Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo II/Libro I/Capo IV

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Capo IV - Storia

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Capo IV.

Storia.

I. I tempi de’ quali or ragioniamo, eran comunemente così luttuosi e funesti, die era quasi a desiderare che non ne rimanesse a’ posteri memoria alcuna. Ma come un infelice prova conforto nel palesare aa’altri le sue dolorose vicende, così molti vi furono tra’ Romani che vollero tramandare alle venture età la notizia de’ mali che lor convenne soffrire. La storia de’ primi Cesari fu l1 argomento su cui molti scrittori di questi tempi s’esercitarono: alcuni altri però presero a ritessere da più lungi la storia romana, ea’altri altro soggetto vollero illustrare, come vedremo. Il numero degli storici di questa età non fu forse inferiore a quello dell’età precedente; ma que’ difetti medesimi che abbiam veduti ne’ poeti e negli oratori di questi tempi, s1 incontrali ancor negli storici, e singolarmente un soverchio parlar sentenzioso, una precisione affettata, e quindi una molesta e spesse volte non intelligibile oscurità; difetti che nacquero essi pure, come negli altri generi di letteratura, dal voler superare, anzichè imitare, gli eccellenti storici de’ tempi addietro, e dal volersi mostrate più di essi ingegnosi ea’acuti. Ciò che abbiam detto di sopra parlando dell1 eloquenza e tifila poesia, vuolsi ripetere qui ancora, e farassi sempre più evidente coll1 esaminare che ora faremo i. Carattere generale digli storici di questi tempi. [p. 204 modifica]II. Notine di Velleio Pater» olo.

gli scrittori ili storia che fiorii’on nell1 epoca eli cui trattiamo. E. Il primo che ci si fa innanzi, perchè prese a scrivere il primo, fra que’ che ci sono rimasti, è C. Velleio Patercolo. Il diligente Enrico Dodwello ne ha descritta cronologicamente la Vita, impresa difficile assai, poichè in niuno degli antichi autori, trattone Prisciano, si trova menzione alcuna di questo storico, di cui nulla sapremmo, se egli stesso non ci avesse qualche volta di sè parlato. Ei dunque pensa e stabilisce con ottime conghietture che Velleio nascesse diciotto anni in circa innanzi all’era cristiana. Discendeva da un’illustre famiglia di Napoli, e tra’ suoi maggiori contava il Celebre Ma gio sì rinomato per la sua fedeltà verso de’ Romani nella guerra di Annibale. Diedesi alla milizia , e combattè in più guerre a’ tempi d’Augusto e di Tiberio, singolarmente in Germania, e vi ebbe onorevoli cariche. Nè mancogli l’onore de’ magistrati civili, essendo egli stato e questore e tribun della plebe e pretore. In qual anno e di qual morte ei morisse, non si può di certo affermare. Ma il vedere che nel fine della sua Storia ei prende ad adular bassamente non sol Tiberio, ma ancora Seiano, rende probabile la congettura di chi pensa ch’ei fosse tra gli amici di questo indegno, ministro, e che perciò egli ancor fosse involto nella rivoluzione che l’anno 31 dell’era cristiana tolse dal mondo e lui e tutti coloro ch’egli avea tratti nel suo partito. Tutto ciò si può vedere ampiamente disteso e provato ne- • gli Annali f^elleiani del mentovato Dodwelio., [p. 205 modifica]che trovami, olire alti e edizioni, in quella di Palercolo l’atta in Leyden per opera di Pietro Burmanno l’anno 1719 (23). III. Di lui abbiamo due libri* di Storia, ma il primo di essi mancante per tal maniera; che appena si può raccogliere qual argomento egli avesse preso a trattare. Giusto Lipsio pensa, e parmi che a ragione, eli’ ci si fosse prefisso di formare un compendio di storia generale de’ tempi e de’ popoli antichi, e di scender quindi a narrar più ampiamente ciò che apparteneva alla storia romana della sua età, il che egli fa realmente nel secondo libro, in cui conduce il racconto fino al sedicesimo anno di Tiberio. Sembra che un’altra più grande opera egli avesse in animo d’intraprendere, e di svolgere in essa ancora più minutamente la storia de’ suoi tempi (l. 2, c. 48,99, ec.), ma che la morte non gli permettesse di compiere il suo disegno. Volfango Lazio ha preteso di aver trovato un notabil frammento di questo scrittore, e lo ha dato in luce (Comment. de Rep. rom. l. 1, c. 8); ma egli non 1 ha potuto (a) Una nuova e assai più esatta edizione della Storia ili \ eliclo l’alereolo illustrala con ampie note si è l’atta nel 17--1) in J eyden per opera ilei sig. David IiliuuLeoio in due grossi tomi in ri.0 lo ne iio aiuta copia per cortese dono fattomene da S. I- il sig. co. Otto« I edcrieo de lyndt 11 S’g. ili Yoorst, ec. , uno de’ Iiiii colti e ile’ pivi dotti uomini che abbia al presente Ollanda , e che ù rimirato in quelle prqvincie come splendido protettore de5 buoni studi da lui non rnen felicemente promossi che coltivati, e come tale conosciuto anebe in Italia, ove l’Arcadia romana si è fallo un pregio di ascriverlo al ruolo de’ più illustri suoi socii. [p. 206 modifica]IV. Valerio ’fa’ Vino: qual sia Pupe ra che t-i ci ha lanciala.

persuadere ad alcuno (V. Fab. Bibl. lat. l. 2, c. 2). Più ardito è il parere di Francesco Asolano che vorrebbe farci credere interamente supposta la Storia di Patercolo (praef. ad Liv. eciit, ald); ma egli ancora non ha avuti seguaci della sua opinione. Nè è già che Patercolo abbia uno stile di cui non vi possa essere il più soave e il più puro, come troppo facilmente ha affermato Giovanni Bodino (Method. Histor. c. 4)5 ma in lui si vede appunto lo stile di questi tempi conciso e vibrato più del doverej e perciò oscuro non rare volte. Non gli manca enfasi o forza, ma a quando a quando ne abusa; e le sentenze vi sono sparse per entro con quella soverchia liberalità che è comune agli scrittori di questa età. Ma sopra ogni cosa ributta quella servile bassissima adulazione con cui egli parla di Tiberio, e di tutte le persone allora care a Tiberio; difetto che non può perdonarsi a qualunque sia scrittore, cui niuno costringe a dir sempre il vero, ma che non dee abbassarsi a mentire sfacciatamente adulando. IV. Contemporaneo a Patercolo, ma vissuto alquanto più tardi, fu Valerio Massimo. Il celebre Andrea Alciati, appoggiato a un’iscrizione che dice esistere in Milano nella chiesa di S. Simpliciano , afferma (Rer. patr. I. 2) clv ei fu di patria milanese (a); ma se il leggersi in (o) L’iscrizione di Valerio Massimo, che era già in S..Sin pliciano, e si era poscia smarrita, sedesi ora nel portico de’ signori marchesi Talenti di Fiorenza in Milano, e si possou leggere le riflessioni sopra essa fatte dal eh. F. abate D. l’otripeo Casati (Cicereji Kpist. I. 1, p. 81. ee.). [p. 207 modifica]ima iscrizione il nome ili Valerio Massimo bastasse a provare che la città in cui essa si trova, fu la patria di questo scrittore, molte altre città potrebbon darsi lo stesso vanto} perciocchè e in Gaeta (Nov. Thes. Inscr. t. 2, p. 863), e in Porto Ferraio (ib.), e in Piacenza ’(£. 8, p. 1416), e in Firenze (ib. p. 1283), e in Narbona (ib.p. 1506), e altrove si veggono iscrizioni segnate di questo nome. Altro di lui non sappiamo, se non eli’ egli fu in Asia con Sesto Pompeo , coni’ egli stesso racconta (l. 2, c. 6, n. 8). Scrisse un’opera in nove libri divisa di Detti e di Fatti memorabili tratti dalle romane e dalle straniere storie, e dedicolla a Tiberio, cui egli pure adulò nella prefazione, onorandolo di tali lodi che appena al più saggio principe si converrebbono. Pare eli egli sopravvivesse a Seiano, perciocchè verso il fine della sua opera (l. 9, c. 11, ext n. 4) ei parla in modo, che sembra non potersi intendere altrimenti che di Seiano già ucciso. Di quest’opera di Valerio Massimo parlano chiaramente Plinio il Vecchio (l. 1 in ind.). Plutarco (in Marcello), e Gellio (l. 1, c. 7)) nè si può perciò dubitare ch’egli non l’abbia scritta. Ma che ella sia a noi pervenuta qual! ei la scrisse, e non anzi un semplice compendio fattone da altri, ciò è di che alcuni muovono dubbio. Nella Biblioteca cesarea in Vienna conservasi un codice (Lamb. Comment. de Bibl. Caes. l. 2, p. 8:>.y, ed. Vindob. 1769) in cui vedesi il libro decimo, ossia l’appendice all’opera di Valerio Massimo, contenente un trattatello de’ nomi propj) e innanzi ad esso leggonsi queste [p. 208 modifica]20*5 LIBRO parole: Dccinìus atquc ultìmus luijns Opcris líber. scu studiosi rum inerita. seti scnptoriun sc^nizìe , seti alio quovis casu aetatis nostrae, perditus est Verum Julius Paris abbreviator / aierii posi novera libros explicitos hunc decimum sub infrascripto compendio complexus est / erba quidem Julii Paridis hoec sunt, ec. E qui segue il principio di detto libro , quale appunto vedesi alle stampe. Da queste parole il Vossio ha congetturato (De Histor.lat. l. 1 , c. 24) che l’opera che noi abbiamo di Valerio Massimo, altro non sia che il compendio di essa fatto dal mentovato Giulio Paride, che perciò dicesi abbreviator di (Valerio. Ma se ben si rifletta , nel passo sopraccitato sembra che Giulio Paride si (dica abbreviator di Valerio solo per riguardo a questo ultimo libro , e che si accenni che gli altri furon da lui o copiati, o in qualche modo illustrati. Il che rendesi, a mio parere, evidente dalla diversa maniera con cui si parla de’ primi nove e del decimo: post novem libros explicitos, hunc decimum sub) infrascripto compendio complexus est. Con maggior fondamento si vuole da altri che un cotal Gennaro Nepoziano sia il compendiatore di Valerio Massimo, e die qup.sto compendio sia quello appunto che noi abbiamo. Del qual sentimento è fra gli altri il P. Cantel nella prefazione premessa all’edizione di questo autore da lui fatta in Parigi l’anno 1679. Apoggiasi quest’opinione a una lettera di Nepoziano, che da un codice ms. ha pubblicala il P. I ahbe (Noe. Bibl. mss. t 1, p. in cui «gli dopo aver detto dia [p. 209 modifica]Valerio Massimo è troppo diffuso, soggiugne: Recidam itaque, ut vis, ejus redundantiam , et pleraque transgrediar; nonnulla proetermissa connectam. È certo dunque che Nepoziano ridusse in compendio Valerio Massimo. Ma egli è certo ugualmente che questo compendio sia quello appunto che noi abbiamo? Il P. Labbe non fa altro che riferire la detta lettera; non dice se nel codice da lui veduto alla lettera si aggiunga l’opera, e se questa sia quale appunto è stampata, anzi nemmeno accenna in qual biblioteca esista il codice sopraddetto. Come dunque esser sicuri che noi abbiamo al presente non l’opera di Valerio Massimo, ma il compendio di Nepoziano? Pare ad alcuni che l’opera, quale ci è giunta, non abbia quella soverchia prolissità che Nepoziano in essa riprende; e ch’ella anzi abbia l’apparenza di un ristretto compendio. Io rispetto il giudizio de’ dotti uomini che senton così; ma confesso che a me ne pare troppo diversamente; e che io penso che se dall’opera di Valerio Massimo si togliessero tutte le declamazioni importune, le inutili digressioni e le ricercate sentenze che spesso vi s’incontrano, essa potrebbe restringersi a assai più picciol volume. E questa è per me assai più valevol ragione a credere che noi abbiamo non il compendio, ma l’opera intera , che non quella che da altri si adduce, cioè che da Gellio e da altri antichi scrittori se ne adducono alcuni passi, i quali colle stesse parole precisamente si trovano ora in Valerio Massimo; perciocchè non sarebbe difficile che il compendiatore avesse ritenute le parole e le Tibaboschi, Voi. II. i4 [p. 210 modifica]JIO LIBRO frasi stesse del suo autore, troncandone solo ciò che gli paresse soverchio. V. Troppo severo, a mio parere , è il gini dizio clic di Valerio Massimo ha portato Desiderio Erasmo, scrivendo eli’ egli sembra africano anzichè italiano, e che tanto egli è simile a Cicerone , quanto un mulo ad un uomo (Dial. Ciceron.). Egli è certo però , e ne convengono tutti coloro che han gusto di buona latinità, che lo stile di quest’autore ha assai dell’incolto o del rozzo; e che non gli mancano inoltre i difetti comuni agli scrittori di questo tempo, cioè un’affettazione viziosa di usar sentenze e concetti, e di farsi credere uomo di spirito e d’ingegno con un parlare intralciato ed oscuro. Gli viene ancor rimproverata , non senza ragione, la mancanza di buona critica, per cui egli senza un giusto discernimento ammassa insieme e racconta tuttociò che da qualunque scrittore vede narrato, e ciò ancora che non è appoggiato che a dubbiosa popolar tradizione; esempio seguito comunemente da quelli che dopo lui han pubblicato somiglianti raccolte di detti e di fatti, di virtù e di vizi. Quindi mi pare che troppo liberale di lodi verso questo scrittore sia stato il ch. conte. di S. Raffaele, che ne ha fatto elogio, come di uno de’ migliori scrittori di tutta l’antichità (Sec.d’Aug.p. 199). L’ultimo libro cbe è intorno a’ nomi propj de’ Romani, non è che un compendio di quello che più diffusamente avea scritto Valerio Massimo; e secondo ciò che abbiam detto, pare che ne sia autore Giulio Paride, benchè in qualche codice [p. 211 modifica]«i attribuisca a C. Tito Probo, il quale non ne fu forse che il copiatore (V.Fabr. Bibl. lat. l 2, c. 5). VI. Debbo io tra gli scrittori di questa età annoverare ancor Quinto Curzio? Non vi ha forse punto di storia letteraria incerto al pari di questo. ’ Niuno degli antichi scrittori fino al secolo XII ha fatto menzione della Storia di Curzio. Di questa si è perduto il principio, in cui forse egli avrà parlato di se medesimo. In tutto il decorso di essa non vi è che un passo in cui egli alluda a’ suoi tempi, ma così oscuramente che non vi ha quasi secolo alcuno a cui quelle espressioni non possano convenire. Come dunque accertare, anzi come affermare con qualche probabile fondamento, a qual tempo sia egli Vissuto? Ecco il celebre passo di Curzio. Narrando le dissensioni che per la divisione del regno di Alessandro si eccitarono, così ci dice (l. 10, c. 9); Proinde jure meritoque popidus romanus salutem se principi suo delebere profitetur, cui noctis, quam pene supremam habuimus, novum sidus illuxit. Hujus hercule, non solis ortus, lucem caliganti reddidit mundo, quum sine suo capite discordia membra trepidarent. Quot ille tum exstinxit f acesi quot condidit gladios? quantam tempestatem subita serenitate discussit? Non ergo revirescit solum, sed etiam floret imperium. Absit modo invidia: excipiet hujus saeculi tempora ejusdem domus utinam perpetua, certe diuturna, posteritas. Se Curzio avesse voluto farsi giuoco de’ posteri, e propor loro a sciogliere un oscurissimo enigma, non altrimenti [p. 212 modifica]<212 LIBRO avrebbe potuto conseguir meglio il suo fine che colle addotte parole. Chi è il principe di cui egli ragiona? Quale fu questa notte che per poco non riuscì fatale all’impero? Quale lo sconcerto de’ membri rimasti senza capo? Qui è dove i critici si dividono in contrarj pareri, e gli uni combatton cogli altri, e ciaschedun si lusinga di riportarne vittoria. Altri dunque vogliono che di Augusto debban intendersi le arrecate parole, perchè egli, dicono, estinse ed acchetò finalmente le civili discordie;, altri le adattano a Tiberio, altri a Claudio, altri a Vespasiano, altri a Traiano, altri a Teodosio. Veggansi i sostenitori di tutte queste sentenze preso il Fabricio (Bibl.lat. l. 2, c. 17), e più stesamente ancora nella seconda parte del Ragionamento della gente Curzia, e dell’età di Q. Curzio l’istorico, del conte. Gianfrancesco Giuseppe Bagnolo, stampato in Bologna l’ann 1745, il quale dopo avere esposti e confutati i sentimenti altrui, propone il suo da tutti gli altri diverso, cioè che Curzio fiorisse a’ tempi di Costantino il Grande, e che di lui egli intenda di favellare nel citato passo. In tanta diversità di pareri a qual partito potrem noi appigliarci? Alcuni hanno speditamente troncato il nodo, affermando che la Storia di Curzio non è altro che una recente impostura di autore vissuto tre o quattro secoli addietro. Tale racconta Guido Patino essere stata l’opinione di un suo maestro (Lettres, t. 1, l. 44)j ta^e ancora era il parere dell’erudito Corrado Schurtzfleischio (V. Acta Erud. Lips. 1729, p. 410). Ma qualunque [p. 213 modifica]rarione arrechino essi di tal sentimento, esso non regge certamente alle prove. Il celebre P. Montfaucon parla di un codice (praef. ad Paleogr. graec.) di Curzio della Biblioteca Colbertina scritto almeno da ottocento anni. Un altro di somigliante antichità rammentasi dal Wangeseilio, mostrato a lui dal famoso Magliabecchi (Pera libror, juven. t. 4, p- 178). E, ciò che è ancora di maggior forza, della Storia di Q. Curzio fanno menzione Giovanni di Sarisbery (l. 8 Polycr. c. 18), e il card. Jacopo di Vitry (Hist. Orient. l. 3), autori del XII e del xiii secolo, oltre altri che rammentansi dal Fabricio (Bibl. lat. l. 2, c. 17). Egli è certo dunque che prima d’allora visse lo scrittore di questa Storia; e lo stil colto ed elegante di cui egli usa , ci fa certa fede eli1 egli scriveva in alcuno de’ buoni secoli della latinità. Intorno a che veggasi il Bayle che assai lungamente ne ha ragionato (Dici. ari. « Quinte Curce »). VII. Convien dunque vedere quale tra tutte le opinioni di sopra accennate sia quella che possa dirsi meglio fondata. Un’attenta riflessione su alcune delle allegate parole ci aprirà forse la strada a conoscerlo. Egli è, a mio parere, evidente che Curzio parla qui di una notte che per poco non era stata l’estrema per l’impero romano: noctis, quam pene supremam habuimus; di una notte in cui essendo l’impero privo di capo, erano perciò le membra, cioè i sudditi, agitati da intestine discordie: quum sine suo capite discordia membra trepidarent; di una notte finalmente in cui l’apparire del nuovo principe eletto avea richiamata [p. 214 modifica]2 I 4 LIBRO la pace, smorzate le fiaccole già accese, e fatte deporre le già sguainate spade, ossia impedita una guerra civile che era vicina ad accendersi: novum sidus illuxit.... lucem caliganti reddidit mundo Quot ille tum, extinxit faces? quot condidit gladios? quantam tempestatem subita serenitate discussit? Io so che alcuni pretendono che la notte di cui Curzio favella, si debba prendere in senso metaforico, cioè per la sconvolgimento in cui trovavasi la repubblica; e che non del tumulto di una sola notte vi si ragioni, ma di lunghe discordie. Ma le parole di Curzio escludono totalmente, s’io non m1 inganno, ogni senso non proprio. Il dire che una tal notte fu quasi l’ultima a Roma, non può certamente intendersi che di una vera notte, in cui il romano impero era stato a grande pericolo di sua rovina: noctis quam pene supremam habuimus. Chi mai parlando di guerra e di dissensioni che avessero quasi condotto a rovina un regno, direbbe con metafora che quella notte per poco non fu l’estrema a quel regno? Egli è ben vero che passa poi Curzio ad usare il senso metaforico con quelle parole: lucem caliganti redidit mundo; ma ciò appunto sta bene; che dalla notte che quasi era stata fatale a Roma , si tragga poi la metafora a spiegare la pace che il principe le avea renduta. In secondo luogo Curzio ragiona, a mio credere, di guerre civili impedite anzichè terminate. Di fatti egli avea parlato prima delle turbolenze che per la divisione del regno di Alessandro si erano eccitate; e conchiude che perciò il [p. 215 modifica]romano impero era debitore della salute al suo principe: Proinde jure meritoque populus romanus salutem se principi suo debere profitetur, perchè impedito avea che l’impero romano non fosse come il macedonico sconvolto dalle guerre civili; e mostrandosi a guisa di favorevole stella, dissipata avea con improvviso sereno la sorgente tempesta: novum sidus illuxit quantam tempestatem subita serenitate. discussit? Qual diversità vi sarebbe stata tra l’un regno e l’altro, e qual maggior gratitudine avrebbe dovuto professar Roma al suo principe, che la Macedonia ad Alessandro, se amendue gl’imperi fossero stati agitati e sconvolti da lunghe guerre? VIII. Ciò presupposto, vedesi chiaramente che alcune delle riferite sentenze non si possono per alcun modo sostenere. Qual fu la notte che al salire d’Augusto al trono minacciasse rovina alla repubblica? Qual fu l’improvviso sereno con cui egli dissipò la procella? E non furono anzi più e più anni di sanguinose guerre civili che gli aprirono la strada all’impero? E come mai han potuto scrivere alcuni che la notte di Curzio sia quella stessa di cui parla Virgilio (Georg. l. 1), cioè l’ecclissi del sole, che seguì dopo la morte di Cesare? come se Curzio non parlasse di una vera notte, ma di un’ecclissi, e come se quest’oscurità fosse stata con improvviso sereno dissipata da Augusto che, come si è detto, funestò prima la repubblica con molti anni di guerre civili. Lo stesso dicasi di Tiberio. Egli salì pacificamente al trono dopo la morte di [p. 216 modifica]lilÓ LIBRO Augusto, senza che in Roma vi fosse la minima apparenza di discordia e di tumulto. Qualche sollevazione seguì nelle truppe che erano nell’Illirico e nella Germania; ma nè vi fu notte alcuna in cui l’impero fosse perciò in pericolo, ed esse si acchetarono presto , senza che Tiberio vi avesse alcuna parte. Pare ad alcuni che la notte di cui parla Curzio, trovisi sul Principio del regno di Vespasiano, perciocchè Primo generale delle sue truppe venne a sanguinosa battaglia di notte tempo presso Ostiglia contro le truppe di Vitellio, e collo sconfiggerle aprì a Vespasiano la via al trono: ma nè Vespasiano trovossi a quella battaglia, nè fu quella notte pericolosa alla repubblica, perciocchè la guerra sarebbe finita ancora, se le truppe di Vitellio avessero riportata compita vittoria sopra quelle di Vespasiano} nè in quella notte fu dissipato il pericolo e la procella, perciocchè due mesi ancora passarono prima che Vespasiano fosse pacifico possessore del trono} nè finalmente egli impedi le guerre civili , ma diede fine a quelle che dopo la morte di Nerone già da oltre a due anni sconvolgevano, la repubblica. Traiano giunse all1 impero per via di adozione di Nerva, senza che vi fosse il più leggero tumulto. Ove è dunque la notte fatale alla repubblica? Le ultime parole dell1 allegato passo di Curzio sono l’unico, ma troppo debole fondamento di tale opinione: Non ergo revirescit solum, sed etiam floret imperium, ec.} perciocché l’impero al tempo di Traiano fu certo in fiore} ma chi non vede che uno storico può facilmente adulando (come [p. 217 modifica]abbiam veduto essere stato a questi tempi universale costume) usare di tale espressione, di qualunque imperadore egli ragioni? Finalmente nè a Costantino nè a Teodosio non può certamente convenire il passo di Curzio; perchè amendue furono eletti imperadori senza tumulto; e se amendue ebbero e rivali domestici e stranieri nimici con cui combattere, ’ non vi fu mai una notte che per la discordia de’ membri dovesse esser fatale all’impero, e in cui la procellosa tempesta dissipata fosse da un improvviso sereno, ma anzi lunghe guerre dovettero sostenere amendue, e spargere molto sangue. Oltre che lo stile di Curzio è troppo più elegante che non l’usato a’ lor tempi. L’esempio di S. Girolamo, che adduce il conte. Bagnolo a provare che anche ne’ bassi tempi vi ebbero eleganti scrittori, non è molto valevole all’intento; e non credo ch’egli persuaderà ad alcuno che questo santo dottore non sia nulla inferiore a Cicerone Rag. ec. p. 220). IX. Rimane solo a vedere se l’opinion di quelli che pensano che Curzio sia vissuto a’ , tempi di Claudio, e che di lui egli intenda di’ favellare, abbia maggior fondamento delle altre. * Così parve a Giusto Lipsio, a Barnaba Brissonio, a Valente Acidalio, e al P. Michele le Tellier gesuita (che non so come dal conte. Bagnolo p. 128) si cambia nel sig. le Tellier); e così pare a me ancora. Leggansi i racconti che fanno Svetonio (in Claud. c. 10), Dione (l. 60) e Giuseppe Ebreo (Antiq. jud. l. 19)) della maniera con cui Claudio fu elevato al trono; e veggasi come ogni cosa ottimamente [p. 218 modifica]218 LIBRO concorda colle parole di Curzio. Ucciso Caligola il dopo pranzo de’ 24 di gennaio, levossi un fiero tumulto, per cui convenne a’ consoli di dividere fra diversi quartieri le truppe per acchetarlo: radunossi al medesimo tempo il senato, e tutto il restante del giorno e tutta la seguente notte si stette disputando e deliberando senza conchiudere cosa alcuna. Altri volevano che si rimettesse la repubblica nell’antico stato di libertà , altri che un altro imperadore si nominasse, ma questi ancora eran tra loro discordi in eleggerlo. Claudio frattanto per timore nascostosi in un angolo del palazzo, e trovato a caso da alcuni soldati, fu condotto suo malgrado al campo, e gridato imperadore, dignità eh1 egli dopo essere stato per qualche tempo dubbioso, si condusse finalmente ad accettare. Il popolo approvò l’elezione, il senato la rigettò: e mostravasi fermo a volere la libertà , e anche a dichiarare la guerra a chi ardisse di aspirare all’impero. Ma i soldati ed il popolo a forza di tumulto e di grida costrinsero finalmente il senato a cedere, e a riconoscere Claudio imperadore. Or ecco la notte in cui per la discordia de’ membri fu l’impero a pericolo di rovina; ecco il principe che con improvviso sereno dissipò la tempesta, estinse le fiaccole, fece cadere a terra le spade. La notte seguente all’uccision di Caligola fu notte di tumulto e di confusione; e l’impero privo di capo, e diviso in varj partiti e in varj voleri, era vicino a provare i funesti effetti di una sconvolta e turbolenta anarchia. Claudio coll’accettare l’impero sopì l’incendio [p. 219 modifica]della guerra civile, che per la discordia del senato e de’ soldati e del popolo era ormai per accendersi, e ricondusse in Roma la pubblica tranquillità. Se dunque Curzio parla sicuramente, come abbiam dimostrato, di una determinata notte che fu per esser fatale a Roma, se tale fu veramente, come fu di fatto, la notte seguente all’uccision di Caligola, in cui Claudio fu portato al trono; e se nella storia degli antichi imperadori niun1 altra notte si trova, in cui avvenissero somiglianti vicende, come io penso che non si possa certo trovare, sarà evidente che Curzio parla di Claudio, e che regnando Claudio egli scrisse la sua Storia. X. Ma Claudio, dicono alcuni, era un principe vigliacco e codardo che si lasciò condun e sul trono dalla violenza e dal furor de’ soldati, e che incapace di far fiorire l’impero, e di ristabilirvi la pubblica pace, lo sconvolse vie maggiormente, lasciandosi regolar ciecamente da pessimi consiglieri e da ribaldi liberti. Come dunque poteva Curzio farne sì grandi elogi, e attribuire a lui la salute del romano impero? Difficoltà che non può aver forza se non presso chi non conosce punto gli scrittori de’ tempi di cui parliamo. Se Velleio Patercolo potè parlare con sì gran lode di Tiberio e di Seiano, se Seneca potè commendar tanto le virtù di Nerone, se Stazio, Marziale.e Quintiliano poteron fare sì grandi elogi di Domiziano, non potè egli ancor Curzio parlare per somigliante maniera di Claudio? Era certo che l’elezione di Claudio avea calmato il tumulto che già cominciava a sollevarsi in Roma. E ciò potea [p. 220 modifica]220 LIBRO bastare a uno storico adulatore, perchè ne desse a Claudio tutta la lode. Che più? Seneca stesso, il severissimo Seneca, non parlò egli ancora di Claudio con adulazione assai più impudente di quella che veggiam usata da Curzio? Leggasi il trattato di Consolazione da lui scritto a Polibio, e veggasi come il grave filosofo parla di questo stupido imperadore. Attolle te, dic’egli a Polibio (c. 31), et quotiens lacrimae suboriuntur oculis tuis, totiens illos in Caesarem dirige: sìccabwntur maximi et clarissimi conspectu nominis... Dii illum Deoeque omnes terrae diu commodent. Acta hic divi Augusti vino al, annos aequet, ac quamdiu inter mortales erit., nihil ex domo sua mortale esse sentiat. Rectorem romano imperio filium longa fide approbet, et ante illuni consorti ni patris quam successorem accipiat.... A listine ab hoc manus tuas, Fortuna.... patere illum generi humano jamdiu aegro el a flirto moderi; patere quidquid prioris principis furor concussit , in locum suum restituere ac reponere. Sidus hoc, quod praecipitato in profundum ac demerso in tenebras orbi refulsit, semper luceat, ec. Così prosiegue ancora per lungo tratto il valoroso e sincero filosofo ad esaltare quel Claudio stesso, nella cui morte poi egli scrisse una satira sì sanguinosa. Ma io ne ho trascelte queste parole singolarmente, perchè esse hanno non piccola somiglianza coll’allegato passo di Curzio. Qui ancora si fanno voti per la posterità del principe, qui ancora esso si rappresenta come ristorator dell’impero, qui ancora, ciò che è più degno di osservazione, si [p. 221 modifica]usa la stessa metafora, chiamando Claudio una stella sorta per risplendere a pubblica felicità. Perchè dunque non potè Curzio usare egli pure di somiglianti espressioni? Anzi questo confronto de’ sentimenti e delle parole di questi due scrittori non è forse un’altra non dispregevole prova della mia opinione? XI. Io non parlo di un altro passo di Curzio, di cui alcuni si son valuti a confermare l’opinione loro intorno all’età di questo scrittore; perciocchè io penso che non se ne possa trarre argomento alcuno a conferma di qualunque sia sentenza. Parlando egli dell’assedio di Tiro, dice che questa città Nunc tandem, longa pace cuncta refovente, sub tutela romanae mansuetudinis reflorescit (l. c. 4); e quindi pensano alcuni che a fissare l’età di Curzio debba cercarsi in qual tempo godesse il romano impero di quella lunga pace di cui egli ragiona. Ma, a dir vero, la pace che qui si accenna, non appartiene già a Roma, ma sì a Tiro che da lungo tempo si stava tranquilla e sicura. Di fatto qual vantaggio, o qual danno poteva recare a Tiro la pace, o la guerra che i Romani avessero co’ Germani, co’ Galli, co’ Parti, o con altri popoli troppo da Tiro lontani? Era dunque la pace di cui godeva Tiro, che rendevala lieta e fiorente; e quindi dalla pace del romano impero niuna prova si può dedurre a conferma di alcuna delle diverse opinioni intorno all’età di Curzio. XII. L’ultima quistione che è ad esaminare intorno a Q. Curzio, si è se egli sia alcuno di quelli dello stesso nome che dagli antichi [p. 222 modifica]222 LIBRO veggiam nominati. Egli non può esser certo colui che è mentovato da Cicerone (l. 3 ad Q. fratr. ep. 2, ec.), poichè ei non poteva vivere fino al tempo di Claudio. Un Curzio Rufo celebre a’ tempi di Claudio troviam rammentato da Tacito (l.11 Ann. c. 20, 21); ma questo storico che ne parla lungamente, e che non suol ommettere cosa alcuna di ciò che giova a formare il carattere de’ suoi personaggi, non fa cenno alcuno di lettere, di cui quegli fosse studioso. In un antico catalogo delle Vite de’ Retori illustri scritte da Svetonio, ma ora smarrite, che era presso Achille Stazio (V. Vo.vv. de Histor. lat. l. 1, c. 28), vedesi nominato un Q. Curzio Rufo; e certo è probabile assai che questi sia lo scrittor della Storia di cui parliamo. Non vi è, a mio parere, ragione alcuna a negarlo; ma non vi è pure fondamento bastevole ad accertarlo. Ciò che è più strano, si è che niun degli antichi, come già abbiam detto, abbia fatta menzione di questa Storia. Questo però non è argomento bastevole a combattere la nostra opinione. Una storia di Alessandro non era a que’ tempi oggetto molto interessante pe’ Romani, che troppo erano occupati delle lor guerre per pensare alle altrui. Quindi non è maraviglia che la Storia di Curzio si giacesse quasi dimenticata. Aggiungasi, che se Curzio non era che semplice uomo di lettere, come è probabile, difficilmente si troverà scrittore a cui venisse occasione di nominarlo. Seneca il 11 retore scrisse, come è chiaro dalla serie dei tempi, prima di lui. Gli storici perchè dovean parlare di un uomo che non avea avuta parte [p. 223 modifica]alcuna agli affari? La maraviglia può cader solamente sopra Svetonio e sopra Quintiliano. Ma quegli, se Curzio era retore, ne avea veramente scritta la Vita, come si è veduto; se non era nè retore nè gramatico, che motivo avea egli di favellarne? Quintiliano rammenta • molti Romani celebri pe’ loro studi e per l’opere loro. Ma qualunque siane la ragione, nel ragionar degli storici ei non rammenta che Sallustio, Livio e Basso Aufidio; e se il silenzio di Quintiliano dovesse bastare per escludere dal numero degli storici quelli de’ quali egli tace, converrebbe ancor rigettare le Storie di Cornelio Nipote, di Velleio Patercolo, di Valerio Massimo, oltre tante altre che allor leggevansi certamente, ed ora sono perdute. XIII. Lo stile di Curzio è colto, elegante e fiorito, benchè, non sempre uguale a se stesso, si risenta anche esso talvolta de’ vizj di una decadente latinità. Ama assai le descrizioni, e talvolta più ancor del bisogno; non si lascia però trasportare dall’ambizione di comparir ingegnoso, difetto comune agli scrittori di questi tempi; par solo ch’ei cerchi di comparir elegante; e questo è ciò che talvolta lo rende vizioso. Ciò non ostante non è mancato chi gli desse il vanto sopra tutti gli altri storici (V. Bayle Dict. art. « Quinte Curce »); e vedremo a suo tempo che Alfonso I re di Napoli ne era rapito per modo, che alla lettura di esso attribuì la guarigione di una grave sua malattia. Intorno agli altri pregi che debbono adornare una storia, se Curzio abbiagli, o no in se stesso riuniti, si è lungamente e [p. 224 modifica]224 LIBRO aspramente conteso tra due eruditi scrittori. Giovanni le Clerc nella sua Arte Critica (pars 3, sect. 3) chiamò a diligente e severo esame la Storia di Curzio; e non vi ha quasi difetto che in lui non trovasse, salvo lo stile, di cui egli ancora il loda, benchè poscia il tratti da declamatore anzichè da storico. Curzio, secondo il le Clerc, nulla sa nè di astronomia nè di geografia; confonde i racconti favolosi co’ veri; non-descrive esattamente le cose; ne racconta molte inutili, e ommette le necessarie; vuol trovare nelle Indie le traccie delle favole greche, e con greci nomi chiama i fiumi più rimoti dell’Asia; non distingue punto gli anni e le stagioni in cui accaddero i fatti ch’egli racconta; egli è finalmente un adulatore panegirista, anzichè un narratore sincero della vita di Alessandro. Parve a Jacopo Perizon che troppo severa ed anche ingiusta fosse una tale censura, e nella sua edizione di Eliano rispose a molte delle accuse dal le Clerc date a Curzio. Questi nella prefazione premessa all’edizion da lui fatta dell’Elegie di Pedone Albinovano l’anno 1703 ribattè le risposte del Perizon, il quale per abbattere totalmente il suo avversario un nuovo libro in difesa di Q. Curzio pubblicò in Leyden lo stesso anno ì ^o3 col titolo: Q. Curtius Rufus restitutus in integrum et vindicatuts. Il le Clerc, scrittor battagliero quant’altri mai, nella sua Biblioteca scelta (t. 3, An. 3) prese a dare l’estratto di questo libro, e il diede qual poteva aspettarsi* da uno scrittore irritato, e persuaso che il Perizon pubblicato avesse quel libro più per diffamare lui stesso che per [p. 225 modifica]difendere Curzio. E perchè nel Giornale degli Eruditi di Parigi (anno 1705, p. 27) si era dato un estratto dell’opera del Perizon, che pareva a lui favorevole, fu da un autor anonimo, ma che dovea certo essere lo stesso le Clerc, inviata loro, e da essi inserita nel lor Giornale (ib-p- 35y), una lettera in cui di nuovo ribatter asi il chiodo, e volevasi ad ogni modo atterrato il Perizon. Or tra questi due scrittori a chi deesi l’onore di aver sostenuto il vero? Io penso che nè all’uno nè all’altro, e che, come suole avvenire, amendue andasser tropp’oltre, uno in accusar Curzio, l’altro in difenderlo. Certo non può negarsi che in questo storico si incontrino degli errori. Ma egli è anche degno di scusa, poichè scrisse di tempi e di luoghi così lontani, che non era quasi possibile ch’egli talvolta non inciampasse. Io non parlo delle Lettere sotto il nome di Curzio già pubblicate in Reggio l’an 1500, e dedicate al conte. Francesco Maria Rangone governatore di quella città pel duca di Ferrara, poscia dal Fabricio ristampate al fine del primo tomo della sua Biblioteca latina. Non: vi ha chi non sappia clic esse sono opera di qualche ben ignorante scrittore de’ bassi secoli, che le ha composte e pubblicate attribuendole parte a un Curzio contemporaneo di Annibale, parte ad altri antichi personaggi. E basta il leggerle, per conoscerne l’impostura. XIV. Più sicure e più copiose notizie ci son rimaste intorno a C. Cornelio Tacito, di’ ei fosse natio di Terni, è tradizione costante fra que’ cittadini; e se ne posson veder le pruove Tiraboschi, Voi. II. i5 [p. 226 modifica]326 LIBRO nella storia dell" Angeloni (Stor.di Terni.p.faec). Era egli di età quasi uguale a Plinio il Giovane, come questi a lui scrivendo afferma (l. 7 ep. 70), ma in modo che Tacito era alquanto maggiore, ed essendo Plinio ancor giovinetto, egli godeva già della pubblica stima. Equidem adolescentulus, cum jam tu fama gloriaqueJlorcres, te sequi... concupiscebam (ib.). Quindi essendo Plinio, come si è detto, nato l’anno 62, convien dire che pochi anni prima nascesse Tacito. Non può dunque, come osserva e lungamente dimostra il Bayle Dict art. « Tacite »), esser questi quel Tacito cavalier romano Intendente della Gallia Belgica, di cui parla Plinio il Vecchio (l. 7, c. 16); perciocchè questi, che morì l’anno 79, narra di aver veduto un figlio di questo Tacito in età di tre anni. Or Tacito lo storico non prese in moglie la figlia del celebre Agricola, di cui egli stesso scrisse la Vita, se non l’anno 78. Egli è anzi probabile che l’Intendente della Gallia Belgica fosse il padre del nostro storico. Questi fu in Roma innalzato da varj imperadori alle più ragguardevoli cariche: Dignitatem nostram, dice egli stesso (Hist. l. 1, c. 1), a Vespaisiano inchoatam, a Tito auctam, a Domitiano longius provectam non abnuerim; ed altrove nomina espressamente la dignità di pretore che ebbe sotto Domiziano (Ann. l. 11, c. 11). A più grande onore ei fu ancor sollevato da Nerva, perciocchè, morto l’anno 97 il celebre console Virginio Rufo, ei gli fu per voler dell’imperadore sostituito , e in quell’occasione fece un magnifico elogio funebre al suo [p. 227 modifica]antecessore (Pi in. I. i} ep.i). CIT ei fosse cacciato in esilio da Domiziano, ella è tradizion popolare non appoggiata da alcun fondamento, come dopo altri ha mostrato il Bayle (l. c.), il (qual pure giustamente riflette che non vi ha prova di ciò che da alcuni moderni si afferma , cioè ch’egli vivesse lino all1 ottantesimo anno di sua età. Egli fu grande amico di Plinio il Giovane, il quale lo avea in grandissima stima, come dalle molte lettere a lui scrittegli è manifesto (l. 2, ep. 6, 205 l. 4? ep 13; l.6, ep. 9; 16; 20; l. 7, ep. 20, 33} l. 8, ep. 7; l. 9, ep. 10, 14)- Di altre cose appartenenti alla vita di questo scrittore veggasi il mentovato Bayle e il P. Niceron che ne ha scritto egli pure con esattezza (Mem, des Homm. ill. t 6). XV. Due storie degli imperadori romani noi abbiamo scritte da Tacito. La prima a cui ei diede il nome di Annali, perchè in essa le cose ch’egli racconta, sono esattamente distribuite negli anni a cui avvennero, comincia dalla morte di Augusto, e termina coll’uccision di Nerone; ma oltre una gran parte del libro quinto si sono infelicemente perduti i libri vii , VIII, ix e x, e il principio del xu, e inoltre parte del xvi, e quei che venivano dopo fino alla morte di Nerone, della cui storia mancano oltre a due anni. L’altra a cui diede il nome di Storia , perchè in essa non tenne il medesimo esatto ordine cronologico, comincia dall’impero di Galba. e giunge fino alla morte di Domiziano; ma di questa ancora solo una piccola parte ci è rimasta, cioè i primi quattro xv. Sue uptre[p. 228 modifica]XVI. R.!ie»»ioui sul luio sii* le. 228 LIBRO libri, e parte del quinto, che giugne poco oltre al principio del regno di Vespasiano. Ella è comune opinione, sostenuta ancora da Giusto Lipsio, che Tacito fosse già vecchio quando si accinse a scrivere queste storie. Ma, come ha osservato il Bayle (l. cit.), egli è certo che Tacito scrisse vivendo Traiano; e quindi, essendo egli nato verso l’an 60, non dovea contare che quaranta o cinquant’anni d’età; e innoltre egli stesso dichiara che quando giugnesse a una robusta vecchiezza, avrebbe allora scritta la storia di Nerva e di Traiano: Quod si vita suppeditet, principatum divi Nervae, et imperium Traiani, uberiorem securioremque materiam, senectuti reposui (Hist. l. 1, c. 1). Vuolsi ancora avvertire che egli scrisse prima i libri delle Storie, e poi gli Annali, come con molti argomenti chiaramente si mostra da molti autori, e singolarmente dal Bayle che di parecchi punti appartenenti alla vita di Tacito ha assai lungamente e diligentemente trattato. Di lui abbiamo inoltre un libro de’ costumi degli antichi Germani, e un altro delia A ita di Giulio Agricola. Vi ha ancora chi gli attribuisce il Dialogo altre volte da noi mentovato intorno al decadimento dell’eloquenza; ma già si è dimostrata la poca verisimiglianza di tale opinione. XVI Non vi è forse scrittore alcuno intorno a cui tanti interpreti e spositori e osservatori siansi adoperati. Ne’ due scorsi secoli principalmente niuno poteva aspirare alla fama di gran politico , se non faceva riflessioni sopra Tacito, o se non mostravasene almeno attonito [p. 229 modifica]ammiratore. Ogni periodo e, direi quasi, ogni motto di questo storico era misterioso, e conteneva qualche profondo arcano, e felice colui che scoprivane maggior numero. Singulae paginae, dice Giusto Lipsio (in praef.), quid paginae? Singulae lineae dogmata , consilia , monita, sunt, sed brevia saepe aut occulta, et opus sagace quadam mente odorandum et assequendum. E perchè alcuni erano stati sì arditi , che avean creduto di trovare in Tacito de’ difetti, molti ne hanno fatte difese e apologie lunghissime, e il Mureto tra gli altri tre intere orazioni ha in ciò impiegate (or. 16, 17, 18), che si potranno leggere da chiunque non sia ancora ben persuaso che Tacito deve aversi in grandissimo pregio. Il Bayle ha raccolti i giudizi di molti uomini illustri intorno a questo scrittore, i quali però non sono tra loro troppo concordi. Alcuni di fatto vorrebbono ribassare alcun poco di sì gran lodi, e confesso che entro io pur volentieri ne’ lor sentimenti. Nè voglio già io negare che Tacito non abbia una forza di pensiero e di espressione superiore forse a quella di tutti gli altri storici antichi. I caratteri presso lui sono maravigliosi: in pochi tratti di penna ei ci forma il più compito ritratto che da pennello di dipintore eccellente si possa aspettare. I racconti e le descrizioni son tali che sembrano porre sott’occhio gli oggetti che rappresentano. I sentimenti, di cui egli sparge la narrazione, sono spesso di una bellezza e di una forza non ordinaria. Ma ciò che in Tacito piace sopra ogni cosa, si è ch’egli è uno storico filosofo. [p. 230 modifica]a3o LIBRO Ei non è pago di narrar ciò che avvenne: ne esamina le ragioni, ne scuopre il mistero, ne osserva i mezzi, ne spiega gli affetti: egli sviscera in somma e scioglie e analizza ogni cosa. Ma non cade egli ancora nel difetto del secolo, cioè in un soverchio raffinamento di pensiero e di espressione? I fini politici e gli occulti misteri cli’ei trova negli avvenimenti vi ebbero veramente parte, o non furon anzi immaginati spesso da lui per desiderio di comparire profondo indagatore degli animi e de’ pensieri? Le sentenze non sono elleno sparse con mano troppo liberale, e non son talvolta raffinate e ingegnose, anziché vel isimili e naturali! La precisione e la forza non passa ella spesso i giusti confini, e non rende’il discorso oscuro, difficile, intralciato? Questi sono i difetti cui sembra di scorgere in Tacito, a chiunque prende a leggerlo attentamente. E non limeño, se noi crediamo agli apologisti di Tacito, e tra gli altri a uno de’ più illustri tra’ moderni filosofi pensatori, cioè a M. d’Alembert che varj passi di questo storico ha elegantemente recati in lingua francese, questi non son difetti, ma rarissimi pregi. Si accusa, dice egli (Mél. de Littérat t. 3 , p. 2.3) , di aver dipinta come troppo perversa la natura umana , cioè di averla forse troppo bene studiata; si dice ch’egli è osi uro, il che vuol dir solamente ch’ei non ha scritto per la moltitudine; si dice finalmente di egli ha uno stil ’ troppo rapido e troppo conciso, come se il maggior merito di uno scrittore non fosse di dir m ìlio in poche parole. L’apologia non può essere più [p. 231 modifica]ingegnosa; ma io chiederò al big. d1 Alembert, per qual ragione egli, che certo non cede a Tacito in ingegno, non usa egli pure di una somigliante maniera di scrivere troppo concisa ed oscura? per qual ragione ha egli tradotti i detti passi di Tacito per tal maniera , che ritenendone la forza dell’espressione e la nobiltà del sentimento , ne toglie ciò che vi ha di soverchio raffinamento e di affettata oscurezza? E certo io intenderò bene che non tutti possano scoprire i più fini e delicati pregi di uno scrittore, e che ciò sia riserbato soltanto a’ più felici ingegni; ma che uno scrittore, in cui que’ medesimi che hanno pure buon gusto di latinità, e che son ben versati nella lettura de’ più pregiati autori, ritrovano spesso oscurità, inviluppo, sforzo e inverisimiglianza; che un tale scrittore, io dico, ci si voglia ad ogni modo vantare come perfetto e maraviglioso modello, io confesso che nol saprà intender giammai. Che se questo mio pensare sembrasse al sig. d’Alembert effetto di pregiudizio di educazione , io pregherollo a vedere ciò che di Tacito scrive uno de’ più liberi e de’ più ingegnosi scrittori dello scorso secolo, dico M. di S. Evremont. A me sembra , egli dice ((Oeuvr. mêlées t. 1, p. 76, éd. de Lyon 1692), che Tacito volga ogni cosa in politica: presso lui la natura e la sorte poca parte hanno nell’esito degli affari; e s io non erro, di azioni semplici, ordinarie e naturali ci reca spesso troppo lontane e ricercate cagioni. Ne adduce quindi alcuni esempj, e poscia così prosiegue: Quasi in ogni cosa ei ci offre quadri troppo [p. 232 modifica]a3 2 libuo finiti, in cui nulla rimane a desiderare di arte, ma assai poco vedesi di natura. Non vi ha oggetto più bello di quello eli ei rappresenta, ma spesso non è quello l oggetto che dee rappresentarsi , ec. Veggasi il rimanente di questo esame, e del confronto che ei fa di Tacito con Sallustio, che parmi degnissimo d’esser letto. Le traduzioni che in tutte le lingue ne sono state fatte, hanno accresciuta assai la fama di Tacito, e fra le italiane è celebre quella del Davanzati, che in essa volle mostrare non essere la nostra lingua in precisione e in forza punto inferiore alla latina. Egli certo è riuscito a racchiudere in uguale spazio l’originale e la traduzione; ma se questa sia tale che possa esser proposta come modello in cui scrivere italianamente le istorie, io non ardisco deciderlo. Ben mi pare che se avessimo qualche storia scritta in uno stil somigliante, ella da assai pochi sarebbe letta. Ma tornando a Tacito , conchiuderò dicendo col P. Rapin (Reflex, sur l /Ust. § 28) che tante cose in bene ugualmente che in male si possono intorno a lui dire, che non si finirebbe mai di parlarne (f). (■}■) Si era già cominciala la slampa di questo mio secondo tomo, quando mi è giurila la nuova e magnifica edizione di Tacito, che di molli anni addietro ci avea fatto sperare il l\ ’’■abriello Brotiev della Compagnia di Gesù, e che ora finalmente è uscita alla luce, lo non credo che alcuno a questa edizione vorrà contendere il primo vanto sopra le altre più antiche. Il diligente confronto dei t< sto con molli codici manoscritti, le copiose ed erudite note, e le belle [p. 233 modifica]XVII. Contemporaneo a Tacito, e trattator!del medesimo argomento, ma in troppo diversa maniera, fu Caio Svetonio Tranquillo. Ebbe a padre, come egli stesso narra (in Othone, c. 10), Svetonio Lene tribuno di una legione a’ tempi di Ottone. Fu assai amico di Plinio il Giovane, che gli scrisse più lettere (l. 1, ep. 18 l. 3, ep. 8; l 5, ep. 11; l. 9, ep. 34), e ottennegli la dignità di tribun militare, benchè poscia ad istanza del medesimo Svetonio conferir la dissertazioni, e le esatte carte geografiche eh’egli vi ha ¡^giunte e singolarmente il supplemento eh’egli ha fatto agli smarriti libri di Tacito, in etti egli ne ha imitato Io stile con una ammirabile felicità , e assai maggiore di quella che da uno scrittore de’ nostri giorni si potesse aspettare; tutto ciò, io dico, rende questa e.iiiione sommamente pregevole agli eruditi. Aella prefazione, oltre le diligenti notizie ch’egli ha raccolte intorno la vita di Tacito , ribatte ancora le accuse che a lui si danno da molli. Ma egli non si lascia per lai modo aci lecare , come altri fanno, dalla stima pel suo autore, che non vi conosca difetti: Tantum al.quando nimis arutum, nimis concistori, ingenii tt ensuum profunditate subobscurum arguerent: non valde repugntiretti; nec cadérti esse Thucydidis vilia, aul, ut loquuntur Graeci, virtntes, urgermi, lo mi compiaccio pei tanto di essermi unito nello stesso parere con queslo dotto interprete, di cui non vi ha cei tamente alcun altro che abbia con più diligenza studialo Tacito, e che meglio ne abbia rilevati i pregi non meno thè ì difetti. >e in qualche altro punto di minore importanza io non son convenuto nel suo parere, conlesso, come in altra nota ho già osservato che la più fòrte dillieoltà ch’io tema potennui in esso opporre, si è l’autorità di s’t valoroso scrittore Ma io ho pensato di dover ciò non ostante seguire quell" opinione che a me parea più probabile. [p. 234 modifica]a34 LIBRO facesse ad un certo Cesennio Silvano di lui parente (l. 3, ep. 8). Nè di ciò contento Plinio, uomo di cui non v’ebbe forse tra gli antichi chi desse più generose prove di vera amicizia, il volle seco in sua casa, e da Traiano gli ottenne que’ privilegi medesimi che propii eran di chi era padre di tre figliuoli. Ecco |:1 lettera da lui perciò scritta a Traiano (l. io, cp. <)5): Già da lungo tempo , o signore , io ho preso a tener meco in casa Svetonio Tranquillo , uomo di probità , di onestà, di erudizion singolare , i cui costumi e i cui studj io ho sempre avuti cari, e tanto più ora lo amo, quanto più da vicino il conosco. Per più cagioni gli è necessario il diritto di tre figliuoli; perciocchè e gode il favore degli amici, e poco felice è stato nelle sue nozze, e spera di ottenere per mezzo nostro dalla vostra clemenza ciò che l’avversa fortuna gli ha negato, ec. Le quali parole di Plinio ci fan vedere la stima in eli’ egli avea Svetonio; di che un altro argomento abbiam parimenti in un’altra lettera da lui scrittagli per esortarlo a pubblicar finalmente i suoi libri (l 5, ep. 11). Fu ancora assai caro all’imperador Adriano, da cui fu adoperato a suo segretario; ma poi ne incorse lo sdegno, e fu privo di quest’onorevole carica, perchè egli con più altri, come narra Sparziano (in Vita Hadr.), apud Sabinam uxorem injussu ejus familiarius se tunc egerat, quam reverentia domus aulicae postulabat. La qual maniera di favellare è stata da molti intesa, come se avesse a spiegarsi di poco onesta famigliarità: ma veramente, come riflette il Cavie [p. 235 modifica](Dici. art. “ Svetone, rem. F’>), pare anzi che debbasi intendere di troppo ardito disprezzo; perciocchè Adriano avea bensì in odio la sua moglie Sabina, ma non voleva che senza sua saputa? injussu ejus, fosse da altri oltraggiata. Ciò dovette accadere verso l’anno 121, dopo il qual tempo non sappiam se Svetonio vivesse più oltre, e che ne avvenisse. XVIII. Molti e di diverse maniere furono i libri da Svetonio composti, parecchi de’ quali si rammentano da Snida (Le.x. ad voc. Tranquillus) che gli dà il nome di gramatico; e in molti di essi quegli argomenti appunto trattava, che degli antichi grammatici erano propj, come de’ costumi, de’ riti, de’ magistrati romani. Ma questi son tutti periti, e oltre le Vite de’ Cesari, delle quali or ora ragioneremo, di lui ci son rimaste soltanto le Vite degl’illustri Gramatici, e una piccola parte di quelle degli illustri Retori, opere che assai belle notizie ci somministrano intorno alla storia della romana letteratura, di cui perciò abbiam fatto noi pure uso non rare volte. Alcune altre Vite di particolari uomini illustri abbiamo sotto il nome di Svetonio, cioè di Terenzio, di Orazio, di Giovenale, di Persio, di Lucano e di Plinio il Vecchio; ma se traggasene quella di Terenzio, che Donato ci ha conservata col farla sua, e quella di Orazio, che da Porfirione si attribuisce a Svetonio , le altre credonsi da molti opere di altri autori, e quella singolarmente di Plinio, che da alcuni vuolsi scritta più secoli dopo Svetonio (V. Fabr. Bibl. Int. L a, c. 2/1). [p. 236 modifica]a36 libro XIX. L’opera per cui il nome di Svetonio è celebre principalmente, sono le Vite de’ primi XII Cesari, (di Giulio Cesare fino a Domiziano; Vite che da lui sembrano scritte non tanto per istruirci nella storia dell’impero di que’ tempi quanto per darci un’idea delle virtù, de’ vizj, de’ costumi di quegl’imperadori. Di fatto assai più egli si stende nel descrivere le private azioni , che le pubbliche loro imprese; e potrebbesi perciò dare alla sua opera il nome di storia anecdota dei Cesari. Ma in questa storia è egli Svetonio scrittor veritiero? o scrive egli soltanto ciò di che correva fra ’l popolo incerto rumore? Gli antichi lo hanno’avuto in conto di scrittor degno di fede. S. G rolamo dice (ap. Voss. de Histor lat l. 1, c. 31) ch’egli scrisse le azioni dei Cesari con quella libertà medesima con cui essi le fecero. Vopisco il chiama scrittor correttissimo e sincerissimo (in Firmo, c. 1), e altrove l’annovera tra coloro che nello scriver le storie alla verità ebber riguardo più che all’eloquenza (in Probo, c 2). Niuno, ch’io sappia, tra gli antichi badato a Svetonio la taccia di scrittor credulo e d’impostore, se se ne tolga ciò che appartiene a’ prodigi; nel che egli pure si lasciò travolgere dalla comune superstizione. E nondimeno dopo diciassette secoli si è finalmente scoperto che Svetonio è uno scrittor bugiardo; che le cose eli’ ci narra di Tiberio, di Caligola, di Nerone e di altri Cesari, sono in gran parte finte a capriccio; e che se Tacito le conferma, Tacito ancora è un impostore. Ma a sì fatte accuse abbiam già bastantemente risposto nella [p. 237 modifica]Prefazione premessa a questo volume, nè giova ora il ripetere ciò che ivi si è ampiamente trattato. Con più ragione si riprende Svetonio delle tante laidezze che troppo chiaramente egli è venuto sponendo nella sua Storia. Il Bayle usa ogni sforzo a difenderlo; e non è a stupirsene, poichè in tal modo difende ancor la sua causa. Ma niuna scusa potrà mai giustificarlo abbastanza; che non è già necessario il narrare ogni cosa, e certe sozzure è assai meglio involgerle in un oscuro silenzio. Per ciò che è delio scrivere di Svetonio, convien dargli la buie di 11011 essersi lasciato travolgere dal vizio » Iella sua età; poichè nulla in lui trovasi di sentenzioso e di concettoso; ma è vero ancora che, oltre lo stile poco colto ed esatto, egli è un narrator languido e freddo, e a cui il nome di compilatore convien meglio che quello di storico. XX. L’ultimo degli storici di questa età fino a noi pervenuti è L. Anneo Floro. Una leggiadra contesa intorno a questo scrittore vi ha tra i Francesi e gli Spagnuoli. Gli uni e gli altri il vogliono lor nazionale; ma gli uni e gli altri confessano che non hanno argomenti a provarlo. I nostri avversarj, dicono gli scrittori della Storia Letteraria di Francia t 1.p. 255), confessano che la lor causa non è appoggiata ad alt una prttova decisiva; e noi confessiamo il medesimo per riguardo alla nostra. Leggansi in fatti gli argomenti che da essi per una parte e da Niccolò Antonio per l’altri (Bibl. vet. hisp. t. 1, c. 16) si arrecano. Tutte son conghietture fondate dai primi sul nome di Floro, e xx. Patria , vita r opere ili Moro. [p. 238 modifica]su quel di Giulio j che da alcuni si aggiugne al nostro scrittore, da’ secondi sul nome di Anneo; prove perciò troppo deboli, perchè possa quest’opinione dirsi in qualche modo fondata. Non giova dunque il disputare su un punto, su cui non abbiam fondamenti a’ quali appoggiarci (a). L ab. Longchamps, felicissimo nell’immaginare ciò che può dare a’ suoi racconti un’aria di maraviglioso e d’interessante, dice (Tabl. hist., ec. t. 1, pag. 123) che Floro ardì di gareggiare in p poesia colf imperador Adriano j e che questi vendicossene solo con una satira in cui rimproverava a Floro il sudiciume fra cui vivea frequentando le bettole e le taverne. Questo racconto non ha altro fondamento, che ciò che narra Sparziano (Vita. Hadr. p. 155), cioè che Floro poeta scrisse questi versi contro di Adriano: Ego nolo Caesar esse , Ambulare per Britannos, Scythicas pati pruinas: e che Adriano rispondcssegli con questi altri: Ego nolo Florus esse , Ambulare per tabernas, Latitare per popinas, Culices pati rolundos. (a) Anche la città ili Como pretende di entrare in campo per aver I’on *re di essere stala la patria di ]• loro (Ginvio , Gli Uomini HI. Comaschi , p. 067). Se un cognome trovalo in una lapide basi a ad indicar la patria di uno scrittore, noi l’arem di leggieri molte importanti scoperte di questo genere. [p. 239 modifica]Ma, oltreché non è certo che questo Floro sia lo stesso che lo storico, io non veggo come da questi versi si possa raccogliere eli’ egli gareggiò in poesia con Adriano. Chiunque ei fosse, scrisse un Compendio della Storia Romana dalla fondazion di Roma fino all’impero di Augusto, che non è però un compendio di Livio, come alcuni han pensato, benchè tratti lo stesso argomento. Egli il compose regnando Traiano, come dal proemio del primo libro è manifesto. Lo stile è l’usato di questa età , sentenzioso e fiorito più del bisogno, e troppo lungi dalla purezza del secolo precedente. Vi ha ancora chi gli attribuisce, ma senza bastevole fondamento, l’inno intitolato Pervigilium Veneris , l’Ottavia che va tra le tragedie di Seneca , e qualche altro componimento: di che veggasi il Fabricio (Bibl. lat. l. 1, c. 23), e il Vossio (De Histor. lat. l. 1, c.30; De Poetis lat. c. 4)• XXL A questi storici, i cui libri o interamente, o in gran parte si son conservati, aggiugniamone alcuni altri dei quali o nulla, o solo qualche picciolo frammento ci è rimasto. Tra questi vuol concedersi il primo luogo a Cremuzio Cordo. Avea egli scritti gli Annali di Augusto con una libertà da antico Romano; e fra le altre cose parlando di Cassio e di Bruto, gli avea chiamati gli ultimi de’ Romani, come se dopo la lor morte più non fosse vissuto uomo degno di sì glorioso nome; e inoltre avea egli parlato altre volte con un generoso sdegno della viltà e bassezza in cui i Romani erano allora caduti (Sen. de Con.sol. ad [p. 240 modifica]2^0 LIBRO Marciam c. 22). Più non vi volle, perchè due perfidi adulatori di Seiano lo accusassero a Tiberio. Tacito lo introduce a difendere innanzi all’imperadore la sua causa, ma con una fermezza che allora troppo era rara a vedersi in Roma. Ei nondimeno conobbe che ogni difesa era inutile, e tornatosene a casa da se medesimo si uccise di fame (ib.) e Tac. l. 4 Ann. c. 34, ec.; Svet. in Tib. c. 61; Dio l. 57). Il 5e. nato romano, che pareva allora non avere altra autorità fuorchè quella di adular vilmente Tiberio, comandò che le Storie di Cordo fosser date alle fiamme; ma un tal comando fu inutile, ed esse, per opera singolarmente di Marzia figlia dell’infelice scrittore, furon salvate e nascoste per qualche tempo; finchè Caligola, per acquistarsi 1 universale benevolenza colf annullare ciò che avea fatto Tiberio, permise che esse di nuovo si pubblicassero (Sen. ib. c. 1; Tac. e Dio l c.). Un frammento delle sue Storie ci è stato conservato da Seneca il retore (Suas.7)) in cui egli, dopo aver narrata la morte di Cicerone , raccontava in qual modo ne fosse pubblicamente esposto il capo su’ rostri; e io qui recherollo, perchè si abbia un saggio dello stile di questo scrittore, in cui, benchè vivesse al fin del regno d’Augusto e al principio di quel di Tiberio, vedesi nondimeno offuscata alquanto la purezza e l’eleganza della lingua latina. Quibus visis, ilice egli, laetns Antonini, cimi pcractam proscriptionem suam dixisset esse, qilippe non satiatus modo caedendis civibus, sed defectus quoque, jussit pro rostris exponi. Itaque quo saepius ille ingenti circumfusm [p. 241 modifica]turba processerat, quae paulo ante coluerat piis concionibus, quibus multorum capita servai rat, tu/n per artus suos latus, ali ter ac solitus erat, a tiri bus suis conspcclus est; praetendenti capiti, orique ejus impensa sanie, brevi ante Princeps Senatus, Romanique nominis titulus, tum pretium inierfei toris sui. Praecipue tamen solvit pectora omnium in lacrymas gemitusque vi sa ad caput ejus deligata manus dextera divinae eloquentiae ministra: caeterorumque caedes privatos luctus excitaverunt, illa una communem. XXII Somigliante a quel di Cremuzio Cordo fu il destino di Tito Labieno, e delle Storie da lui scritte. Di lui parla assai.lungamente Seneca il retore. (Proem. l.5. Controv.) che avealo conosciuto; e cel descrive come uomo non meno per vizj che per eloquenza famoso. Povero di sostanze, infame pe’ suoi delitti, avuto in odio da tutti, e per la rabbiosa sua maldicenza detto scherzevolmente Rabieno, era nondimeno tale nel perorare, che anche i suoi più aperti nemici costretti erano a confessare ch’egli era uomo di grandissimo ingegno. Lo stile da lui usato era come di mezzo tra quello del buon secolo precedente e quello che allora era in fiore: Color orationis antiquae, vigor novae , cultus inter nostrum ac prius seculum medius, ut illum posset utraque pars sibi vindicare. Avea egli scritta una Storia in cui sembra che narrasse le ultime guerre civili, e in essa avea parlato con tal libertà che pareva , dice Seneca , che ei non avesse ancor deposto lo spirito pompeiano: ed egli stesso Timboschi, Voi. IL 16 XXII. Simigliali* te siiuu di i ito LabirUO[p. 242 modifica]242 libro ben dovea conoscere il pericolo a cui con ciò si esponeva; perciocchè, come racconta lo stesso Seneca , leggendola egli un giorno pub. blicamente , ne ommise una gran parte , e volgendosi al popolo, queste cose ch’io or tralascio, disse, si leggeranno poscia dopo la mia morte. Ma non bastò questo a sottrarlo ad ogni pericolo; perciocchè divolgatesi le Storie da lui composte, furono esse ancora per pubblico ordine date alle fiamme; nella qual occasione racconta Seneca che Cassio Severo, poichè vide arsi gli scritti di Labieno, or, disse ad alta voce, convù n gittar me ancora alle fiamme, poichè io gli ho impressi nella memoria. A qual tempo ciò avvenisse, Seneca nol dice, e il Vossio sta incerto (De Histor. lat. l. 1, c. 24) se un tal fatto si debba credere seguito sotto il regno d’Augusto, o sotto quel di Tiberio. Ma di Augusto già abbiam veduto che troppo egli era lungi da queste crudeli maniere, le quali al contrario assai frequenti si videro regnando Tiberio. Labieno non volle sopravvivere a tal disonore; e fattosi condurre al sepolcro de’ suoi maggiori, ivi volle essere chiuso ancor vivo, e finirvi spontaneamente la vita. Caligola poscia insieme con le Storie di Cremuzio Cordo e di Cassio Severo quelle ancor di Labieno volle che si pubblicasser di nuovo, e che si potesser leggere impunemente (Svet. in Calig. c. 16); ma nulla ce n’è pervenuto. Di Cassio Severo già si è parlato nel tomo primo tra gli oratori. XXIII. Due altri storici rammentansi da Quintiliano, i quali convien dire che in forza e in [p. 243 modifica]eleganza eli scrivere fossero superiori agli altri} poichè in tanta copia di scrittori di storia che verso questi tempi fiorirono, egli di questi due soli ci ha lasciata memoria. Sono essi Servilio Noniano, o, come altri leggono, Noviano, e Aufidio Basso, dei quali Quintiliano forma il carattere con queste parole: Qui’et ipse (parla di Servilio) a nobis auditus est, clari vir ingenii, et senti ntiis creber, sed minus pressus, quam historiae auctoritas postulat. Quam paulum aetate praecedens eum Bassus Aufidius egregie utique in libris belli Germanici praestitit, genere ipso probabilis in omnibus, sed in quibusdam suis ipse viribus minor (l. 10, c. 1). Non è però a credere che questi soli ottenessero fama nello scrivere storie. Certo più altri ne veggiam nominati con lode dagli antichi scrittori. Così di Brutidio fa onorevol menzione Cornelio Tacito (l. 3 Ann. c. 66), e qualche frammento delle sue Storie ci è stato conservato da Seneca il retore (Suas. 6). Così Svetonio accenna le Storie da Getulico scritte (in Calig. c. 8), il qual sembra essere quel medesimo che dopo avere per dieci anni governata la Germania con somma lode, da Caligola fu fatto uccidere solo perchè era accetto a’ soldati (Dio l 5;))} e Tacito parimente nomina le Storie di Vipsanio Messala (Hist. l. 3, c. 18,?.5) che è uno degl’interlocutori del Dialogo sul decadimento dell’eloquenza. Così ancora Gneo Domizio Corbulone, uomo celebre singolarmente nel mestiere dell’armi per le guerre sostenute nella Batavia e nell’Oriente, avea scritte le Storie de’ suoi tempi, come da Plinio il Vecchio (l. 5, c. 24 l- 6, c. 8) e d* [p. 244 modifica]a44 lirro Tacito (/ i5 Ann. c. 16) si raccoglie; cosi ’ molti altri verso il tempo medesimo, che lungo e inutil sarebbe il voler far menzione di tutti. Si può vedere ciò che di es.-u ha scritto il Vossio (De Histor. lat l. 1, c. 23, ec.). Io aggiugnerò solamente che tra gli scrittori di storie debbonsi annoverare ancora gl’imperadori Tiberio e Claudio, che, come abbiam detto, oltre altri libri scrissero la lor propria Vita, e la celebre Agrippina madre di Nerone, la quale scrisse ella pure la sua Vita e le vicende di sua famiglia (Tac. l. 4 Ann. c. 53). XXIV. Nulla meno fecondi di scrittori di storie furono i regni di Domiziano e di Traiano, come da varj passi delle lettere di Plinio il Giovane si raccoglie. E due singolarmente son celebri nelle storie, perchè furono vittime infelici del crudel furore di Domiziano, Erennio Senecione, e Lucio Giunio Aruleno Rustico, da lui fatti uccidere, quegli perchè avea scritta la Vita del celebre filosofo Elvidio, di cui ragioneremo nel Capo seguente (Tat. Vit. Agric. c. 45; Plin. l. 1, ep. 5; l. 3. ep. 11; l. 7, ep. 19, ec.); questi perchè avea scritte le lodi dello stesso Elvidio e di Peto Trasea (Svet. in Domit. c. 10). Quel Pompeo Saturnino ancora, che abbiam già annoverato tra gli illustri poeti, era. a parer di Plinio, storico eccellente; perciocchè questi, dopo aver favellato con molta lode delle orazioni da lui recitate, ei nondimeno, continua (l. 1, ep. 16), più ancora piacerà nella storia e per la brevità, e per la chiari zza, e per la soavi tei, e per gli ornamenti, ed anche per la sublimità dello stile. Con somiglianti [p. 245 modifica]elogi parla il medesimo Plinio di Titinnio Capitone, cui chiama uomo ottimo e da esser annoverato tra’ principali ornamenti del secolo suo (l. 8, ep. 12)5 e ,,e ^ut^a ailc^ra il fomentare ch’ei faceva gli studj con sommo impegno, sicchè vien da lui detto literarum jam senescentium reductor ac reformator. Or questi, come narra lo stesso Plinio , stava scrivendo un libro in cui narrava la morte degli uomini illustri de’ suoi tempi. Di non diverso argomento era l’opera di cui tre libri avea già composti Caio Fannio. Non dispiacerà, credo, a’ lettori eli’ io qui rechi la lettera che Plinio scrisse al risaperne la morte; poichè ella è sommamente onorevole a Fannio. e insieme ci scuopre l’eccellente carattere di Plinio, in cui io confesso che parmi di vedere uno de’ più. saggi e de’ più onesti uomini di tutta l’antichità. Mi vien detto, scrive egli (l.5 , ep. 5), che C. Fannio è morto, e questa nuova mi affligge al sommo; prima perchè io lo amava, uomo, come egli era, colto ed eloquente; e innoltre, perchè del consiglio di lui io soleva giovarmi assai. Egli era di acuto ingegno, esercitato negli affari, e ali occasione fecondo di varj partiti... Ciò che più mi affligge, si è che ha lasciata imperfetta un’eccellente sua opera. Perciocchè, benchè ei fosse occupato nel trattare le cause, scriveva nondimeno le funeste avventure di quelli che da Nerone erano stati o esiliati, o uccisi. Aveane già ei compiuti tre libri scritti in uno stile di mezzo tra il favellare ordinario e quello che alla storia conviene, ma con ingegno, con esattezza e con eleganza. E tanto più ei bramava [p. 246 modifica]l\6 LIBTIO di compir gli altri, quanto più avidantente vedeva leggersi i primi. A me pare che la morte di quelli che apparecchiano cose degne della immortalità, sia sempre acerba troppo ed immatutra. Perciocchè coloro che abbandonati a’ piaceri vivono, per così dire, alla giornata, compiono ogni giorno l’oggetto e il fine della lor vita. Ma a quelli che pensano alla posterità , e che voglion lasciar di se stessi qualche memoria ne’ loro libri, la morte è sempre improvvisa, perchè sempre interrompe qualche lor fatica. Sembra nondimeno che Fannio avesse un cotale presentimento di ciò che è avvenuto. Parvegli una volta dormendo di giacersi nel suo letto in atteggiamento di studiare , e avendo innanzi lo scrigno de’ suoi scritti; e immaginossi di vedere Nerone che entratoli in camera e assiso sul letto prese nelle mani il primo libro che su’ delitti di lui commessi egli avea scritto, e il lesse interamente, e fatto il medesimo del secondo ancora e del terzo, andossene. Fannio ne ebbe terrore; e interpretò il sogno, come se dovesse ei finir di scrivere, ove Nerone avea finito di leggere; e così fu veramente, Io non posso di ciò ricordarmi, senza dolermi che tante fatiche egli abbia inutilmente gittate e tanti studj; e la mia morte ancora e i miei libri mi vengono al pensiero. Tu ancora da un somigliante timore, io credo, sarai compreso per quelli che ora hai tra le mani. Quindi, finchè abbiam vita, sforziamoci a far per modo che. la morte trovi a troncare quanto men sia possibile de’ nostri lavori. • [p. 247 modifica]XXV. Per ultimo, se non tra gli storici, almen tra quelli che furon benemeriti della storia, deesi annoverare Muciano, forse quel desso che sì gran parte ebbe nelle guerre civili al principio dell’impero di Vespasiano. Un’utilissima opera avea egli intrapresa, e in parte eseguita: cioè di raccogliere dalle biblioteche tutti gli atti e le lettere tutte de’ tempi addietro, che vi si trovavan riposte. E già undici libri di Atti e tre di Lettere avea ei pubblicati, quando si tenne il Dialogo sul decadimento dell’eloquenza, di cui si è ragionato (De caus. corr. eloq. c. 37). Ma quest’opera ancora, che ci sarebbe ora di sì gran giovamento, è in tutto perita.