidi, cur noxia lumina feci?
Cur imprudenti cognita culpa mihi est?
Inscius Actæon vidit sine veste Dianam:
Præda fuit canibus non minus ille suis143
.

Di questo delitto però da lui veduto ei tenne un alto segreto, e non confidollo pure al più intrinseco amico, ch’egli avesse, come scrive a lui stesso, aggiugnendo, che forse, se glielo avesse affidato, ei non avrebbe incorso lo sdegno di Augusto: Cuique ego narrabam secreti quidquid habebam, Excepto quod me perdidit, unus eras. Id quoque si scisses, salvo fruerere sodali144 . Anzi nell’Elegie da lui scritte dal suo esilio, e in quella ancora scritta ad Augusto, mostra di aver

sempre altissimo orrore a rammentar l’oggetto, ch’ei vide, e a rinnovare il dolore, che n’ebbe Augusto: [p. 204 modifica]

Nec breve, nec tutum est, peccati quæ sit origo
Scribere: tractari vulnera nostra timent145
.
E scrivendo a Messalino, perché da Augusto gli ottenga il perdono:
Num tamen excuses erroris origine factum,
An nihil expediat tale monere, vide:
Vulneris id genus est, quod cum sanabile non sit,
Non contrectari tutius esse puto.
Lingua sile: non est ultra narrabile quidquam;
Posse velim cineres obruere usque meos146
.
Aggiungansi i versi ad Augusto poc’anzi citati:
Nam tanti non sum, renovem ut tua vulnera, Cæsar,
Quem nimio plus est indoluisse semel.

Egli protesta però ad Augusto, che né altri ha esortato all’adulterio, né di tal delitto egli è reo, e che quantunque liberi siano i suoi versi, modesta nondimeno è stata la sua vita.

Sed neque me nuptæ didicerunt furta magistro;
Quodque parum novit, nemo docere potest.
E poco dopo:
Crede mihi: mores distant a carmine nostro:
Vita verecunda est: musa jocosa mea147
.

Non credo già io, che Ovidio fosse così verecondo, come qui si vanta; ed egli stesso in altre sue Poesie troppo diversa immagine di sé stesso ci ha lasciato. Ma a me basta di osservare, che parlando del motivo del suo esilio afferma di non aver commesso delitto alcuno. Confessa nondimeno di aver giustamente meritato lo sdegno di Augusto, di cui loda ancor la clemenza, perché non gli ha tolti i beni e la vita, e il termine più mite di relegazione ha con lui usato (come era infatti), anzi che il più severo di esilio.

Quidquid est, ut non facinus, sic culpa vocanda est:
Omnis at in magnus culpa Deos, scelus est148
.

Questo sentimento medesimo ripete egli spesso; e una volta fralle altre introduce Amore, che a lui favellando, dopo averlo


CO L- I. de Ponto EI. VH. (3) L. II. Trift. (2) De Ponto 1. II. EI. II. (4) L L de Ponto EI. VII. Digitized by Google [p. 205 modifica]per suo conforto con autorevole decisione assicurato, che ne’ suoi libri amorosi nulla si conteneva di reo, così soggiugne:

Utque hoc, sic utinam defendere cetera posses:
Scis aliud, quod te læserit, esse magis.
Quidquid id est, neque enim debet dolor ille referri,
Non potes a culpa dicere abesse tua. 123
Tu licet erroris sub imagine crimen obumbres,
Non gravior merito vindicis ira fuit149.

XXXV. Tutti questi passi ho io voluto qui riferire, perché tutti son necessarj, e a mostrare quanto poco fondate siano le altrui opinioni, e a confermare, se mi venga fatto, in qualche modo la mia. Veggiamo prima, che ne abbiano pensato altri. Appena merita di essere riferita l’opinione dell’Autore delle vite compendiose degl’Imperadori attribuite ad Aurelio Vittore, il quale dice, che Ovidio fu esiliato pro eo quod tres libellos amatoriæ artis conscripserat; opinione, che è la più ricevuta tra ‘l volgo; ma che da’ passi finor recati si convince evidentemente di falsità; perciocché un altro delitto fu certamente la principal cagione della sventura di Ovidio. Sidonio Apollinare, come abbiam detto, è il più antico Scrittore, che qualche cosa accenni su tale argomento. Eccone i versi:

Et te carmina per libidinosa
Notum Naso tener, Tomosque misse,
Quondam Cæsareæ nimis puellæ
Ficto nomine subditum Corinnæ150.

Questi versi hanno indotto alcuni a pensare, che Ovidio sotto il nome di Corinna, di cui spesso ragiona ne’ suoi libri amorosi, intendesse Giulia figlia d’Augusto, di cui egli invaghito o cercasse di sfogare con essa la sua rea passione, o forse ancor vi giugnesse; e perciò fosse rilegato da Augusto. M. Ribaud de Rochefort in una sua dissertazione su questo argomento stampata in Moulins l’anno 1742, della quale però il solo estratto io ho veduto nel Giornale degli Eruditi di Parigi, riflette, e con ragione, che Giulia figlia d’Augusto era stata da lui esiliata molti anni prima di Ovidio, e quindi non poté per cagion d’essa Ovidio essere rilegato. Propone perciò una, com’egli dice, sua

c

con(1) L. IIL de Ponto EI. III. (2) Carm. XXIII. [p. 206 modifica]conghiettura, cioè, che non di Giulia figlia d’Augusto, ma di un’altra Giulia di lei figliuola e nipote d’Augusto fosse Ovidio invaghito, la qual di fatto verso il tempo medesimo, in cui Ovidio, fu dall’Avolo per le sue disonestà rilegata. Questa conghiettura però era già stata da alcuni altri proposta, come si può vedere presso il Bayle151. Ma checchessia delle ragioni, che a provare quella rea passion di Ovidio si possano addurre, le quali a me non sembrano di molto peso, è troppo evidente, che non poté essere questo il motivo del suo esilio. Troppo spesso ei ci ripete, che la ragione di esso si fu l’aver veduto un delitto, perché possiamo cercarla in un delitto da lui commesso.

XXXVI. Alcuni per ispiegare, qual fosse il delitto, che veduto da Ovidio fosse cagione della sua sventura, hanno pensato, ch’egli avesse sorpreso Augusto in colpa colla sua figlia Giulia; e che di ciò vergognato e sdegnato l’Imperadore il rilegasse. Di questo parere, per lasciare altri più antichi, è M. Lezeau nella Prefazione premessa alla sua traduzione in Francese del primo libro de’ Fasti stampata in Parigi l’anno 1714. Appoggiano questo lor sentimento a ciò, che narra Svetonio152, cioè che Caligola soleva dire, la sua Madre esser nata di Augusto e di Giulia sua figlia. Ma ancorché fosse vero un tal delitto d’Augusto, di cui altra pruova non si ha fuorché un tal detto di Caligola, a cui senza ingiuria possiam negar fede, già abbiamo accennato, che l’ordin de’ tempi troppo apertamente combatte questa opinione, perciocché ella fu rilegata da Augusto suo Padre l’anno di Roma 747, come narra Dione153, cioè tredici anni prima di Ovidio. Così rigettata questa opinione, si ricorre qui ancora da alcuni all’altra Giulia Nipote d’Augusto, con cui vogliono, che fosse da Ovidio sorpreso l’Avolo in colpa, ed osservano con verità, come sopra si è detto, che verso lo stesso tempo che Ovidio ella fu cacciata di Roma. Ma con qual fondamento accusare Augusto di tal delitto, singolarmente nell’età avanzata di settant’anni, quanti allor ne contava? Molte ragioni a rigettare questa sentenza si arrecano dal Bayle, fralle quali la più forte, a mio parere, si è, che, se questo fosse stato il vero motivo dello sde

Diftion. Art.» Ovide „ RenuB. (2) In Caligula cap. XXHL & K. ( 3 ) Lib. LV. [p. 207 modifica]gno di Augusto, non avrebbegli Ovidio rinfacciato in certa maniera sì spesso un tal delitto, né tante volte avrebbe ei ripetuto, che la sua disgrazia era stata l’aver veduta una colpa; che il suo esilio era nato dall’aver egli usato degli occhj, e somiglianti altre espressioni, colle quali sarebbe sembrato, ch’egli volesse rimproverare ad Augusto la sua infamia; il che non era certo buon mezzo ad ottenere, com’egli bramava, il suo ritorno. 124

XXXVII. Il Bayle dopo aver rigettate tutte le opinioni finora addotte, e dopo aver confessato sinceramente, che è assai difficile il trovare una probabil ragione dell’esilio di Ovidio, si fa nondimeno a proporre qualche sua conghiettura; e potrebb’essere per avventura, egli dice, che Ovidio avesse sorpreso Augusto, mentre in qualche segreta stanza piangeva sugli scoperti disordini della nipote, o mentre stava quistionando la nipote medesima per sapere de’ delitti, ond’era accusata, o mentre stava esaminando, o forse ancora ponendo alla tortura qualche confidente o qualche schiavo di Giulia per iscoprirne i reati; e che vedendosi sorpreso, e scoperti così da Ovidio i suoi disegni, sdegnatone il rilegasse. Ma converrebbe ben dire, che Augusto fosse oltre modo collerico e risentito, se per sì lieve cagione avesse fin nella Scizia rilegato l’infelice Poeta; né mai si fosse lasciato piegare da lagrime e da preghiere a richiamarlo. E innoltre l’oggetto veduto da Ovidio non sarebbe stato un delitto; eppure un delitto da lui veduto ci conviene ad ogni modo trovare, per cui fosse dannato all’esilio:

Inscia quod crimen viderunt lumina, plector. 

Quindi anche l’opinione del Bayle non sembra abbastanza fondata, né una sufficiente ragione egli arreca di sì fiero sdegno di Augusto.

XXXVIII. A me pare, che una riflession diligente sull’indole di Augusto, sulla condotta da lui tenuta colla sua famiglia, e sulla Storia de’ tempi, di cui parliamo, ci possa aprire la via a scoprir qualche cosa, e a indagare per avventura la vera ragione dell’esilio di Ovidio. Abbiam già accennato, che Giulia la figliuola di Augusto era stata già da tredici anni innanzi rilegata dal Padre per le infami disonestà, di cui scopersela rea. Or è ad osservare, che Augusto fu sommamente afflitto e confuso dal disonore, che a lui e alla sua famiglia ne venne. Narra Sveto [p. 208 modifica]nio154, che men fu egli sensibile alla morte che all’infamia de’ suoi; che, quando venne a risapere le disonestà della figlia, trasportato dallo sdegno, per mezzo di un Questore ne diè avviso al Senato; e che quindi tal vergogna ne ebbe, che per lungo tempo si astenne dal trattar con alcuno; che gli venne anche in pensiero di ucciderla; e che avendo verso quello stesso tempo saputo, che Febe una delle liberte di Giulia e complice delle sue sceleratezze si era colle proprie mani strozzata, disse, che avrebbe amato meglio di esser padre di Febe che non di Giulia; innoltre, che a questa vietò di usare del vino nella sua relegazione, e di ogni ornamento della persona; e che non permetteva, che alcuno, fosse libero o schiavo, andasse senza sua saputa a trovarla. Somigliante cosa ci narra Seneca ancora155, ed aggiugne, che Augusto, dopo aver palesate al Senato le disonestà della figlia, pentissi di aver così fatta pubblica la sua infamia: Deinde cum interposito tempore in locum iræ subisset verecundia, gemens quod non illa silentio pressisset, quæ tamdiu nescierat, donec loqui turpe esset, exclamavit: Horum mihi nihil accidisset, si aut Agrippa aut Mecænas vixisset. Da tutto ciò noi veggiamo, quanto geloso fosse Augusto, che l’infamia de’ suoi non venisse a farsi palese, e di qual vergogna lo ricoprissero i lor delitti, quando venivano a pubblicarsi. Uomo per altro non troppo onesto egli stesso ne’ suoi costumi, onestissimi avrebbe voluti tutti quelli di sua famiglia; il che ancora si scorge dal metodo da lui tenuto in allevarli, che narrato è da Svetonio156. Quindi le loro scostumatezze trafiggevanlo altamente, e niuna cosa aveva più in orrore che l’infamia, che a lui perciò ne veniva.

XXXIX. Ciò presupposto io penso, che la cagion principale dell’esilio di Ovidio fosse l’aver egli sorpresa improvvisamente Giulia la nipote d’Augusto nell’atto di commettere alcuna di quelle disoneste azioni, per cui ella pure fu dall’Avolo rilegata. Veggiamo, come tutte le circostanze felicemente concorrono a comprovare questa opinione. Giulia fu rilegata, come si è accennato, verso il tempo medesimo, in cui Ovidio, cioè circa l’anno 760. Tacito in fatti ne pone la morte sotto il Consolato di Giu

(1) Tn Auguft. e. LXV. (j) In Augufto cap. LXIV. (2) De Beneficia lib. VI. cap. XXXII. [p. 209 modifica]nio Silano e Silio Nerva, che furon Consoli l’anno 780, e dice, che aveva ella per vent’anni sostenuto l’esilio: Per idem tempus Julia mortem obiit; quam neptem Augustus convictam adulterii damnaverat, projeceratque in insulam Trimerum haud procul Apulis litoribus. Illic viginti annis exilium toleravit157. Andiamo innanzi. Ovidio fu rilegato, perché vide un delitto; e il delitto era tale, che non voleva rammentarlo ad Augusto, per non rinnovargliene il dolore. Qual delitto può mai esser questo, se non delitto infame di persona, che per istretto vincolo di parentela appartenga ad Augusto, qual era appunto la sua nipote Giulia? La similitudine di Atteone, che abbiam veduto 125 recarsi da Ovidio, giova anch’essa a comprovare la mia opinione. Ovidio dice, che la prima origine della sua sventura era stata il voler penetrare nella famigliarità de’ Grandi; perché l’amicizia, di cui Giulia forse onoravalo, fu quella, che lo fece ardito a entrare, ove la sorprese in delitto. Confessa, che fu colpa la sua, perché certo egli fu colpevole in voler appagare la sua curiosità, singolarmente se a tal fine avesse usato o di violenza o d’inganno; ma nega di esser reo di delitto, e si protesta innocente, perché niun misfatto con Giulia egli avea commesso; ove conviene osservare, che non avrebbe già egli usato questo parlar con Augusto, se questi avesse saputo, che Ovidio avea veramente commesso, o almen tentato di commettere con lei un delitto. Aggiugne, che la sua colpa fu mista di errore e di timore; di errore, perché lasciossi spingere a penetrare più oltre, che non convenivagli; di timore, perché non ebbe coraggio di scoprir la cosa ad Augusto; il che se avesse egli fatto, forse ne avrebbe ottenuto il perdono. Laddove avendone Augusto saputo altronde, e avendo pur risaputo, che Ovidio era stato spettator del delitto, si volle toglier dinanzi un uomo, che aveva ardito di essere testimonio dell’infamia di sua nipote, e da cui poteva temere, ch’essa non venisse un dì pubblicata. Confessa finalmente Ovidio di aver meritato lo sdegno di Augusto, il che è chiaro nella nostra opinione; e che la pena avutane era ancora minor del suo fallo; perciocché in fatti pel grande sdegno, che tali cose destavano nel [p. 210 modifica]destavano nel cuor di Augusto, Ovidio avea ragion di temere, che nol togliesse ancora di vita.

XL. Così a me pare, che ogni cosa si spieghi probabilmente. La confusione, che Augusto avea provata negli anni addietro per le disonestà della figlia, e l’orrore, che sentiva nell’essere così infamato da’ suoi, tutto se gli riaccese in seno, quando riseppe, che la nipote ancora erasi macchiata di sì reo delitto; e che Ovidio avea ardito di penetrare colà, ove esso si era commesso, e di esserne spettatore. Quindi per non soggiacere di nuovo a quella vergogna, che le disonestà della figlia, aveangli cagionato, rilegata subito la nipote, e tolto verisimilmente di mezzo il complice del delitto, volle ancora, che rilegato fosse colui, che solo rimaneva consapevole dell’infame segreto, sì per non avere innanzi agli occhi un oggetto, che di continuo gli richiamava al pensiero il disonore di sua famiglia, sì ancora per assicurarsi, che Ovidio non divolgasse il fatto. E questo io penso, che fosse veramente il motivo, per cui Augusto usò di qualche clemenza con Ovidio, adoperando, come si è detto, il termine men rigoroso di rilegazione anzi che quello di esilio, e lasciandogli il godimento di tutti i suoi beni. Augusto non avrebbe certamente, a mio parere, così operato, se reo di grave delitto con Giulia fosse stato Ovidio. Ma egli altro non volle, che allontanare quanto più poteva da Roma chi era consapevole di tal delitto; e perciò gli permise di goder de’ suoi beni, perché il timore di perdere questi ancora il rendesse cauto a tacer ciò, che Augusto voleva sepolto in eterno silenzio. A me non pare, che contro questa opinione si possa fare alcuna grave difficoltà. Nondimeno io non fo che proporla, e soggettarla all’esame degli eruditi, pronto a mutar parere, quando essi o la mostrino mal fondata, o un’altra miglior ne propongano.

XLI. Io avea scritto fin qui, quando mi sono abbattuto a vedere nell’opera di Gian Niccolò Funccio De virili ætate latinæ linguæ accennato il sentimento, che sulla cagione dell’esilio di Ovidio ha proposto l’erudito ed esatto Scrittore Giovanni Masson nella vita di questo Poeta da lui pubblicata in Amsterdam l’anno 1708. Non mi è stato possibile il vedere, come avrei bramato, questa vita; ma ecco ciò, che il Funccio ne dice su questo argomento. Joannes Masson Vir Cl. crimen dicit fuisse [p. 211 modifica]Juliæ Augustis Neptis, cujus Ovidius fuerit quidem reus factus, at quod sibi modo visum, & a suis comitibus commissum suadere conatur34. Vuole dunque il Masson, che reo veramente di delitto commesso con Giulia fosse Ovidio; ma che volesse persuadere ad Augusto, che il delitto era di altri; e ch’egli non ne era stato che semplice spettatore. Non so, quali pruove egli arrechi di questo suo sentimento. Ma a me certamente non par probabile. Lasciando stare altre riflessioni, che dalle cose finor disputate nascono naturalmente, come mai poteva Ovidio lusingarsi, se veramente era reo, di persuadere ad Augusto, ch’era innocente? Come esser certo, che Giulia non avesse ella medesima rivelato il complice del suo misfatto? E non era anzi questo un irritar maggiormente lo sdegno di Augusto? A me dunque non sembra, che abbia questa opinione maggior forza delle altre, che di sopra si son confutate.

XLII. Rimane a dir qualche cosa intorno alla durata dell’esilio di Ovidio. Il Bayle, che, quando entra in Cronologiche discussioni, pare che non sappia uscirne pel piacer che vi prova, ha di ciò parlato assai lungamente. Io me ne spedirò in breve, accennando solo ciò, che vi ha di certo. Ovidio fu mandato in esilio circa l’anno 760 come si è detto; e il luogo di esso fu Tomi nella Scizia presso il Ponto Eusino ossia Mar nero, e, per quanto sembra, vicino all’imboccatura del Danubio. Scrive egli un’Elegia35 a un certo Grecino, che dovea entrar quanto prima nel Consolato, e con lui ancor si rallegra, che avrà Flacco suo fratello per successore. Or questi non sono altri che Giulio Pomponio Grecino, il quale l’anno 768 fu sorrogato nel Consolato a L. Scribonio Libone, e L. Pomponio Flacco Grecino, che gli succedette il seguente anno 76936. Era dunque ancor vivo Ovidio l’anno 768 cioè due anni dopo la morte d’Augusto. Questi non si era mai lasciato muovere a richiamarlo. Ovidio dice veramente, che aveva egli cominciato a piegarsi, quando morì:

Cœperat Augustus deceptæ ignoscere culpæ:
Spem nostram terras deseruitque simul
37.

[p. 212 modifica]Ma forse fu questa una lusinga dell’esule infelice. Tiberio ancora non si lasciò piegare giammai alle preghiere d’Ovidio per non curanza, credo io, piuttosto che per isdegno. Quanto ancora egli sopravvivesse, non si può precisamente determinare. La Cronaca Eusebiana il fa morto l’anno quarto di Tiberio, cioè l’anno di Roma 770., e sessantesimo di sua età. Ma non ve ne ha monumento alcun più sicuro. Della penna, ossia dello stile di argento usato già da Ovidio, e mostrato da Isabella Regina d’Ungheria circa l’anno 1549. a Pietro Angelio, di cui parla il Ciofano38, e del sepolcro dello stesso Poeta scoperto in Sabaria sulla Sava, io lascerò che parlin coloro, a cui non manchi il tempo per confutare tutte le favole puerili, che in alcuni libri si leggono. Più utile sarà, io spero, il trattenerci alcun poco sull’indole e sul carattere delle Poesie di Ovidio.

XLIII. Io non so, se tra’ Poeti abbiavi alcuno, che in vivacità e leggiadria d’ingegno a lui si possa paragonare. Quando egli narra o descrive alcuna cosa, pare che l’abbia sotto degli occhi, e qual egli la vede, tale la rappresenta a chi legge, sicché sembri a lui pure di averla presente allo sguardo. Qual narrazione più bella, più tenera, più passionata di quella del volo d’Icaro e di Dedalo, della morte di Piramo e di Tisbe, della cena di Filemone e di Baucide, e di tante altre, che frequentemente s’incontrano ne’ libri delle Metamorfosi! Qual affetto, qual grazia non si ritrova in molte delle lettere da lui chiamate Eroidi! E han ben saputo giovarsene i moderni Poeti, e l’Ariosto singolarmente, il quale nell’incomparabil racconto di Olimpia e di Bireno tante cose ha imitate dalla lettera di Arianna a Teseo presso Ovidio, che non sol la sostanza del fatto, ma i sentimenti ancora ne ha in più luoghi espressi felicemente. Qual copia di vaghe e leggiadrissime immagini ci offre egli ad ogni passo in tutte le sue Poesie! Due difetti però si oppongono con ragione ad Ovidio; la poca coltura nella espressione, e il soverchio raffinamento; difetti cagionati amendue dalla stessa sua non ordinaria felicità d’ingegno. Questa gli apre sempre innanzi agli occhi nuove immagini; egli si affretta a dipingerle; e il primo colore, per così dire, che gli viene alle mani, quello egli usa ad [p. 213 modifica]le. La facilità maravigliosa di verseggiare fa, che non trovando giammai ostacolo alcuno, ei non si fermi a dubitare, quale tralle molte espressioni sia la più colta, e qual vogliasi preferire alle altre. Quella è per lui la migliore, che il lascia più presto avanzarsi nel suo rapido corso. Confessa egli medesimo di essere insofferente della lima: Sæpe piget (quid enim dubitem tibi vera fateri?) Corrigere, & longi ferre laboris opus163 . Questa stessa felicità d’ingegno gli scuopre i diversi rapporti, che tra loro hanno le cose, di cui ragiona, i moltiplici aspetti, in cui si possono rappresentare, i più vaghi ornamenti, di cui possono rivestirsi. Egli si abbandona al suo ingegno, ne siegue i voli, e per seguirli abbandona talvolta la via, che la natura gli addita. In somma Ovidio sarebbe a mio parere il miglior tra’ Poeti, se, come saggiamente avvertì Quintiliano, egli avesse voluto moderare anziché secondare il suo ingegno164 . Piacemi in ultimo di recare a questo luogo un grazioso pensiero del Conte Algarotti intorno allo stile di Ovidio, il quale però sembrerà per avventura a molti un poetico scherzo anzi che una seria riflessione. Comunque sia, egli afferma, che il poetare d’Ovidio ha molta somiglianza con poetar de’ Francesi: Riunir cose in un sentimento il più che si possa lontane, rallegrar le espressioni con 127 una graziosa antitesi, e rilevare in checchessia quello, che vi ha di maraviglioso, in ciò consistono, se non erro, le qualità principali dello spirito de’ Francesi. Di una simile tempra è lo spirito di Ovidio, talmente che pare, che di tutti gli antichi Poeti egli fosse quello, che meno degli altri avrebbe l’aria forastiera alle Tuillerie e a Versaglia. Tanto più che oltre alle sopradette qualità regna nello stile di Ovidio un cortigianesco ed una galanteria, quali appunto convenivano a’ tempi di Augusto, e quali non disdirebbero a quelli di Luigi XIV. Così egli165.

XLIV. I libri de’ Fasti, de’ quali si sono infelicemente smarriti gli ultimi sei, le Metamorfosi, e le Eroidi, sono le migliori opere di Ovidio166. Le Elegie intitolate Malinconiche, e le

Prima di- Ovidio avea un. altro Voeu, detto Aula Sabino» fcritte pa»

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lalht. Qnu. kb»X* m.L.

Digitized by Google [p. 214 modifica]lettere scritte dal Ponto hanno anch’esse de’ bellissimi tratti. Ma la lontananza da’ suoi, e la barbarie de’ popoli, tra cui si trovava, dovea necessariamente scemare nell’infelice Poeta la vivacità natia e l’usato suo brio. De’ libri amorosi Ovidio stesso ebbe poi pentimento e vergogna d’avergli scritti; e noi non possiam non dolerci, che un sì raro ingegno siasi per tanto tempo avvolto in sì laide sozzure. Di una sua Tragedia avremo a favellare tra poco. Degli altri piccioli Poemetti, che vanno sotto suo nome, quali debbano aversi per suoi, quali altre Poesie avesse egli scritte, che più non si trovano, le edizioni, le traduzioni, i comenti, che abbiamo delle opere a noi pervenute, tutto ciò si può vedere appresso il Fabricio167; che forse troppo a lungo intorno a questo Poeta noi ci siam trattenuti.

XLV. Due altri Poeti finalmente appartengono, a mio parere, all’Epoca di cui parliamo, benché altri a diversa età gli voglian vissuti, M. Manilio, e Fedro. Assai scarse son le notizie, che abbiam d’amendue; ma queste bastano, io credo, ad accertare che vissero anch’essi al buon secol d’Augusto. M. Manilio vien detto dal Quadrio168 Antiocheno di patria, e non diverso da quel Manlio Matematico, che per testimonianza di Plinio sull’obelisco del campo Marzio collocò un gnomone. Ma in tal maniera il Quadrio ha unito tre personaggi in un solo, Manlio il Matematico autore del mentovato gnomone, Manlio Antiocheno, e Manilio il Poeta, di cui parliamo. Del primo possiamo a ragion dubitare, se mai esistesse, perciocché vedremo a suo luogo parlando di quel gnomone, che benché in alcune edizioni di Plinio se ne dica Manlio autore, questo nome però non è veramente ne’ migliori codici, ed è stato perciò ommesso





nelrecchie lettere in verfi, non divenne ad Ieggonfi fotto il non*? di Sabino in diuomini, ma d’uomini a donne, cioè di verfe edizioni delle Eroidi, per comun Uliffe a Penelope, d’Ippolito a Fedra, confenfo de’ dotti non fono degne di di Enea a Didone, di Demofoonte a quefta età. Avea ee^li ancora dato prinFillide, di d’afone ad I (Ti pile, come af- cipio a un Poema intitolato Trazena e ferma lo fteflo Ovidio ( Amor. JJtb. IL a un alrro detto de’ Giorni, o/Tia de’FaEL XVIII. ) • Ma tutte fonò perite; fti; ma rapirò da immatura morte, come perciocché la prima e la quarta, che in- dice lo fteflò Ovidio ( Ex Ponto L. IV. fiem con un’altra di Paride a Enone Et. uh. ) } non potè finirli. Ci) BiVL iat. lib. I. cap. XV. (2) T. VI. p. 37Digitized by Google [p. 215 modifica]nelle recenti e più corrette edizioni. Il Manlio Antiocheno, che da Plinio è nominato altrove169 coll’onorevole titolo di Fondatore dell’Astrologia, è certamente diverso dal nostro Poeta. Questi, come or ora vedremo, fiorì a’ tempi d’Augusto: di quello al contrario dice Plinio, che egli insieme col Gramatico Erote e Publio scrittor di Mimi veduti furono da’ suoi bisavoli venire sulla nave medesima a Roma: Eadem navi advectos videre proavi. Or Plinio il vecchio nacque sotto Tiberio; e perciò di uno, che viveva agli ultimi anni di Augusto, non avrebbe potuto dire, che i suoi bisavoli aveanlo veduto venire a Roma. Convien dunque distinguere Manlio l’Astrologo da Manilio il Poeta; né vi ha ragione alcuna per credere, che questi fosse Antiocheno. Il Du Fay nella Prefazione a’ suoi Comenti sopra Manilio conghiettura, ch’ei fosse Romano, fondato su quel verso di questo Poeta:

Speratum Hannibalem nostri cecidisse catenis170.

Ma Plinio stesso, il qual non era certamente Romano, chiama spesso nostra la Città di Roma. Ch’egli vivesse a’ tempi di Augusto, è chiaro in primo luogo dalla dedica da lui fattagli del suo Poema. E che d’Augusto veramente e non d’altro Imperadore debba intendersi, si comprova ancor maggiormente così dal riflettere, ch’ei fa menzione, come di cosa recente, della disfatta di Varo nella Germania seguita l’anno 761171, come ancor più dal vedere, ch’egli nomina Tiberio, come Principe destinato a regnare; perciocché parlando di Rodi, dice

Felix terraque marique
Es Rhodos, hospitium recturi Principis orbem172.

Or noi sappiamo, che, vivendo Augusto, Tiberio per otto anni stette ritirato in Rodi, onde poscia tornossene a Roma l’anno 754. Intorno all’età di Manilio veggasi il Fabricio173, e più ancora il le Clerc174, che difende lungamente questa nostra opinione, e ribatte gli argomenti di Gasparo Gevarzio, il quale avea trasportato Manilio fino a’ tempi di Teodosio. [p. 216 modifica]ຶXLVI. Manilio fu il primo tra’ Latini, che le cose Astronomiche prendesse a scrivere in versi. Egli è vero, che il suo Poema assai poco ci può ora giovare ad apprendere l’Astronomia; ma egli scrisse ciò, che allora comunemente se ne sapeva. Lo stile da lui usato non può certo venire a 128 confronto con quello de’ migliori Poeti dell’età di Augusto. Nondimeno attesa singolarmente la difficoltà del suggetto, di cui prese a trattare, non lascia di avere a quando a quando gravità ed eleganza degna del tempo, a cui visse. Non tutto però ci è pervenuto il suo Poema; che cinque soli libri ne abbiamo, e pare che sei o sette ne fossero da lui composti; e oltre ciò il quinto libro ancora sembra imperfetto.

XLVII. Non minore oscurità s’incontra per riguardo a Fedro. Di lui appena trovasi menzione alcuna presso gli antichi scrittori; e pare, che Seneca il Filosofo non ne avesse contezza; perciocché egli parlando delle Favole di Esopo afferma, che i Latini non aveano finallora tentato componimenti di tal natura: Æsopeos logos intentatum Romanis ingeniis opus175. La risposta, che a ciò fanno alcuni, cioè che Seneca così favelli, perché Fedro fu straniero e non Romano, non è probabile; perciocché è evidente, che Seneca a questo luogo vuol dire, che favole in lingua Latina non si erano scritte ancora. E’ dunque miglior partito rispondere, che, qualunque ne sia la ragione, poté Seneca ignorare le favole e il nome di Fedro. Marziale176 e dopo lui Rufo Festo Avieno177, che fiorì a’ tempi di Teodosio e di Graziano, sono i due soli antichi autori, che ne favellino. Anzi que’ versi di Marziale, ove egli dice: Dic Musa, quid agat Canius meus Rufus. An æmulatur improbi jocos Phædri? pretende lo Scriverio178, che non possano intendersi in conto alcuno di Fedro, e gentilmente chiama privi di senno coloro, che pensano lui esser vissuto a’ tempi d’Augusto o poco dopo. Le ragioni da lui addotte si posson vedere presso il Bayle179, e presso il Fabricio180, che ne mostrano l’insussistenza. Di fatti [p. 217 modifica]certo, che Fedro fa menzion di Sejano il famoso Ministro dell’Imperadore Tiberio, e duolsi di essere ingiustamente da lui calunniato ed oppresso 181; il che è pruova evidente, che a quel tempo egli visse; benché a ragione si creda, che le sue favole, o almen il Prologo, in cui di esso ragiona, egli non pubblicasse se non dopo la caduta di quel potente Ministro. E’ certo ancora, che, parlando di una sentenza data da Augusto, dice di raccontar cosa a sua memoria avvenuta:

 Narrabo tibi, memoria quod factum est mea182.

Certo è per ultimo, che egli nel titolo del libro è detto Liberto di Augusto; né vi è ragione a credere, che un altro Imperadore si accenni, e non quello, che per proprio e particolar soprannome fu detto Augusto. Quindi a me non pare improbabile, che Augusto conosciuto il talento di questo suo schiavo, e vedutene alcune favole, gli rendesse per premio, come spesso accadeva, la libertà. E’ vero, che i primi quattro libri delle sue favole dedica egli a un certo Eutico, che vuolsi vissuto sotto Caligola. Ma chi ci assicura, ch’ei fosse il medesimo? Un Eutico condottier d’Asini trovasi anche a’ tempi di Augusto. Io non credo certo, che fosse questi il Mecenate di Fedro. Ma non poteva egli esservi anche un altro Eutico, a cui Fedro dedicasse i suoi libri? Innoltre dalla morte di Augusto all’impero di Caligola non passarono che ventitrè anni; e poté essere il medesimo Eutico, a cui Fedro a’ tempi di Augusto e di Tiberio offerisse le sue favole, e che pure vivesse a’ tempi ancor di Caligola.

XLVIII. Ma non del tempo soltanto, a cui Fedro vivesse, si è disputato, ma sì ancora s’egli vivesse mai. Gianfederigo Cristio pubblicò l’anno 1749 una Dissertazione, in cui pretese di dimostrare non esser mai stato al mondo un Fedro antico scrittor di favole, e queste esser tutte opera di moderno autore. Io non ho veduta questa Dissertazione, ma solo un cenno, che se ne dà negli Atti di Lipsia183, e nella Nuova Biblioteca Germanica184, ove ancora si accennano i libri contro questa nuova e troppo ardita opinione venuti alla luce185. Certo è però, che [p. 218 modifica]quando la prima volta per opera di Pietro Piteo furono pubblicate le favole di Fedro in Trojes l’anno 1596, molti temerono o di frode o di errore; perché niuna contezza erasene finallora avuta. Ma esaminatone poscia lo stile, chiaramente da tutti si riconobbe, che esse erano di antico autore, e degne del secolo di Augusto. Così scrive il P. Vavasseur186, come udito di bocca del P. Sirmondo, che allor viveva. E certo lo stil di Fedro non è l’ultimo argomento, che recar si possa a provare, ch’egli visse al buon secolo; tanto esso è semplice e colto al medesimo tempo. So, che alcuni altri ne han giudicato diversamente; e lo Scioppio tra gli altri così di lui autorevolmente decide: Eum tamen scriptorem velut domo 129 barbarum, & sermone non parum sæpe plebejum, non nisi cum discrimine & delectu imitandum intelligo187. Al qual sentenzioso detto dello Scioppio un autore io contraporrò, che spero non sarà da lui rigettato, cioè lo Scioppio stesso, il quale altrove lo chiama cultissimum Fabularum scriptorem188. Ci permetterà egli dunque, che a questo suo secondo giudizio noi ci attenghiamo, molto più che il veggiam confermato da quanti hanno buon gusto di tersa latinità. E chiaramente ancor si raccoglie, in qual pregio sia egli tenuto, dalle tante edizioni, che ne abbiamo, il cui Catalogo si può vedere presso il Fabricio189. Anzi mentre ancora egli vivea, pare che colle sue favole salisse a non ordinario onore; perciocché offerendo il libro quinto di esse a un certo Particulone così gli scrive:

Mihi parta laus est, quod tu, quod similes tui,
Vestras in chartas verba transfertis mea,
Dignumque longa judicatis memoria.


Fedro fia P Autore delle Favole a lui attribuite, ma ancora fé fia mai vifluto Poeta di quefto nome, dee aggiungerli il Sig- Ab. Stefano Marchefelli, il quale ha rinnovata V opinione dello Scriverlo, che quelle favole fiano opera del celebre Niccolò Perotto, di cui diremo a lungo nella Storia del Secolo XV. Chi avrà la fofferenza (fé vi farà alcuno che (1) lib. de Ludicra diftione. (2) Infam. Famian. p. Z6. Tabbia) di leggere ciò ch’egli ha fcritto fu tale argomento ( N. Raccolu iFOpufc. t. XXIII. XXIV. ), potrà conofeere, di qual pefo fiano le ragioni, ch’egli adduce a difefa della fua opinion?. Io confeflo, che non ho avuto coraggio di leggerlo attentamente, e molto meno ho coraggio di accingermi ad efaminarlo. (3) Paradox, liter, (4; Bihl. Lax. Ub. II. e III. Digitized by Google [p. 219 modifica]Del rimanente altro non sappiamo di Fedro, se non ch’ei fu liberto d’Augusto, e natio della Tracia. Questa dichiara egli stesso essere la sua patria:

Cur somno inerti deseram patriæ decus?
Threissa cum gens numeret auctores suos,
Linoque Apollo sit parens, Musa Orpheo &c.190

E più chiaramente nel luogo stesso afferma di esser nato sul colle Pierio:

Ego quem Pierio mater enixa est jugo.

E osserva appunto Strabone, che questo monte apparteneva alla Tracia. Pieria, Pimpla, Libethrum olim Thraciæ fuere montes regionesque. Ma per quale occasione e in qual tempo fosse egli condotto schiavo a Roma, non è si agevole a diffinire; e nel silenzio, che intorno a lui han tenuto gli antichi scrittori, sarebbe inutil fatica il tentare di illustrarne più chiaramente la vita.

XLIX. Questi furono i più illustri Poeti, che fiorirono nell’epoca di cui parliamo alla Romana Letteratura tanto gloriosa. Fra questi niun Tragico e niun Comico ho io nominato, sì perché niuno di essi è pervenuto sino a noi, sì perché in questo genere inferiori di troppo rimasero i Romani ai Greci. Per ciò che appartiene alla Commedia, Quintiliano stesso sinceramente confessa, che non eran i Latini arrivati giammai ad uguagliare la grazia e la finezza de’ Greci: In Comœdia maxime claudicamus... vix levem consequimur umbram, adeo ut mihi sermo ipse Romanus non recipere videatur illam solis concessam Atticis venerem, quando eam ne Græci quidem in alio genere linguæ obtinuerint191. Pare che nella Tragedia alquanto più felicemente riuscissero i Romani. Certamente lo stesso Quintiliano parlando degli Scrittori di questo genere di componimenti dice: Jam Varii Thyestes cuilibet Græcorum comparari potest192. Questa è quella Tragedia, di cui dicemmo di sopra, dubitarsi da alcuni, che da Vario ossia Varo non fosse stata involata a Cassio Parmigiano. Se ella ci fosse rimasta, potremmo esaminarla noi pure, e metterla al paragone con quelle di Sofocle e di Euripide, e vedere se regga al confronto. Ma poiché ella si è smarrita, e poiché



Ee z vegO) L. IlL in Prolog. () lbid, (z) L. X.c.I. [p. 220 modifica]veggiamo, che Quintiliano parlando della Commedia mostra saggio discernimento ed animo imparziale, ben potremo credergli ancora, ove con sì grande lode egli parla di questa Tragedia. Altri Poeti Tragici e Comici son rammentati dal Vossio e dal Quadrio. Ma sembra, che Quintiliano gli abbia in conto di poco valorosi Poeti; poiché dopo aver nominata la Tragedia di Vario, un’altra sola ne rammenta di Ovidio intitolata la Medea, di cui dice, ch’essa ci fa conoscere, quanto egli avrebbe potuto fare, se avesse voluto moderare anziché secondare troppo l’ingegno. Delle altre, che a questa età appartengono, non fa motto. Lascerem dunque noi pure di far menzione de’ loro Autori, rimirandoli come Poeti, da’ quali poco di gloria accrescer si possa alla Romana letteratura.

L. Due soli, che in un particolar genere di Poesia Teatrale si esercitarono, ebbero maggior fama che gli altri; cioè Decimo Laberio e Publio Siro scrittori di quelle Mimiche Poesie, di cui abbiamo altrove parlato. Vissero amendue a’ tempi di Giulio Cesare. Ma Laberio prima di Publio cominciò a rendersi celebre. Era egli di nascita Cavaliere; e perciò componeva bensì per suo e altrui trastullo de’ Mimi; ma facevali poscia da altri rappresentar sul Teatro. Cesare, quando era nel più alto stato di autorità in Roma, volle indurre Laberio a recitare egli stesso i suoi Mimi, e gli promise cinquecento mila sesterzj, ossia dodicimila cinquecento scudi Romani. Questa sì liberale offerta non 130 avrebbe forse determinato Laberio ad avvilire in tal modo il suo carattere; ma egli conobbe, dice Macrobio193, che le preghiere di un uomo possente sono comandi; e fu costretto ad ubbidire; ma non poté dissimulare lo sdegno, che perciò ardevagli in seno, e un prologo recitò pieno d’amari lamenti contro di Cesare, perché avesselo a ciò costretto. Esso ci è stato conservato da Macrobio194; e degni sono singolarmente di osservazione questi quattro versi:

Ego bis tricenis annis actis sine nota
Eques Romanus lare egressus meo
Domum revertar mimus: nimirum hoc die
Uno plus vixi, mihi quam vivendum foret.



(1) Satura, lib. II. cap. VII. (2) Loc eh. [p. 221 modifica]Da’ quali versi si raccoglie, che Laberio era nato di famiglia Equestre, e non già, come dice il Quadrio195, fatto Cavaliere da Cesare pel suo valore ne’ Mimi; e raccogliesi ancora, che sessant’anni di età contava egli a quel tempo. Il prologo di Laberio, e alcuni amari motti, che nella stessa Azione egli sparse, punsero altamente Cesare. Quindi, essendo poscia salito in sulla scena Publio Siro, e avendo recitati egli pure i suoi versi con applauso maggiore di quello ch’era stato fatto a Laberio, Cesare afferrò tosto l’occasion di punger egli pure Laberio, perché fosse stato vinto da Publio, e a questo dié la palma per segno della riportata vittoria, a quello il denaro promessogli insieme con un anello d’oro. Morì Laberio, come abbiamo dalla Cronaca Eusebiana, dieci mesi dopo la morte di Cesare. Publio, detto Siro dalla sua patria, era stato condotto schiavo a Roma, e poscia per le sue facezie posto in libertà. Plinio fa menzione196 di un Publio, cui chiama Mimicæ Scenæ conditorem; e sembra a prima vista, che non d’altri debba intendersi che di quello, di cui parliamo. Ma Plinio dice, ch’egli era stato veduto venire a Roma da’ suoi bisavoli: videre proavi; e quindi, come riflette il P. Harduino, un Publio più antico dee qui intendersi, e non il Siro, che anche al padre di Plinio sarebbesi potuto vedere; poiché questi visse ancor qualche tempo sotto l’impero di Augusto. Alcuni frammenti di ambedue questi scrittori e alcuni lor detti ci sono stati conservati da Macrobio197 e da Gellio198, e molte delle lor morali sentenze sono state raccolte insieme, e più volte stampate; di che si può vedere il Fabricio199. Alcuni altri scrittori di Mimiche azioni si trovano mentovati presso gli antichi autori. Ma basti l’aver detto di questi due, che furono i più famosi.

LI. Prima di passar oltre, parmi che una non inutil quistione debbasi a questo luogo trattare, cioè per qual ragione, mentre in ogni altro genere di Poesia arrivarono i Romani a gareggiare co’ Greci, nella Teatral solamente rimanessero sempre tanto ad essi inferiori. Abbiamo nella seconda Epoca toccate alcune ragioni, alle quali si può attribuire l’essere la Poesia Teatrale de’ Ro

(1) T. V. p. 202. ( 4 ) Lib. III. e. XVIII. 1. X. cap. (2) Lib. XXKV. cap. XVII. XVII. 1. XVIL e. XIV. (jj Ub. IL Satum. e. III. & VII. (5) Bibl. lat. 1. I. e. XVI. [p. 222 modifica]Romani rimasta per lungo tempo rozza e imperfetta. Ma è più difficile trovar ragione, per cui anche nel più bel secolo della Romana Letteratura non giugnesse però ella a maggior perfezione. Era la Poesia salita a maggior gloria, che prima non fosse, e anche uomini d’illustre nascita e di famiglia Patrizia non isdegnavano di comporre Azioni da prodursi in Teatro. Onde venne egli dunque, che niuno o sì pochi fossero nella Teatral Poesia eccellenti? Io penso, che la vera ragione ci sia stata additata da Orazio in una sua lettera ad Augusto200. Egli dopo avere accennate alcune particolari ragioni, che sol convengono a que’ Poeti, che a prezzo componevano le Azioni Teatrali, un’altra più generale ne arreca e comune a tutti. Descrive egli l’infelice condizion de’ Poeti, che composte avendo Tragedie o Commedie facevanle rappresentar da’ Teatri; perciocché tra l’immenso popolo, che accorreva ad esserne spettatore, pochi eran quelli, che per amore di Poesia vi si conducessero; e molte volte accadeva, che di mezzo all’azione medesima stanchi e annojati de’ versi comandavano, ch’ella fosse interrotta, e che in vece si desser loro spettacoli di gladiatori e di fiere:

Sæpe etiam audacem fugat hoc terretque Poetam,
Quod numero plures, virtute & honore minores,
Indocti stolidique, & depugnare parati,
Si discordet eques, media inter carmina poscunt
Aut ursum aut pugiles, his nam plebecula gaudet.

Anzi, aggiugne Orazio, non la plebe soltanto, ma i Cavalieri medesimi, quando sono assisi al teatro, niun piacere mostrano per la Poesia, e tutto il lor desiderio si è di vedere in maestosa comparsa 131 fughe di fanti e di cavalli, e trionfi e cocchi e schiavi e spettacoli di tal natura, della vista de’ quali non si annojano mai:

Verum equitum quoque jam migravit ab aure voluptas.
Quatuor aut plures aulæa premuntur in horas,
Dum fugiunt equitum turmæ, peditumque catervæ;
Mox trahitur manibus Regum fortuna retortis,
Esseda festinant, pilenta, petorrita, naves,
Captivum portatur ebur, captiva Corinthus.

. Quinto Lib. II. ep* r. Digitized by Google [p. 223 modifica]Quindi, prosiegue Orazio, tanto era lo strepito, che facevasi nel Teatro, che appena si potevano udire e intendere i versi, e tutta l’attenzione dell’immenso popolo spettatore era rivolta all’ornamento e agli abiti degli Attori, i quali appena appariva in sulla scena, che battevasi palma a palma per plauso, prima ch’essi prendessero a favellare;

Nam quæ pervincere voces
Evaluere sonum, referunt quem nostra theatra?
Garganum mugire putes nemus, aut mare Tuscum:
Tanto cum strepitu ludi spectantur, & artes,
Divitiæque peregrinæ, quibus oblitus actor
Quum stetit in scena, concurrit dextera lævæ.
Dixit adhuc aliquid? Nil sane. Quid placet ergo?
Lana Tarentino violas imitata veneno.

Non è dunque a stupire, che sì corrotto essendo il gusto della maggior parte di quelli, che accorrevano al Teatro, pochi fossero i Poeti, che si studiassero a divenire perfetti scrittori di Teatrali componimenti, da’ quali non potevano sperare di aver gran plauso, e che da essi perciò più si avesse riguardo ad appagare gli occhi del curioso volgo ignorante, che a soddisfare al buon gusto di pochi saggi e giusti discernitori. Ciò che accade anche al presente ne’ Drammi per Musica, ci può giovare a conoscere ciò, che accader doveva a que’ tempi.

LII. Non così era delle Poesie di ogni altro genere. Queste si componevano dagli autori, come ne pareva lor meglio, senza che fosser costretti a servire al Teatro, si leggevano in private adunanze, dove soli uomini dotti aveano luogo, e il plauso che facevasi agli uni animava gli altri a seguirne l’esempio. Ma lo studio della Poesia fomentato era singolarmente dalla protezione e dal favore, di cui Augusto e Mecenate onoravano i Poeti. Il Conte Algarotti, allontanandosi dal comun sentimento, è d’opinione201, che Augusto né proteggesse né stimasse molto i Poeti, e che riguardasseli come uomini del tutto inutili allo Stato. Egli ha creduto di trovar le pruove del suo sentimento nell’Epistola stessa di Orazio, su cui ci siamo or or trattenuti. Ma io non vi veggo parola, che confermi il parere di questo colto Scrittore,

(1) Saggio fopra la Vita <T Orazio p. 437. Digitized by Google [p. 224 modifica]anzi mi pare, che da essa più chiaramente ancor si raccolga, quanto dovessero i Poeti ad Augusto. E’ vero, che Orazio ivi lo esorta ad accogliere amorevolmente que’ Poeti, che amavan meglio di porre sotto l’occhio de’ leggitori le lor Poesie, che di farle rappresentar sul Teatro, ed aggiugne, che in tal maniera avrebbe egli riempita di libri la Biblioteca, che nel Tempio di Apolline aveva eretta, e che nuovo coraggio aggiunto avrebbe a’ Poeti: Verum age, & his, qui se lectori credere malunt, Quam spectatoris fastidia ferre superbi, Curam redde brevem, si munus Apolline dignum Vis complere libris, & vatibus addere calcar, Ut studio majore petant Helicona virentem. Ma da ciò, che siegue, è evidente, che Orazio vuol qui esortare Augusto a favorire non solo gli eccellenti Poeti, come era in uso di fare, ma i mediocri ancora, perché maggior coraggio prendessero a coltivare la Poesia. Dice egli in fatti, che i Poeti talvolta nuocciono a sé medesimi, come allor quando, soggiugne favellando con Augusto, ti offeriamo un libro, mentre in altre cose tu se’ occupato, o stanco dalle pubbliche cure; quando meniam lamenti, perché le poetiche nostre 132 fatiche non son pregiate abbastanza; quando ci lusinghiamo, che appena tu avrai saputo, che noi facciam versi, fattici tosto venire a te, ci ricolmerai di ricchezze. Multa quidem nobis facimus mala sæpe Poetæ, (Ut vineta egomet cædam mea) quum tibi librum Sollicito damus aut fesso... Quum lamentamur non apparere labores Nostros, & tenui deducta Poemata filo: Quum speramus eo rem venturam, ut simul atque Carmina rescieris nos fingere, commodus ultro Accersas, & egere vetes, & scribere cogas. Le quali parole, come chiaramente si vede, son rivolte soltanto a ferire l’importunità di coloro, che pe’ loro versi, qualunque fossero, volevano essere sollevati subito da Augusto ad alto stato. La quale importunità qui descritta da Orazio è un’altra pruova della protezion d’Augusto inverso i Poeti; che importunati non sogliono essere se non que’ Sovrani, presso i quali si conosce per [p. 225 modifica]non que’ Sovrani, presso i quali si conosce per esperienza, che le letterarie fatiche sono favorevolmente accolte. Quindi a maggior pruova di ciò soggiugne Orazio, che lodevole cosa è il discernere i buoni da’ malvagi Poeti; e recato l’esempio del Grande Alessandro, che non fu in questo troppo felice, aggiugne, che Virgilio e Vario facevan ben essi onore alla stima, in che aveagli Augusto, e a’ doni, di cui gli onorava:

At neque dedecorant tua de se judicia, atque
Munera, quæ multa dantis cum laude tulerunt
Dilecti tibi Virgilius Variusque Poetæ.

A me par dunque, che questa lettera di Orazio, non che distruggere il comun sentimento del favore da Augusto accordato a’ Poeti, il confermi ancor maggiormente, e ci rappresenti questo Imperadore come splendido lor Protettore, ma saggio insieme ed accorto, che non era del favor suo liberale, se non a quelli, che conosceva esserne degni.

LIII. E in vero le Poesie di Orazio e di Virgilio, che per ogni parte risuonano delle lodi di Augusto, e le vite di questi due Poeti scritte dagli antichi autori, che piene sono de’ tratti di bontà e di beneficenza, di cui furono da lui onorati, ne sono un certissimo testimonio. Anzi fu egli stesso diligente coltivator degli studj anche in mezzo alle cure del vastissimo Impero. Molte cose egli scrisse in prosa, che annoverate son da Svetonio202, le quali era solito di recitare nelle adunanze de’ suoi amici. Nella Poesia ancora esercitossi egli talvolta, poiché a’ tempi del mentovato Autore conservavasi un libro intitolato Sicilia, che in versi esametri egli avea composto, e una raccolta di epigrammi da lui fatti, mentre si stava nel bagno. Anzi una Tragedia ancora egli avea cominciata, ma poi parendogli, che non gli riuscisse troppo felicemente, la interruppe203. Piacevasi egli di uno stile




Tom. L JF f eie Della Tragedia intitolata Ajacfced be penfarfi, che Augufto in Greco ferìUliffe da Augufto compofta, e de’ tre- vefle que’ libri. Ma niuno degli Scrittodici libri, eh 1 egli avea fcritti > della ftia ri o contemporanei o vicini ad Augufto propria Vita parla 1* Imperadrice Eudof- ci dice, che quelle opere fo/Tero fcritte fia nella fua Òpera altrove citata ( Ane e- in Greco, e perciò è verifimile, che Eudota Graca.Vtnrt. 17*1. p. 69.) E poi- loffia xrredeflfe forfè, che in quella lingua che effe non parla in quell’Opera che foflero fcritte, e ^he perciò ne facefle ò di Autori Greci di nafcita,ò di Au- menzione* tori, che fcriflero in Greco, così potreb(1) In Aug- e. LXXXV, Digitized by Google [p. 226 modifica]elegante insieme e chiaro204, e ridevasi di coloro, che affettavano di imitare l’incolto, e, per così dire, affumicato parlare degli antichi Scrittori, e talvolta graziosamente su ciò scherzava coll’amico suo Mecenate, che di questo lezioso stile si dilettava assai. Anzi la Greca letteratura ancora studiosamente fu da lui coltivata205, e i Greci Autori e i Filosofi Greci furon da lui letti attentamente, e con piacere ascoltati. Or un uomo sì amante delle lettere come poteva egli non favorir coloro, che ne facevano professione? In fatti Svetonio ci assicura, ch’egli gli ingegni del suo secolo favoreggiò in ogni maniera; e che cortesemente e pazientemente era solito di ascoltare coloro, che innanzi a lui recitavano non versi e storie solamente ma orazioni ancora e dialogi206. E quindi aggiugne ciò, che dalla mentovata lettera di Orazio abbiam raccolto; cioè ch’egli però non voleva esser lodato se non dagli eccellenti Poeti, e che ordinava a’ Pretori, che non permettessero, che col sovente ripeterlo sul Teatro il suo nome venisse in certo modo avvilito.

LIV. Per ciò che appartiene a Mecenate, ad intendere quanto liberal Protettore egli fosse de’ Letterati e de’ Poeti singolarmente, basta il riflettere, che ne è rimasta a’ posteri tal memoria, che il proprio di lui nome è or divenuto nome comune a tutti quelli, che ne seguon l’esempio. Non è qui luogo di esaminarne la nascita, le azioni, gl’impieghi. Si posson su ciò vedere tutti gli antichi e moderni Scrittori della Storia Romana, e più particolarmente l’Abate Souchay nelle sue Ricerche sopra Mecenate207, e M. Richer nella Vita di Mecenate da lui pubblicata in Parigi l’anno 1746. 133 Questi Scrittori ci istruiscono abbastanza dell’antica e nobil famiglia, da cui egli usciva, discendente, come credevasi, da’ Re Etruschi, dell’unire, che in sé egli fece con raro esempio, l’uomo di guerra, combattendo con sommo valore nelle battaglie di Modena, di Azzio e di altre, e l’uomo di gabinetto, assistendo sempre al fianco di Augusto, di cui era confidente ed amico più che Ministro, consigliandolo saggiamente ne’ più pericolosi cimenti, e reprimendone ancor talvol


(1) Id. e, LXXXVT. (4) Mem. de TAcad. de* Infcr. T. (2) li e* LXXXIX. XIII. p. 81. (3) Ibid. Digitized by Google [p. 227 modifica]talvolta con ammirabil franchezza la crudeltà, a cui era sul punto di abbandonarsi, de’ magnifici edificj, che gli persuase d’innalzare, e che innalzò egli stesso, e fra gli altri de’ celebri orti da lui formati sul Colle Esquilino. Io non debbo qui esaminare, che il favore da Mecenate accordato agli studj. Virgilio e Orazio sembrano gareggiare tra loro nel celebrarne la bontà e la munificenza, di cui gli onorava. Assai attento nello sceglier coloro, a cui concedere la sua protezione, anzi la sua amicizia, e detto perciò da Orazio Paucorum hominum & mentis bene sanæ208, quando ben gli aveva sperimentati, non vi era distinzione e onore, che loro non concedesse. Egli introducevali nella conoscenza di Augusto, e ne conciliava loro il favore: egli accoglievali in sua casa, e i loro studj fomentava, e la scambievole loro unione, senza che gelosia o invidia alcuna vi si frammischiasse.

Domus hac nec purior ulla est,
Nec magis his aliena malis; nil mi officit umquam
Ditior hic, aut est quia doctior: est locus uni
Cuique suus209.

Anzi delle sue ricchezze e de’ suoi beni ancora faceva lor parte; e Orazio chiaramente dice, che da Mecenate egli era stato abbondevolmente arricchito. Satis superque me benignitas tua Ditavit210. Questo favore prestato alle lettere da Mecenate traeva la sua origini primieramente dall’esserne egli stesso coltivatore; perciocché Orazio il chiama dotto nella Greca e nella Latina favella: Docte sermones utriusque linguæ211

e alcune opere da lui composte rammentano gli antichi Scrittori, fralle quali, due Tragedie intitolate Prometeo e Ottavia, alcune Memorie per la Vita di Augusto, e parecchi libri di Poesie, di cui però appena ci rimane qualche picciol frammento. Ma esso era frutto innoltre dell’indole stessa di Mecenate, uomo di assai debole sanità, e dell’ozio e de’ piaceri amante fino all’eccesso, ogni qualvolta gli affari gliel permettessero. Vir, così 134

Note

1

Lib. II Epist. I. 

Il passo di Orazio da me qui recato: Græcia capta ferum victorem cepit &c. ha fatto credere ad alcuni, che solo dop



(1) L. I. fat. IX. (3) Epod. od. L (2) Ibid. (4) U III. od. VIU. Digitized by Google

  1. Bibl. lat. l. 4, c. I.
  2. De Poet. lat. c. I.
  3. L. I. Sat. 1.
  4. L. I. Amor. El. XV.
  5. loc. cit.
  6. Osservazioni sopra la Merope, &c.
  7. in Julio c. 73
  8. l. 7, c. 20
  9. l. 3. Amor. el. 15
  10. l. 14, Epigr. 195
  11. 57 Fra gli ammiratori delle poesie di Cicerone deesi annoverare anche il sig. di Voltaire, il quale nella perfezione al suo Catilina ne dice gran lodi; e ne reca in gran saggio alcuni versi che ancor ci rimangono tratti da un suo poema sulle imprese di Mario, in cui descrive un'aquila che ferita da una serpe contro di essa si volge e la trafigge e la sbrana. Questi versi son certamente assai belli e degni della traduzione leggiadra che il sig. di Voltaire ne ha fatta. Essi però bastano bensì a mostrarci che Cicerone avrebbe potuto essere eccellente poeta, il che da noi non si nega, ma non a mostrarci ch'ei fosse veramente tale. Un uomo di pronto e vivace ingegno, come egli era, può in qualche occasione poetare felicemente; ma s'egli non coltiverà in questa parte il suo talento, non perciò dovrà dirsi poeta insigne. Gli altri versi che abbiamo di Cicerone, non son certamente uguali a' que' pochi che il sig. di Voltaire ha tradotti; ed essi ci fan vedere che, benchè egli avesse talento ancor per la poesia, nondimeno avendo più cari altri studj, non curò di aver in essa gran nome.
  12. (l. 4. Trist. el. 10
  13. Alla povertà di Tibullo, ch'io ho qui asserita, si oppone il detto di Orazio, il quale nell'epistola da me a questo luogo citata dice a lui scrivendo fra l'altre cose, Dj tibi divitias dederant artemque fruendi.
  14. Bibl. lat. lib. I. e. XII.
  15. Bibl. Frane, t. V. p. 217. &c.
  16. V. Fabr. Bibl. lat. lib. L e XII.
  17. L. IV. EI. VI.
  18. Lib. IV. Trist. Eleg. IX.
  19. L. I. El. XXII
  20. T. XXXV. Art. X.
  21. An. 1723. Mai p. 838.
  22. An. 1725. p. 363.
  23. T. VII. p. 61.
  24. L. I. Sat. IX.
  25. Lib. III. El. I.
  26. Lib. IV. Trist. El. IX.
  27. Hift. Liter. de la France t. I. p. 101.
  28. Hist. Liter. Aquil. lib. I. c. I.
  29. Notizie de’ Letterati del Friuli t. I. p. a.
  30. Alcuni hanno creduto, che Cornelio Gallo fosse natìo non del Friuli, ma della Città di Forlì, appoggiandosi ad alcuni Codici della Cronaca Eusebiana, ne’ quali leggesi Foroliviensis, non Forojuliensis; e il celebre Don. Morgagni si è ingegnosamente sforzato di render probabile questa opinione (Epist. I. & X.). Ma a dir il vero, se se pongano a confronto tra loro le testimonianze, ch’ei porta in favor di Forlì, con quelle che si producono da’ due Scrittori da me mentovati, il Fontanini e il Liruri, in favore del Friuli, non sembra, che le prime possano sostenersi in faccia alle seconde. Molto più rovinosa è l’opinione di quelli, che il dicono Vicentino, la quale anche da Apostolo Zeno è stata impugnata (Lettere t. I. p. 32 & c.).
  31. In Vit. Virgil.
  32. L IlL Amor. EL XV.
  33. De Rem. AmoR. Lib.i.v. 765
  34. Pag. 257.
  35. Lib. IV. de Ponto El.IX.
  36. V. Fastos Consulares.
  37. L. IV. de Ponto El. VI.
  38. In Vit. Ovid.