Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo VI/Parte III/Libro III/Capo VII

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Capo VII – Arti liberali

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Parte III - Capo VI

[p. 1698 modifica]Capo VII. Arti liberali. I. Quel medesimo amor della gloria, e quello spirito di magnificenza che mosse in questo secolo i principi e i signori italiani a protegger le scienze e ad onorarne gli studiosi coltivatori, gli animò parimente ad avvivare col lor favore e a promuovere co’ lor tesori i progressi delle belle arti. E come per opera loro si vider tutti gli studj sorgere a nuova luce, e dissiparsi finalmente le tenebre che da tanto tempo ingombravano non sol l’Italia, ma tutta l’Europa, così le arti, che qualche sforzo avean già fatto ne’ secoli precedenti per risorgere all’ antico splendore, in questo, se ancor non poterono conseguirlo, a gran passo però si avanzarono verso la lor perfezione. Noi dobbiam dunque esaminarne a questo luogo i progressi, ma con quella brevità di cui usar ci conviene in questo argomento, che non appartiene direttamente allo scopo e all’ oggetto di questa Storia. II. E per cominciare, come altre volte abbiam fatto, dalla’ architettura, grandi e magnifici furon i privati e i pubblici edificii che in ogni [p. 1699 modifica]TERZO 1699 parte dell’Italia si vennero innalzando. I duchi di Ferrara Borso ed Ercole I mostrarono in ciò una forse non più veduta magnificenza. Nel Diario ferrarese, pubblicato dal Muratori, abbiamo un ristretto ragguaglio delle fabbriche per ordin di Borso erette in Ferrara e in que’ contorni, e un saggio della real pompa di quella corte: Per lo tempo del quale Duca Borso fu fatto Schivanojo, il Paradixo novo, la Certoxa tutta, excepto il corpo della Giesia, che prima non era mai stata Certoxa qui; et sua Excellentia la adoptò di lire otto mila l'anno di intrada. Item fece fare il Palazzo di Belumbra, et quello di Benvegnante, et quello di Messer Teophilo Calcagnino suo compagno, che è di dreto da Schivaonjo. Item il fece fabricare molto al Castello vecchio da la parte del Leone. Item a Fossa dalbero, Belriguardo, Quartexana, Medelana, et Hostellato. Palazi il fece lavorare assai. Il fece principiare Monte Santo, et il Palazzo, la Cittadella di Reggio, la Rocca della Cittadella di T.ugo, et quella di Rubera, et Canossa, il fece fare lui. Questo Duca non tenne mai manco di Cavalli 700 da biava in casa, tenea in casa da cento Falconieri, et molti Scudieri, et bellissima famiglia, et virtuosa Costui per lo suo tempo donoe fra dinari et robe in valore di quattrocento mila Ducali et più. Il fece fare anche il Palazzo, che’1 donoe a Messer Peregrino di Pasino da Sancto Domenico in Ferrara. Questo Signore sempre in campagna cavalcava vestito di panno d oro e di seda: per la terra portava collane di srptanta millia Ducati l'una. Dinari alla sua morte [p. 1700 modifica]I7OO LIBRO fu exstimato se ne trovasse circa Ducati cinque cento mila (Script. rer. ital. t. p. 233)* Nulla minore fu l'impegno del duca Ercole I nello stendere e nell’abbellire Ferrara. Oltre ciò che ne hanno gli storici di que’ tempi, i quali descrivono i magnifici palazzi, i portici, i tempj da lui fabbricati, il castello da lui finito, le lagune asciugate, i parchi formati, e più altre opere di regia magnificenza, ne parla ancora più volte Tito Vespasiano Strozzi ferrarese, e in una elegia singolarmente in cui assai bene riunisce tutte le grandi cose in questo genere da lui operate. Non sia grave al lettore ch’io ne riporti qui il principio, per dar qualche idea della pompa e del lusso di questo gran principe. Ponere templa Deis, circumdare moenibus urbem, Regia deposito tecta novare situ, Egregiam magnis absolvere sumptibus arcem, Cum certo irnmensum fine careret opus: Tot veteri ornamenta foro praebere, novumque Addere, et innumeras aedificare domos, Sternere nostra vias ad commoda, cingere muro Pascentes intus lata per arva feras, Claudere victurum spatioso gurgite piscem, Abdita susceptas qua via ducit aquas, Aggeribus montes plunum simulare per aequor, Siccatos junctis bobus arare lacus, Plaudenti populo l'ontes aperire salubres, Quos operosa vagi vena liquorit agit, Magnum et difficile est moliri tanta repente, Totque animum curis implicuisse simul. Haec et pulcra tamen nostri admiranda peregit (O rem incredibilem) tam cito cura Ducis. Nunc hortos etiam Alcippi, et pomaria Cyri Exuperant una nata vireta die. Aelostìcon, /. 1, el. ult. [p. 1701 modifica]TERZO l^Ot III. In somigliante maniera renderono eterna la lor memoria e il lor nome i duchi di Milano, e singolarmente Francesco e Lodovico Sforza. Del primo racconta Pier Candido Decembrio, il quale ne scrisse la Vita, ch egli oltre l’avere in più guise abbellita quella città, rifabbricò il nuovo castello detto di Porta di Giove e il ducale palazzo, e che innoltre scavò pel tratto di venti miglia il canale detto volgarmente il Navilio della Martesana, che conduce fino alla stessa città le acque dell’Adda (Script. rer. ital. vol. 20, p. 1045). Credesi comunemente che questa fosse opera di Lodovico, e che vi avesse parte Leonardo da Vinci. Ma l’autorità del Decembrio morto prima che Lodovico avesse parte al governo di quello Stato, e quella di Gaudenzo Merula vissuto non molto dopo, il quale pure attribuisce quell’opera a Francesco (De Antiq. cisalp. Gall. l. 3, c. 9), ed altri autentici monumenti citati nella Relazione del Naviglio di Martesana (p. 3, ec.), non ci lascian in ciò alcun dubbio. A Francesco deesi parimente la magnifica e real fabbrica del grande spedal di Milano, a cui fu principalmente incitato dalle prediche del B. Bernardino da Feltre e di f Michele da Carcano. Alcuni ne fanno architetto Bramante, ma ei non avea che 13 anni, quando ne fu gittata la prima pietra. Più probabile sembra l’opinion del Vasari che ne attribuisce il disegno (Vite de.’ Pitt, t. 4, p• 15 ed- F*r. 1771) ad Antonio Filarete architetto fiorentino. Ma l’eruditissimo sig co Girolamo Carrara bergamasco in una sua lettera a monsig Bottari (Racc. di Lettere [p. 1702 modifica]1702 LIBRO sulla Piti. ec. t. 4, p. 316, ec.) ha pubblicato un passo della dedicatoria con cui Antonio Averlino o Averulino architetto egli ancor fiorentino offre a Francesco Sforza un suo trattato d’Architettura non mai uscito alla luce, e di cui annovera alcuni codici a penna il co Mazzucchelli (Scritt ital. t. 1,par.2,p. 1427). Or in essa egli afferma di aver dato il disegno di quel grande spedale: Sicchè non essendo così bene ornata (parla della sua operetta) pigliala non come da Oratore, nè come da virtuoso, ma come dal tuo Architetto Antonio Averlino Fiorentino, il quale fece le porte di bronzo di S. Pietro di Roma... e nell inclita tua Città di Milano lo glorioso albergo de’ poveri di Cristo, il quale con la tua mano la prima pietra nel fondamento collocasti, e anche altre cose per me in essa ordinate., e la Chiesa maggiore di Bergamo con tua licenza ordinai. Io credo però «li ct'rto che Antonio Averulino e Antonio Filarete non sieno che un sol personaggio. Del Filarete dice il Vasari, che scrisse 24 libri di Architettura, e che dedicolli a Pietro de Medici. L’opera dell’Averulino, come affermasi dal co Mazzucchelli, è in 25 libri; e in un codice da lui veduto si legge la dedica dell’autore al detto Pietro de Medici. Innoltre il Filarete, secondo il Vasari, afferma in quella sua opera di aver dato il disegno dello spedal di Milano e del duomo di Bergamo, e amendue appunto queste fabbriche a sè attribuisce l’Averulino, onde a me sembra evidente che Averulino e Filarete sien due diversi [p. 1703 modifica]TKHZO I ~o3 cognomi d’un uomo solo (a). Aucor più splendido e più liberale nel fomentare le belle arti si mostri» Lodovico il Moro. Abbiam già parlato della fabbrica dell’università di Pavia che da lui fu innalzata, a cui ancor deesi aggiugnere il Lazzaretto per gli appestati che per ordine di Lodovico fu fabbricato in Milano. Gli scrittori milanesi ci parlano dell’accademia di pittura, di scultura e d’architettura eli’ ei raccolse in sua corte; e benché di essa io non trovi alcuna menzione negli scrittori di quel tempo, il veder nondimeno chiamati a Milano da Lodovico fra gli altri que’ due uomini d’immortai ricordanza, il Bramante e Leonardo da Vinci, de' quali diremo in questo capo medesimo, e il vedere i molti e valorosi discepoli che ivi essi formarono, ci rende assai probabile la loro asín) 11 P. Domenico Maria Berardelli dell’Ord de' Pred nel suo Catalogo de’ Codici della Libreria dei’ SS. Gio. e Paolo di Venezia ha pubblicata la prefazione dell’ Averulino a’ suoi xxv libri di Architettura diretta a Pietro de’ Medici e tradotta in latino da Pietto Bonfini (N. Racc. d’Opuse, scientif. t. 37, p. 35). In essa, che in sostanza è la stessa coll’altra già indicata, confermasi la mia opinione, che Averulino e Filarete sia un personaggio medesimo, e ciò che delle fabbriche da lui inalzate si è detto: Quamobrem non ut a Vitruvio.... sed ut a tuo Philnrete siri hi/erto Antonio Averulino Ci ve Fiorentino, qui Romae D. Pe~ tri postes sedente Eugenio B. M. ex aere fecit, hoc opus accipies. Quin etiam Mediolani imperante Francisco Sfortia, qui primus lapidem in jaciendo fundamento sua manu possuit, amplissimum miserorum hospitium Divinae pietati dicatum ipse statui, variaque in era urbe opera fabricatus sum. Bergami quoque Basilicam insane sumptu faciendam curavi. [p. 1704 modifica]1704 Linno serzione. Delle gran fabbriche de’ Gonzaghi marchesi di Mantova parla il ch ab Bettinelli nel primo de’ suoi Discorsi sulle Lettere e sulle Arti mantovane, e rammenta fra le altre cose il march Lodovico, e il chiamar ch’egli fece a Mantova Andrea Mantegna e Leonbattista Alberti, uno pittore, l’altro architetto de più famosi che allor vivessero e noi ancora nel parlare dell’Alberti abbiamo accennato il celebre tempio di S. Andrea, che in quella città fu secondo il suo disegno innalzato. Io non finirei sì presto, se volessi scorrendo per tutte le città d Italia additare i vasti e superbi edifizj che in questo secolo vi furono innalzati. Que’ medesimi principi il cui dominio era ristretto in assai angusti confini, parea che volessero in ciò gareggiare co’ più potenti. Basti accennarne in prova ciò che abbiamo negli antichi Annali di Forlì pubblicati dal Muratori, ove descrivonsi a lungo i palagi, i portici, le piazze, le torri ed altre fabbriche di cui quella città fu abbellita ed ornata verso il 1473 P*no degli Ordelaffi, che ne era signore (Script. Rer. ital. vol. 22 ì p. 230, ec.). E lo stesso dicasi de’ Malatesti, de’Bentivogli e di altri signori italiani, il lusso e magnificenza dei’ quali parve andar del pari con quella de’ più potenti sovrani (a). (n) I duchi d’Urbino non cederono in questo genere di magnificenza a’ più potenti sovrani. Basti accennare il lor palazzo che tuttora sussiste nella stessa città di’ Urbino, uno de’più maestosi che abbia l’Italia. Ne fu architetto quel Francesco di Giorgio sanese di cui si è parlato nella parte I di questo tomo. Egli fu uno [p. 1705 modifica]TERZO iyo5 IV. Ma due altre città d'Italia per fama di pubblici e di privati edifizj si distinsero sopra tutte Firenze e Roma. Io non parlerò delle fabbriche innalzate nella prima di queste città, perciocchè di alcune delle più celebri dovrem dire trattando de più famosi architetti. Qui avvertirò solamente che molto dovette l’architettura al gran Lorenzo dei’ Medici, non sol pe tesori che nelle sue magnifiche fabbriche ei profuse in gran copia, ma ancora per l’ottimo gusto ch’ei v’introdusse. Niccolò Valori, che ne scrisse la Vita, racconta (Vita Laur. Med. p. 46) che’egli era amantissimo di quest’arte, e che studiava di rinnovarne, l’antica maestà; il che egli diè singolarmente a vedere nel palazzo di Poggio a Caiano. Aggiunge ancora (ib. p. 62), che molti aveano sì grande stima del saper di Lorenzo in architettura, che a lui inviavano i modelli e i disegni di quelle fabbriche che voleano innalzare, e che fra gli altri Ferdinando re di Napoli, avendo in animo di rifabbricar la sua corte, ne chiese a Lorenzo, e ne ottenne il disegno. Per ciò che appartiene a Roma, le Vite de’ romani Pontefici, e quelle principalmente di Niccolò V, di Paolo II e di

  • Sisto IV, sono piene delle opere di sovrana

magnificenza, di cui essi ornarono quella città, sicchè più non avesse a dolersi di aver sofde’ più valorosi architetti che fiorissero sulla fine di questo secolo, e in più altre grandiose fabbriche fu adoperato, e fra le altre in quella del duomo di Milano (V. Lettere sortesi, t. 3, p. 67, ec.). Tiraboscui, Voi IX. 3t [p. 1706 modifica]1706 LIBRO (erte sì grandi ingiurie dalle vicende de tempi. Degna da leggersi fra le altre cose è la lunga esattissima descrizione che delle fabbriche di Niccolò V ci ha lasciata Giannozzo Manetti (Script. rer. ital. t. 3, pars 2, p. 929, 94°)> c di quella singolarmente del Vaticano; la quale se ha poi dovuto cedere alle idee ancora più vaste di Giulio II e di Leon X, dura però ancora, e durerà eternamente nella memoria de posteri, per rendere glorioso il nome di quell’ immortale pontefice. V. Tante e sì magnifiche fabbriche innalzate in Italia nel corso di questo secolo bastano a dimostrarci ch’ ella avea allora gran copia di valorosi architetti. E di molti in fatti abbiamo le Vite presso il Vasari e presso altri scrittori di tale argomento. Io dirò solamente d’ alcuni pochi di cui ci è rimasta più chiara fama. Leonbattista Alberti dovrebb’ essere tra’ primi; ma di lui già abbiam favellato nel parlare de coltivatori della matematica. Anteriore di alcuni anni all’ Alberti fu Filippo di ser Brunellesco, di cui dopo il Vasari (Vite de’ Pitt., ec. t. 2, p. 108, ec. ed. Fir. 1771) ha parlato ancora il co. Mazzucchelli (Scritt. ital. t 2, par. 4 p. 2168, ec.). Nato circa il fu dapprima orefice, legatore di pietre e fabbricator d’ orologi. Poscia applicatosi alla scultura nella scuola di Donatello, fece in essa lavori molto pregiati, e fu ancora eccellente nell’ arte d’intarsiare i legni a varj colori. Lo studio della geometria, a cui si accinse sotto il celebre Paolo Toscanelli, e il viaggio di Roma, ch’ei fece con Donatello, finvogliarono di darsi tutto [p. 1707 modifica]TERZO I70 7 all’architettura, e in questa più che in ogni arte riuscì eccellente. La cupola di s Maria del Fiore fu la più ammirabile tra le opere ch’ ei fece in Firenze 5 e il Vasari descrive a lungo i contrasti che per essa ei sostenne, e gli ostacoli che gli fu d’uopo di vincere. Più altre fabbriche ei disegnò in Firenze, e fu ancora chiamato a Milano, ove diede al duca Filippo Maria il modello di una fortezza e di più altri edifizj, a Pisa, a Pesaro, a Mantova, ove richiesto dal marchese Lodovico Gonzaga diede fra le altre cose il disegno di alcuni argini al Po. Fu innoltre inventore di molte macchine ingegnose, che dal Vasari medesimo si descrivono, e per ultimo coltivò ancora la poesia italiana, di che son pruova alcune rime che si accennano dal co. Mazzucchelli. Morì a' 16 di aprile del 1446 e lo stesso autor riferisce l onorevole iscrizione di cui ne fu ornato il sepolcro nel tempio di s Maria del Fiore da lui abbellito colla maravigliosa cupola da noi accennata, della quale ancora ei fece la Relazione che si conserva in un codice a penna della biblioteca Riccardiana in Firenze. Vivea al tempo medesimo Michelozzo, fiorentino egli pure, che scolaro, come Filippo, di Donatello nella scultura, al par di lui ancora si volse al disegno, e vi riuscì cotanto felicemente. che Cosimo de’ Medici volendo innalzare un palazzo, e parendogli soverchiamente magnifico quello che il detto Filippo avea ideato, seguì un altro più semplice, ma non men bello, datogli da Michelozzo. Questi, quando Cosimo esiliato andossene a Venezia, gli si diede a compagno, [p. 1708 modifica]1708 LlBIlO e ivi, olire altri edilìci, per ordia di Cosimo fabbricò la libreria di S. Giorgio Maggiore, di cui abbiamo altrove parlato. Ritornato col suo protettore a Firenze, fu da lui adoperato in molte altre fabbriche, e singolarmente in quella del convento di S. Marco, in cui dicesi che Cosimo spese trentaseimila ducati. Più altre notizie intorno a Michelozzo si posson leggere presso il Vasari (l. c p. 177, ec.), il quale dice solo ch’ ei morì in età di 68 anni, e fu sepolto in S. Marco in Firenze, ma non si dice quando ciò avvenisse (a). Giuliano e Benedetto da Maiano fratelli furono al tempo stesso famosi nell’ architettura non meno che nella scultura. Giuliano visse per lo più in Napoli e in Roma, e nella prima città, oltre molte sculture e più altre fabbriche, disegnò un magnifico galazzo a Poggio Reale pel re Ferdinando: in orna per ordine di Paolo li fabbricò il tempio c il palazzo di S. Marco. e per ordin di esso rinnovò ancora la chiesa di Loreto, che fu poi da Benedetto finita. Questi ancora fu valente architetto, e alcune fabbriche ne descrive il Vasari che di amendue ragiona distesamente (ib. p. 199, ec., p. 451); benché per errore, corretto poi nelle note dell’ultime edizioni, gli ^ abbia creduti non già fratelli, ma zio e nipote. (a) Al Brunelleschi si dà giustamente la lode di essere stato il primo nell’abbandonare l’antica barbarie, detta comunemente gotica, e nel richiamare il buon gusto e la maestosa semplicità dell'architettura da tanti secoli dimenticata e sbandita. Veggansi su ciò le Memorie per le Belle Arti per l'anno 1786, stampale 111 ltonia (p. 37). [p. 1709 modifica]TERZO 1709 Benedetto però più che nell’ architettura fu celebre nel lavorare d’ intagli in legno, per la fama de’ quali fu chiamato alla sua corte dal re Mattia Corvino. Ma poichè egli ebbe il rossore di trovar guasti e malconci alcuni lavori ch’ egli avea seco colà condotti, benchè gli venisse fat to di racconciarli, abbandonò nondimeno quell’ arte, e si diè singolarmente alla scultura, in cui pure riuscì eccellente, e ne diè molti saggi e in Firenze, ove poscia fece ritorno, e altrove. VI. Io non mi stendo più oltre nel ragionare di questi e di altri valorosi architetti italiani di questo secolo, perchè non cerco che di dare un semplice saggio del molto che ad essi dee quest’ arte. Di due nondimeno parlerò alquanto più stesamente, perchè furono per avventura i più famosi fra tutti, e un di essi fu il primo a dare alla Francia l’idea di giusta e ben ordinata architettura, dico Bramante e F. Giocondo. Il Vasari (Vite de' Piti., ec. t. 3, p. 84) e il co. Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 2, par. 4, p. 1974) son quelli che più diligentemente hanno scritto intorno a Bramante. Ma ciò non ostante più cose rimangon tuttora oscure, e fra le altre la patria e la famiglia di questo sì illustre architetto. Alcuni il dicono natìo d’Urbino, altri di Castel Durante, detto poi Urbania, altri di Fermignano, altri di Monte Asdrubale, tutti luoghi del ducato d’Urbino. L’ultima opinione sembra la più verisimile, sì pe’ monumenti accennati dopo il Crescimbeni dal co. Mazzucchelli, sì per la medaglia che se ne ha nel Museo Mazzucchelliano, in cui egli è detto vi. Prime notizie rii Bramatiteli.» Ur1.111«. [p. 1710 modifica]17*0 LIBRO B ramante s;Isdruvaldimis. Nè minore è l’incertezza intorno al nome, perciocchè altri il dicono Bramante Lazzeri, altri Lazzaro Bramante, e ciò ch è più notabile, Cesare Cesariano stato suo scolaro lo chiama ne’ suoi Comentarj sopra Vitruvio il mio preceptore Donato de Urbino cognominato Bramante (p. 70) (*)(*) Il passo da me qui citato di Cesare Cesariano non è il solo in cui egli parla del suo maestro Bramante. Ecco com’egli ragiona dell’architettura della sacrestia di S. Satiro in Milano: Ma accadendo, che in li edifici sia qualche loco triplicato, vel tenebroso, vel di luce debile, convenerà saper luminare per qualchi loci dal alto, sì como fece il mio preceptore Donato cognominato Bramante Urbinate in la Sacrestia di la aede sacra di Sancto Satyro in Milano, quali lumini Solari dal alto discendevano (l. c. p. 4). Ei c insegna ancora che Bramante fu adoperato nella fabbrica della fortezza di Milano: Ma Ut travio intende questa essere como una ponticella, come quelle che sono in la via coperta di la nostra arce de Jove in Milano, et maxime quella che fece fare Bramante Urbinate mio primo preceptore, quale si traiice da lo mano muro de 'la propria arce, ultra le aquose fosse ad lo scripto itinere (ivi, p 21). Altrove lo nomina tra’più illustri artisti che allor vivessero: Molti sono pervenuti a la excellenzia, et chi ha conseguito la nobilitate: sì como Andrea Mantegna, Leonardo Vince, Bramante Urbinense, et alcuni altri como Michele Angelo Fiorentino, quale in pictura et sculptura si vede egregio (ivi, p. 46). Egli ci assicura innoltre che da Lodovico Sforza fu Bramante chiamato a Milano: Ma imperante Galeazio, et successive Johanne Galeazio suo figlio, et dopoi molto più delectandosi Ludovico tutti di stirpe Sforzesca con più summa opera, che poteno, curano havere Architecti, che con queste Vitruvine symmetrie facesseno fabbricare et ornar li Mediolanensi edificii. Il meglio che da questi fusse, fu il mio primario [p. 1711 modifica]TERZO 11J | Nacque nel 1444 di onesti ma poveri genitori, e o fosse che da essi venisse presto applicato allo studio della pittura, o che da essi impiegato alla campagna, egli per naturale inclinazione da se stesso apprendesse le arti del disegno, giacchè in ciò ancora non concordano gli scrittori, è certo che presto ei giunse ad avere in esse eccellenza. Trasferitosi a Milano, vi strinse grande amicizia con Gasparo Visconti poeta allora famoso. Il co. Mazzucchelli ha pubblicati parecchi sonetti che Bramante gli scrisse, da’ quali raccogliesi che questi era non men poeta elegante e faceto, che valoroso pittore e architetto ma che, benchè avesse dalla corte cinque ducati al mese per suo stipendio, per quell’ umor capriccioso però, che fu proprio di molti eccellenti pittori, non avea mai un soldo, e sotto pretesto di aver rotte le calze, ricorreva sempre al suo benefattore. Aggiugne il Vasari che Bramante ritrovò in Milano Cesare Cesariano valoroso architetto. Ma, come vedremo nella storia del secolo susseguente, a cui il Cesariano appartiene, questi era nato di fresco, quando Bramante recossi a quella città, e ne fu poscia scolaro. Falso è ancora ciò che dal co. Mazzucchelli sull’ autorità del P. Orlandi si afferma, cioè che Bramante si facesse ivi scolaro di Bartolommeo Soardi, detto Bramantino, e da altri ancora chiamato precrptorr Bramante, quale jare in Bontà (ivi, p. ioo). E altrove: Como fece Bramante supradicto in li novi aedi fidi di Ludovico Sforzi,t cani gitbernabat, quali ancora sono in Vigevano (ivi, p. 113). [p. 1712 modifica]vn. Sur fahhri(He in Milaito, in Roma, ec. 1713 LIBRO Bramante da Milano. Questi, come si pruova con autentici monumenti, accennati in due note della recente edizion del Vasari (t. 2, p. 207"; t 5, p. 344)j fiorì nel sec xvi, e nel i53(í diede una sua figlia a marito. In fatti il soprannome di Bramantino aggiunto al Soardi basta a provarci ch’ ei fu posteriore a Bramante, e che fu così appunto soprannomato perchè imitò la maniera di quel famoso architetto. Deesi adunque correggere oltre più altri scrittori ancor l Argelati (Bibl Script, mediol. t. 2, pars 1, p. i4Ì7? cc) ohe *1 fa vissuto a’ tempi di Niccolò V. Ma torniamo a Bramante. VIL Nè il Vasari, nè il conte. Mazzucchelli ci additano in particolare alcun’opera di pittura o di architettura che Bramente facesse in Milano. E nelle note alla recente edizione del Vasari si accennan solo alcune pitture che di lui tuttora si mostrano in quella città, ove però la chiesa di s Maria di Brera una volta si nomina s Maria in Brea, un’altra volta s Maria di Baia. Ma più ancora che per l’arte della pittura, ebbe gran nome in Milano per quella dell’ architettura. La canonica pel Capitolo secolare della basilica di S. Ambrogio cominciata nel 14l)a 7 nia P°* 110,1 fi'ùl3) lo opera non già di Bramantino, come il Vasari ed altri affermano, ma del nostro Bramante, come si pruova da un autentico documento citato nelle note al Vasari medesimo (t. 5, p. 344)- E non è inverisimile che’egli pur disegnasse il magnifico monastero de’ Cisterciensi presso la stessa basilica, che circa questo tempo medesimo fu innalzato dalla liberalità del duca Lodovico il [p. 1713 modifica]TERZO | “ | 3 Moro e del Cardinal Ascanio di lui fratello. A Bramante pure attribuisce il Lattuada la cupola di s Maria delle Grazie (Descriz. di Mil. t. 4? P- *75), il portico innanzi alla chiesa di s Maria a S. Celso (ib. t. 3,p. 55), il Lazzaretto (t 1, p. 215, ec.)j e da lui pure afferma il Cesariano da noi poc’anzi citato, che fu architettata la sagrestia di S. Satiro (a). Da Milano passò Bramante a Roma, ove oltre più altre fabbriche fu il primo a disegnare e a dar principio a quella della gran basilica Vaticana cominciata nel i5oG da Giulio IT. l>i ciò che ivi allora egli operasse, de’ difetti di cui fu accusato, della rivalità che si accese tra lui e il Buonarroti, non giova ch’io qui mi trattenga a dir lungamente, avendone a lungo parlato il Vasari, il marchese Poleni (Mem. istor. della Cupola vatic.) e mille altri scrittori, e su questo argomento è degna singolarmente d’esser (a) La cupola della chiesa di s Maria delle Grazie in Milano si cominciò ad alzare l’an 1492 nel quale anno, come si è veduto, era Bramante in quella città, e rendesi con ciò ancor più probabile ch’ei ne desse il disegno; il che ancora confermasi dal riflettere che la struttura, la figura e gli ornati esteriori di essa sono in parte somiglianti al disegno da lui formato per la cupola di S. Pietro di Roma, il cui modello in legno conservasi nel palazzo Vaticano. Nondimeno nella Nuova Guida di Milano (p. 313) se ne muove «juali he dubbio (per ragion del tritume che vedesi nell’ esterno abbellimento della cupola. Nella stessa opera (p. ■ 34) si lascia in dubbio se il portico innanzi alla chiesa di s Maria presso S. Celso sia di Bramante, o del Solari architetto milanese, e si dubita ancora (p. 82) che sia opera di Bramante il Lazzaretto che non sembra fabbrica degna di s'i grande uomo. [p. 1714 modifica]Vili. Di qual religioni» l’ovse F. (■inroiido. 1714 unno letta una lettera inserita nella Raccolta di Lettere pittoriche (t. 2, p 325). Io avvertirò solamente che il Buonarruoti, benchè emulo del Bramante, non potè però trattenersi dal lodarlo altamente. E non si può) negare, dic egli, che Bramante non fosse valente nell’ Architettura, quanto ogni altro, che sia stato dagli antichi in quà. Egli pose la prima pietra di S. Pietro, non piena di confusione, ma chiara, e schietta, e luminosa, ed insolata attorno, ec. (Lettere pittor. t 6, p. 26)5 e siegue rilevando i pregi di quella architettura, e i danni che dal lasciarla n’ eran venuti. Egli morì in età di 70’ anni nel 1514- M Boni, citato dal co Mazzucchelli, il fa autore di alcune opere d’architettura civile e militare, le quali ei si duole che non sieno mai venute alla luce. Ma io non so se l’autorità del Doni basti a persuaderci dell’esistenza di tali opere. Ne abbiamo solo alle stampe alcune poesie italiane, delle quali il suddetto co. Mazzucchelli ci dà un esatto catalogo, aggiugnendo, sull’autorità del Vasari, che Bramante avea nel verseggiare una sì rara felicità, che spesso ancora componeva all’improvviso al suon della cetra. Vili. Sembra quasi impossibile che trattandosi d’uomini pel sapere loro celebratissimi, e vissuti soli tre scarsi secoli innanzi a noi, in molte cose concernenti la loro vita siamo rimasti in una totale incertezza. E nondimeno, come abbiam veduto nel parlar di Bramante, così, e più ancora, vedremo ora, trattando di F. Giocondo, che poco è ciò che se ne possa accertare, benchè molto abbiano di lui scritto [p. 1715 modifica]TEIIZO I -15 il \ asavi (l. 6, p. 167, ec.) e il march. Maffei (Ver. illustr. par. 2, p. 262; par. 3, p. 247) e il march Poleni Exercitationes vitruv. prim. p. 18, ec.). Ch’ei fosse di patria veronese, è certissimo, ma di qual famiglia uscisse, non vi ha nè monumento nè congettura che ce lo scuopra; giacchè l’opinione del P. Orlandi (Abeced. pittor. p. 158, 172), ch’ei fosse fratello di Francesco Monsignori pittor veronese, non ha alcun fondamento. Più strano è il vedere ch essendo egli stato frate, com’egli stesso si appella, non si possa stabilir con certezza di qual religione egli fosse, e contendan su ciò tra loro i Domenicani e i Francescani. I PP. Quetif ed Echard lo annoverano tra’loro scrittori (Script. Ord. Praed. t 2, p. 36, ec.): ma le più antiche testimonianze che si possono addurne in prova, son quelle di Onofrio Panvinio e del Vasari, i quali però non si possono dire contemporanei di Giocondo. Essi fondansi ancora sul silenzio del Wadingo e degli altri scrittori francescani, niuno de’ quali ha numerato tra’ lor religiosi Giocondo; ma ciò pruova soltanto ch’essi non ne ebber notizia, e come i più antichi scrittori domenicani non han di lui fatta menzione, così i francescani possono averlo dimenticato, forse, come riflettono i due suddetti scrittori, perchè Giocondo occupato continuamente nella ricerca delle antichità e ne’ disegni delle fabbriche, andava per lo più in abito di prete secolare. Al contrario Giuseppe Scaligero nella sua lettera al Douza, in cui dice cose sì grandi della nobiltà della sua propria famiglia, parlando di Giulio Cesare suo padre, [p. 1716 modifica]i ■r 16 unno dice: Prima li te ramni et G ramati cae elementa didicit praeceptore Jucundo Veronensi, cliente familiae nostrae, homine dot tissimo, probissimo, qui postea ad Monachos Franciscanos transiit. Lo stesso Giulio Cesare parla più volte di Giocondo, e sempre lo dice suo maestro nella lingua greca e nella latina (Carm, p. 3i8, rtl. 1091; de Subtilit. in Cardan. Exercit 104, n. 23; 226, n. 12), e in un luogo singolarmente ne fa questo elogio: Joannes Jucundus ci vis noster nobili genere prognatus, qui Maximiliani jussu cum Hieronymo Dominio Norico fortissimo ac sanctissimo viro inter tyrocinii rudimenta me utriusque Literaturae primis sacris imbuit, vir fu.it in Pliisolophia Peripatetica non ignobilis, Scoticae sectae summus Theologus, in Mathematicis nulli secundus, in Optice atque Architectura omnium facile princeps (ib. ì'xerc. 329). Nel qual luogo, benchè ei nol dica Francescano, lo accenna nondimeno assai chiaramente col dirlo grande Scotista. Il signore de la Monnoye disputa lungamente (Menagiana, t 4, p. 97, ec.) contro questo passo dello Scaligero, e sostiene che questi, per comprovar sempre più i suoi sogni intorno alla sua nobiltà, ha finto di aver avuto per suo maestro Giocondo, dicendolo uom nobile e cliente della sua famiglia; e ch’ egli forse non conobbe mai di vista questo architetto, e che sapendo solo che’egli era religioso, scrisse indovinando ch era un grande Scotista. Io non vo’ ricercare qual fede si debba a’ due Scaligeri, benchè, a dir vero, sembri impossibile che Giulio Cesare, il qual certamente fu concittadino di F. Giocondo, [p. 1717 modifica]non sapesse ili qual Religione egli fosse, e non sembri ancor verisimile cl»1 et tingesse di averlo avuto a maestro, poichè ciò finalmente non era pregio sì raro, che dovesse perciò mentire. Ma abbiamo un’altra assai più valevole testimonianza a provar che Giocondo fu francescano, cioè quella di F. Luca Pacioli da Borgo S. Sepolcro dello stesso Ordine, il quale innanzi al v libro di Euclide riferendo la prelezione da sè detta pubblicamente in Venezia, quando si fece a spiegarlo agli 11 di agosto del 1508, e annoverando tutti i cospicui personaggi che vi furono presenti, nomina fra gli altri molti Francescani, l’ultimo de’ quali è f Giocondo: Frater Jucundus Veronensis Antiquarius(e, aggiunge omnes: praelibati ejusdem Minoritanae Familiae. A questa autorità io non veggo qual altra si possa contrapporre di ugual peso, e sembra perciò evidente che Giocondo fosse dell' Ordine de’ Minori; se pur non vogliam seguire la congettura del march Poleni, ch’ ei fosse prima domenicano, poi sacerdote secolare, e per ultimo francescano. Ma basti ciò intorno alla religione di F. Giocondo (*). (*) Di F. Giovanni Giocondo ha scritta di fresco con molta esattezza la Vita il ch. sig. Tommaso Temenza (File i/e’ più celebri Archit!. e Scult. Ven. l. 1. p. 9.4, ec.). In essa ei pruova ch’egli era già passato in Francia alcuni anni prima del secolo xvi, perciocchè nel i.faH si stamparono in Bologna le Lettere di Plinio da lui collazionate con un codice antico in Parigi. Egli ha ancora prodotta una lettera del celebre sig. Mariette, in cui non ostante l’autorità dello Scaligero e del Sannazzaro, che pur non è picciola, pretende di mostrare che un [p. 1718 modifica]1718 LIBRO IX. Egli si mostrò prima antiquario che urchitetto; e abbiamo altrove parlalo (t. 6) della Raccolta d’iscrizioni, ch’egli offrì a Lorenzo ile’ Medici. Ciò dovetl’essere innanzi al i492> nel qual anno morì Lorenzo, e par che Giocondo fosse in Roma quando compilò quell’opera. Giulio Cesare Scaligero afferma eh’ ei fu qualche tempo presso l’impera.lore Massimiliano (l. cit. Exerc. a36, 33i), e accenna alcuni eruditi discorsi eh’ egli gli udì tenere in presenza di Cesare. E probabile che ciò avvenisse prima eli’ei se ne andasse in Francia, ove però non sappiamo precisamente quando si trasferisse. Ma certo vi era ne’ primi anni del secolo xvi, quando egli diè il disegno di due ponti sopra la Senna in Parigi. Di ciò abbiamo una sicura testimonianza presso il sopraccitato Giulio Cesare Scaligero: Met nini praeccplorem meum Joannem Jucundwn, qui nobilissimumjkimen Sequanam lumd minus nobilibus pontibus duobus junxit (l. cit. Exerc. a36, 331). ¡Nè io penso che qui ancora sia alcuno per apporre allo Scaligero la taccia di mentii ore, poiché nulla a lui poteva giovare che F. Giocondo solo ponte ei gittò sulla Senna, cioè quello di Nostra Donna, il quale ivi è minutamente descritto. Egli ragiona ancora di diversi edificj da F. Giocondo disegnati, fra quali vuolsi che fosse la Sala del consiglio di Verona, e delle edizioni da lui fatte di diversi antichi scrittori; ma egli ancora non ha potuto accertarne nè ’il luogo nè l’ epoca della morte. Presso lo stesso scrittore si posson veder le notizie di più altri illustri architetti e scultori che a questo tempo fiorirono nello Stato veneto. [p. 1719 modifica]TERZO *7l9 avesse dato il disegno di que’ due ponti. Più autorevole ancora è la testimonianza del Sannazzaro, ch era in Francia a quel tempo medesimo in cui vi era Giocondo, e che su’ due ponti da lui disegnati compose questo epigramma: Jucundus geminos fecit tibi, Sequana, pontes: Jure tuum potes hunc dicere Pontificem. L. 1, Epigr. 50. Questi due ponti furon quello detto di Nostra Signora, opera di ammirabil bellezza, e quello detto il Ponte piccolo. Il primo fu cominciato nel 1500, e la prima pietra dell’ultimo arco fu posta nell’an 1507, quando F. Giocondo, come ora vedremo, era già ritornato in Italia. Gli scrittori francesi, e singolarmente il Malingre (Antiq. de Paris l. 1, p. 242), affermano che in un degli archi fu scolpito il già riferito epigramma. Ma il Sauval ci assicura di averlo inutilmente cercato (Hist. des Antiq. de Paris, t. 1, p. 228). Questo autore è il solo che abbia negata a F. Giocondo la gloria di aver architettato quel ponte; e uno degli argomenti di cui si vale, è quello appunto di non aver trovato questo epigramma in alcuno degli archi. Ma ciò che importa? È certo che il Sannazzaro il compose mentre era in Francia, e mentre si fabbricava quel ponte; perciocchè lo abbiamo anche nelle prime edizioni di questo poeta, e quindi, o esso fosse o non fosse inciso sul ponte, è sempre evidente argomento a provare che Giocondo ne fu l’ architetto. Il [p. 1720 modifica]l~UO L1UKO Suuval si fonda innoltre su Registri del Parlamento e della Camera de Conti, ne’ quali dice che trovasi sol nominato Frere Jean Joyeux domenicano, ch’ egli crede il medesimo che F. Giocondo, e che non vedesi già a lui dato il titolo d’architetto, ma or quello di Controlleur de la pierre, or quello di commis à soy donner garde sur la Jor/ne dicelui Pont Ma noi abbiamo da una parte una indubitabil testimonianza ne’ passi recati dello Scaligero e del Sannazzaro, che F. Giocondo fu l’architetto di quei’ due ponti; e perciò possiamo inferir con certezza che o quel Frere Jean Joyeux è diverso da F. Giocondo, o, se egli è lo stesso, che non ostante i titoli che gli veggiam dati, da lui veramente furono disegnati que’ ponti. Per altro se Jean Joyeux è il medesimo che Giocondo, sarà questo un nuovo argomento a provare che almeno per qualche tempo ei fu domenicano. Mentre ei trattenevasi in Francia, fece amicizia col celebre Guglielmo Budeo, il quale più volte nelle sue opere ne fa menzione. Rechiamone un sol passo, perchè esso ancora serve a provare che Giocondo fu in Francia col titolo di regio architetto. Nobis vero, dic egli (in Pandect. ad L. de iis qui dejecerunt), in ea lectione contigit praeceptorem eximium nancisci Jucundum Sacerdotem Architectum tunc Regium hominem antiquitatis pentissi' munì, qui graphice quoque non modo verbis intelligendas res praebebat. Infatti ei fu uno de primi a pubblicar più corretta e ad illustrar con figure l’Architettura di Vitruvio, la qual [p. 1721 modifica]TERZO 1J2I edizione da Ini dedicata al pontefice Giulio II fu fatta in Venezia nel 1511. In Francia parimente egli attese a scoprire i codici antichi, e il primo frutto ch’ei ne raccolse, fu di darci una compita edizione delle Lettere di Plinio il giovane. Il march. Poleni, seguendo l’ autorità del Fabricio, crede che la prima edizione seguisse in Bologna nel 1498 per opera di Filippo Beroaldo; ma è certo che F. Giocondo in essa non ebbe parte, e che la prima edizione fu fatta da Aldo nel 1508. Ecco come questi ragiona nella prefazione ad essa premessa: Habenda est plurima gratia... Jucundo Veronensi, viro singulari ingenio, ac bonarum literarum studiosissimo, quod. et easdem Secundi Epistolas ab eo ipso exemplari a sè descriptas in Gallia diligenter, ut facit omnia, et sex alia volumina Epistolarum, partim manu scripta, partim impressa quidem, sed cum antiquis collata exemplaribus, ad me ipse sua sponte, (quae ipsius est erga studiosos omnes benevolentia, adsportaverit Aggiugne Aldo nella medesima lettera, che Giocondo aveagli donato ancora il libro di Giulio Ossequente intorno a’ Prodigi, che insieme colle dette Lettere fu da lui pubblicato. Egli corresse ancora con più esemplari, e illustrò con osservazioni e con figure i Comentarj di Cesare, che furon pubblicati nella stamperia di Aldo nel 151 *7, e fu il primo a formar la figura del famoso ponte sul Reno. Da lui innoltre abbiamo avuta una nuova edizione degli Scrittori antichi d’Agricoltura fatta da Aldo nel 1514 dell’opera di Frontino sugli Acquedotti stampata in Firenze Tiiuboscui, Voi. IX. [p. 1722 modifica]X. Altre da lui falle tu Italia. l'J'2'J LIBliO nell' anno i5i3, e dell’Epitome di Aurelio Vittore accennata dal march. Maffei. Ma torniamo alle sue opere d’ architettura. X. Egli era già tornato in Italia nel 1506; perciocchè in quest’anno, come affermano il march. Maffei e il march. Poleni, egli scrisse e indirizzò quattro Dissertazoni al Magistrato sull'acque in Venezia, le quali nell’archivio di esso ancor si conservano, intorno al luogo in cui doveansi condurre a sboccare le acque della Brenta, di che parla lungamente il Vasari. Essendosi poscia nel 1513 abbruciato il Rialto, Giocondo fece il disegno per rifabbricarlo assai più bello e più maestoso di prima. Ma in questa occasione egli ebbe il dispiacere di vedersi antiposto un altro architetto, che in niun modo potea stargli ai confronto. Di che sdegnato, come narra il Vasari, partì da Venezia e recossi a Roma, ove, morto Bramante, nel 1514 fu insieme con Rafaello da Urbino e Antonio da S. Gallo destinato a soprantendere alla gran fabbrica della nuova basilica di S. Pietro. L’ultima opera di Giocondo, di cui si trovi menzione, fu nel ristoramento del ponte della Pietra in Verona sua patria; perciocchè dovendosi rifondare, dice il march. Maffei, la pila di mezzo, che più volte era ruinata per l impeto dell acqua in quel sito, e per la mollezza del terreno, egli diede il modo e di farla, e di conservarla con tenerla fasciata intorno di doppie travi fitte nel fondo, talchè il fiume non potesse cavar sotto. Il Vasari dice che ciò avvenne, mentre quella città era sotto il dominio dell’ imp Massimiliano; ma monsignor [p. 1723 modifica]TERZO ly-ìZ Boltari nelle note ad esso aggiunte, sostiene che questo fatto dee assegnarsi all’an 1521, quando Verona era già ritornata sotto il dominio veneto. In fatti nella continuazione della Cronaca di Verona di Pietro Zagata, pubblicata dal Biancolini, alla fine dell’ an 1520 si legge; In el tempo predicto fu facto il ponte della Preda, el qual per inanti era de legname (Zagata, Cron. par. a, voi. i, p. 200). Dopo quest’ anno non trovasi memoria alcuna di f Giocondo, e perciò sembra probabile ch’ei non sopravvivesse di molto. Il march. Poleni riflette che nella seconda sua edizion di Vitruvio, fatta nel 1513 e dedicata a Giuliano de’ Medici, Giocondo si chiama già vecchio: Bene valeas veluti tui Jucundi memor, e che innanzi all’edizione di Cesare fatta nello stesso anno ei dice di se medesimo: aetate quidem ea sum, ut de me non multa tibi possim promittere. Il che sempre più ci conferma che non dovette Giocondo passar di molto il detto anno; ed è ancor verisimile che ritiratosi su gli ultimi giorni in Verona sua patria, ivi ancor finisse di vivere; perciocchè ci è forza d’indovinare congetturando ciò di che niuno ci ha lasciata distinta memoria. « XI. Di tutti questi architetti ha parlato più o men diffusamente il Vasari. Ma egli ne ha tralasciati alcuni, dei’ quali per avventura non ebbe notizia, e che nondimeno meritavano al pari e forse ancor più degli altri d’essere ricordati. E due ne indicherò io a questo luogo sconosciuti finora, benchè ci abbian lasciato tal pruova del lor valore, che basta a renderne [p. 1724 modifica]1724 LIBRO inimortal la memoria. E io ancora gli avrei ignorati, se l’ eruditissimo P. ab. d Angelo Fumagalli, ora presidente della Congregazion de’ Cisterciensi di Lombardia, non me gli avesse fatti conoscere. Son noti e in Milano e in Modena e in più altre città que’ sostegni, che in Milano diconsi conche, per mezzo de’ quali si ottiene che non ostante una notabile differenza del livello delle acque, esse si rendano navigabili. Or i primi inventori di esse furono un architetto modenese e un bolognese, detto il primo Filippo da Modena e soprannomato degli Organi, il secondo Fioravante. Accadde ciò nell’an 1439, in cui il duca di Milano Filippo Maria, chiuso quel tratto di naviglio o canale dal Laghetto vecchio fuori della città al nuovo entro di essa, ordinato già dal duca Giangaleazzo suo padre l’an 1388 per condur le pietre da adoperarsi nella fabbrica del Duomo, fece aprire un altra comunicazione dello stesso naviglio pel luogo detto di Viarena, estendendo la navigazione alla fossa che circondava la città. Dovette dunque allor costruirsi quella che tuttor sussiste, e si dice la Conca di Viarena. Di fatto Pier Candido Decembrio, nella Vita di Filippo Maria Visconti, dice che ai’ tempi di esso furon trovate e adoperate le conche, benchè ad altra occasione ne riferisca l’origine: Meditatus est et aquae rivum, per quam ab Abiate Vigevanum usque sursum veheretur, aquis altiora scandentibus machinarum arte, quas conchas appellant. (Script. rer. ital. t. 20, col. 1006). Or gli architetti dal duca usati pel naviglio di Viarena, e probabilmente anche per [p. 1725 modifica]l'Enzo i^aS quel di Vigevano, furono i due suddetti, come ci mostra una carta del detto an 1439, che conservasi nell archivio del monastero di Chiaravalle presso Milano, in cui essi son detti: specialiter deputati circa modum adhibendum, ut fovea civitatis navigabilis reddatur ». « XII. Di Filippo da Modena io non trovo altra notizia. Ma di Fioravante io credo che si debba intendere ciò che narra il sig. card Francesco Carrara nella sua opera piena di scelta erudizione intitolata la Caduta del Velino nella Nera magnificamente stampata in Roma l’an 1779, cioè ch’egli per comando di Braccio da Montone scavò verso il 1422 un canale per isfogare e raccogliere le acque del Lago Velino, che danneggiavano il territorio di Rieti (p. 17). Egli citando l’Angeloni nella sua Storia di Terni, dice che l’architetto ne fu Aristotele Fioravante, quel medesimo che fece il trasporto della torre di cui ora diremo. Ma io penso che sien questi due diversi personaggi, e che Fioravante sia il padre, Aristotele il figlio. Di fatto nella carta citata del 1439 Fioravante non è mai nominato col nome di Aristotele, e questi al contrario nelle carte bolognesi è detto Aristoteles Fioravantis, cioè Aristotele figlio di Fioravante. E più convincente pruova ne è ciò che vedremo tra poco, cioè che Aristotele viveva ancora in Moscovia nel 1479 e che il senato di Bologna desiderava ch’ei tornasse alla patria; il che non è credibile di un uomo che verso il 1422 era già in istato d’intraprendere l’accennato lavoro. A Fioravante dunque deesi il canale per le acque « VII. Kotuie Hrt« P arrbitrifo Fiorav«ale f» [p. 1726 modifica]1726 LIBRO del Velino, I’ mvenzion de’ sostegni che gli è comune con Filippo da Modena, e forse ancora la grand’opera dell’emissario del Lago di Perugia, fatto circa il tempo medesimo che il canale suddetto del Velino, come congettura l’eruditissimo sig. Annibale Mariotti (Lettere pittor. perug. p. 107), il quale però ancora lo dice Aristotele Fioravanti. Ad Aristotele figlio di Fioravante, che superò ancora il padre, deesi il maraviglioso trasporto di una torre in Bologna, che forse non otterrebbe fede, se non ne avessimo indubitabili testimonianze ». « XIII. F. Girolamo Borselli scrittor di que’ tempi ne parla in breve all’an 1455: Per Magistrum Aristotelem Bononiensem Virum ingeniosum Turris Ecclesiae de Mansione, si ve della Mansione, portata est per spatium quatuor perticarum (Script. Rer. it. vol. 23, p. 888). Più distinto è il racconto che ne abbiamo nella Cronaca italiana di Bologna, scritta in questo secol medesimo: A dì 8 d Agosto, così ivi allo stesso anno 1455 (ib. vol. 18, p. 717), la Torre della Chiesa della Masone, che è in istrà Maggiore, fu finita di menare appresso della Via di Malgrado. La qual Torre era più innanti verso la porta della Chiesa predetta piedi 35 lasciando la grossezza del fondamento della Torre; e pigliando la grossezza del fondamento erano piedi 48 e mezzo, andando fino al luogo, dove è condotta. La qual Torre condusse e menò co’ suoi ingegni Maestro Aristotele de’ Fioravanti ingegniere di Bologna. Nel primo movimento della Torre si ruppero due asini ri da uno de’ lati della Torre, ch’ erano [p. 1727 modifica]TERZO I727 posti sotto il fondamento di quella. Per questo la Torre medesima piegò circa tre piedi di comune verso la porta della detta Chiesa. Nientedimeno il detto Maestro Aristotele raddrizzò li delta T'orre, la quale fece condurre Messere Achille de’ Malvezzi Cavaliere di nostra Donna del Tempio. Nel qual condurre e cavare. fu malissimo tempo di pioggia, e vi fece molto danno per la moltitudine dell acqua, che vi sorgeva ed entrava. Molte opere vi andarono che non vi sarebbono andate per detta cagione. L altezza della Torre con tutto il fondamento erano piedi 65 di comune. Il quadrato di essa era undici piedi, oncie due e mezzo. Io scrittore vidi menare più volte la detta Torre, e fui nella cava fatta, e questi tali saggi tolsi di mia mano per essere chiarito di ogni cosa. Molti forestieri vennero a vedere tal Torre. Queste due testimonianze basterebbero a comprovarci il fatto. Ma più autentico monumento ne abbiamo in un libro scritto di propria mano da Gasparo Nadi compagno dello stesso Aristotele, il quale ne lasciò espressa questa memoria copiata e pubblicata dall Alidosi (Cose notab, di Bol.p. 188). Recordo della Torre della Chiesa della Maggiore: come a’ 12 di Agosto del 1455 fu tirata da luogo a luogo con tutti i suoi fondamenti, con ingegni, i quali fece Aristotile di Mastro Feravante con me suo compagno, fu tirata in verso la Viazzola, e ivi posta e lasciata fu portata di lunghezza di tredici piedi. All hora teneva M. Achille Malvezzi la Maggiore, che ei donò lire cento, e Monsignore Bisarione legato ce ne donò [p. 1728 modifica]/ I728 LIBRO cinquanta; fu una gran spesa, e la pioggia ci J diede un grandissimo impaccio e fatica. Veg-/ giamo qualche diversità in questi racconti, e singolarmente nella distanza a cui fu condotta la torre; ma questa anzi che sminuire, accresce la certezza del fatto, poichè ci mostra che non è un solo autore che sia stato poi da un altro copiato. Così ci avessero essi descritti gli argani e le macchine di cui in questa occasione si valse Aristotele. Ma essi paghi di narrarci il prodigio da lui operato, ce ne tacciono il modo Di esso fa ancora menzione Donato Bossi scrittor di que’ tempi: Hoc anno Aristoteles Bononiensis in Architectura insignis maxime claruit; praecipue integra atque inconcussa turri subjectis lapsibus ad alium locum ex fundamentis traducta (Chron. ad an. 1455). Pochi giorni appresso fece questo famoso architetto un’altra ammirabile operazione, raddrizzando la torre della chiesa di S. Biagio in Cento molto inclinata. Lo stesso Nadi dopo il passo già riferito così continua: Poi alli 3 di Settembre esso M. Aristotile andò a dirizzare la Torre della Chiesa di S. Biagio di Cento, che pendeva piedi cinque e mezzo, et ebbe oltre alle spese lire, ottanta. Questa Torre è alta settantacinque piedi senza il fondamento, il quale è tredici piedi per ogni verso, e per ogni quadro undici, e grossa un piede c mezzo. Ne fa un cenno ancora il Borselli negli Annali sopraccitati, e più lungamente ancora l’autore della Cronaca italiana: A dì 3 di Settembre la Torre della Chiesa di S. Biagio del Castello di Cento fu raddrizzata per le mani di Mastro Aristotile [p. 1729 modifica]TERZO 1729 ingegniere di Bologna. La qual Torre pendea piedi cinque e mezzo, ed era stata così pendente un grandissimo tempo. Ed ebbe di sua provvigione per raddrizzarla lire 80. E ogni altra spesa, ovvero manifattura, che vi andò, e fu a spese del Comune di Cento. Al medesimo Aristotele commise nel 1465 il senato di Bologna di riparare alle rotte e a’ danni cagionati dal Reno in quel territorio (Calindri, Diz. della Pian. bol. t. 1, p. 297). Ma non sappiamo quai mezzi egli perciò adoperasse. Queste sì memorabili imprese renderono sì famoso il nome del nostro Aristotele, ch’ei fu chiamato dal gran duca di Moscovia per soprantendere alle fabbriche e alle fortificazioni da lui intraprese. Oltre l’asserzione degli scrittori bolognesi, ne abbiamo un’autentica testimonianza in un decreto del comun di Bologna fatto a 26 di ottobre del 1471)» c^ie conservasi nel pubblico archivio, e che mi è stato comunicato dalla singolar gentilezza del ch. sig. co. Giovanni Fantuzzi: XVI Viri Conservatores status Civitatis Bononiae scribant Maximo totius Russiae Duci, ut sinat Aristotelem Floravantis Architectum in patriam redire, quod ejus opera egent, estque ejus absentia gravis, et incomoda filiis totique familiae suae. E di lui deve intendersi singolarmente ciò che narra il baron d’Herberstein scrittor vicino a’ que’ tempi, ove dice: Ex quo (parla del Czar Basilio) Joannes ejus Principis pater apud quem Oratorem egi... natus est... ejus Castri propugnacula, basilicae, cum Principis palatio ex latere ab hominibus Italis, quos propositis nuignis pracmiis [p. 1730 modifica]173o LIBRO Princeps ex Italia evocaverat, Italico more extructae sunt. De’ lavori fatti in Moscovia dal celebre Aristotile Fioravanti parla anche il Giovio: Templum Deiparae Virgini dicatum celebri strut tura atque amplitudine, quod Aristoteles Bononiensis mirabilium rerum artifex et machinator insignis ante 60 annos extruxit (De Legat. Moscovit. p. 3). E poco appresso: Arx ipsa (di Mosca) cum Turribus et propugnaculis admirabili pulchritudine Italorum Architectorum ingenio constructa est. E degli operai italiani chiamati allora a Mosca fa menzione anche il Possevino, e singolarmente di un architetto milanese (De Rebus Moscovit. p. 3) ch’ egli non nomina, e forse è il medesimo Aristotele da lui per errore creduto milanese. Se Aristotele tornasse veramente in Italia, non ne trovo memoria. Alcuni scrittori bolognesi ci dicono ch’ei fu ancora ai servigi di Mattia re d Ungheria, e che fra gli altri onori che da quel principe ottenne, ebbe il diritto di coniare monete col suo proprio nome. Ma di questo sì bel privilegio non si trova alcun autentico documento, e niuno ha mai veduto, ch’io sappia, alcuna di tai monete. Quindi come non possiamo adottar per certo cotal racconto, così non possiamo a meno di non bramare, come già scrisse il co. Algarotti (Op. t. 6, p. 230), che qualche erudito Bolognese prenda a ricercare con diligenza maggiore, che finor non si è fatto, le notizie di un sì famoso architetto 0 ». (*) Di Aristotele Fioravanti si parla a lungo in una erudita lettera inserita nell’Antologia romana (an 1777, [p. 1731 modifica]TERZO X ^3 I XIV. Mentre l’architettura facea tra noi questi sì lieti progressi, e a gran passi accostavasi alla perfezione a cui poi giunse nel secolo susseguente, la scultura ancora si coltivava da molti felicemente. Luca della Robbia fiorentino nato nel 1388, oltre parecchi assai pregiati lavori che ei fece in Rimini e in Firenze, singolarmente in s Maria del Fiore, fu il primo che rimettesse in fiore la plastica, formando figure di terra cotta, e ritrovando una vernice che contro le ingiurie dell’aria e del tempo le preservasse. Anzi a ciò aggiunse e Tornarla a diversi colori, e il dipingere ancor figure sul piano della terra cotta; pe’ quali lavori ei si rendette sì celebre, che da ogni parte di Europa gliene venivan frequenti richieste (V. Vasari, l. c. p. 37, ec.; Baldinucci, t 3, p. 139;), edit. Fir. 1768). Assai più celebre nell’arte della scultura fu Donato, detto ancor Donatello, a cui per comun consenso si attribuisce l averla ricondotta prima di ogni altro all’antica bellezza. Carissimo a Cosimo de’Medici, e poscia a Pietro di lui figliuolo, fu da essi continuamente impiegato non meno che favorito; e Firenze, ov egli nacque neI 1383 e morì nel 1466, nc ottobre, n. xn, p. 156, ec.) e si dice, non so su qual fondamento, eh’ egli ebbe veramente nome Kidolfo, e che pel suo sapere ebbe il soprannome di Aristotile. Ivi ancora si narra che pel Comune di Bologna ideò il palazzo detto del Podestà, che viene dallo scrittore descritto minutamente e lodato. Parla egli ancora di Gasparo Nadi architetto del gran palazzo Bentivoglio, poscia distrutto; e più altre fabbriche vi vengono accennate. [p. 1732 modifica]1732 unno conserva ancor molte opere che sono oggetto di ammirazione a chi ben le considera. Altre città d'Italia lo ebbero a qualche tempo tra loro, e Padova singolarmente, ove fece oltre altri lavori il cavallo di bronzo in onore del Gattamelata sulla piazza di S. Antonio. L’amor ch’egli avea pe’ monumenti antichi, su’quali si andava formando, il mosse a persuadere a Cosimo il farne quella copiosa raccolta che' egli unì in sua casa, e perciò la letteratura medesima non poco dee a questo illustre scultore. Il Vasari (l. c p. 156, ec.) e il Baldinucci (l. c p. 73 ec.) parlan di lui lungamente, e questi afferma ch’ei fu il primo, che non solamente uscisse dalla maniera vecchia, che pure aveanlo fatto altri avanti a lui, ma che facesse opere perfette, e di esq disilo valore, emulando mirabilmente la perfezione degli antichissimi Scultori Greci, e (dando alle sue figure vivezza e verità mirabile. Fu ancora il primo, che ponesse in buon uso l’ invenzion nelle Storie, ne bassi rilievi, ne' quali fu impareggiabile. Lo stesso Baldinucci annovera alcuni scolari di Donatello, che furono essi ancora valorosi scultori, come Antonio Gamberelli, detto Antonio Rossellino del Proconsolo, Antonio Filarete, Bertoldo fiorentino, e Desiderio da Settignano. Io lascio in disparte più altri scultori di questa età, de’quali si posson vedere diffuse notizie presso i suddetti scrittori, come Andrea Verrocchio ch’ebbe la sorte di avere a suoi scolari Pietro Perugino (a) e Leonardo da Vinci, (a) 11 eh. sig. Annibale Mariotti con assai buoni [p. 1733 modifica]TERZO 1733 «le1 quali direm tra pittori (V. Vasari, l. c. p. 461 Baldin. t. 4 f p- 25, ec.), Vellano da Padova (Vas. l. c. p. 276), Paolo Romano (ib. p. 292) e Francesco Sanese (ib. p. 224), Mino da Fiesole (ib. p. 34*)> e più altri, per non allungarmi inutilmente in ripetere ciò ch è già stato scritto più volte. Molti altri ancora, che dal Vasari si tacciono, ebber gran nome; e si posson vedere le lor notizie presso altri scrittori che hanno illustrata la storia delle arti riguardo alla lor patria. Io accennerò solamente Guido Mazzoni modenese, detto perciò Modanino, plastico rinomatissimo, che conosciuto in Napoli da Carlo VIII, fu da lui condotto in Francia, ove poscia morì, dopo aver ammaestrata nell’arte medesima sua moglie e sua figlia. In Italia, dice Pomponio Gaurico (De Sculptura prope fin.), laudatissimus nostra aetate Virus Mazon Muli ne tisis, quern nuper nobis Gallia cum plerisque rebus abstulit. Uxor etiam ejus finxit et filia. Più copiose notizie se ne posson vedere presso il Vedriani (Pitt., Scult., ec. Moden.p. 26) (a). Finalmente negli Annali di Bologna di F. Girolamo Borselli si nomina un Niccolò scultore ivi morto nel 14p4> a cui si dee il compimento della bellissima arca di S. Domenico: Niccolò oriondo dalla Dalmazia, ma fino da' primi anni educato in Bologna, argomenti ha provato contro l’asserzione del Vasari, che Pietro Perugino non potè essere scolaro del Veri-occhio (Leti, pitlor. perug. p. 122, ec.). (a) Del Mazzoni ho trattato a lungo nelle Notizie degli Artisti modenesi, ove ho anche riferiti gli onori ch’egli ebbe in Napoli al tempo di Carlo Vili. [p. 1734 modifica]17^4 LIBRO uomo spertissimo nell' arte di scolpire, e di far figure in creta e in marmo, morì in quest' anno, e fu sepolto nella Chiesa de' Celestini. Ei finì l'arca di marmo di S. Domenico, e fece la statua della C'ergine, che è nella facciata del palazzo degli Anziani. Non volle avere scolari, nè istruire alcuno. Era uom capriccioso e strano, e di sì rozze maniere, che ributtava tutti. Le cose ancora più necessarie per lo più gli mancavano; ed essendo di testa dura non voleva udir consiglio di amici Ebbe in moglie una de' Boateri, e un figlio e una figlia. Lasciò loro una statua, di marmo di S. Giambattista, suo lavoro, da vendersi per 500 ducati. Questo epitafio gli fu posto al sepolcro: Qui vitam saxis dabat, et spirantia signa Coelo formabat, proh dolor! hic situs est. Nunc te Bravitele s, Phidias, Policletus adorant, Miranturque tuas, o Nicolae, manus. Script. rer. ital. voi., p. già. XV. Francesco Francia bolognese nato nel 1450, e che visse fin dopo il 1522, ebbe gran nome tra’ dipintori, e ne ragionan perciò a lungo il Vasari (l. c. p. 505) e il co Malvasia (Fels. pitt. t. 1, p. 39, ec.). Ma nel dipingere egli ebbe alcuni non solo uguali, ma ancor superiori; anzi si vuole che lo stupore e l’invidia ch’ egli ebbe in rimirare un quadro di Raffaello, gli cagionasse la morte. Ma nel lavorare in argento e in altri metalli ei non ebbe forse chi ’l pareggiasse. Attendendo dunque, dice il Vasari, mentre stava all orefice al disegno, in quello tanta si compiacque, che svegliando 1 [p. 1735 modifica]TERZO 1735 f ingegno a maggiori cose, fece in quello grandissimo profitto, come per molte cose lavorate d argento in Bologna sua patria si può vedere, e particolarmente in alcuni lavori di niello eccellentissimi; nella qual maniera di fare mise molte volte nello spazio di due dita d altezza e poco più lungo venti figurette proporzionatissime e belle. Lavorò di smalto ancora molte cose di argento, che andarono male nella rovina e nella cacciata de' Bentivogli. E per dirlo in una parola lavorò egli qualunque cosa può far quell'arte meglio che altri facesse mai. Più autorevole ancora è la testimonianza di Cammillo Leonardi scrittor di quei’ tempi: “Virum cognosco, dic egli (Specul. lapid. l. 3, c. 2), in hoc celeberrimum ac summum, nomine Franciscum Bononiensem, ali ter Franza, qui adeo in tam parvo orbiculo seu argenti lamina tot homines, tot animalia, tot montes, arbores, castra ac tot diversa ratione situque posita figurat seu incidit, quod dictu ac visu mirabile apparet. Siegue poscia il Vasari a dire dell’eccellenza con cui il Francia faceva i coni per le medaglie e per le monete; per cui ed allora egli ebbe grandissimi donativi da' principi a cui offerì i loro ritratti in essi delineati, e a lui, finchè visse, fu affidata la zecca in Bologna, ed anche al presente, dice il Vasari, tanto sono in pregio le impronte dei’ coni, che chi ne ha le stima tanto, che per denari non se ne può avere. Nel coniar le medaglie furono ancora eccellenti e Matteo Pasti veronese da noi nominato altra volta, e Vittore pisano di cui direm fra’ pittori, e Sperandio mantovano, i nomi de’ [p. 1736 modifica]1730 LIBRO quali son quelli che più frequentemente s’incontrano nelle medaglie a questi tempi battute. Al tempo medesimo rinnovossi l’arte d’incider le gemme e i cammei. Il Vasari attribuisce la lode di averla col lor favor ravvivata (t. 4, p. 246) a Martino V e a Paolo II; e di quest’ultimo in fatti abbiam veduto altrove che fu ricercator diligente di tali antichità. Ma i primi che dallo stesso scrittore si nominano come eccellenti in tai lavori, son due che da essi presero il lor soprannome, cioè Giovanni delle Corniole celebre Fiorentino, che fra le altre cose incise in una pietra il ritratto del celebre Savonarola; e Domenico de’Cammei milanese, che in una piccola pietra incise il ritratto del duca Lodovico il Moro. Il che se è vero, non può essere ch’ ei sia lo stesso che quel Domenico Compagni di cui tra le Lettere pittoriche se ne ha una scritta da Roma nel 1574, come ha affermato l'editare delle medesime (t.3, p. 218). Di alcuni altri incisori di gemme si posson vedere la bella opera che su quest’arte ci ha data M. Manette (Traité des pierres gravées, t. 1, p. 115), e le Memorie degl’ intagliatori moderni stampate in Livorno nel 1753. XVI. A questa classe ancora appartiene l’arte d’incidere in legno e in rame, e di ricavarne l’immagine in carte, che volgarmente diconsi stampe. Il Vasari (t 4, p. 264, ec.), il Baldinucci (Cominciamen. e progr. dell'arte dintagliare, p. 2, ed. fir. 1767) e più altri scrittori italiani ne fanno inventore Maso ossia Tommaso Fini guerra fiorentino. Gli scrittori tedeschi al contrario attribuiscon!! tal lode alla loro nazione, [p. 1737 modifica]TERZO *7^7 c sostengono che tra essi prima assai che in Italia era conosciuta e usata quest’arte. Coavi en ilmujue esaminar la quistione senza spirito di partito; e perciò convien prima accertare a qual tempo il Finiguerra vivesse. Secondo il Vasari ei fiorì verso il 1460. Il Baldinucci, che in un luogo afferma quasi lo stesso, dicendo ch’ei visse verso il 1450 (Vite de Pitt. t 4» P- ‘)> altrove ne fissa l’età al cominciamento del secolo xv (Orig. e Progr.j ec. p. 2). Questa è ancor l’opinione del sig Domenico Maria Manni (De Florent. Inventis, p. 79), il quale però ivi non ne reca pruova di sorta alcuna. Ma nelle note da lui aggiunte alle citate Vite del Baldinucci produce una carta del 1424, da cui si raccoglie che Maso in quell’anno era già morto: D. Nicolosa filia olim Tomaxii Finiguerrae de Finiguerris uxor Manni quondam Benincasae Mannucii Legnajuoli pop. Sanctac Felicitalis (l. dtp. 2). Questo documento sembra che non ci lasci luogo a dubitare intorno al tempo un cui Maso fiorisse. Ma se ciò è vero, come conciliare quest’epoca colle cose che di lui si raccontano? Il Vasari (Vite, t. 2, p. 432) e il Baldinucci (Vite, t. 4, p. 2) affermano ch egli fece alcune opere di scultura a concorrenza di Antonio del Pollaiuolo, il quale, come raccogliesi dall’ iscrizion sepolcrale dal Vasari medesimo riferita (l. c p. 438), era nato nel 1426, cioè due anni dacchè il Finiguerra era morto. Gli stessi scrittori raccontano che Baccio Baldini osservati avendo i lavori del Finiguerra, apprese quell’arte; ma non essendo felice nel Tirauoschi, Voi IX. 33 [p. 1738 modifica]i;38 LIBRO disegnare, fuceasi assistere da Sandro Botticelli!. Or questi, secondo il Vasari (l. c. p. 448), morì nel 1515, e fu perciò troppo lungi dall'epoca assegnata alla morte di Maso. Che direm noi dunque di tali contraddizioni?! A me sembra che poichè le cose da’ suddetti scrittori narrate non si comprovano con sicuri monumenti, ma sono probabilmente appoggiate soltanto a qualche popolar tradizione, e per l’altra parte l’epoca della morte di Maso viene stabilita da un'autentica carta, a cui non veggo qual eccezione si possa apporre, a questa ci dobbiamo attenere, e credere che il Finiguerra fiorisse al principio del secolo xv, e fosse già morto nel i4?4 (<*)• (a) L’ epoca della morte da Tommaso Finiguerra da me qui stabilita sul fondamento della carta dal Manni indicata, cade a terra per un altro assai più autorevole documento prodotto dal proposto Gori. Descrive egli (Thesaur. vet. Diptych. t. 3, p. 825, ec.) una, come la diciamo, pace d’argento di eccellente lavoro intagliata di niello, in cui si rappresenta l’assunzione e la coronazione della B. Vergine fatta dal Finiguerra, che or si conserva nel battisterio in Firenze Or essa fu da lui lavorata l’an 1452, e ne è pruova incontrastabile un libro segnato AA dell’ Arte de’ Mercanti tuttora ivi esistente, nel quale vedesi notato il prezzo di fìorini (66, una lira e un denaro pagato per« io a Finiguerra da’ consoli dell’arte nell’anno suddetto Un’altra pace ivi pur conservasi, che rappresenta la crocifissione del Redentore, di somigliante lavoro, fatta da Matteo di Giovanni Dei fiorentino 1’ anno <4^5, per cui gli furon pagati f!8 (¡orini. Quindi si rendon verisimili le altre cose dal Vasari e dal Baldinucci narrate, le quali, ove fosse autentico il documento del Manni, sembravano impossibili. [p. 1739 modifica]TERZO I73<) XVII. Or ciò presupposto, ecco in qual modo, secondo il Baldinucci, fu da Maso trovata l arte d’intagliare in rame. Era solito, dic egli, questo Artefice, ogniqualvolta egli intagliava alcuna cosa in argento, per empirla di niello, fimprontarla con terra, e gettatovi sopra zolfo liquefatto, veniva in essa talmente improntato il suo lavoro, che datavi sopra una certa tinta a olio, ed aggravatovi con rullo di legno piano carta umida, restava nella carta l intaglio non meno espresso, di quel eh’ è fòsse prima nell argento, e parevan le carte disegnate con penna. Siegue indi narrando che Baccio Baldini apprese, come si è detto, quest’ arte; che Antonio da Pollaiuolo superò di gran lunga, amendue; che Andrea Mantegna ancora coltivò quest’arte felicemente; ch’ella passò poscia un Fiandra, e che un certo Martino d’Anversa fu ivi il primo ad usarla, e che da lui poscia l'apprese il celebre Alberto Duro. Deesi qui avvertire che due errori ha il Baldinucei, e prima di lui qui commessi il Vasari con più altri scrittori. Martino non fu natio d’Anversa, ma di Culmbac in Allemagna, e cognominato Schoen; ed egli non fu maestro di Alberto Duro, il quale dovea bensì andare alla scuola di quel professore, ma uditane allora appunto la morte, recossi a quella di Michele "Wolgemuth pittore e incisore in Norimberga. Intorno a che veggasi la bella ed esatta opera del barone di Heineken stampata in Vienna nel 1771, e intitolata: Idée génerale d’une collection complette d estampes (p. 218). Ma ciò non appartiene allo scopo di questa [p. 1740 modifica]> 74° LIBRO Storia. Ben le appartiene ciò che questo erudito scrittore soggiugne non molto dopo; perciocchè avendo parlato dei primi incisori tedeschi, così continua: Ciò che abbiamo detto fin qui, basta a provare che l arte' d incidere in metallo è stata trovata in Allemagna prima del Finiguerra, che secondo gli autori italiani non cominciò ad iru idere che verso il 1460. Anzi noi non conosciamo alcuna stampa italiana con tal data. La prima fatta in Italia, che abbia data, è quella del Tolomeo stampata in Roma nel i4"^j ove anche non sono che carte geografiche. Le prime figure si trovano nel Dante stampato in Firenze nell an 1481 Io son persuaso ciò non ostante, che si sien fatte stampe in Italia molto anteriori a quest’ epoca, ma in esse non vi ha nè nome nè anno (ib. p. 9.32). Così egli. E certo se il Finiguerra non visse che circa il 1460, egli a ragione afferma che l’ arte d incidere fu prima che in Italia usata in Allemagna, ov egli crede, e dimostra con argomenti molto probabili, ch essa fu ritrovata al più tardi verso il 1440 (ib. p. 224). Ma s’ei fiorì, come si è provato, al principio del secolo xv, e s era già morto nel i424j non s* Pu^ P'ù dubitare che agl’’ Italiani non debbasi il vanto dell’ invenzione, benchè non si possano additare stampe che portin seco l’ epoca del lor lavoro (a). (a) Ciò che abbiam detto nella nota precedente intorno all’epoca della vita del Finiguerra, sembra che faccia cadere a terra questo argomento. Nondimeno chi viveva nel 1452, poteva ancora essersi esercitato in quest’arte venti o trenta anni addietro; e perciò, [p. 1741 modifica]TERZO *-74» XVIII. Ma è egli certo che Maso fosse l’inventore di quest’arte? L’autorità del Vasari che lo afferma, ha molto peso; ma come in altre cose, così in questa ancora ei può avere errato: Vorrei da voi qualche lume, scriveva il Mariette al cav Niccolò Gaburri nel 1732 (Lettere pittor. t. 2, p. 230), sopra l’ invenzione d intagliare, e se sia nata a Firenze per mezzo di Maso Finiguerra, perchè quel che dice il Vasari, non mi par ben provato, vedendosi le stampe intagliate in Italia, ch' io abbia visto. Veramente io non ne ho ancora vedute del detto Maso, nè di Baccio Baldini. Io ne ho vedute due o tre del Pollaiuolo, e molte dAndrea Mantcgna. Bisognerebbe vederne di detto Maso per decidere chi nè stato l'inventore. Per ora io ho un forte pregiudizio contro di lui. Il Gaburri rispondendo al Mariette, confessa che dopo aver messo sossopra e cielo e terra, e dopo aver ricercati i musei Gaddi, Piccolini, Giraldi e Covoni, ed altre raccolte, non gli è mai avvenuto di trovare una stampa segnata col nome di Finiguerra (ib. p. 267). Questo argomento ha qualche forza, ma pur non ne ha tanta che basti a distruggere l’ opinion del Vasari. I primi libri che si stamparono, non hanno il nome dello stampatore. Perchè dunque non potè avvenire lo stesso ne’primi lavori ancor di quest’arte, di cui parliamo? È egli certo inoltre che non quando si possa provare che il Finiguerra incise in ra me, ei potè incidere al tempo stesso, e prima ancora degl'incisori tedeschi. [p. 1742 modifica]

  • 7^12 unno

v’abbia stampa alcuna del Finiguerra? Lo stesso Mariette ne rammenta una, sotto a cui si leggono queste lettere: I. F. T., ed egli stesso confessa ch’ esse lette a rovescio potrebbono dire: Thomas Finiguerra incidit (ib. p. 264). Il sopraccitato scrittor tedesco ne accenna due segnate con questa cifra: MF, la quale potrebbe appunto indicare Maso Finiguerra (l. c. p. 14i) (a). Non sembra dunque abbastanza provato che non v’ abbia stampe di questo artefice, e clic non si possa a lui eonceJer 1" onore dell’ invenzione di quest’ arte. Oltre di che, come ben riflette 1’autor medesimo (ib. p. i/fa), P°tK ancora avvenire che Maso nulla sapendo eli' essa fosse già stata trovata in Alleniagna, ne concepisse da se stesso l’idea, e si rendesse perciò meritevole di quella gloria che al primo inventore è dovuta. Dalle quali cose a me sembra che si possa a giusta ra(a) Il sig co. Durazzo già ambasciador Cesareo a Venezia, la cui insigne raccolta di stampe è nota a tutti gl intendenti dell’arte, interrogato da me, se in essa avesse stampa alcuna del Finiguerra, si compiacque di rispondermi con sua gentilissima lettera de’ 26 aprile del 1788, che, benchè alcune di quelle da lui comperate dal museo Gaddi in Firenze si credesse da molti che attribuire a lui si potessero, ei però non avea voluto decidere: e che all’articolo del Finiguerra avea collocato un esemplare della pace mentovata poc’anzi, la quale dev’ essere stata tirata col fumo e qualche grasso sulla placca niellata, avanti che fossero i segni o cavi riempiti dal metallo fuso, che rende il totale liscio e perfetto; e che innoltre avea tre altre picciole stampe due placche niellate, le quali per la finezza e l’uguaglianza de’ tratti poteano credersi del medesimo autore [p. 1743 modifica]TERZO 1743 giom inferire che se noi non possiamo ad evidenza mostrare che il Finiguerra fu il primo ad incidere in metallo, gli stranieri ancora non han finora recati tali argomenti che convincan di errore il Vasari e gli altri che ne han seguita l’ opinione. XI)L Tutto ciò appartiene all’arte d’incidere in metallo. L’incisione in legno è più antica, e si crede ch’ella avesse la prima origine dalle carte di giuoco. Contendon fra loro i Francesi e i Tedeschi per la gloria di questa invenzione. I primi affermano ch’ esse furono trovate in Francia a’tempi del loro re Carlo V (V. Bullet, Recherches sur les cartes à jouer. Lyon, 1757)I secondi sostengono che molto prima esse eran conosciute tra loro; e si posson vedere le lor ragioni nell’ opera del bar di Heineken già più volte citata (Idée generale, ec. p. 239, ec.). A me non appartiene il decidere di tal contesa. Ma che sarebbe, s’io dimostrassi che fin dal secolo xiii, cioè assai prima che in Francia e in Allemagna, si usavano in Italia le carte da giuoco? Ho fatta altrove menzione (t 4 p. 191) del Trattato del Governo della famiglia scritta nel 1299 da Sandro di Pippozzo di Sandro, di cui conservava un codice a penna Francesco Redi. Or nel Vocabolario della Crusca, ove si parla delle carte da giuoco, recasi questo esempio cavato dal suddetto Trattato: Se giucherà di denaro, o così, o alle carte gli apparecchierai la via, ec. E nell’ indice degli autori nel Vocabolario stesso citati, nel far menzione di questo Trattato, si accenna appunto, oltre alcuni altri, il codice che aveane [p. 1744 modifica]

  • 744 unno

. *1 Redi. Se dunque il vedersi in un paese prima che in altro memoria di qualche cosa è bastevole argomento a provare che ivi essa fosse trovata, sarà con ciò dimostrato che le carte da giuoco ebbero l’origin loro in Italia Ma (n) Contro questo passo della mia Storia ha mossa qualche difficoltà il sig. Landi (t. 3, p. 4.02). Fjli dice che le carte da giuoco, delle quali qui si ragiona erano di pergamena, è che dipingevansi col pennello; e ne porta per ragione, che la carta allora, cioè alla fine del! XIII secolo, non era ancora stata trovata. Se qualche altro avesse fatta questa difficoltà, non ne farei maraviglia. Ma che facciala il sig, Landi, il quale ha pure avuta la sofferenza di leggere e di compendiar la mia Storia, mi sembra strano; perciocchè egli avrà veduto che in essa e più ancora nelle Giunte alla medesima, ho prodotti documenti di carte fatte di stracci di lana e di bambagia fin dal XIII secolo, e anche molto prima. In questa nuova edizione poi ho ancora recati documenti di carta di lino fin dal secolo stesso, e perciò questa difficoltà non ha alcuna forza, Io però confesso che non ho certo argomento a mostrare che le carte, delle quali si parla da Sandro di Pippozzo, non fosser dipinte a mano; ma questa incertezza dovrà ammettersi ugualmente nelle carte d’Allemagna e di Francia. Aggiugne il sig. Landi, ch’ei crede Parte ¿’incidere in legno più recente che quella d’incidere in metallo. Ma questa opinione difficilmente può sostenersi; perciocchè il decreto veneto del 1441 qui riferito', e ove certo non si parla di carte dipinte a mano, ma di carte e fi pure stampale, ci mostra che l’arte di; lavorarle avea già avuto gran nome in Venezia; che poscia essa era venuta meno, e che allor volevasi ri mal le re in vigore, il che suppone un lungo corso di anni, quanto richiedesi, perchè un’arte cominci, poscia a poco a poco si perfezioni, e quindi di nuovo lentamente vada degenerando. Quindi concedendo ancora che le carte alla fine del XIII secolo fosser dipinte, è certo che l’ arte d'inciderle in legno dovea esser nota fin dal principio del [p. 1745 modifica]TEH7.0 I “45 checché sia ili ciò, è certo clic in Venezia molto prima del j 441 si lavoravano non sol le carte da giuoco, ma altre stampe ancora, Eccone la pruova autentica in un decreto del Pubblico, che si lui nella Raccolta di Lettere pittoriche (t. 2, p. 32i): mccccxli. adì si Otubrio. Conciosia che l' arte et mestier delle carie e figure stampide, che se fanno in Venezia, è vegnudo a total deffectiva, e questo sia per la gran quantità de carte da zugar, e /ègure deperite stampide, le quale vien fate de fuor a. de Venezia sia ordenado e stai nido — che da ino in avanti non possa vegnir over esser condutto in questa terra alcun lavoriero de la predicta arte che sia stampido o deperito in iella o in carta, come sono anchone, e carte da zagare, e cadami altro lavoriero de la so arte facto a pennello o stampide, ec. Era dunque 1’ arte d’incidere e di formar le stampe, anzi ancor quella di colorirle, assai fiorente in Veuczia innanzi al 1441; e couvien dire perciò, che da molti anni prima vi fosse introdotta c forse fin dal principio del secolo xv. Anzi nelle carte da giuoco veggiamo a questi tempi introdotto un tal lusso, clic appena meriterebbe fede, se non ci venisse ciò affermato da chi erane testimonio di veduta. 11 Decombilo parlando de’ giuochi di cui dilettavasi il xv secolo: c che perciò essa è o contemporanea, o fors’ anche più antica di quella d’incidere in metallo. Che se il duca Filippo Maria Visconti volle un giuoco di carte superbamente dipinte da Marziano tortonese, ciò deesi attribuire a un smodato lusso, e non già alla mancanza dell'arte d"inciderle. [p. 1746 modifica]«7Ì6 unno duca Filippo Maria V iscouti, dice clic piacevoli singolarmente quel delle carte, e che un mazzo di esse vagamente dipinte da Marziano da Tortona fu da lui pagato 1500 scudi d’oro (a): Tennis aute.ni liulendi tnodis ah adolescenza usus est; ruun modo pilo se excrcer bat, ritma JitUiculo, pleruntque eo ludi genere, qui ex imaginibus depictis fit, in quo praecipue nblectatus est; adan ut intigrurn earum Indimi mille et quingentis aurcis emerit. anelare rei in primis Martiano Terdonensi ejus Secretanoi, qui Deorum iniagines, subjcctasquc bis animai ium figuras et aviuni miro ingenio, sutnrnaque industria perfècit (Script Rer. ital. voi. 20; Fifa P/ul. M. Ficee, c.. Gì). E poiché siamo (a) Sembra che questo Marziano da Tortona sia quel medesimo di cui si ha l’orazion funebre composta da Gasparino Barzizza nel codice dei’ sigg. conti Carrara Beroa altro volte citato: O populum Tredonensem, (l. Terdonensem) esclama in esso l’autore, optimo parente orbatum!... dies me deficeret si vestrae civitatis incommoda oratione me a persequi ve tieni. Narra poscia che in età di 17 anni Marziano andossene agli studj in Pavia; che trattenutovisi due anni, passò a Padova, a Bologna, a Firenze; che ottenuta la laurea sostenne con ampio stipendio la cattedra filosofica, non dice dove. e che poscia fu in grande onore presso il pontef Gregorio XII. Parlando poscia del soggiorno ch’egli fece nella corte di Milano, così dice: Quid accessumn ad lllust. Principem Mediolani commemorabo, apud quem tantum honore et gratia potuit, quantum ibi per valetudinem licuit? Cujus incredibilem in deliberando prudentiam, in sententiis in Senatu dicendis sapientiam Patres conscripti admirati, a Hi Catonem, alii C. Laelium appellabant... Erat tuni celerarum artiurn dodi sii mus lum poeticis studiis ac singulari eloquentia in primis pr aedi (in. [p. 1747 modifica]TERZO *7Í7 sul ragionare di lavori in legno, non sarà da questo luogo lontano il riflettere che l’arte ancora d’intarsiare a diversi colori e a diverse figure fu in questo secolo perfezionata di molto. Fra molti esempj che se ne potrebbon recare, basti l accennare un solo tratto dalla Cronaca di Mattia Palmieri. Questi descrive la regia magnificenza con cui Borso accolse in Ferrara nel 1459 il pontefice Pioli; e dopo aver detto che fra le altre cose ei diè a vedere il raro talento di un giovane modenese per nome Giovanni, il quale giocava agli scacchi stando lontano dalle scacchiere, e ordinando le mosse secondo le relazioni che veniangli fatte delle mosse nimiche, parla ancora di una tavola di legno intarsiata con ammirabil lavoro, in cui vedeansi alberi ed animali espressi sì al vivo, che parean dipinti; e aggiugne ch’ essa fu opera di artefici modenesi; Pluteum in ligno emblemmate ea arte confectum, ut veras arborum et animantium omnis generis formas motusque inesse diceres, ambigasque, penniculo ne, an, ut est, intersectis lignis imagines referant, opus Mutinensium fabrorum profecto praeclarum (Script. rer. ital. florent. t. 1, p.). XX. Mi si permetta l’ aggiugner qui qualche cosa intorno a un’ altra invenzione che non è aliena da questo luogo. Nel tomo V di questa Storia abbiam ricercato quando e per cui opera s’introducessero in Italia gli orologi a ruota, e abbiam veduto che molti ne furono in diverse città collocati. Non giova dunque l’ andar osservando come il loro uso si propagasse; poichè non è cosa degna di grandi elogi il [p. 1748 modifica]«748 LIBRQ fare ciò che da altri si vede fatto. Solo ne accennerò alcuni che pel singolare lavoro furono allora oggetto di maraviglia. Negli Annali Estensi di Jacopo Delairo si fa menzione di un orologio fornito d'ingegnosi artificii, che un*Tedesco per nome Corrado volle innalzare sulla torre del palazzo del march Niccolò III in Ferrara, e dell’ infelice esito ch ebbe: De mense.... fuit incepta constructio et laborerium horologii novi super Turri palatii Domini Marchionis cum Angelo, tuba, stella, et aliis ingeniosis artificiis per Magistrnm Con melimi Teotonicum, qui tandem non capax industriae ad perfectionem se ab sentavi t per fugam (Script. Rer. ital. vol 18, p. 973). Più ammirabile ancor e di esito più felice fu l orologio che Lorenzo della Volpaia fiorentino lavorò per Lorenzo de’ Medici. Esso era congegnato per modo, che non solo segnava le ore, ma il moto ancora del sole, della luna e degli altri pianeti, le ecclissi, i segni del zodiaco e tutte in somma le rivoluzioni del cielo. Angiolo Poliziano che avealo veduto e attentamente osservato, ce ne ha lasciata in una sua lettera una bellissima relazione (l. 4, ep. 8). Ne parla ancora il sig. Domenico Maria Manni (De Florent. Inventis c. 29) che arreca altre testimonianze a pruova di questo fatto, e quella fra le altre del Vasari (t 2, p. 272), il quale dice che a suo tempo serbavasi ancora questo orologio nel palazzo del duca Cosimo. Ma è falso ciò ch’ egli aggiugne, che fu questa cosa la prima che mai fosse fatta di questa maniera. Perciocchè abbiamo veduto (t. 5, p. 342) che [p. 1749 modifica]TEKZO 1;4(J somigliante fu l orologio fatto nel secolo precedente da Giovanni Dondi in Pavia. Gli orologi mobili ancora e di picciola mole erano in questo secolo già conosciuti, e fatti anche in modo che col suono indicassero le ore e segnasser innoltre il corso de’ pianeti. Ne abbiamo la pruova in un sonetto di Gasparo Visconti poeta di questo secolo, citato dal Sassi (Hist typogr. mediol p. 360, ec.), in cui paragona un amante a un orologio, e nel cui titolo così dice: Si fanno certi orologi piccoli e portativi, che con poco d artifizio sempre lavorano, mostrando le ore, e molti corsi de pianeti, et le feste, sonando, quando il tempo lo recerca. Di questi però non sappiamo chi fosse il primo ritrovatore, e se essi abbiano avuta origine in Italia, o altrove. Certo anche in Francia verso questo tempo medesimo essi erano conosciuti, se è vero ciò che narra il Du Verdier citato dagli Enciclopedisti (art. Horologe), cioè che un gentiluomo francese rovinato dal giuoco entrò un giorno nella camera, ove era il re Luigi XI, e tolto segretamente un oriuolo che ivi era, sel nascose fra la manica, ma che scoperto il furto al suono delle ore che in quel punto si udì, il re non solo gli perdonò, ma gli fè’ dono dello stesso oriuolo. Questo fatto però non so se possa dirsi abbastanza provato coll’ autorità del suddetto scrittore. Così quest’ arte ancora si andò ognora perfezionando sino a giugnere col progresso degli anni a quella finezza a cui la veggiamo or pervenuta (*). (*) Non solo gli orologi a ruota, ma quelli ancora [p. 1750 modifica]ly^o unno , XXL Nè punto meno felici furono iu questo secolo i progressi della pittura, di cui per ultimo ci resta a dire. Paolo Uccello fiorentino fu uno de migliori pilloii dal principio di questo secolo fino al 1472, in cui in età decrepita (ini di vivere. Il Vasari (t. 4, p. 264, ec.) e il Baldinucci (t. i,p. 122. ec.) parlano a lungo ddl’opcre di’ pi fece iu Firenze, e della maniera da lui usala iu dipingere, nel che, benché egli molto si diseoslasse dall’aulica durezza fu lungi aucor nondimeno da quella facile e viva espresa potverc e ad acqua ricevei ono io questo secolo maggior perfezione. Nella libreria di S. Salvadore in Bologna si conserva un codice ms. in cui si leggono questi due trattati: Nova compositio horologii, quod ex polverum casu consistit! per famosissimum artium et ntedicinae. dortorem peritiai munì dominimi Johannem Fonternani de Venetiis ad' Ludovicum Venetum suum: e al line Pad uè t4i8 citm studiòt in artibus et medecina. Indi segue: Horologium Aqueum, quod celeberrimus artium et medicinae doctor peritissimimus Dominus Johannes Fontana de Venetiis composuit: e al fine perfectum MCCCCX die ult. Octobr. Noi troviamo in fatti che Giovanni Fontana veneziano fu in Padova rettor degli artisti dal luglio del 1418 fino al luglio dell anno seguente (Facciol. Fasti Gymn. patav. pars 2, p. 78). Debbo però avvertire che nel detto codice, ove si legge il nome dell'autore, veggonsi le parole rase e poscia scrittovi sopra il nome di Giovanni Fontana, il che io non so se sia avvenuto perchè sia stato cancellato il nome del vero autore per sostituirne un altro, o perchè siasi voluto rinnovare il nome del Fontana, che fosse ornai vicino a smarrirsi. Non così in un altra operetta che segue nel medesimo codice, ed ha per titolo: Inc. Tracia!tts de pisce, cane, et volucre; quem doctissimus... Johannes Fontana Venetus in adole♦ svenila tua edAit, ove non vedesi alcun cambiamento. [p. 1751 modifica]TERZO 175* sione della natura, che rendette poscia sì celebri alcuni de pittori che vennero appresso. Il primo a cui convenga con verità la lode di dipintore eccellente, è Masaccio, ossia Tommaso da S. Giovanni di Valdarno, nato, come pruova il Baldinucci (l. c p. 166), confutando il Vasari, nel 1402, e morto in età di 40 anni, non di soli 26, come questo secondo scrittore avea affermato (l. c. p. 98). Io lascerò che ognun vegga presso i suddetti due storici la descrizione delle pitture che' ei fece in Firenze singolarmente e in Roma, e riferirò solo il giudizio che di esso dà il Baldinucci: Il suo principale intento nell operare, dic egli, fu il dare alle figure sue una gran vivacità e prontezza, se fosse stato possibile, nè più nè meno quanto che se vere state fossero. Proccurò più d ogni altro Maestro stato innanzi a lui di far gl ignudi in iscorti molto difficili, e particolarmente, il posare di piedi veduti in faccia, e delle braccia e gambe; e cercando tuttavia nell operar suo delle, maggiori difficoltà, acquistò quella gran pratica e facilità, che si vede nelle sue pitture particolarmente ne panni con un colorito sì bello, e con sì buon rilievo, che è stata in ogni tempo opinione degli ottimi artefici, che alcune opere sue e per colorito e per disegno possono stare al paragone con ogni disegno e colorito moderno. Bello è ancor l epitaffio in onor di esso composto da Annibal Caro: Pinsi, e la mia pittura al ver fu pari: Patteggiai, Ravvivai, le diedi il moto, Le diedi affetto: insegni il Buonaruoto A tutti gli altri, e da me solo impari. [p. 1752 modifica]xm ftc ii* anno ttninu |u r«tchi altii. 17^4 LIBRO XXil. 11 metodo di’ 10 ini son prefisso nel trattare di questo argomento, mi obbliga ad accennare soltanto i nomi di molti altri eccellenti pittori italiani di questo secolo. Tali furono i ra Giovanni soprannomato Angelico da Fiesole, dell' Ordine de' Predicatori (Vas.l. c. p. 215; lialil. I cit p. 89), Pietro della Francesca di Borgo di S. Sepolcro, che dal Vasari (l. i'iL p. 205.)) è lodato non solo come ottimo dipintore, ma ancora come dottissimo nelle ma temati clic, talché egli aggiugne che il celebre Luca Pacioli, da noi nominato come uno de’ migliori coltivatori di quella scienza, altro non fece che involare gli scritti a Pietro stato già suo maestro, e spacciarli quai suoi, della quale accusa però non veggo che dal Vasari si rechi pruova o congettura veruna) Andrea del Castagno, e Vittore P.sano o Pisanello (ib.p. 308) veronese, il secondo de’ quali fu altamente lodato da Bartolommeo Fazio ne' suoi Elogi (De Viris ill. p. 47) > e con una sua elegia da Tito Vespasiano Strozzi (Erot. l. 2, el. 13); Domenico del Ghirlandaio, di cui oltre ciò che il Vasari (l. c. p. 409) e il Baldinucci (¿4; p. 54) ne hanno scritto, si ha una più lunga Vita scritta dal sig Domenico Maria Manni (Calog. Opusc. t. 44); Andrea Montegna, che dal Vasari (l. c. p. 475) e da altri dicesi mantovano, ma che certamente fu padovano, come pruovasi da ciò che abbiamo detto del Feliciano (t. 6, part. 1, p. 206), e da mille altri monumenti che potrei arrecare, e che accennansi dal ch. ab. Bettinelli, il quale a lungo e con esattezza descrive le belle pitture che di lui in [p. 1753 modifica]TEMO 1^53 MantoVa sor» rimaste (Della Lettere ed Arti mantov. p. 36, ec.) Pietro Perugino che visse iit i5a/f (Vus. I. cit. p. 517) (a), e a cui lode basti il riflettere che’ egli ebbe a suo scolaro il gran Rafaello; Jacopo Bellini veneziano, e Giovanni e Gentile di lui figliuoli (ib. p. 358), fra i quali Giovanni ebbe l’ onore di aver a suo scolaro l’ immortal Tiziano j Gentile da Fabbriano, di cui, oltre il Vasari (t. 2, p. 308) fa. un grande elogio il Fazio (De P iris. ili. p. 44)? Luca Signorelli da Cortona (Vas. t. 3, par. 2), di cui ha scritta esattamente la Vita il suddetto Manni (Racc. milan. t. 1), e moltissimi altri, le cui notizie si posson vedere presso il più volte mentovato Vasari nel secondo suo tomo della nuova edizion di Firenze. Egli nomina altrove più altri eccellenti pittori di questi tempi, come Francesco Monsignori veronese che molto fu adoperato e molto ancor premiato da Francesco Gonzaga IV marchese di Mantova, e Domenico Moroni, esso ancor veronese (t.!4, p. 199, 206) ed altri. E io potrei stendermi ancora più lungamente, se volessi qui raccogliere insieme ciò che di molti pittori dal Vasari e dal Baldinucci non nominati hanno scritto il Malvasia, il Ridolfi, il Vedriani, il commendator del Pozzo, il de’ Dominici, il Borsetti, e più altri che han preso (-7) Di Pietro Perugino ha raccolte le più esatte notizie, e ha parla Lo con erudizione non meno che con eleganza non ordinaria il sig. Annibale Muriotti nelle sua Lettere pittoriche perugine (p. 1 a 1, ec.). Ti a A boschi, Voi. IX. 34 [p. 1754 modifica]1754 LIBRO ad illustrar la memoria de’ pittori della lor patria. Ma, come ho già avvertito, la brevità che in questo argomento mi son prefisso, non mi permette di allungarmi troppo oltre. XXIII. Molto di perfezione accrebbesi alla pittura coll arte che dicesi in questo secolo ritrovata, di dipingere a olio. Il Vasari (L 3,^>.26a,ec.) ne fa inventore Giovanni di Bruges, detto ancora Van Eych, pittor fiammingo, e racconta che Antonello da Messina pittor valoroso trovandosi in Napoli, e veggendo un quadro in quella nuova maniera dipinto dal suddetto Giovanni, e da lui inviato al re Alfonso, viaggiò fin nelle Fiandre per apprendere quel segreto; che ottenuto avendo ciò ch’ei bramava, tornò in Italia, e recatosi a Venezia, insegnò l’arte medesima a Domenico Veneziano; che da questo fu comunicato il segreto ad Andrea del Castagno di Mugello, il quale poscia ingrato al suo maestro lo uccise a tradimento (ib. p. 302), e che in tal modo si andò divolgando e propagando quest’ arte. Così il Vasari, e dopo lui quanti hanno scritto in questa materia. Nell’Antologia romana an. 1775, agosto, n. 7. p. 49, ec.) si fa menzione di una Dissertazione del sig Lessing bibliotecario del principe di Brunswick, nella quale egli ha preso a combattere questa sì universale opinione. Ei cita una’opera manoscritta di un certo Teofilo monaco (*), come (*) Una copia del libro del monaco Teofilo qui accennato, tratta da un antico codice dell imperial biblioteca di \ icona,.si conserva nella libreria Nani in Venezia, e il più volte lodato sig. D. Jacopo Morelli, [p. 1755 modifica]TERZO 1 j55 egli crede, tedesco vissuto nel x o nell’xi secolo, e reca il passo in cui egli chiaramente insegna a temperare i colori coll’olio. Gli editori dell’Antologia non dissimulano ciò che a questa autorità si potrebbe opporre; cioè che forse questa’ arte conosciuta nel secolo x e xi, fu poscia dimenticata, sicchè a Giovanni di Bruges si dovette ugual merito, come se l’avesse prima d’ogni altro trovata. Ma essi rispondono che il Vasari ha presi nella sua opera molti abbagli in ciò che appartiene alla storia e alla cronologia; che ha ancora creduto che prima di Cimabue fosse del tutto perita la pittura in Italia; e che perciò si può credere che anche parlando di questa invenzione ei sia caduto in errore. A me non sembra però, che questa sola risposta abbia gran forza. L’error del Vasari intorno allo stato della pittura prima di Cimabue è chiaramente provato con indubitabili testimonianze di autori contemporanei, anzi colle stesse pitture assai più antiche di Cimabue che esiston tuttora. Può egli dirsi lo stesso della pittura a olio? A provare che innanzi a Giovanni da Bruges e ad Antonello da Messina essa fosse usata, non basta recar le parole di un autore del secolo xi; perciocchè, come si è detto, potè che crede l’autore vissuto nel secolo su, pe ha pubblicata la prelazione e l’acquisto de’ capi (Codd. rnss. Dibl. Pi,micie, p. 33). Io non debbo trattenermi in ragionar di un autore che nulla ebbe di comune colla nostra Italia. Ma gli amatori della stona delle belle arti troveranno nel saggio che il detto sig. Morelli ce ne Ita dato, non poche belle e interessanti notizie. [p. 1756 modifica]1756 unno dopo quel tempo perir quest’ arte. Convien addittarci qualche pittura a olio, che ancor esista, più antica di Giovanni 5 o almen mostrarci una tradizione continuata dal secolo XI fino al secolo xv, dell’ esistenza di quest arte. Or qui gli antologisti potean osservare che vi ha infatti chi ci addita pitture a olio più antiche di Giovanni di Bruges e di Antonello. Il co Malvasia ne mostra alcune in Bologna fatte fin dal 1407 » e che certamente secondo lui sono fatte ad olio (Fels. Pitt. l. 1, p. 27). Il de Dominici ne mostra altre in Napoli ancor più antiche, cioè fin dal 1300 (Vite de’ Pitt napol. t. 1. p. 107 j t. 3, p. 63), e arreca un passo dell’ opera del cav. Massimo Stanzioni napoletano, in cui dice d’aver letto che non già Giovanni ad Antonello, ma Antonello a Giovanni insegnò l’ arte, non di unir l olio a’ colori, che ciò già sapevasi, ma di unirlo in modo ch’essi veramente ne ricevessero e maggior pregio e più durevole consistenza (a). Che se in Bologna e in Napoli era conosciuto questo segreto, crederem noi che altrove esso fosse ignoto? Questo punto ancora meriterebbe di esser esaminato con particolar diligenza 5 ma non può farlo (a) lidie pitture a olio fatte in Napoli fin dal secolo xiv ragiona ancora il sig. Pietro Napoli Signorelli (Vicende della Coltura nelle due Sicilie, t. 3, p. 171. ec), il quale crede che il primo ad essere in ciò eccellente fosse Colantonio del i'iorc, di cui due bellissimi quadri singolarmente tuttor conservansi fatti a olio, uno nella chiesa di s Maria Nuova, l’altro nella sagrestia di S. Lorenzo, che si veggon sempre con maraviglia »lag>> intendenti. [p. 1757 modifica]TEMO *757 se nou chi si accinga a ricercare minutamente tutte le più antiche pitture che ci son rimaste (a). È certo però, che la maggior parte di (a) Nelle notizie degli artisti modenesi (Bibl. moden. t. 6, p. 481) ho parlato a lungo delle pitture recentemente scoperte di Tommaso da Modena circa la metà del secolo xiv in Carlstrein castello della Boemia, le quali esaminate attentamente da intendenti professori sono state giudicate pitture a olio, E ivi ho ancor mostrato che modenese fu quel pittore, e non boemo, come altri ha creduto. E posso ora a ciò aggiugnere che se nell’ iscrizion ivi riportata invece di llarisini fili us debba leggersi Buri si ni, il che non è improbabile, ne sorge nuovo argomento a comprovar sempre più chiaramente ch’ei fu modenese, poichè molti personaggi della famiglia de’ Barisini io ho poi trovato ne’ documenti di questo pubblico archivio, e fra essi Tolomeus Buri tini fu nel 1312 destinato a recare a Rinaldo e a Butirone Buonacossi di Mantova l'elezione di essi fatta dal general Consiglio di Modena a’ signori di questa città. Nè questi fu il solo Modenese che in quel secolo conoscesse quest'arte, Io ho pur parlato (ivi', p. 537) del quadro di Serafino Serafini modenese, dipinto l'an 1385, che conservasi in questa cattedrale. Or questo quadro ancora, all’ occasione del riattamento della chiesa medesima fatto nell’autunno del t'Bq, tolto per qualche tempo dal suo luogo, e diligentemente osservato da alcuni professori, è stato giudicato concordemente che sia dipinto ad olio; e qualche altro quadro conservasi ancora in Modena, che credesi dello stesso autore, e ch è pur dipinto alla stessa maniera. Tutti questi esempj pruovano chiaramente che non può appartenere al secolo xv 1‘ invcnzion di quest'arte. Debbo qui avvertire che nelle indicate notizie riportando l’iscrizione che leggesi nel quadro della cattedrale, fidato alle altrui relazioni, aggiunsi la parola Mutinensis, che veramente non vi si legge. Ma che Serafino fosse Modenese, è certo dall’ altra iscrizion ferrarese da me pur riportata. [p. 1758 modifica]l~58 LIBRO esse sono a fresco: e convien dire perciò, che se la pittura ad olio non fu invenzione di questo secolo, molto almeno in esso si perfezionò. XXIV’. Non dee qui passarsi sotto silenzio la miniatura, la quale in questo secolo giunse a non ordinaria vaghezza. Il lusso e la magnificenza de’ principi nel raccogliere codici e nel fregiarli di leggiadri ornamenti, fu cagion che quest’ arte venisse coltivata da molti con grande impegno, e che perciò, come suole accadere, ella divenisse presto perfetta. Non vi ha alcuna celebre biblioteca che non abbia molti di cotai codici, ne’ quali, oltre le lettere iniziali, le prime pagine vi si veggon messe a oro e a colori vaghissimi, e, ciò ch è più, ornate con diversi e graziosi disegni. Oltre quel f Giovanni da Fiesole da noi già nominato, il Vasari nomina un Attavante fiorentino (t 2, p. 226), e descrive le bellissime miniature di cui egli fregiò un codice di Silio Italico, ch era in Venezia nella libreria de’ SS. Giovanni e Paolo. Ma non v’ ha forse biblioteca che sia sì ricca di codici miniati da Attavante, come questa Estense. In alcuni egli ha segnato il suo nome, come ne’ Comenti di S. Tommaso sul primo delle Sentenze, nell’Omelie di S. Gregorio sopra Ezechiello, nell’ Esamerone di S. Ambrogio e nell’opera di S. Agostino contro Fausto. In altri, benchè non veggasi il nome, le miniature nondimeno son così somiglianti a quelle de’ codici già mentovati, ch è evidente che essi son opera del medesimo artefice. E tali sono un Ammiano Marcellino, un Dionigi Alicarnasseo, parecchie opere di Giorgio Merula, I [p. 1759 modifica]TEMO I 7 jy le Omelie d’Origene e più altri. Or cotai miniature quanto più si rimirano attentamente, tanto più rapiscono e destano maraviglia; così vivi sono i colori, sì vago l’intreccio, sì graziosi gli scherzi, e dipinti sì al naturale e puttini e bestie e fiori e festoni e ogni altra cosa, che l’occhio non sa saziarsi. Ciò ch è degno di riflessione, si è che in quasi tutti questi codici si veggon l’armi del celebre Mattia Corvino re d Ungheria. Ed è verisimile che come abbiam veduto che quel sovrano amantissimo delle lettere teneva in Firenze quattro scrittori stipendiati, perchè gli copiasser de’ libri, così ancora avesse al suo soldo questo miniator valoroso. Com essi passassero nella biblioteca Estense, non saprei accertarlo. Ma è verisimile che il card Ippolito d’Este, il qual visse per molti anni in Ungheria, comperasse molti de’ libri a lui venuti d’Italia; ovvero che giunta in Italia la nuova della morte del re, il duca Ercole I comperasse quelli che per lui allor si stavano apparecchiando (a). Per quanto però sien belle le miniature di Attavante, più ancora maravigliose son quelle de due tomi della Biblia di questa medesima biblioteca, dei’ quali altrove ho fatta menzione (t. 6, par. 1, p. 148), avvertendo che ne furono miniatori Franco dei’ Russi mantovano e Taddeo Crivelli; opera veramente magnifica e di tal finezza insieme e di tal ricchezza, che pochi altri codici, a mio (a) Nel tomo seguente vedremo che più probabilmente al duca Allònso 11 deesi l’altro de’ codici che già erano stati del re ¡Mattia. [p. 1760 modifica]• 7$° n*r.o credere, si possono a questi paragonare. Ed è certo a dolersi che di artefici si valorosi non ci sia rimasta alcun" altra memoria, come pure di tanti altri che furono similmente impiegati in miniare codici, e dei’ quali non sappiamo il nome. XXV. Chiudiamo questo capo e insieme questo volume col ragionar di un gran genio che in tutte le belle arti, e in molte scienze ancora fu esperto e dotto per modo, che pochi a suo tempo gli andaron del pari, dico Leonardo da Vinci. Lungamente di lui ha scritto il Vasari (t. 3, p. 12, ec.), e dopo lui Rafaello du Fresne, che al trattato della pittura dello stesso Leonardo, da lui fatto stampare magnificamente in Parigi l'an 1651, ne ha premessa la Vita. Molte notizie intorno a lui si hanno parimente in più passi delle Lettere pittoriche che verremo opportunamente citando. E finalmente un bell’elogio se ne ha tra quelli degl' illustri Toscani (t. 3, n. 25). E da questo appunto noi apprendiamo ciò che ancor non sapeasi, cioè che Leonardo si dee aggiugnere alla serie degl illustri bastardi; perciocchè, come ivi si afferma sull’autorità de’ monumenti della stessa famiglia di Leonardo che tuttor sussiste in Vinci castello del Valdarno di sotto, ei fu figliuolo naturale di Pietro notaio della Signoria di Firenze, e nacque nel 1452. Fin da’ primi anni comincio a balenare in lui quel vivacissimo ingegno di cui diè poscia sì grandi pruove. Pareva che il disegno lo allettasse sopra ogni cosa; e perciò dal padre fu posto alla scuola di Andrea del Veri-occhio, [p. 1761 modifica]TEMO l-fil pittore illti«lrc a que’ tempi, il quale al vedere i primi abbozzi di Leonardo rimase attonito per maraviglia. La scultura, la pittura, l’architettura, la geometria, l’idrostatica, la meccanica, la musica, la poesia furon quasi ad un tempo l'oggetto degli studj di Leonardo; e tupie tre ogni altro sarebbesi riputato felice giugnendo ad ottenere la perfezione in alcuna di queste scienze, egli fu in tutte eccellente. Egli, secondo il Vasari, fu il primo che progettasse di metter l'Arno in canale da Pisa a Firenze, il che fu poi eseguito due secoli appresso da Vincenzo Viviani. Ogni giorno, dice lo stesso scrittore, faceva modelli e disegni da potere scaricare con facilità monti, o forarli per passare da un piano a un altro, e per via di lieve ed argani e di vite mostrava potersi alzare e tirare pesi grandi, e modi di votar porti, e trombe, da cavare da luoghi bassi acque; che quel cervello non restava mai di ghiribizzare; dei’ quali pensieri e fatiche se ne vede sparsi per l’ arte nostra molti disegni, ed io n ho visti assai; e uno ne rammenta fra gli altri, con cui egli prometteva di sollevare il tempio di S. Giovanni e sottomettervi le scale, senza rovinarlo. A questo sì penetrante ingegno congiungevasi in Leonardo la bellezza del volto, la grazia del favellare e la soavita del tratto, talchè egli era l’oggetto della maraviglia e dell’amore di tutti. Molte opere di pittura da lui fatte nei’ primi anni in Firenze descrive il Vasari, e un mostro fra le altre, che scoperto improvvisamente innanzi a suo padre il fece arretrar per paura. [p. 1762 modifica]tyCrs libro XXVI. Un uom sì raro non potei a essere sconosciuto per lungo tempo. Lodovico il.Moro, reggente allora e poi duca di Milano, n’el.be contezza, e splendidissimo protettor dell’arti, qual egli era, invitollo alla sua corte e l’ ottenne, e gli assegnò l annuale stipendio di 500 scudi d’oro. Molto si dilettava quel principe della musica; e Leonardo gli fè udire un nuovo strumento di sua man fabbricato, che era, come dice il Vasari, d argento in gran parte, in forma d un teschio di cavallo, acciocchè l’ armonia fosse con maggior tuba. e più sonora di voce, laonde superò tutti Musici che quivi eran concorsi a suonare. Oltre ciò. aggiugn egli, fu il miglior dicitore di rime all improvviso del suo tempo. Tanti e sì ammirabili pregi renderono Leonardo caro al duca, il quale di lui si valse, come altrove abbiam detto narrarsi da molti, nel fondar l’Accademia delle belle arti, ch’ egli formò in Milano. Molte eccellenti pitture da lui fatte in quella città, alcune delle quali esistono ancora, annoverano gli scrittori della Vita di Leonardo, e fra le altre la famosa Cena del Redentore nel convento di s Maria delle Grazie de Predicatori; nella qual occasione è celebre la risposta ch’ei diede a Lodovico, il qual esponevagli le doglianze di quel priore pel lungo tempo che in quel lavoro impiegava; cioè che due teste gli rimanevano a fare, per le quali non trovava ancora idea che gli piacesse, quella di Cristo e quella di Giuda; ma quanto a questa seconda, non trovando meglio, non gli [p. 1763 modifica]TEMO I "(53 tnanchntvbbe mai quella dell importuno priore (a). Nè fu la sola pittura in cui Leonardo fosse impiegato. Lodovico Sforza per onorar la memoria del duca Francesco I suo padre determinossi d’innalzargli una statua equestre colossale di bronzo, e ne diè l'ordine a Leonardo. Ma in questa occasione la mano del valoroso artefice non corrispose al suo ingegno; perciocchè, come narra il Vasari, ei ne ideò un modello sì grande, che non potè mai condursi ad effetto. Nondimeno in due libri stampati in Milano nel 1493 e citati dal Sassi (Hist. (a) 11 P. maestro Vincenzo Maria Monti dell'Ordine de’Predicatori mi ha comunicate alcune sue i ¡flessioni, a mio parere, assai giuste per credere favolosa la risposta che vuoisi data da Leonardo da Vinci al duca Lodovico Sforza. Essa in primo luogo non è appoggiata che ad autori posteriori di più anni al latto, e che sono inoltre poco concordi tra loro nel raccontarlo. Inoltre non poteva Leonardo recar per pretesto la difficoltà di trovare un’idea di volto che ben corrispondesse al carattere dell’apostolo traditore, perciocché tutto quel quadro era stato da lui abbozzato in dodici gran cartoni, i quali dopo essere stati fino almeno al principio del presente secolo in Milano presso i conti Arconali, finalmente dopo varie vicende passarono alla reai galleria di Londra, ove tnttor si conservano, e rappresentano esattamente anche nelle fisononoie quella famosa pittura. Finalmente, come dalle Memorie di quel convento raccogliesi, era allora, cioè nel i4y? *" cu* Leonardo stava pingcndo quel quadro, priore delle Grazie Fra Vincenzo Bandelli uomo celebre a que’tempi, r al duca Lodovico carissimo; e non è perciò verisiinile clic innanzi al duca medesimo ardisse Leonardo d:insultarlo per tal maniera. Non è dunque improbabile che delibasi questo racconto nggiugnere a tanti altri favolosi che nelle Vite de’Pittori s'incontrano frequentemente. [p. 1764 modifica]typ. Mcdiol. p. 355, ec., 362), cioè nelle Poesie di Bernardo Bellincioni e in certe ottave di Baldassarre Taccone, si fa menzione di questa statua; anzi il medesimo Sassi riporta un epigramma che o era o dovea essere in essa scolpito, e che or si legge in un codice de’ monaci Cisterciensi di S. Ambrogio. Ma è probabile che o essi parlino di questa statua come di cosa intorno a cui si stava allor lavorando, ovvero del modello di creta che Leonardo ne fece, opera di maravigliosa bellezza, che durò in Milano, finchè entrativi i Francesi sotto Lodovico XII, fecero in pezzi il lavoro di quell’artefice stesso cui poscia si recarono a grande onore l’aver tra loro. Di questo modello fa menzione ancora Paolo Cortese: Si Mediolani ab aliquo dicatur ejus cretacei equi spectari typus, qui sit a Leonardo Vincio Thuscanica ratione factus, facile affirmetur, ei Francisci Sfortiae in mentem venire posse, cui erat ejusmodi equestris statuae decretus honos (De Cardinal. l. 1, p. 50). I passi sopraccitati ci pruovano che Leonardo era in Milano fin dal 1493. Anzi dalle stesse Poesie del Bellincioni raccogliesi ch’ei vi era dal 1489; perciocchè egli, come osserva il Sassi, descrive un’ingegnosa macchina che congegnò Leonardo nelle feste celebrate in Milano per le nozze del duca Giangaleazzo Maria con Isabella d Aragona; cioè un cielo artefatto in cui tutti i pianeti rappresentati nelle figure de’Numi, a cui i poeti gli han consecrati, si aggiravano intorno secondo le leggi loro, ed entro ciaschedun di essi era chiuso un musico che cantava le lodi dei’ principi sposi. Or [p. 1765 modifica]teuzo 1-65 Isabella entrò in Milano nel 1489. e allora perciò doveva ivi essere Leonardo, e forse già da qualche tempo e deesi quindi emendare il Vasari, che il dice andato a Milano nel i4y4- 1°* geguosa pure fu l invenzione di Leonardo all’occasion delle feste che nella stessa città celebraronsi, quando l’an 1499 vi entrò il re Lodovico XII, perciocchè egli fece un leone congegnato per modo, che dopo aver fatti alcuni passi si aperse il petto, e il mostrò pieno di gigli (a). Opera di ardimento e di sforzo maggiore assai si attribuisce a Leonardo da lutti gli scrittori che ne han distesa la Vita} cioè lo scavo del canale detto il Naviglio della Martesana, che conduce le acque del!’Adda lino a Milano. Anzi il du Fresile aggiugne eh’ ei formò dugento miglia di iìmnc navigàbile lino alle valli di Chiavenna e della Valtellina, e che superò tutte le difficoltà che s’ incontrarono, e con moltiplicate cateratte, o vogliam dire sostegni, fece con «molla felicità e sicurezza camminar le navi per monti e per valli. Ma (a) Questa ingegnosa invenzione di Leonardo ricordasi ancora, ma come fatta per Francesco I, da Gianpaolo Lomazzo, ove parlando di somiglianti maraviglie, dalle quali, dice (Tratt, della Pitt. l. 1, c. 1), a’ tempi nostri ancora ne ha fatto ■ Leonardo Vinci, il quale, secondo che mi ha raccontato il Sig. Francesco Ale ho suo discepolo grandissimo miniatore, soleva fare di certa materia uccelli che per l’aria volavano; ed una volta dinanzi a Francesco primo Re di Francia fece caminare da sua posta in una sala un Leone fatto con mirabile artificio, et dappoi fermare aprendosi il petto tutto ripieno di gigli, e diversi fiori, il che fu di tanta maraviglia a quel Re, ec. [p. 1766 modifica]1766 L1UAO bencliè io vegga unanime il consenso di quasi tutti i moderni scrittori nel dar tal gloria a Leonardo, monumenti autentici nondimeno mi costringono a discostarmi dal lor sentimento. Al principio di questo capo medesimo abbiam provato che Francesco Sforza fu l’autore di quel canale, nè egli potè impiegarvi Leonardo che aveva solo 14 anni, quando Francesco morì. Alle pruove allora recatene si posson aggiungere due decreti ducali che si hanno alle stampe; il primo della duchessa Bianca Maria moglie dello stesso Francesco, in cui prescrive il modo con cui si debbon condurre le acque di quel canale per le irrigazioni, ed è segnato agli 11 di settembre del 1465 (Relaz. del Naviglio della Martesana, p. 30), dal che si raccoglie che già serviva allora a pubblico uso; l’altro de’ 16 di maggio del 1483 del duca Gian Galeazzo Maria, in cui egli dice espressamente: La fel. mem, dell'Illustrissimo Sig. Duca Francesco nostro Avo fece$ fare o costruere il Naviglio nostro di Martesana, ec. (ib. p. 4). Non potè dunque certamente aver Leonardo alcuna parte nel lavoro di questo canale. Potrebbe credersi forse, e a ciò in fatti sembra alludere il du Fresne, ch’egli fosse adoperato nel formare un altro canale tentato inutilmente alcuni anni dopo, e poscia ancora più volte, e finalmente in questi ultimi anni di nuovo intrapreso. Perciocchè a render navigabile tutto il fiume Adda, sicchè dalla Valtellina si potesse venir per acqua a Milano, opponendosi lo spazio di 4280 braccia di lunghezza, in cui il fiume cade rovinosamente fra molti scogli per [p. 1767 modifica]terzo. 176I’ altezza di 46 braccia, il duca Francesco tentò di render navigabile questo tratto, ma senza effetto. Un altro tentativo fece la città di Milano nel 1518, quando era sotto il dominio de’ Francesi, scavando un canale di cui ancor si vede una gran parte, con una fortissima chiusa di pietra viva, a cui somiglianza doveansi fabbricare più altre per sostenere le acque secondo il bisogno; e il re Francesco I donò a tal fine diecimila scudi sopra i dazj della città. Ma le rivoluzioni che poscia accaddero in quello Stato, ne impedirono il compimento (V. Relaz. cit. p. ()95). In questo lavoro adunque potrebbe credersi adoperato Leonardo. Ma egli nel 1518 era già in Francia, come vedremo; e io perciò non trovo in qual tempo potesse egli in esso aver qualche parte, e al più si (può credere che il duca Lodovico di lui si valesse per migliorare o ristorare in qualche parte il canale già fabbricato. XXVII. Poco tempo dappoichè i Francesi ebbero occupato lo Stato di Milano, Leonardo, forse mal soddisfatto di essi, fece ritorno a Firenze. Ivi fu adoperato in più opere di pit. tura; e celebri fra le altre furono il ritratto di monna Lisa moglie di Francesco del Giocondo, che fu poi comperato dal re Francesco I, dicesi, per 4000 scudi, e un cartone in cui con ammirabile maestria disegnò una battaglia di Niccolò Piccinino, ch’ei doveva poscia dipingere nella sala del Pubblico, oltre più altre, delle quali si può vedere la descrizione presso il Vasari e gli altri scrittori. Passò indi a Roma a’ [p. 1768 modifica]1768 LIUAO tempi di Leone X, cioè, come sembra probabile, nel 1513; ed ivi ancora diede non poche pruove del suo valore. Ma la rivalità che ivi si accese tra lui e Michelangelo Buonarroti allora ancor giovine, lo indusse ad accettar volentieri l'invito del re Francesco I, e ad andarsene in Francia; il che accadde verisimilmente nel 1517, essendo già egli allora in età di 65 anni (*). E stata Onora incerta l’epoca della morte di Leonardo; c il P. Sebastiano Resta della Congregazione dell’Oratorio, appoggiato all’autorità di uno scrittore vissuto alia fine del secolo xvi, la differisce fino al i54a (Lettere pittor. t 3, p. 351). Ma i monumeuti prodotti ne’ citati Elogi degl'illustri Toscani ci tolgon da ogni dubbiezza. Perciocché ivi abbiamo l’estratto del testamento fatlo da Leonardo a’ a3 d’aprile del i5i8, in cui lascia a Francesco Melzi sno carissimo allievo tutti i suoi libri e strumenti; a due suoi servidori 1111 giardino che egli avea fuor delle mura di Milano, e a Giuliano suo fratello 4°° scudi del sole da lui già depositati in Firenze. E ivi inoltre abbiamo la lettera dallo stesso Melzi scritta a Giuliano da Amboise al 1 di giugno del i5iq, in cui lo suppone già informato della morte di Leonardo seguila a’ 2 di maggio dello stesso anno, alla (*) Qual fosse lo stipendio che il re Francesco I assegnò a Leonardo da Vinci, raccogliesi da ciò che narra Benvenuto Cellini di se medesimo, cioè che quel re l'eco a lui pure assegnare lo stipendio stesso che già avea Leonardo, cioè 700 annui scudi (Sua Vita, p. 200). [p. 1769 modifica]TEIIZO, 1769 quale dice eh'ci si era disposto colle più sincere dimostrazioni di cristiana pietà. Egli ebbe in quell estremo l'onor di essere visitato da Francesco I, e mentre con lui si trattiene, sorpreso da mortal parosismo, fra le braccia del re medesimo, che per aiutarlo gli teneva sollevata la testa, finì di vivere. Uomo veramente degno di rimanere immortale ne fasti delle scienze e delle arti, e il cui nome sarà sempre glorioso fra gl Italiani non meno che fra gli stranieri. Io aggiugnerò alle lodi di Leonardo, dice il sig. Mariette in una bellissima lettera in cui esamina il carattere di questo grand’uomo (ih. L j, p. 193), che Michelangelo e Raffaello gli sono obbligati duna parte della lor gloria, poichè hanno cominciato a diventar grand uomini sulle sue opere. Raffaello ha preso da lui quella grazia quasi divina che guadagna i cuori, e che Lionardo spargeva cotanto graziosamente sopra i volti. Michelangiolo si appropriò quella sua maniera terribile di disegnare. Se poi l uno e l altro! hanno passato di assai, egli è anche sempre vero ch essi hanno infinitamente profittato de suoi prodigiosi studj. Che grande elogio è questo di Lionardo Nè il vantaggio d esser vissuto accarezzato e stimato da tutti i personaggi di distinzione del suo secolo, nè l’onore di essere spirato nelle, braccia di un gran re, non sono da paragonarsi con esso. XXVm. Lo stesso Mariette ci ha dato il catalogo delle stampe ricavate da’ disegni e da’ quadri di Leonardo, e nelle giunte fatte all’ultima edizione del Vasari si ha quello delle pitture di questo grand’uomo, che in diverse città Tirajjoschi, Voi. IX. 35 xvvni. Opere da li scritte. [p. 1770 modifica]«77° LIBRO tuttora si veggono, Io dirò in vece dell opere che di lui ci sono rimaste. Già si è accennato il Trattato della Pittura da lui composto, e che fu poi pubblicato da Raffaello du l’restie, opera ch è tuttora avuta in gran pregio, e mostra quanto esatto osservatore di ogni cosa che apparteneva alla sua arte, fosse Leonardo. Lo studio della notomia così degli uomini come de’ cavalli fu in lui grande e continuo, e degli uni e degli altri scrisse un Trattato; e il Vasari dice che parte degli scritti di Leonardo sull'anatomia del corpo umano era a suo tempo presso quel Francesco Melzi da noi nominato poc’anzi. Il Cooper ha pubblicate in Inghilterra alcune figure de’ diversi movimenti del corpo umano disegnate da Leonardo con alcuni frammenti di spiegazione da lui aggiuntavi, picciola parte di una più grand’opera che su ciò aveva composta. Ma assai più sono i libri di Leonardo che rimangono inediti. Dicesi ch’egli, mentre stava in Milano, era solito a ritirarsi sovente nella terra di Vaprio sopra l’Adda in una deliziosa casa del suddetto Melzi, la quale tuttora appartiene alla nobile e antica famiglia di questo nome; e che ivi soleva gittar sulla carta ciò che il vivace suo ingegno gli suggeriva, disegnando macchine e figure di diversi generi, e accennando i pensieri che gli nascevano in capo. Ed è certo come abbiam veduto, ch’ei lasciò erede di tutti i suoi libri il Melzi. Le opere dunque di Leonardo rimasero lungamente presso questa famiglia, finchè le furono involate da un certo Lelio Gavaldi da Asola. Le vicende di questi libri si descrivono [p. 1771 modifica]TERZO 1771

a lungo nelle citate giunte al Vasari, e nella lettera del Mariette, e assai più esattamente dal Bosca (De Orig. et Statu Bibl. Ambros. l. 5). Dodici di essi venuti finalmente alle mani del co. Galeazzo Arconati circa il 1637, furon da lui donati alla biblioteca Ambrosiana non molto prima fondata dal cardinal Federigo Borromeo. Essi contengon figure appartenenti all architettura, alla pittura, alla meccanica, all’anatomia e ad altre scienze disegnate per mano di Leonardo colle spiegazioni da lui medesimo scritte, ma secondo il suo usato costume a rovescio, cioè da destra a sinistra. Il più pregevol tra essi, e per cui Jacopo I re d’Inghilterra aveva offerte al co. Arconati fino a 3000 doppie, è un grosso volume che contiene principalmente molte ingegnosissime macchine militari, e di altri generi ancora, da lui ideate, le quali fanno conoscere fin dove giugnesse quel rarissimo ingegno (a). Finalmente Leonardo dilevattasi ancora, come si è detto, di poesia; e un sonetto morale per riguardo a que’ tempi degno di molta lode ce ne ha conservato il Lomazzo (Della Pittura, l. 6, c. 2), riferito anche nelle giunte al Vasari, ove inoltre si

(a) Molti de’ disegni di Leonardo, esistenti nell’Ambrosiana, sono stati incisi e pubblicati in Milano l’anno 1784 per opera del sig. Carlo Giuseppe Gerli milanese. Del Trattato della Pittura di Leonardo e della Vita scrittane dal Dufresne, e così pure del Trattato della Pittura di Leon Batista Alberti colla sua Vita, conservasi nella libreria Nani in Venezia una traduzione in greco fatta da un certo Panagioto cavalier di Dossara pittore del Peloponneso. [p. 1772 modifica]I 77a LIBRO TERZO annoverano 1 valorosi scolari ch’ ei formò in Milano, tra quali furono, oltre il suddetto Melzi, Cesare Sesti, Bernardo Lovino, Andrea Salaino, Marco Uggioni, Antonio Boltraffio e più altri, che, con mostrarsi degni scolari di Leonardo, ne renderono ognor più celebre il nome. Fine del Tomo VI.