Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo VII/Libro III/Capo V

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Capo V – Gramatica e Rettorica

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Capo V.

Gramatica e Rettorica.

I. Il gran numero di eleganti scrittori sì in prosa che in verso, sì nella lingua latina che nell’italiana, di cui fu fecondo il secolo xvi, gli ha fatto avere a giusta ragione il titolo di secolo dell’amena letteratura. Or s’egli è vero che a formar valorosi scrittori si richieggono valorosi maestri, ognun può intendere agevolmente qual copia (di eccellenti professori dell’arte di ben parlare dovesse a1 que’ tempi avere [p. 2177 modifica]1‘Italia. E multi ne ebbe ella di fatto, i cui nomi sono ancor celebri per le opere che ci lasciarono , e pei dotti allievi eli’ essi venner formando. La cattedra delle belle lettere era nelle università italiane onorata comunemente al pari delle altre, e per avere un valente professor d’eloquenza disputavano esse non rare volte tra loro, e per poco nol rapivano a forza. Qui ancora grande è il numero de’ professori che ci viene innanzi j e a ristringerci entro giusti confini ci è necessario lo sceglier tra molti que’ che hanno diritto ad essere in questa Storia lodati. Noi parleremo dunque dapprima di quelli che dalle pubbliche cattedre tennero scuola dell’arte di ben ragionare; e ad essi aggiugneremo coloro che non colla viva voce, ma colle loro opere ne furon maestri. Quindi scenderemo a’ gramatici, che furon paghi di darci precetti o della lingua latina, o dell’italiana, la quale in questo secolo cominciò ad avere certe e determinate leggi. II. Tra’ professori di belle lettere che ne’ primi anni di questo secolo ottener gran nome, e accrebbero non poco lustro all’università di Padova, e un di essi a quella ancor di Bologna, due singolarmente si renderon famosi: Romolo Amaseo, e Lazzaro Buonamici. Del primo, oltre i diligenti articoli del conte Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 1, par. 1, p. 579) e del signor Giuseppe Liruti (Notiz. degli Scritt. del Friuli, t. 2), abbiamo avuta pochi anni addietro la Vita scritta con eleganza al pari che con esattezza non ordinaria dal signor abate Flaminio Scarselli, che da’ pubblici monumenti [p. 2178 modifica]« 31^8 LIBRO della città di Bologna, da lui attentamente esaminati, ne ha raccolte molte notizie non ancor conosciute. A’ 24 di giugno del 1481 nacque in Udine Romolo Amaseo, di famiglia originaria da Bologna (a). Fu figlio di quel Gregorio di cui nel tomo precedente si è fatta menzione (par. 3, p. 144°)7 Ina nacque da una monaca , benchè poscia ottenesse di essere legittimato. Ancor fanciullo seguì in diversi viaggi il padre, e fu poi rimandato a Udine, perchè da Girolamo suo zio fosse nelle lettere istruito. Nel 1507 passò a Roma per tentar la sua sorte; ma non trovandola, come bramava, accettò il partito propostogli dal celebre F. Egidio da Viterbo agostiniano, di recarsi a Padova per insegnar belle lettere ai novizj del suo Ordine. Pochi mesi trattennesi Romolo in Padova, nel qual tempo congiunse all1 insegnare a que’ religiosi, il coltivare la lingua latina e la greca, e ancor l’ebraica. La guerra della lega di Cambray costrinse l’Amaseo nel 1509) a lasciar Padova e a trasferirsi a Bologna, ove accolto amorevolmente dai Campeggi nella lor casa, tale stima si conciliò col suo sapere e colle sue virtù Vi (a) L’origine bolognese della famiglia degli Ainasei, detta prima in latino da Af.isiis , la quale cominciò a mettersi in campo da Gregorio padre di Romolo, fu accolta allora coile risa nel Friuli, e presto il signor ab. Oogaro si conserva un sonetto scritto a que’ tempi , in cui a Gregorio, die Pi Giovanni di Sfaso il magisltio Fu di prllizze.... e che Leonardo fratei suo a dire il rem Fislò già dille speli* qui m fruii. / [p. 2179 modifica]TERZO 3’79 presso tutti, che l’anno 1513 fu scelto a pubblico professor d’eloquenza. Circa quel tempo stesso prese in sua moglie Violante Guastavillani, da cui ebbe più figli, tra’ quali il più famoso fu Pompilio da noi nominato ad altra occasione. Grande era il concorso, e grande l’applauso con cui venivano udite le lezioni di Romolo; e tale si facea la folla alla sua scuola, che nacquer talvolta risse tra gli scolari. Nel 1520 il Senato veneto considerando l’Amaseo come suo suddito, il richiamò a Padova; e benchè sei senatori bolognesi usassero di ogni arte per ritenerlo, ei nondimeno andossene, e per quattro anni insegnò in quella università con applauso uguale a quello che avuto avea in Bologna. Nel 1524 Clemente VII il volle di nuovo in Bologna; e il Senato veneto, benchè a grande stento, pur gli permise il partire, di che abbiamo altrove veduto quanto amaramente si dolesse il Bembo (par. 1) che con suo gran dispiacere vide partir con lui tutti gli scolari stranieri che avea in Padova. Crebbe frattanto la fama dell’Amaseo per modo, ch’ei si vide premurosamente invitato dal Cardinal Ercole Gonzaga a Mantova, da Clemente VII a Roma, dal Bembo di nuovo a Padova , e perfino in Inghilterra dal Cardinal Volsey. Ma egli vedeasi così amato e stimato da’ Bolognesi, i quali anche gli accrebbero l’annuo stipendio fino alla somma di mille lire, lo onorarono di grandissimi privilegi, e gli conferiron la carica di segretario del Senato, che ricusò qualunque più ampia offerta. Quando fu eletto a pontefice Paolo III, egli accompagnò i senatori destinati TjiìAboscui, Voi XIII. i4 [p. 2180 modifica]« 2180 LICKO a recarsi a Roma a rendergli omaggio, e quasi appena tornato a Bologna di nuovo fu inviato a Roma a recar doni a’ due cardinali nipoti Alessandro Farnese e Guidascanio Sforza, e a trattar col pontefice a1 nome pubblico di gravi affari; e l’Amaseo sì felicemente soddisfece agli ordini del Senato, che tornato a Bologna, ne ebbe in premio l’accrescimento del suo stipendio fino a i a5o lire. Così si trattenne Romolo in Bologna fino al 1544? se non quanto or i pubblici or i suoi privati affari il costrinsero a fare qualche viaggio, esercitando insieme l’impiego di professore e quello di segretario, e soddisfacendo a’ suoi doveri con plauso sempre maggiore di ogni ordine di persone. Ma nel detto anno, tali e sì ampie furono le offerte di Paolo III per averlo in Roma professore nella Sapienza, e direttore negli studj del Cardinal Alessandro suo nipote, che il buon Romolo non si tenne alla pruova, e chiesto il suo congedo al Senato, e ottenutolo, con comun dispiacere andossene a Roma. Appena però vi fu giunto, cominciò a dolersi di aver abbandonata la sua cara Bologna; e prestò facilmente le orecchie alle nuove istanze che il Senato faceagli pel suo ritorno. Era già conchiuso l’affare; ma il pontefice vi si oppose, e volle che l’Amaseo non si partisse da Roma. Vi rimase egli dunque, e seguì poscia il Cardinal Alessandro in diversi suoi viaggi. Giulio III, succeduto a Paolo, non fu verso lui men benefico del suo predecessore; anzi il dichiarò suo prelato domestico , e lo sostituì nell’impiego di segretario a Blosio Palladio allora morto. Poco tempo [p. 2181 modifica]TERZO 2l8l però potè goder l’Amaseo de’ nuovi onori, perciocchè venne a morte a’ 6 di luglio del i.r>52. Non molti sono i saggi del suo sapere che Romolo ci ha lasciati, e il più degno di essere ricordato sono parecchie orazioni da lui dette in diverse occasioni, e quasi tutte in Bologna, le quali, benchè nè quanto allo stile, nè quanto alla condotta e alla forza, non si possan dire perfetti modelli dell’eloquenza, io non so però se abbian le pari ne’ primi anni di questo secolo in cui furono scritte. Celebri sono fra esse le due orazioni in difesa della lingua latina, da lui dette in Bologna innanzi all’imperatore, al pontefice e a gran numero di cardinali, di vescovi, d’ambasciatori, le quali poi diedero occasione a più altri scritti, altri a favor delle lingua latina, altri a favore dell’italiana. Oltre poi alcune poesie latine e molte lettere italiane e latine, sparse in diverse raccolte, alcune delle quali ancora sono state inserite nella suddetta Vita, ne abbiamo la traduzione dal greco in latino della Storia della spedizione di Ciro di Senofonte, e della Descrizione della Grecia di Pausania, le quali versioni però son sembrata a monsignor Huet (De clar. Interpr.) più eleganti che esatte. E ciò basti aver detto in breve dell’Amaseo; poichè a questa mia brevità potranno abbondevolmente supplire i sopraccennati scrittori che assai più a lungo ne hanno trattato. III. Per la stessa ragione io mi spedirò in breve del Buonamici che fu per l’università di Padova ciò che fu l’Amaseo per quella di Bologna; poichè dopo il diligente articolo che ce [p. 2182 modifica]2l82 LIBRO ne lia tlalo il conte Mazzucchelli (l. cit. L □ } par. 4j p• a322) , ne abbiaru di fresco avuta una esattissima Vita dal eh. sig. Giambattista Verci (Scritt. bassan. t. 2). Lazzaro Buonamici fu natio di Bassano, ove venne a luce nel 1479* La comune opinione il fa nato di poveri genitori che col lavorar la campagna si guadagnavano il vitto. Ma il suddetto scrittore, colla scorta di autentici monumenti, ha dimostrato che ed Amico padre di Lazzaro ed altri antenati della stessa famiglia erano di onesta nascita, e ammessi a quella cittadinanza. Nell’università di Padova studiò diligentemente le lingue latina e greca, e nella filosofia ebbe a suo maestro il celebre Pomponazzi, il quale avea di questo suo scolaro sì alta stima, che a lui ricorreva talvolta per avere la spiegazione di qualche passo d’Aristotele. Nè di questi studj fu pago Lazzaro, ma nella geometria ancora, nell’astrologia, nell’aritmetica e nella musica volle istruirsi, e in tutte queste scienze non poco si avanzò, come io raccolgo da una lettera a lui scritta da Lucillo Filalteo, in cui ne fa un magnifico elogio (Philalt., Epist p. 61). La fama sparsa del valore del Buonamici nell’amena letteratura fece eli’ ei fosse chiamato a Bologna ad istruire nelle lettere i giovani della famiglia Campeggi; e Girolamo Negri, nell1 orazion funebre in onor di esso recitata, sembra indicarci eh1 ei fosse ancor professore in quella università: Bononiam est evocatus ad honestissimam Campegiorum familiam instituendam, quo in loco in celebri illo ac pervetusto Gymnasio primas parie s obliti uit (fi. Nigri %Epist. et Orai. [p. 2183 modifica]terzo ai83 p. 135). Ma ce ne rende alquanto dubbiosi il silenzio dell’Ali dosi che del Buonamici non fa menzione. Da Bologna passò a Roma professore di belle lettere nella Sapienza; e ciò, secondo il P. Carrafa (De Gymn rom. t. 2, p. 313), fu nel 1525. Il suddetto Negri però espressamente afferma che ciò fu a’ tempi di Leon X, e pare perciò, che debba di alcuni anni anticiparsi un tal viaggio. Trovossi per sua mala sorte il Buonamici in Roma nell’orribil sacco del 1527, e salvata a stento la vita, non potè sottrarre al furore de’ predatori la sua libreria , i proprj suoi scritti e quanto aveasi in casa. Nel 1530 fu chiamato alla cattedra d’eloquenza greca e latina nell* università di Padova; e questa fu poscia sempre la stanza del Buonamici. Con qual plauso vi esercitasse egli la sua professione, chiaramente raccogliesi da’ magnifici elogi con cui ne scrissero allora i più dotti uomini di quell’età, il Sadoleto, il Polo, Gregorio Giraldi, lo Speroni, il Mureto, Paolo Manuzio e più altri, le testimonianze de’ quali si posson veder raccolte nella Vita poc’anzi accennata. Qui basti recar le parole dello Speroni: Messer Lazzaro, dice (Dial. delle lingue), io me ne allegro con voi, con le bone lettere, e con li studiosi di quelle; con voi prima, perocché io non so uomo nessuno della vostra professione, che andasse presso a quel segno, ove voi sete arrivato; con le bone lettere poi, le quali da qui innanzi non mendiche ranno la vita loro povere e nude., come sono ite per lo passato; ni allegro eziandio collo studio e con gli studiosi di Padova, cui finalmente è toccato irt [p. 2184 modifica]2 184 LIBRO sorte tale maestro, quale lungo tempo hanno cercato e desiderato. L’università di Bologna, Clemente VII, Cosimo I, duca di Toscana, bramaron di avere un sì celebre professore; il Cardinal Sadoleto invitollo a Carpentras; il cardinale Stanislao Osio usò di ogni arte per condurlo in Polonia. Ferdinando re d’Ungheria gli offerse fino a 800 ungheri di annual mercede, se volesse recarsi a quel regno. Ma il Buonamici non volle abbandonar la sua Padova, e pago degli onori e de’ premj che dal Senato veneto gli furono liberalmente assegnati, amò meglio veder moltissimi giovani venire a lui da ogni parte del mondo, tratti dalla fama del suo sapere, che trasferirsi in lontane provincie, ed esporsi alla incerta sorte de’ viaggi e de’ paesi stranieri. Così continuò il Buonamici a vivere in Padova fino all’ultimo de’ suoi giorni, che fu agli 11 di febbraio del 1552. Sulle spalle de:1 suoi scolari fu onorevolmente portato il dì seguente al tempio di S. Antonio, e onorato con orazion funebre da Girolamo Negri canonico della cattedrale. Il Buonamici è debitor del suo nome più alla fama che ottenne vivendo, che alle opere che di lui ci son rimaste. Alcune lettere, poche prefazioni e diverse poesie latine sparse in diverse raccolte, e unite poi insieme dal mentovato signor Giambattista Verci, sono i soli monumenti che abbiamo alla luce dell1 eleganza di questo scrittore, e se ne ha un minuto catalogo nella Vita sopraccennata, a cui si aggiungono ancora le cose o inedite, o smarrite. Forse fu ciò effetto del soverchio genio del Buonamici per la conversazione e pel giuoco, in cui vuoisi che [p. 2185 modifica]terzo 2i85 talvolta gittasse le notti intere. Ma forse ancor nacque da un soverchio timore eh1 egli ebbe delle altrui censure, in un tempo in cui contro ogni picciolo neo nello stile si levava alto rumore. E certo le cose che di lui ci son pervenute, sì in prosa che in verso, sono scritte con eleganza, ma forse non uguale al concetto che di lui allora si avea, e singolarmente le poesie, le quali, benchè abbiano il lor pregio non posson però, s’io non erro, stare al confronto con quelle di altri scrittori che gli furono contemporanei (*). IYT. Mentre l’Amaseo e il Buonamici illustravano col loro nome le università di Bologna e di Padova, non minor lustro accresceva a Venezia Battista Egnazio. J)i lui ancora non abbiam molto affaticarci in ricercar le notizie, avendole già coll’usata sua diligenza raccolte P eruditissimo P. Giovanni degli Agostini (Calogeri linee. & Opusc. t. 33, p. 1, ec.). Giambattista Cipelli furono i veri nomi ch’egli ebbe, quando nacque circa il 1478 in Venezia di poveri genitori; ed egli poscia, secondo l’uso allora comune a molti, li cambiò in quelli di Battista Egnazio. Alla scuola di Benedetto Brognolo da Legnago apprese i primi elementi della letteratura; e da lui, e poscia da Francesco Bragadino, fu istruito nella filosofia, e a persuasion del secondo, in età di soli diciotto anni , cominciò a tenere in Venezia privata scuola di belle lettere. La fama che (’) Lo Poesie Ialine del TUionamici furono la prima volta stampate in Venezia nel 1572. [p. 2186 modifica]2186 LIBRO presto si sparse del molto valor dell’Egnazio, e il concorso che da molti si facea ad udirlo , eccitò invidia e gelosia in Marcantonio Sabellico pubblico professore di belle lettere nella stessa città. Egli cominciò dunque a mordere e a screditare ad ogni occasione il giovane suo rivale. E questi invece di rispondergli con parole , si diè a scrivere una sanguinosa censura delle fatiche del Sabellico su diversi antichi scrittori, e la pubblicò nel 1502, sotto il titolo Racemationes. Poscia prese a far nuovi comenti sugli autori medesimi, comentati già dal Sabellico; nè di ciò pago, aprì una pubblica scuola non lungi da quella ove il suo avversario insegnava. Questa letteraria guerra durò fino al 1506, in cui venendo a morte il Sabellico, pentito de’ suoi trascorsi contro l’Egnazio, fattolo a sè venire, gliene chiese perdono, e per caparra di esso, il pregò ad aver cura de’ suoi dieci libri di Esempj, che lasciava manoscritti, e a pubblicarli. E F Egnazio non solo in ciò il compiacque, ma volle ancor nelf esequie recitarne f orazion funebre. Frattanto ebbe egli dalla Repubblica, in premio de’ suoi studj, la veneta cittadinanza e ’l titolo di notaio; da Marco Molino, che fu poi proccurator di S. Marco, gli fu conferito (poichè fino da’ primi anni avea F Eguazio abbracciato lo stato ecclesiastico) il beneficio parrocchiale di Gelarino nella diocesi di Trevigi; e nell’anno 1511 fu eletto piovano di S. Basso e priore dello spedale di S. Marco in Venezia, avendo egli frattanto deposto il pensiero che avea nutrito per qualche tempo, di rendersi monaco [p. 2187 modifica]TERZO 2187 camaldolese. Nel 1515 accompagnò a Milano quattro proccuratori di S. Marco destinati a complimentare il re Francesco I, in onore del quale avendo egli composto e fattogli offrire in Bologna un suo Panegirico , ne ebbe in dono un bel medaglione d’oro. Nel 1520, morto Rafaello Regio, pubblico professore d1 eloquenza in Venezia, e rigettati coloro che si erano fatti innanzi per averne la cattedra, fu I’Egnazio ad essa trascelto, senza ch’ei fosse costretto a dar pruova alcuna del suo sapere, e gli fu ancora permesso di tener la scuola nello spedale di cui era priore. Il concorso che ad udirlo si fece non sol da Venezia e dalle altre città d’Italia, ma anche dalle più lontane provincie, fu tale, che ogni giorno contavansi 500 scolari, e talora anche in maggior numero. Nè solo per udirne le cotidiane lezioni, ma ancora per consultarlo in gravissimi affari accorrevano a lui i più rispettabili senatori; perciocchè non men che il sapere, ne era in altissima stima la prudenza ed il senno. Destava meraviglia in tutti la prodigiosa memoria di cui egli era fornito; e una illustre pruova ne diede egli, quando recitando in pubblico un’orazione, e giunto sulla fin di essa il legato apostolico ad ascoltarlo, egli ripigliolla da capo in modo, che cambiandola in ogni sua parte, fece stupire altamente tutti i suoi uditori. Crescendo frattanto negli anni, cominciò a bramare il riposo; e chiese al Senato un onorevol congedo. Ma troppo spiaceva a que’ padri il perdere un tal professore; ottennero da lui che proseguisse le sue fatiche, e gli [p. 2188 modifica]2 I 88 LIBRO accrebbero lo stipendio che negli ultimi anni fu di 200 ducati d* oro. Vuoisi cbe sul fin della vita egli avesse gran brighe col Robortello, e che un giorno, lasciandosi trasportar dallo sdegno, posta la man tremante a un coltello, contro lui si avventasse. Il P. degli Agostini riflette, che non essendo tal cosa narrala cbe dall1 Imperiali e dallo Spizelio, troppo lontani di tempo , non par certa abbastanza. Ma a dir vero, essa si narra ancor dal Sigonio, scrittor di que’ tempi (Epist ad Robortell. ante Emendat Liv. et l. 2 Disput. patav.). Come nondimeno questo racconto è inserito ne’ libri da lui scritti contro del Robortello, potrebbe ancor sospettarsi che il caldo della contesa l’avesse trasportato ad adottar facilmente qualche rumor popolare. Ottenne finalmente nel 1549 il bramato riposo, salvo però lo stipendio, di cui volle il Senato che interamente godesse. Quattro anni sopravvisse ancora l’Egnazio, cioè fino al 1553, nel quale in età di settantacinque anni finì di vivere. Queste cose da me in breve accennate, più ampiamente si svolgono dal P. degli Agostini, e si comprovano colla fede di autentici documenti. Egli ci addita insieme le rare virtù morali, delle quali I1 Egnazio fu adorno; ribatte le calunniose accuse colle quali alcuni han cercato di oscurarne la fama, spacciandolo come uomo di non ben certa fede; riferisce i magnifici elogi che molti scrittori ne han fatto , celebrandone la vasta erudizione, la profonda memoria, le maniere amabili e tutte le altre virtù che in lui risplendevano; annovera molti de’ più famosi [p. 2189 modifica]TERZO 2 I 8<J scolari di’egli ebbe; e per ultimo ci dà un minuto catalogo di tutte l’opere da lui composte, abbracciando ancora le inedite e le perdute. Sono esse di genere tra lor diverse. Perciocchè vi son parecchie orazioni da lui dette in varie occasioni; vi son lettere sparse in alcune raccolte; vi ha un Panegirico in versi in lode del re Francesco; vi son due opere storiche , cioè le Vite degl’Imperadori da Giulio Cesare fino a Massimiliano I, nella qual opera è inserito il trattato dell’Origine de’ Turchi , stampato altre volte separatamente, e quella De Exemplis, ec. da lui composta ad imitazione di Valerio Massimo, del Sabellico e di altri. Ma l’Egnazio occupossi principalmente nel correggere e nell1 illustrar con conienti le edizioni degli antichi scrittori, nel che egli fu di grand1 aiuto al vecchio Aldo. Di queste opere e di più altre fatiche di questo indefesso scrittore veggansi più distinte notizie presso il detto P. degli Agostini, che le difende ancor dalle taccie che alcuni lor hanno date. Io aggiugnerò soltanto ciò che di un’opera, che stava l’Egnazio scrivendo ad istanza del Cardinal Contarini nel 1536, scrive don Gregorio Cortese, poi cardinale, in una sua lettera de’ 27 d’agosto del 1536 al medesimo cardinale: Monsignor Egnazio, dice egli (Op. t 1, p. 114)? amplexus est toto animo F opera, che V. S. li propone , e certo per quanto io so di lui , non dubito, che non sia per fare con le gravezze, che al presente ha della lezione e della Procuratia; e più avanti dice, che a far tal cosa non li basta Cellarino, ma vorrebbe clic [p. 2190 modifica]2igO LIBRO li fosse provisto per lui, per li Anagnosti et Amanuensi, come credo, eli egli scriva chiaro a V. S. Reverendiss. Ma qual sia quest’opera, la qual non pare che da lui fosse finita, io non posso congetturarlo. V. Molti altri illustri professori dell’eloquenza ebbe in questo secol Venezia, e a render queste scuole famose basterebbe il nome del solo Carlo Sigonio, di cui altrove abbiam detto. Altri ne abbiam nominati nel decorso di questa Storia, e qui perciò di due soli farò ancora menzione, cioè di Antonio Tilesio e di Bernardino Partenio. Il Tilesio fu natio di Cosenza nel regno di Napoli, e di lui perciò , oltre altri scrittori, parlano il Tafuri (Scritt napol. t 3, par. 1, p. 245, ec.) e il marchese Spiriti (Scritt. cosent. p. 39), ma in modo che più cose possiamo aggiugnere a ciò ch’essi ne dicono. Il secondo di questi scrittori lo dice nato, non so su qual fondamento, nel 1482; e io dubito che debbasi di alcuni anni anticiparne la nascita, perciocchè vedremo che nel 1530 egli accusava l’avanzata sua età. Compiuti i primi suoi studj, non sappiamo per (quale occasione, passò a Milano, ove fu per alcuni anni professor d’eloquenza, ed ivi, non già in Roma , recitò l’Orazion funebre del celebre generale Gianjacopo Trivulzi, morto nel dicembre del 1518, ed essa fu ivi stampata l’anno seguente. E in Milano parimente il conobbe il Bandello, il quale racconta di averlo udito in presenza di Cammilla Scarampa e di più altri recitare il suo poema sul Pomo granato (non mai pubblicato), che fu molto [p. 2191 modifica]TEllZO 2I()| applaudito (l. 4 > 1los>’)• I>a Milano passò a Roma professore alla Sapienza, e dalla prefazione da lui detta sulle Ode d’Orazio, che fu ivi stampata, raccogliesi che ciò fu al principio del pontificato di Clemente VII, e per opera del Cardinal Egidio da Viterbo e del Giberti. Ivi in fatti nel 1524 stampò le sue Poesie latine, le quali sono comunemente scritte con eleganza; e il Giovio osserva ch’ei volle anzi acquistar qualche nome trattando argomenti tenui , che intraprendendo poemi serj e gravi esporsi a pericolo di non passare i confini della mediocrità (in Elog.). I due soprallodati scrittori affermano ch’ei trovossi presente al sacco di Roma. Ma il Giovio, con quelle parole Effugit cladem Urbis, sembra indicarci di’ ci ne partisse prima. Anche il Giovio però ha errato affermando che da Roma passò a Cosenza. Ei fu prima per qualche anno in Venezia maestro di belle lettere a’ giovani destinati alla ducale cancelleria; e di là poscia nel 1529 si trasferì a Cosenza con animo di ritornare a Venezia. Alcune lettere da lui scritte a Benedetto Ramberti e ad Andrea Franceschi (Epist. cl. f ir. ed. ven. 1568, p. 88, ec.), e alcune altre inedite citate dal P. degli Agostini (Scritt. f ’en. t. 2 , p. 557), ci fanno conoscere che il Tilesio avea sofferta una pericolosa burrasca , e che a grande stento , dopo un viaggio di 40 giorni, era giunto a Cosenza; che era fermo di ritornare a Venezia, ma che la stagione che allor correva, cioè il febbraio del 1530, e la sua omai senile età non gli permettevano cT intraprendere allora quel viaggio; che nel [p. 2192 modifica]21^2 LIBRO settembre dell1 anno stesso, mentre si disponeva a partire, una caduta l’avea obbligato, e obbligavalo tuttora al letto; che nel dicembre del 1531 egli era ancora in Cosenza; e che recava a scusa del ritardo l’età, le malattie e più altri impedimenti, aggiugnendo però, che avea ricusati gl’inviti avuti dalle città di Ragusa, di Milano e della sua patria, la prima delle quali aveagli offerto lo stipendio di 200 scudi; e finalmente che nell’aprile del 1532 ei dolevasi di essere stato spogliato e lasciato quasi ignudo da un suo servidore. Questi eran probabilmente pretesti per non più tornare a Venezia. Ei si rimase di fatto in Cosenza; ed ivi morì,.secondo il marchese Spiriti, verso il 1533. Oltre le opere già mentovate, abbiam del Tilesio una tragedia latina intitolata Imber Aureus, due trattatelli in prosa, uno De coronarum generi bus, l’altro De coloribus, e qualche altro opuscolo, di cui si posson vedere i due mentovati scrittori (*). Più brevi saremo nel ragionare di Bernardino Partenio natio di Spilimbergo nel Friuli , perchè non abbiamo che aggiugnere a ciò che con somma esattezza ne ha detto il ch. sig. Giangiuseppe Liruti (Notiz. de’ Letter. del Friuli, t 2 , p. 113, ec.). Ei congettura che il vero cognome di esso fosse de’ Franceschini, e ch’ei prendesse quel di Partenio per secondare il costume de’ dotti (*) Le opere del Tilesio furono congiuntamente stampale in Napoli nel 1763, tnsiem colla Vita dell’autore, per opera dell’eruditissimo e coltissimo scrittore signor don Francesco Daniele, il quale gentilmente me uc ha trasmessa copia. [p. 2193 modifica]TERZO 2 11)3 di quel secolo. Alla sua patria ei fece provare i primi frutti de’ suoi studj e del suo zelo per essa, fondando ivi un’accademia in cui si coltivassero le lingue latina, greca ed ebraica; e gli venne fatto di stabilirla felicemente nel 1538. Ma ella durò pochi anni. È verisimile che nel 1549) ei passasse professore di belle lettere ad Ancona, e che ivi stesse fino al 1555 , nel qual anno fu condotto pel medesimo impiego a Vicenza, ove giovò non poco a render celebre e fiorita un’accademia istituita nella villa di Cricoli presso la città, e la famosa Accademia olimpica in cui leggeva. V erso il i56o fu condotto a Venezia , ove fu lettore di eloquenza greca nella pubblica libreria di S. Marco, e di belle lettere latine a’ giovani destinati alla cancelleria fino al 1589), nel qual anno diè fine a’ suoi giorni. Un1 elegante orazione in difesa della lingua latina, un trattato dell1 Imitazione poetica, tre libri di Poesie latine, scritte con molta eleganza , i Cementi sulle Ode d1 Orazio, e qualche altra cosa di minor conto, di cui ragiona distintamente il suddetto scrittore, sono le opere del Partenio fino a noi giunte , il quale per esse ci si dimostra degno di essere annoverato tra quelli che colf opere non meno che colf esempio promossero felicemente lo studio dell’amena letteratura. VI. Quando Romolo Amaseo, abbandonata Bologna, recossi a Roma, il più opportuno a succedergli fu riputato Sebastiano Corrado, che fu veramente uno de’ più eruditi scrittori di quell’età. Scarse son le notizie che dopo altri ce ne ha date il P. Nicerou (Me/n. des I/ornm. [p. 2194 modifica]2Iq4 LIBRO ili t. 19, p. 311), e io perciò studierommi di ragionarne con qualche maggior esattezza. Egli è detto comunemente reggiano; ma veramente fu di Arccto, luogo di quel territorio, e feudo già annesso a quello di Scandiano, che allora era de’ conti Boiardi. Infatti egli, nella prefazione a’ suoi Comenti sulle Lettere di Cicerone ad Attico, accennando l’onore che il conte Giulio Boiardo avea avuto nel r 543 di alloggiare due volte il pontefice Paolo III e il cardinale Alessandro Farnese nella rocca di Scandiano, lo dice il principe: Huc accessit Julii Bojardi Principis mei et viri clarissimi tuarum virtutum commemoratio, ec. Fece i suoi studj parte a Venezia sotto il poc’anzi lodato Battista Egnazio, parte in Padova alla scuola di Bernardino Donato e di Alessandro Achillini , come egli stesso ci narra al principio della sua Quaestura (*). Fin dal i5a4 egli godeva del nome di colto ed elegante scrittore, poiché abbiamo una lettera a lui scritta in quell’anno dal Bembo, nella quale molto ne loda due elegie (*) Benché io non sia solito di far gran conto dell’autorità del Papapoli, a questo luogo però, non so come, mi sono allontanato dall’usato mio metodo; e non avendo la Quaestura del Corrado da lui citata, ho creduto, sull’autorità di esso, che lo stesso Corrado nella prefazion di quell’opera facesse menzione dell’Achillini e del Donato , come di suoi professori in Padova. Ma avendo poi acquistate amendue l’edizioni del detto libro, ho osservato, come mi ha avvertito anche il sig. D. Jacopo Morelli, che di essi ei non fa alcuna menzione, Io non so se vi sia altro scrittore alle cui citazioni sì poco convenga fidarsi, come a quelle del Papadopoli. [p. 2195 modifica]TERZO 3If)5 (Famil. l. 6, ep. 23). Pare che fino al 1540 ei si trattenesse o in Venezia, o in Padova. Perciocchè il Bembo medesimo, scrivendo da Venezia nel 1538 a monsignor Pietro Panfilio a Pesaro, Credo, gli dice (Lettere, t. 3, l. 8; Op. t. 3, p. a()2), aver trovato un buon Precettore al Sig. Don Giulio, secondo il desiderio, che mi scrivete dell’Illustrissima Signora Duchessa, il (quale è uno M. Sebastiano Corrado da Reggio, prete molto dotto in Latino, e convenevolmente in Greco.... Esso stà all’ubbidienza sua da oggi innanzi. Questo don Giulio era figlio del duca d’Urbino, allora fanciullo di cinque anni. Non sembra però, che il Corrado passasse veramente a Pesaro ad istruirlo, come il Bembo avea proposto. Certo egli era in Venezia/quando nel 1540 fu chiamato a Reggio pubblico professore di latina e di greca eloquenza, come raccogliesi da una lettera da lui scritta a Pier Vettori (Cl Vir. Epist. ad P. Victor, t. 1, p. 19). Alle fatiche della pubblica scuola aggiunse il Corrado f istituzione dell’accademia degli Accesi, che per più anni fiorì in Reggio, e giovò non poco ad avvivare in que’ cittadini un nobile entusiasmo per lo studio delle belle arti. Una lettera a lui scritta dal Calcagnini, in cui gli dice di aver parlato col duca, e d’avergli esposto il desiderio da lui spiegatogli, ma che la moltitudine de’ competitori rendeva incerto f esito dell’affare (Calcagn. Op. p. 208), ci fa sospettare che il Corrado bramasse di esser chiamato professore a Ferrara. Ma s’egli a ciò non giunse, ben ne fu compensato dall’onorevole invilo che ebbe dall’università di Bologna Tiraboscui, Voi XIII. i5 [p. 2196 modifica]a i c)G libro nell’anno i5/|5, ad esservi professore di belle lettere. L’abate Scarselli ha pubblicato il decreto di questa elezione, fatto a’ 28 di novembre del detto anno (Vita Rani. A mas. p. 119), in cui così paila di Sebastiano: Adduciti fama non vulgari bonarum literarum tum Graecarum, tum Latinarum, ac optimorum morum, nec non disciplinae in erudiendis adolescentibus peracomodate Excell. D. Sebastiani Corradi Regi ensis ac sperantes ipsius doctrinam et operam morumque pariter honestatem Gymnasio ipsi totique Civicati, et praesertim studiosae Juventuti mi rura in modum profuturam, eumdem D. Sebasti anum per fabas albas omnes \ a/a conduxerunt ad Lecturam Humanitatis publice in eodem Bononien. Gymnasio profitendam ad bienium, cujus initium fuisse declarant Cal. praesentis mensis Novembri; et quas in hunc usque diem Lecitiomes decursas ipse non legit, teneatur subsecuturis vacationum temporibus eas rccompensare, et itidem legere; atque ei constituerunt, stipendium sive salirium annum librarum num. Bonon. quadringentarum per ordinarias et consuetas Doctorum distributiones sine exceptione et contradictione ulla persolvendarum, contrariis omnibus et quibuscumque penitus amotis et abrogatis. Nè meno gloriosa al Corrado è la lettera scritta da quel Senato alla città di Reggio, in risposta alla favorevole testimonianza che quella gli avea renduta del saper del Corrado, e alla calda raccomandazione che aveagliene fatta (ib. p. 151). Con qual applauso leggesse egli in Bologna, ne è pruova la scelta che di lui fece il Senato veneto nel i5d2, [p. 2197 modifica]TERZO 2197 per succedere a Lazzaro Buonaruici, allora defunto, nella cattedra d’eloquenza (Agostini, Vita di B• Egnaz. p. 101), e più ancor la premura de’ Bolognesi per non lasciarselo fuggire di mano; perciocchè il pontefice a loro istanza interpose la sua mediazione presso quella Repubblica, acciocchè loro non fosse tolto il Corrado, e l’ottenne; di che, come di cosa al Corrado sommamente onorevole, con lui rallegrossi Bartolommeo Ricci in una sua lettera (Riccii Op. t 2, pars 1, p. 279). Così continuò il Corrado leggendo in Bologna fino al 1555, secondo l’Alidosi (Dott. forest. p. 76), e tornato poi in patria, ivi morì a’ 19 d’agosto del 1556. E quanto all’anno e al luogo della morte del Corrado, tutti si accordano gli scrittori. Ma il Ricci ne parla in modo che sembra indicarci eli’ ei fosse ancora professore in Bologna , benchè forse a caso si trovasse allora in Reggio. Troppo bello è l’elogio che ne fa questo scrittore (l.cit. p. 77), perchè non debba essere qui riferito: Ut mihi de Corradii nostri obi tu nuntiatum est, multis iisque honestissimis de. caussis graviter molesteque tuli. Primum, quod quasi alterum filium, qui me parentem pie appellabat, amisi; deinde quod in eo magnam jacturam res literia fecisse videtur, qui et in eleganter scribendo, et superiore de loco erudite docendo, eam quotidie novis scriptis atque praeceptis cumulatiorem reddebat; postremo quod vestra Bononiensis Academia tanto viro orbata sit, cui ut parem reperiate fortasse non facile fiet. Nam ad eas litteras, quas profitebatur , ejus generis mores accedebant, qui [p. 2198 modifica]211)8 libro in paucioribus probantur. Equidem modestiorem„ humaniorem, sanctiorem virum non cognovi, qui nihilo magis movebatur adversis, quam etiam laetis ac secundis rebus faceret, in quibus ne vultum quidem mutabar. Ejus autem sermo f eongrvssus, hospitia fuere , quae ejus generis moribus optime responderent. Il P. Niceron ci ha dato il catalogo delle opere di questo dotto scrittore, che per lo più sono comenti sugli autori latini, come sulle Lettere di Cicerone ad Attico, e su quelle agli Amici, su Valerio Massimo, sul primo libro dell’Eneide. Havvi ancora un’orazione da lui detta in Bologna De Officio Doctoris et Auditoris, e la traduzione di sei Dialoghi attribuiti a Platone. Ma le due opere più pregevoli del Corrado sono il Comento sul libro di Cicerone de’ chiari Oratori, opera piena di vasta erudizione, accompagnata da buona critica, e perciò lodata molto dal Ricci (l.cit.p. 278), e solo ripresa, perchè l’autore in essa si occupa di troppo minute ricerche; e il libro intitolato Quaestura, nel quale egli sotto l’allegoria, non molto felice, di un romano questore, che tornando dalla provincia a Roma, rende conto a Batista Egnazio e a Pierio Valeriano del frutto raccolto dalla lettura delle opere di Cicerone: e in tal modo ci dà un erudito ed esatto ragguaglio della vita di quel grande oratore, che anche dopo le altre più copiose Vite, pubblicatene poscia, non è caduto di pregio. Il P. Niceron rigetta come supposta la prima edizion di quest’opera fatta in Venezia nel e afferma che la prima fu la fatta in Bologna nel 1555. Ma è certissimo che nel 1537 ne fu [p. 2199 modifica]TERZO 2 I (X) fatta la prima edizione, e il P. degli Agostini ne cita qualche tratto che non leggesi nella seconda , che fu da lui in gran parte cambiata (Vita di B. Egnaz. p. 78, 82) (a). A queste opere debbnnsi aggiugnere kt lettera latina al Vettori poe’ anzi citata, e tre italiane al Maioragio, clic sono stampate in seguito a quelle di Marquardo Gudio (p. 121); nelle quali egli amorevolmente il persuade a dar fine all’aspra contesa clic avea col Nizzolio, di cui tra poco diremo, e scuopre l’amabil sua indole nimicissima di tali briglie. Egli è scrittore erudito non men che elegante; e tra* comentatori di quell’età è un de’ pochi clic anche al presente si possan leggere con piacere e con frutto. MI. Un altro professore dello stesso cognome, ma che non avea attinenza alcuna con Sebastiano, ebbe il regno di Napoli, cioè Quinto Mario Corrado, nato in Oria da Donalo Corrado e da Luigia Caputa nel i5o8. Molti ne hanno scritta la Vita, e più recentemente di tutti il Tafuri (Scritt. napol. t. 3, p. 41°)> da cui trarremo le principali notizie, aggiugnendo però, ove faccia d’uopo, alcune cose da lui e dagli (a) La Quaestura del Corrado, stampata nel 1 firjf , è opera del tutto diversa da quella eli egli stampo nel 1555 col titolo Egnatius sive Quaestura. Nella prima cgliesanina, corregge e spiega diversi passi degli antichi scrittori; nella seconda tratta singolarmente della Vita di Cicerone. Veggasi ciò che di queste e di altre opere del Corrado si è detto nella Biblioteca modenese (t.2, p. 74), ove anche si son prodotte più copiose notizie intorno alla vita di questo celebre professore. [p. 2200 modifica]2200 LIBRO altri ommesse (a). 11 padre di Quinto Mario, dopo avergli fatti apprendere i primi elementi, bramava che tutto ei s’applicasse agli affari ecouomici della famiglia. Ma egli rapito dall’amor per gli studi, fuggì segretamente di casa, e ricoveratosi presso un monaco Celestino suo zio, coll’aiuto del quale si avanzò nelle lettere, passò poscia a Bologna, e continuò ad istruirsi (a) Pi» esatte notizie intorno a Q. Mario Corrado mi ha trasmesse il più volte lodato sig. don Baldassarre Papadio, con cui quelle del Tafuri si possono in alcune parti emendare. Non par verisimile ciò ch’ei narra del padre di Q. Mario, perciocchè questi afferma di averlo perduto nella sua infanzia, e di essere stato per opera della madre diligentemente istruito ne’ buoni studj (Epist. l. 6, ep. 149), ed ei gli fece singolarmente in Lecce (ib. ep. 148). Da Bologna passò a Roma, ove visse più anni, godendo della protezione dei più illustri personaggi e dell’amicizia de’ più celebri letterati, e da Roma poi passò alla patria. La ragione per cui il Corrado non soddisfece al comando della reina di Polonia, non fu la difficoltà del lavoro, ma la morte della reina medesima (ib. l. 5, ep. 139). Verso il 1565 monsignor Gian Carlo Bovio, trasferito allora dal vescovado d Ostuni all arcivescovado di Brindisi e d’Oria, chiese allora unite, scelse il Corrado a suo vicario. Ma le contraddizioni che ebbe a sostenere da alcuni suoi concittadini, gli fecero presto abbandonar quell1 impiego. Dopo tre anni di dimora in Salerno passò a Napoli, ove istruì i figli di D. Vincenzo Carrafa fratello del Cardinal Antonio , il qual gli ottenne la dignità di arcidiacono in Oria. Nel 1572 ei ritornò alla patria, e ivi, come si è detto, morì nel 1575. Più altre opere avea egli composte , che son rimaste inedite, e li a esse alcune osservazioni sulle Declamazioni attribuite a Quintiliano, le quali egli fin d’allora saggiamente avvisò che non erano di quel celebre autore. [p. 2201 modifica]TERZO 2301 alln scuola del celebre Romolo Amaseo, ed ivi ancora si ordinò sacerdote. Tornato finalmente, ad istanza de’ parenti, alla patria, aprì ivi pubblica scuola, e vi ebbe gran numero d’illustri discepoli. La reina di Polonia Bona Sforza , die crasi allor ritirata nel suo ducato di Bari, bramò che il Corrado scrivesse la Storia sua, e delle vicende di quel regno; ed egli già si era accinto al lavoro; ma atterrito poscia dalla difficoltà dell’impresa, lo interruppe; nè volle più oltre continuarlo. 11 Cardinal Alcali* dio il volle suo segretario in Roma; e al Corrado fu forza l’accettare quest’onorevole impiego. Mortogli dopo due anni nel 1542 il padrone , passò collo stesso carattere presso il Cardinal Badia; e rapitogli dalla morte ancor questo nel 1547, tornossene a vivere tranquilla* niente nella sua patria. Gli scrittori della Vita di Quinto Mario aggiungono che il pontefice Pio IV chiamollo a Roma ad istruir nelle lettere i suoi nipoti; e ch’egli colà recatosi, fu poscia ancor destinato ad essere segretario del concilio di Trento, ma che a questo incarico ei si sottrasse. Il P. Lagomarsini però da un attento esame delle lettere del Corrado ha raccolto (Not. ad Epist. Pogian. t. 3, p. 443, ec.) eli’ egli non fu mai in Roma a’ tempi di Pio IV, e che fu bensì inviato a sostener l’impiego di segretario nel detto concilio; ma che la lettera d’invito gli giunse sì tardi, che frattanto era già stato quell’impiego conferito ad un altro. Le lettere di Paolo Manuzio a lui scritte (l. 7, ep. 7, 8, 15; l.8, ep. 9) ci mostrano che sulla fine del i565 c uel 1066 era il Corrado [p. 2202 modifica]1 2 202 LIBRO in Napoli, c che nel 15G7 era passato a Saj lerno, ove il Tafuri afferma che per tre anni sostenne la cattedra d’umanità. In fatti la prefazione da Donato Argentone premessa a’ libri del Corrado De lingua latina, stampati nel 1569, ci fa vedere ch’egli era allora in Salerno, ma insieme accenna le gravi sventure alle quali per altrui malignità era poc1 anzi stato soggetto: Utinam is (parla di Quinto Mario) fortuna ossei mcliore; ncque hoc etiain triennio levissimorum hominum, qui rebus illum omnibus everterunt, perfidia laboraret. Equidem pro eo quanti illum facio, vehementer doleo, quae. illi nuper acciderunt.; maximenque vellem (si illius oculi ferre quaedam possent) ab Aloysii Issapicae et Salernitanorum consuetudine doctorum hominum, quibus utimur amicissimis, ad nos suaque studia se reciperet. Di queste sue sventure si duole, ma oscuramente, lo stesso Corrado nella prefazione al primo libro.della detta opera , ma nulla ce ne dicono gli scrittori della Vita. S1 io avessi potuto aver tra le mani le lettere del Corrado, forse ne avrei tratte più distinte notizie. Ma ciò non mi è stato possibile, e io son costretto accennar questi fatti, senza poter arrecar nuova luce per rischiararli. Il Tafuri aggiugne, che invitato caldamente a tenere scuola nella Sapienza di Roma e nell’università di Bologna, se ne scusò; che solo per qualche tempo fu vicario dell’arcivescovo di Brindisi; e che tornato poscia alla patria, ivi finì di vivere nel 1575, e gli fu posta al sepolcro l’onorevole iscrizione ch’ei riferisce. Oltre alcune orazioni, otto libri di lettere [p. 2203 modifica]TERZO 220.3 e qualche altro opuscolo, ei ci ha lasciate due opere sulla lingua latina, una divisa in dodici libri, e intitolata De lingua latina, l’altra De copia latini sermonis, opere amendue e per l’eleganza con cui sono scritte, e per l’esattezza delle ricerche, e pel buon gusto che per entro vi regna , pregevolissime. Perciò con ragione due de’ più saggi giudici, in ciò che a stil latino appartiene, Paolo Manuzio e Marcantonio Mureto, esaltarono con somme lodi il Corrado; il primo dicendo che pochi assai conosceva che potessero stargli al confronto, niuno che il superasse nello scrivere coltamente (l.2, ep. 12), il secondo, usando delle espressioni medesime, non solo riguardo all1 eleganza dello stile, ma riguardo ancora all’ampiezza della erudizione (*). Vili. Un altro non men celebre professore di belle lettere avea avuto ne’ tempi addietro il regno di Napoli, benchè poco del sapere di lui si giovassero quelle provincie , dalle quali ei fu quasi sempre lontano. Ei fu Giampaolo Parisio, più noto sotto il nomedi Aulo Giano Parrasio, che egli , secondo l’uso di que’ tempi, volle adattarsi. Il molto che di lui hanno scritto il Bayle (Dict. hist. art Parrasius), il Toppi (Bibl, napol.), ilTafuri (Tafuri Scritt napol t 3, par. 1, p. 236, ec.), il Sassi (*) Alcune lettere di Mario Corrado a Paolo e ad Aldo Manuzio sono state date alla luce dal eh. signor canonico Bandoli, dalle quali raccogliesi che il Corrado era diligente ricercatore delle antiche iscrizioni, e che da que’ due valebtuomini ne era avuta in molta stima l’erudizione (Coltici. 1 et. Mouum. p. io4, ec.). [p. 2204 modifica]2204 LIBRO (Hi st. tjpogr. mediol. p. 421 , ec.), il marchese Spiriti (Scritt. coseni, p. 23, ec.), e la Vita che recentemente ne ha scritto il ch. sig. avvocato Saverio Mattei, ci rende lecito lo spedircene più in breve che alla fama di un tal uomo non si converrebbe. Ei fu di patria cosentino, e nacque nel 1470 da Tommaso Parisio consigliere del Senato napoletano. È probabile che dalla celebre Accademia del Pontano ricevesse egli i primi stimoli allo studio dell’amena letteratura, a cui malgrado gli sforzi del padre, che lo avrebbe voluto giureconsulto , tutto si volse. All’occasion delle guerre, dalle quali fu travagliato quel regno , passò a Roma , ove egli rammenta (Quaesit. per Epist. p. 247 , ed. Neap. 1771) che corse grave pericolo della vita a’ tempi di Alessandro VI per l’amicizia che avea con due cardinali caduti in disgrazia al pontefice , e che per ope$a di Fedro Inghirami fuggitone, si ricoverò in Milano , ove prese in moglie una figlia di Demetrio Calcondila, e ove ottenne tal fama col suo sapere, che fu destinato pubblico professor d’eloquenza. Era egli in questo impiego nel 1500, nel qual anno pubblicò la prima volta i suoi Comenti sopra Claudiano, che ivi poi riveduti e corretti diede di nuovo in luce nel 1505. Tale era il concetto che aveasi del Parrasio, che il famoso generale Gianjacopo Trivulzi non isdegnavasi di andare talvolta a udirne le erudite lezioni. Ebbe anche l’onore di avere tra’ suoi scolari il celebre Andrea Alciati, benchè questi mostrasse poscia di aver f antico suo maestro in conto di un impostore che citasse [p. 2205 modifica]TERZO 220.5 libri non mai veduti. Non sappiamo fin quando si trattenesse egli in Milano; ma ciò non dovette essere molto oltre al 1505. Ei fu costretto a partirne per l’accusa a lui data d’infame debito , accusa che forse fu effetto solo d’invidia contro di lui conceputa (a). Trasferissi allora a Vicenza, ove ad istanza singolarmente di Giangiorgio Trissino fu chiamato alla cattedra d’eloquenza, collo stipendio, ivi non mai conceduto ad alcuno, di 200 annui scudi. Le guerre clic in seguilo della lega di Cambray desolarono quello Stato, non permisero (a) Che il Parrasio avesse fieri nemici in Milano, si raccoglie da due rarissimi opuscoli stampati , senza data di sorta alcuna , e indicatimi dal sig. Carlo Carlini già primo custode della R. biblioteca di Brera in Milano, rapitoci da immatura morte l’anno 1789.). Il primo comincia: Rolandini Panati Laudensis ad ill. March. Pallavicinum Praefatio in Invectivas contra Janum Parrhasium A sin urti Archadicum. L altro: Ad Illustrem , ec. AUxandrum Sforti am Comitati Burgi Novi Jovannis Damiani Nauta Presbyteri Cyrnei et Praecepitoris in Janum Parrhasium Scarabeum /ordissi tu uni et vespam aculentum Invectiva. A questi graziosi titoli corrisponde il rimanente de’ due opuscoli , che contengono una sanguinosa censura delle Opere del Parrasio. A queste invettive rispose uno scolaro del Parrasio, e forse il Parrasio stesso sotto nome di un suo scolaro; e questa risposta va aggiunta alla seconda edizione de’ Comenti a Claudiano fatta il Milano nel 1505 con questo titolo: Apologia Jani contra obtrectatores per Furium Valum Echinatum ejus Auditorem. E al principio di essa si legge: Furius Vallus Echinatus in Rolandinum Pistrini vernam i l lauda tum. E al fine si aggiugne: Finis Apologiae Furii Valli Echinati in Nautae sentinam. Io non trovo autore alcuno che di questi opuscoli faccia menzione. [p. 2206 modifica]2206 LIBRO al Parrasio il farvi lungo soggiorno. Tornossene allora alla patria , ove gittò i primi fondamenti dell’Accademia cosentina che salì poi a gran nome. Alcuni domestici dispiaceri che ivi ebbe, gli fecero accettar di buon animo l’invito di andarsene a Roma professor d’eloquenza coll’annuo stipendio di 200 scudi, e si ha tra le Lettere del Bembo il Breve perciò spedito da Leon X nel 1514 (Bembi Epist. Leon. X nom. l. 9, ep. 39). Ma egli era sì malconcio dalla podagra , che non potè lungo tempo sostenere quella fatica. Tornato perciò a Cosenza, ivi passò più anni in continui dolori , finchè verso il i53.j diè fine a’ suoi giorni. Oltre i Comenti sul poema di Claudiano del Ratto di Proserpina , già mentovati, egli illustrò ancora le Eroidi di Ovidio, l’Arte poetica di Orazio e l’Orazion di Cicerone a favor di Milone. Scrisse ancora e pubblicò un Compendio dell’Arte rettorica. Ma f opera che al Parrasio ottenne maggior nome, è quella I)c Quaesitis per Epistolam, in cui egli con molta erudizione , ma non con uguale felicità di stile, spiega molti passi di antichi scrittori, e rischiara diversi punti d’antichità e di storia. Abbiamo altrove veduto che Aldo Manuzio il giovane fu accusato di essersi usurpato gran parte dell’opera del Parrasio; ma abbiamo insieme mostrato che l’accusa non ha alcun fondamento. Molte altre opere del Parrasio si conservano manoscritte in Napoli nella libreria di S. Giovanni di Carbonara, delle quali ci ha dato il catalogo, e ne ha ancor pubblicata qualche picciola parte il soprallodulo signor [p. 2207 modifica]TERZO 2207 avvocato Saverio Mallei nella nuova edizione che ha data dell’opera De Quaesitis colle stampe di Napoli nel 1771. IX. Il Parrasio non fu il solo celebre professor d’eloquenza, che avesse in questo secolo la città di Milano. Più ancor che da lui, furono queste scuole illustrate da Marcantonio Maioragio. Molti di lui hanno scritto, e più recentemente di tulli 1’Argelati (Il ibi. Script, mediol, t. 2, pars 1) e il liruckcro (Ili st. crit. Philos. t. 4 , p- 190), il quale accenna ancora la Vita scrittane da Giampietro Kohlio da me non veduta (a). Maioragio era il nome della terra della diocesi di Milano , ov’egli nacque a’ 26 d’ottobre del 1514 j e questo nome gli piacque più che quello della sua famiglia, che era de’ Conti, e così pure per vezzo d’antichità cambiò poscia nel nome di Marcantonio quello di Antonmaria che avea avuto al battesimo. I primi anni della sua vita furon per lui travagliosi, perciocchè nelle guerre, che allor desolavano la Lombardia, la sua famiglia perdette (quasi interamente i suoi beni; ed ei vide il suo padre Giuliano fatto prigione, salvarsi a grande stento fuggendo. Calmati alquanto i tumulti, fu istruito nelle lettere da Primo Conti suo cugino, che n’era professore in Como. Passato poscia a Milano, e accolto in sua casa da Lancellotto Fagnani , con tal ardore si diede a’ piacevoli non meno che a’ gravi studi, (a) Alcune altre notizie intorno alla vita e alle opere del Maioragio ci ha poscia date il eli. P. abate Casali (Cicereii Epist. t. 1, p. 5i} io3, ec.). [p. 2208 modifica]2208 libro clic ne fa in pericolo della vita. Fra gli altri maestri ebbe il famoso Cardano. Nello spazio di cinque anni diede tai pruove dei suo ingegno, che, benchè 26 soli ne avesse di età, fu nominato pubblico professor d’eloquenza circa il 1540. Ma appena avea egli sostenuta per due anni quella cattedra , che le nuove guerre di quello Stato costrinsero i professori a cercar altro ricovero; e il Maioragio , ritiratosi a Ferrara alle scuole de’ celebri Vincenzo Maggi ed Andrea Alciati, si avanzò sempre più negli studj della filosofia e della giurisprudenza. Poco oltre ad un anno si trattenne in Ferrara, e al ritornar della pace tornò egli pure in Lombardia. Il Bayle alcune difficoltà ha mosse su queste epoche della vita del Maioragio (Dict. art Majoragius), benchè dallo stesso Maioragio fissate. Non giova F entrare in queste troppo minute ricerche; e solo av-„ vertirò, che una lettera di Bartolommeo Ricci al Nizzoli rende anche dubbioso il soggiorno di un anno solo in Ferrara; perciocchè egli afferma di aver ivi conversato con lui per tre anni: Amo non leviter Majoragium ob ejus optima studia singularemque humanitatem, quo Ferrari ac sic sum triennio usus, ut nullus usquam alio familiarius (Op. t. 2 , pars 2, p. 562). Checchè sia di ciò , tornato il Maioragio a Milano, vide una pericolosa tempesta levarsi contro di lui. Il cambiamento da lui fatto del proprio nome sembrò ad alcuni un grave delitto; e ne fu accusato al Senato. Ma egli con un’eloquente orazione, la qual si ha alle stampe, si difese per modo, che fu [p. 2209 modifica]TERZO 220<) solennemente assoluto; e potè continuare le sue lezioni. Molto egli giovò ad avvivare gli studj in quella città, e col rinnovare l’antico uso delle declamazioni, e col promuovere l’accademia de’ Trasformati, allora istituita, e col proccurare, benchè inutilmente, che si aprisse in Milano una pubblica biblioteca (Sax. Prodrom. de Stud medio 1. c. 10). Pare che nel 1550 ei fosse promosso a qualche dignità ecclesiastica. Io il raccolgo da una lettera di Andrea Camozzi a Francesco Ciceri, scritta in quelf anno: 7 ibi gratulor, et mihi gaudeo, Francisce suavissime, quod tandem conspexeris cominus Majoragium nostrum ad sublime fasti gium honoris provectum esse.... Ut inani simili bus saepe vidcremus sceptra conferri Ecclesiaeque titulos insignis. Sic injiceretur ori Haeresiarcarum offa veluti cerberis latrantibus, ec. (post Marqu. Gadii Epist. p. 118). Ma qualunque si fosse questa dignità, di che io non ho più distinta contezza , ei ne godè poco tempo, e finì di vivere in età di soli quarantun anni, nel 1555. Se si abbia riguardo al breve tempo eh1 ei visse, moltissime son le opere elf ei ci ha lasciate. delle quali ci ha dato un lungo catalogo l’Argelati. Orazioni, prefazioni, poesie latine e italiane, opuscoli di diversi argomenti , si veggono ivi schierati in gran numero. Molto egli ancora si affaticò nel comentar le opere di Cicerone , appartenenti all’eloquenza, la Rettorica , e più altre opere filosofiche di Aristotele: riguardo ad alcuni de’ quali comenti hanno alcuni troppo di leggieri data al Maioragio la taccia di plagiano, [p. 2210 modifica]2210 LIBRO come se egli si fosse usurpate le fatiche di Pier Vettori, mentre il Maioragio chiaramente confessa di essersi molto giovato delle opere di quel dotto scrittore. Egli prese innoltre a difendere Cicerone contro Celio Calcagnini che aveane criticati i libri degli Ufficj. Ma poco appresso dichiarossi nimico al medesimo Cicerone , e ne impugnò con una sua opera i Paradossi. Questa fu l’origine di un’aspra contesa che si accese tra lui e Mario Nizzoli, del quale ora diremo. Questi, grande adoratore di Cicerone, sdegnato al vederlo dal Maioragio sì acremente censurato, gli scrisse dapprima una lunga lettera amichevole, ma alquanto risentita (Post Gudii Epist. p. 132, ec.)*, in cui schieravagli innanzi gli errori che in quella confutazione avea commesso. A questa lettera rispose il Maioragio con una Apologia in sua difesa; e all’Apologia replicò il Nizzoli con una Antiapologia. Non tacque il Maioragio, e un’opera più voluminosa pubblicò contro il suo avversario, intitolata Reprehensionum Libri duo contra Marium Nizoliiun; e a quest opera contrappose il Nizzoli la sua intitolata Antibarbarus Philosophicus, stampata in Parma nel 1553 , e nell’anno stesso, pubblicando la sua opera de’ principj della Filosofia, in essa ancora si volse contro il suo avversario. Questa contesa, in cui da amendue le parti si oltrepassaron di troppo i confini di una giusta moderazione, commosse altamente gli animi de’ 7 O letterati italiani, a’ quali spiaceva il vedere due dottissimi uomini irritati l’un contro l’altro per cose di nium momento , quali eran quelle [p. 2211 modifica]TERZO 2211 di cui tra essi si disputava. Già abbiamo accennate le lettere su ciò scritte da Sebastiano Corrado al Maioragio. Il Ricci mostrò egli pure quanto bramasse la lor riunione (Op. t. 2, pars 2 , p. 262). Anche lo stampatore Giovanni Oporino, a cui erano state inviate le risposte del Maioragio, perchè in Basilea le pubblicasse colle sue stampe, scrisse più volte a Francesco Ciceri, pregandolo caldamente a fare in modo che si desse amichevol fine a sì acerba contesa (post Gudii Epist. p. 166, ec.). Ma forse essa non sarebbe sì presto finita, so il (Maioragio non fosse stato rapito da immatura morte. Questa è l’unica taccia che oscuri alquanto la fama di sì valoroso scrittore, il quale e per eleganza e per eloquenza e per erudizione può andar del pari co’ migliori del secolo xvi. X. Lo stesso dee dirsi dell’avversario del Maioragio, cioè di Mario Nizzoli, di cui ora passiamo a dire; e tanto più volentieri, che niuno , ch’io sappia, ne ha ancora scritta la Vita [a). Egli nelle sue opere si dice natio di Brescello, terra ragguardev ole nel ducato di Modena alle rive del Po; ove infatti ancor sussiste una famiglia di questo nome; ed a lui, come a lor cittadino, posero quegli abitanti un’onorevole iscrizione, che poscia riferiremo. Nondimeno non vuolsi tacere che Angelo Maria di (a) Del Nizzoli si è parlato alquanto più stesamente nella Biblioteca modenese (l. 3, p. 3-pj, ec- \ t. 61 p. i5a). Tuiaboschi, Voi. XIII. 1G [p. 2212 modifica]2212 LIBRO Edovari da Erba, scrittor di que’ tempi, nel suo Compendio ms. della Storia di Parma, di, ce: Mario de’ Nizzoli nato nella l illa di 7j0, reto, che è piccola villa non lontana da Bre. scello , ove forse nacque il Nizzoli, o perchè ivi allora ne fosse stabilita la casa, o perchè fortuitamente vi si trovassero i genitori di esso , quando ei venne a luce; il che accadde nel 1 {98, come raccogliesi dall’accennata iscrizione. Nulla sappiamo dei primi anni di Mario, nè ove, nè da chi fosse egli nelle lettere ami maeslrato. Ma non è improbabile che avendo allor Modena ottimi professori, come in più luoghi si è osservato, qui facesse egli i suoi studj. La prima certa notizia che di lui abbiamo, si è che circa il 1522 ei fu chiamato e accolto in sua casa dal conte Gianfrancesco Gambara cavalier bresciano, splendido protetto!’ delle lettere e de’ letterati. Perciocchè quando egli diè al pubblico la prima volta nel 1535 le sue Osservazioni sopra Cicerone, nella dedica fattane al Gambara, così gli dice: Tu enim primum hospitio me accepisti, quo jam tertium et decimum annum honestissime utor; tu tenuitatem meam liberalitate tua semper sustentasti; tu literas et studia mea nunquam fovere et exercitare desti listi; tu me omnibus rebus assidue, prout facultates tuae tuie run t, et auxisti, et ornasti. Quid multa? Nisi tu fuisses, ego piane nihil essem. E siegue dicendo gran lodi della liberalità e della magnificenza del conte, e del molto eli’ egli sapeva nelle lingue greca e latina. Gli eruditissimi fratelli Volpi nel Catalogo della scelta loro Biblioteca, riferendo questa [p. 2213 modifica]/ TERZO 2213 adizione, raccontano (p. 137) che Lorenzo Gambara era stato dapprima lontano da ogni studio; che essendo venuto a Brescia Timperador Carlo V, ed essendo fra gli altri venuto egli a corteggiarlo, Y imperador mostrò di stupirsi al vedere che il conte non sol non sapeva la lingua spagnuola e la tedesca, ma neppur la latina , e che questi fu sì confuso per tale incontro, che diessi tosto a cercare di alcun valente professore di lingua latina, e propostogli il Nizzoli , sel prese in casa, e f ebbe sempre carissimo. Ma a me sembra che, oltre all’essersi qui confuso Lorenzo con Gianfrancesco Gambara, un tal racconto non ben combini con ciò che abbiamo udito narrarsi dallo stesso Nizzoli, cioè che nel 1535 erano già tredici anni eh1 egli slava in casa di Gianfrancesco. Carlo V non venne in Italia prima del 1529, nè potè innanzi a quest’anno vedere il Gambara in Brescia. Se dunque il Nizzoli fin dal 1522 era presso il conte, come potè questi determinarsi a volerlo nel 1529? Nella prefazione medesima racconta il Nizzoli che fin da nove anni prima avea egli ad istanza del conte intrapresa quell’opera; che questi avea voluto ch’ella si stampasse iu sua casa nella sua terra di Pratalboino, e che Matteo e Cammillo Avogadri, padre e figlio, avean voluto addossarsi la spesa di questa edizione. Quest’opera fu poi pubblicata più altre volte colle aggiunte di dottissimi uomini, e le fu anche cambiato il titolo, ed or fu detta Thesaurus ciceronianus, ora Apparatus latinae locu* tionis, c ne è nota abbastanza l’utilità e il pregio in cui sempre è stata avuta, non ostanti [p. 2214 modifica]aai4 libro le critiche ad essa fatte da Arrigo Stefano e da Giovanni Vernereto, perchè io debba dirne più a lungo. Non sappiam quanto tempo si trattenesse il Nizzoli presso il conte. Gambara. Certo egli era presso questa famiglia anche nel i S.jo, come ci mostra una lettera da lui scritta in quell1 anno a Tadea dal Verme di Gambara, pubblicata dal ch. sig. Crevenna (Catal raisonnè t. 4? p 303). Quando si accese tra lui e!’l Maioragio la contesa sopraccennata, la quale ebbe principio nel 1547? il Nizzoli era in Parma , ove fu per più anni pubblico professor ri’ eloquenza. Ma sembra che prima di ascender la cattedra di quella università, ei fosse privato maestro del marchese di Soragna, come raccogliamo da’ Cataloghi di Ortensio Landi stampati nel 1552: Mario Nizolio fu maestro del Marchese di Soragna (p. 563). Mentre era pubblico professore nella detta città, scrisse 1’opera l)e veris principiis et vera ratione philosophandi, della quale abbiamo altrove parlato , ed egli ivi la pubblicò nel 1553, dedicandola al Cardinal Alessandro e al duca Ottavio Farnese. In Parma pure cel mostrano due lettere a lui scritte da Annibal Caro, in cui parla di esso con molta lode, una deli553, l’altra del 1559 (Lettere , t. 2, lett. 17, 120); e due altre di Paolo Manuzio , una che non ha data (Epist. l. 2 , ep. 3), nella quale si scusa che non abbia potuto venire a Parma , dove il Nizzoli l’avea invitato, e ne loda altamente i costumi, la cortesia, l’ingegno e lo studio; l’altra, scritta a’ 28 di novembre del 1562 (l. 6, ep. 16), nella quale avendogli il Nizzoli mandata [p. 2215 modifica]TF.RZO 331.5 il saggio di una sua opera sulle Figure rei loriche , egli il prega ad usar degli esempj più che de’ precetti: Nec tamen, soggiugne, urgere te audeo, hominem aetate infirmi un; oculis non bene utentem, publico e tiam docendi manere districtum. Ma mentre il Manuzio così scriveva, era già il Nizzoli passato a Sabbioneta, ove avendo Vespasiano Gonzaga aperta una nuova università , chiamovvi a professore e a direttore di essa il Nizzoli collo stipendio di 300 scudi annui. Abbiamo altrove (par. 1) prodotta l’onorevol patente che perciò gli fece spedir Vespasiano , e abbiamo accennata l’orazione che recitò il Nizzoli neiraprimento di quella università, che fu poi stampata in Parma l’anno seguente. Una lettera latina da lui scritta al duca Vespasiano da Sabbioneta a’ 29 di giugno dell’anno seguente, che conservasi nell’archivio di Guastalla, mi ha comunicata il più volte lodato P. Affò, nella quale il Nizzoli si duole che per vecchiezza ha omai perduta non sol la vista, ma ancor la memoria, e che innoltre vi è chi ha preso a screditarlo e a riprenderlo. Quanto si trattenesse il Nizzoli in Sabbioneta, e che avvenisse di lui fino agli ultimi anni della sua vita, non ho monumenti che me lo scoprano. Pare eh1 ei morisse in Brescello nel 1.576, e che ivi ne fosse trasportato il cada vero, se pur l’iscrizione a lui posta in quella chiesa maggiore non è semplicemente un monumento di onore , e non una iscrizione sepolcrale. Ella è la seguente: Mario Nizzolio Uri* xellensi Obscnmtionuni itiM. Tulliani Ciceronern [p. 2216 modifica]2216 LIBRO A udori primo, et Philosophiae Aristotelis Instauratori Unico Cives Civi suo memoris ac grati animi testi fu: ondi gratin posnerunt ciorjixxrr. Qui VIII et lxx annos natus mortuus est. Nel parlar del Nizzoli abbiam successivamente accennate le opere da lui pubblicate, oltre quelle delle quali si è detto poc’anzi favellando del Maioragio, le quali tutte sono scritte con molta eleganza, e ne fanno annoverare l’autore tra’ più benemeriti illustratori della lingua latina. Qui aggiugnerem solo che nella Raccolta di Rime in lode di Geronima Colonna d’Aragona, stampata in Padova nel 1568, si leggono alcuni versi latini del nostro Nizzoli. XI. Le scuole fiorentine non furon prive di valorosi professori d’eloquenza; ed uno tra essi singolarmente non ebbe allora chi in tal genere di studio gli andasse avanti, e.assai pochi che il pareggiassero. Parlo del celebre Pier Vettori, da noi nominato più volte, e di cui dobbiamo or favellare distintamente; benchè il faremo con brevità, poichè nulla ci lascia su ciò a bramare il ch. sig. canonico Angiolo Maria Bandini, che ne ha premessa la Vita alla Raccolta delle Lettere d’Uomini eruditi a lui scritte, stampata in Firenze nel 1758. Da Jacopo Vettori e da Lisabetta di Pier Giacomini nobili fiorentini nacque Pietro in Firenze agli 11 di luglio del 1499. Non solo l’amena letteratura e le lingue latina e greca furon da lui nella sua gioventù coltivate, ma la matematica ancora, di cui gli fu maestro Giuliano Ristori da Prato carmelitano. Passò indi a Pisa per apprendervi [p. 2217 modifica]TFRZO 3317 ]a giurisprudenza; ma provando nocivo quel clima , tornò a Firenze, e in età di diciotlo anni prese a moglie Maddalena di Bernardo Medici. Nel 1522 viaggiò in Ispagna con Paolo Vettori suo parente, generale delle galee pontificie destinate a condurre in Italia il nuovo pontefice Adriano VI. Ma da una malattia arrestato in Barcellona, poichè ne fu libero, corse i vicini paesi, e ne raccolse gran copia di antiche iscrizioni, e ricco di queste spoglie tornò in Italia. Il suo genio per le antichità dovette rendergli piacevole e vantaggioso il viaggio che fece a Roma insieme con Francesco Vettori pur suo parente, uno de’ deputati a complimentare il pontefice Clemente VII. Poichè fu di ritorno a Firenze, si lasciò avvolgere ne’ sediziosi tumulti che agitarono quella città, e coll’eloquenza non men che colle armi sostenne il partito contrario a’ Medici. Ma avendo questi riportato il trionfo, Pietro temendo per se medesimo, ritirossi in una sua villa, ed ivi tutto si diede a’ suoi studj. Morto Clemente VII, tornò a Firenze, e vi si trattenne fino all’uccisione di Alessandro de’ Medici, avvenuta nel 1537, dopo la quale, temendo nuovi tumulti, tornossene a Roma. Ed ecco il bell’elogio che in quel occasione ne fece il Caro, scrivendo a’ 12 di novembre del detto anno a Benedetto Varchi (Lett. t. 1, lett. 3): M. Pier Vettori due giorni sono arrivò qui in casa di Al orisi gnor Ardinghello. Andai subito a visitarlo, e non conoscendomi , per sua gentilezza, e penso per vostro amore, mi fece gratissima accoglienza. Non vi potrei dire, quanto nel primo incontro mi [p. 2218 modifica]2218 LIBRO sia ito a sangue, che mi par così un uomo , come hanno a esser fatti gli uomini Io non parlo per le lettere, eli egli ha, che ognuno sa, di che sorte le sono ,* e me non sogliono muovere punto in certi, che se ne compiacciono , e ne fanno tuttavia mostra; ma in lui mi pajono tanto pure e le lettere e i costumi , che gli partoriscono lode e benevolenza insieme. In somma quella sua modestia mi s’è come appiccata addosso. Ma breve fu ancor questo soggiorno!; e il Vettori, tornato a Firenze, fu nel 1538 dal duca Cosimo nominato pubblico professor di eloquenza greca e latina. Con qual onore sostenesse egli per molti anni quella cattedra, ne sono pruova e i molti scolari eli1 egli ebbe, celebri poscia ne’ fasti della letteratura , e gli onori che ricevette da nobilissimi personaggi che vollero udirlo insegnare, fra i quali il cardinale Alessandro Farnese mandò in dono al Vettori un vaso d’argento pieno di monete d’oro, e Francesco Maria duca d1 Urbino gli fece dono di una collana d’oro. Paolo III, grande stimatore de’ dotti, bramò di averlo alla sua corte, ma il Vettori amò meglio di proseguire ad esser utile a’ suoi cittadini. Giulio III, a cui fu egli mandato dal duca Cosimo a prestare omaggio in suo nome, gli donò egli pure una collana d’oro , e I’ onorò del titolo di conte e di cavaliere. Ma di ciò non fu pago Marcello II, successore di Giulio. Ei volle ad ogni patto aver seco il Vettori in Roma, e pensava di conferirgli la segreteria de’ Brevi. E il Vettori troppo amava e stimava questo pontefice per non secondarne le brame. Chiesto dunque il suo [p. 2219 modifica]TF.RZO 2 219 congedo, sen venne a Roma. Ma appena egli \ \ giunse, Marcello fu tolto alla Chiesa da immatura morte; e il Vettori dolentissimo di tal perdita, fece ritorno a Firenze e alla sua cattedra, eli’ egli poscia sostenne sin quasi al fine della sua vita, senza mai cessare al tempo medesimo di giovare alle lettere colle sue dotte fatiche. Morì aT8 di dicembre 1585, e fu onorato di solenni esequie nella chiesa di S. Spirito, ma più ancora dal comun dolore de’ dotti, che pianser la perdita di un uomo che tanto vantaggio avea recato alla letteratura, e che al tempo medesimo co’ suoi innocenti costumi, colle amabili sue maniere, colle sue più rare virtù si era acquistato non sol la stima, ma l’amore di tutti. Appena è possibile il dare un’idea delle grandi fatiche dal Vettori intraprese a promuovere e a perfezionare i buoni studj. Egli occupossi con incredibil sofferenza a migliorare l’edizioni degli antichi scrittori greci e latini, confrontando tra loro diversi codici, scegliendone le migliori lezioni, e rendendo ragione della sua scelta , e spiegandone i passi più oscuri. Così a lui dobbiamo una bella edizione dell’Opere di Cicerone, fatta in Venezia da’ Giunti, a lui gli Scrittori antichi d’Agricoltura riveduti e corretti, a lui le Commedie di Terenzio, le Opere di Varrone e quelle di Sallustio più esattamente dato alla luce. L7> letlra di Euripide, e varie opere di Michel d’Efeso, di Demetrio Falereo, di Platone, di Senofonte , d1 Ipparco , di Dionigi d’Alicarnasso , di Aristotele, le Tragedie di Eschilo, le Opere di Clemente Alessandrino furon da lui o [p. 2220 modifica]3H20 imno pubblicate la prima volta nel loro original greco , o corrette e migliorate. Pregiatissimi poi sono i Comenti da lui scritti sulla Rettorica , sulla Poetica, sull’Etica e sulla Politica d’Aristotele, e sul libro di Demetrio Falereo della Elocuzione. Ne’ trentotto libri delle sue Varie Lezioni egli esamina e spiega infiniti passi di antichi scrittori; e quale studio avesse egli fatto nella lor lingua, ben il dimostra il colto ed elegante stile con cui le opere del Vettori sono distese. Aggiungansi e le molte orazioni e le moltissime lettere italiane e latine, e alcune poesie che se ne hanno alle stampe, e l’elegante trattatello italiano della Coltivazion degli ulivi, oltre più altre opere inedite, delle quali tutte si potranno vedere più minute notizie a piè della Vita sopraccennata. Solo vuolsi ad essa aggiugnere che più di recente ne sono state pubblicate tre lettere italiane a Guglielmo Sirleto poi cardinale (Lagomarsin. Not. ad Epist Pogian. t. 4, p. 441 ec-)> e quattro pure italiane a Francesco Bolognetti (Anecd. rom. t. 1, p. 399, ec.). Questo brevissimo cenno , che della vita e dell’opere del Vettori abbiam fatto , basta a persuaderci che non vi è forse scrittore del secolo xvi, a cui la lingua latina e la greca debba più che a lui, e eli1 egli perciò si rendette degnissimo di quel breve ma magnifico elogio che ne fece Alberico Longo, dalla cui bocca Sebastiano Regolo racconta di aver udite queste parole: Ego Ferrariae de doctissimis illis viris nudivi, Petnirn Vie tori uni eum unum esse, qui scriptis suis, oratione, pecunia et publice et privatim, omni denique [p. 2221 modifica]TERZO 31! 21 studii et officii genere bonamm nrtir/m studiosos onines prosequatnr (CL Viror. Epist. ad P. Victor, t. i, p. 70). XII. Benchè non tenesse mai scuola in alcuna pubblica università, non dee però qui passarsi sotto silenzio Bartolommeo Ricci, clic ebbe l’onore di esser maestro a due principi Estensi. Ne abbiam la Vita premessa alla ristampa delle sue Opere, fatta in Padova nel 1748, alla quale però potrem fare alcune non inutili giunte. Egli era di Lugo nella Romagna, e vi nacque nel i49°Nella citata Vita si afferma ch’egli studiò in Ferrara. Io di ciò non trovo indicio; e veggo anzi ch’ei dice di essere stato scolaro dell’Amaseo in Bologna: Romulum Amasejum... cum Bononiae ejus auditor essem... sum admiratus (De Imit. l. 2). Sembra probabile che da Bologna passasse a Padova ove molto giovossi della conversazione di Andrea Navagero (Op. t. 2, p. 23), e che di là si trasferisse a Venezia nel 1513, ove da Marco Musuro fu, ad istanza del Navagero, amorevolmente accolto (ib. p. 229), ed istruito nelle lettere greche, di’ ei fosse pubblico professore d’eloquenza in Venezia, come nella Vita si afferma, io non ho lumi nè a negarlo, nè a provarlo. Ben è certo ch’ei fu per più anni in casa di Giovanni Cornaro maestro di Luigi di lui figliuolo, che fu poi cardinale: ove però egli ebbe la sventura di perdere alcune sue opere all’occasion di un incendio che si eccitò nel palazzo da lui abitato. Poichè il suo discepolo cominciò ad essere impiegato ne’ pubblici affari, il Ricci fu per qualche tempo maestro in un luogo ch’egli [p. 2222 modifica]2 23 2 LIBRO appella Civitatula (ib. p. 4°9)> e c^e è probabilmente Cittadella, picciola città tra Padova e Bassano. Tornossene poscia a Lugo, ove nel 1534 prese in sua moglie Flora Ravana, e poco appresso passò a Ravenna a tenervi pubblica scuola. Una mortal malattia, da cui fu posto in gran pericolo della vita, nel 1538 gli fece bramare mutazion di soggiorno; e cominciò ad adoperarsi per mezzo di Celio Calcagnini per esser chiamato a Ferrara precettore del principe Alfonso figlio del duca Ercole II. Il Ricci si vanta talvolta di essere stato spontaneamente chiamato a quella corte (De Consil. Princip.)’ ma a dir vero, non senza ragione gli rimproverò Gasparo Sardi in occasion di una lite che con lui ebbe, ch’egli erasi proccurato colf opera del Caleagnini quell1 onorevole impiego, di che fanno indubitabile testimonianza le lettere del Ricci medesimo (l. cit. p. 532, ec.) e del Calcagnini, dalle quali anzi raccogliesi che anche la mediazione dell1 Amaseo e di Lazzaro Buonamici fu adoperata (Calcagn. Op. p. 160, 168). Non è dunque vero, ciò che nell1 accennata Vita si afferma, ch’ei venuto a Ferrara, prima fosse per due anni professore in quella università, e che poscia venisse chiamato a corte; perciocchè tutto il seguito delle lettere del medesimo Ricci ci mostra che nell’anno 1539 ei si trasferì a Ferrara, per istruire il principe Alfonso, a cui, dopo qualche anno, si aggiunse il principe Luigi di lui fratello, che fu poi cardinale. Ei fu assai caro ad amendue questi principi (*), e ottenne (*) Sommamente onorevole al Ricci c il chirografo [p. 2223 modifica]TERZO 2223 ancora la stima de’ dotti eh’erano allora in Ferrara. Ma forse l’avrebbe avuta maggiore, s’ci non si fosse mostrato alquanto gonfio del duca Alfonso II de’ 15 di maggio 1561, con cui ordina a’ fattori suoi generali di dargli l’investitura con titolo di feudo di una possesione detta la Vindina nel territorio di Lugo: Dilettissimi nostri. Ci sentiamo grandemente obbligati all’eloquente Oratore, et da noi molto amato Precettore nostro M. Bartolomeo Ricci non tanto per l’esatta sua diligenza , quale mentre fossimo sotto la sua disciplina in la nostra puerile elude cessò mai con tutto l’animo usar per introdurci in la intelligenza de le buone lettere, quanto per le amorevolissime ammonizioni , ottimi ammaestramenti, et laudatissimi ricordi , che continuamente ci faceva, adducendoci anche varii esempii de’ huomini illustri sì antichi, come moderni, acciò sostenessimo, et sapessimo conservare con gloria et laude la dignitade et grandezza di Casa nostra ad imitazione degli nostri Antenati. Questi ufficii, aggiunta la sua singolar divozione et fede verso noi, ce l’hanno fatto carissimo, et degno , che lo connumeriamo fra quelli, verso quali intendiamo di mostrare segno della nostra gratitudine , et liberalitade. Per questo habbiamo deliberato, ec. Nell’investitura poi egli è detto Bartolommeo figliuolo di Melchiorre de’: Ricci. Una lettera del duca Ercole II al commissario di Lugo, scritta da Ferrara a’ 9 di maggio del 1536, la qual conservasi in questo archivio segreto, da cui pure si è tratto il suddetto chirografo, dimostra ch’egli era allora maestro in sua patria; perciocchè il duca gli ordina di fare in maniera che quella comunità paghi al Ricci lo stipendio che doveagli come a maestro, nè più lo meni in parole. Alcune lettere del Ricci medesimo conservansi in questo archivio. In una de’ 26 di febbraio del 1 S’SS scrive al principe di Ferrara, suggerendogli alcune riflessioni su un Forte di legno che avea veduto fabbricarsi sulle rive del Po. In un’altra, che non ha data, al duca Alfonso II, scrive in favore di Cristoforo Rizzo suo cugiuo, ch: era prigione in [p. 2224 modifica]222/) LIBRO del suo sapere. Ecco, com’egli scrive a Battista Saraco di alcune delle sue opere: Ego de imitatione tres libros jam multos annos edidi, opus plane absolutum atque perfectum; idem in orationibus, in duobus Epistolarum libris ad Atestios Principes , de Consilio Principis ad Ferrinium, in multis item aliis scriptis feci, atque etiam in multo pluribus sum propediem facturus. Quae publicata sunt a Principibus rei Literariae aetatis nostrae Bembo, Bonamicio, Amasejo etc. etc. valde sunt comprobata. Quae vero privatim leguntur, ipse optime nosti, quam editis sint simillima, qui nostros libros de Gloria laudibus in Coelum effers, qui de reliquis XI Orationibus, qui de decem Epistolarum libris ad amicos et familiares scriptis id palam dictitat, aurum esse meam dictionem (l. cit. p. 504). Abbiamo altrove accennata l’aspra contesa ch’egli ebbe con Gasparo Sardi, di cui non solo confutò l’opinione, ma cercò ancora di rendere ridicola la persona (l. 3, c. 1, n. 56). Anche all’Alciati ei mosse guerra, Lugo e si solloscrive: Rai’ lholoinruco Ricci suo Maestro. Più degna di riflessione è un’altra al dura Ercole 11, all’occasione della contesa ch’egli ebbe col Sardi. In essa molto risentitamente si duole ebe il duca gli abbia vietalo di rispondere alle calunnie che d Sardi colle stampe avea contro di lui divolgate; espone tutte le arti dal suo avversario usate per infamarlo; e minaccia di prender congedo , se non gli è permesso di rispondergli. La lettera non ha data; ma poiché in essa egli dice che eran nove anni, dacché era stato chiamalo al servigio di quella corte, convieu dire eh’essa fosse scritta circa l’anno 1547* Né sappiamo qual frutto egli uc ricavasse. [p. 2225 modifica]TERZO 2225 riprendendolo, come se non avesse ben intese e spiegate alcune voci latine. Un uomo tale non è a stupire se si rendesse odioso a molti, e se vi fosse chi tentasse di avvelenarlo. Ma curatone in tempo, ei visse poscia fino all’età di settantanove anni, e venne a morte nel 1569. Le orazioni e le Lettere formano la principal parte delle opere del Ricci, di cui alcuni altri opuscoli veggonsi nell’indicata edizione, e i tre libri singolarmente De Imitatione, lodati assai in una sua lettera dal Bembo (l. 6 Famil. ep. 38), e ne’ quali di fatto ci dà riflessioni e precetti molto pregevoli, benchè talvolta egli usi di una troppo severa critica, come allor quando ei tutte condanna al fuoco le Poesie d;Ovidio, perché o immodeste, o triviali. Ne abbiamo ancora una commedia in prosa italiana, intitolata Le Balie, che, a parer del Quadrio (t. 5, p. 88), dee annoverarsi tra le belle d’Italia * e alcune Rime se ne hanno ancora in qualche raccolta. Ma l’opera intorno alla quale egli più affaticossi, fu quella a cui diede per titolo Apparatus latinac locutionis, clic è in somma un lessico latino diviso in due parti, nella prima delle quali tratta ampiamente e con ordine alfabetico di tutti i verbi, nella seconda assai più compendiosamente de’ nomi, accennando i verbi con cui essi congiungonsi. Quest’ordine fu forse quello che non permise all’opera l’aver quell’applauso che il Ricci sperava. Egli la fece a sue spese stampare in Venezia nel 1533, ed è piacevole a leggersi una lettera da lui poscia scritta al Flaminio , in cui si duole di averne vendute poche copie, e ne rigetta la colpa sullo [p. 2226 modifica]2226 Llimo stampatore e su’ libri, dicendo, come anche al presente udiamo dirsi da molti, che costoro ne chieggono a’ compratori un prezzo tre volte maggior del giusto, affinchè restando invenduto il libro, il povero autore sia costretto a rilasciarne loro le copie per cambio con altri libri, e così poi venderle a lor profitto*, e duolsi ancora che il Grifio abbia fatta una nuova edizione dell’opera stessa, stampandone fino a tremila copie (l. cit p. 405). Per ciò che appartiene allo stile del Ricci, io veggo che alcuni il dicono elegantissimo, e lui annoverano tra’ più felici imitatore di Cicerone. Ma io confesso che benchè a quando a (quando ei mi sembri scrittore assai elegante, parmi però non sempre uguale a sè stesso, e spesso ancora duro e stentato, come suole accadere a chi non si è perfettamente e felicemente formato sul modello degli antichi scrittori. XIII. A questi celebri professori un altro deesi qui aggiugnere, benchè egli pure appena mai salisse cattedra di sorta alcuna, il quale da alcuni fu sollevato alle stelle come il più grand’uomo che mai vissuto fosse al mondo, da altri maltrattato e deriso come un solenne impostore. Parlo di Giulio Cammillo soprannomato Delminio, di cui, anche dopo la Vita scrittane dal conte Federigo Altan di Salvarolo (Calogerà, N. Racc. t. 1, p. 2/j 1), molte cose restano a ricercare. E io entrerò a parlarne alquanto piu stesamente che non ho fatto degli altri soprannomati professori, perchè il farlo gioverà a conoscerne sempre meglio il carattere. Della nascita e del padre di Giulio abbiamo [p. 2227 modifica]TERZO 3327 alcune curiose notizie in una lettera del Castelvetro a Filippo Valentino, pubblicata dal dottor Domenico Vandelli (Calog. Racc. t. 47, p, 431). M. Giulio Camillo, il cui nome, quanto a mia notizia pervenne, già dodici anni sono passati (la lettera non ha data), era Bernardino , il padre Pievano sostituito di Villa , la patria una Villa del Friuli. E quanto alla patria, lo scrittor della Vita dimostra, coll’autorità di Jacopo Valvasone amico contemporaneo del Cammillo, che fu Portogruaro nella detta provincia; ma che ,il padre di lui era nato nella Dalmazia. Al che sembra coerente ciò che Francesco Patrizj, nella dedicatoria del secondo tomo dell1 Opere del Cammillo, alleluia , eli1 ci si volle soprannomare Delminio da Delminio città della Dalmazia , ove suo padre era nato, e ciò che il Castelvetro segue scrivendo, cioè che il Cammillo avea di fresco scritto a m. Francesco Greco, ch’egli era di nobilissima e ricchissima famiglia ne’ confini della Croazia; ma che dovendosi le sostanze divider tra molti, egli era passato in Italia, e poscia anche in Francia; che ora altri de’ suoi non restava che una vecchia, la quale con grande istanza chiamavalo a casa; che perciò pregava il Greco a sovvenirlo di tanti denari, che possa andar quivi con due servidori; e se tanti denari non ha, che vi andrà con uno , o se ancora tanti non ha che anderà con niuno , ma solo; e se ancora tanti non ne havesse , che v anderà a piede, non potendo a cavallo; ma che il Greco gli avea risposto , che non ha denari alcuni pur da far le spese Tuuboschi, Voi. XIII. 17 [p. 2228 modifica]2228 LIBRO a se stesso, non che n’abbia da dare altrui (T andare in Croatia. Se questa fosse un’ nivenzion del Cammillo per trarre dal Greco denari, o se la cosa fosse veramente così, chi può indovinarlo? Non è sì facile a diffinire in qual anno nascesse; perciocchè Girolamo Muzio in una sua lettera dice che quando Giulio andossene la prima volta in Francia , passava i quarantacinque annii Muzio, Lettere, p. 170, ed. fir. 1590), e ciò fu, come vedremo, nel 1530; e in un’altra, citata da Apostolo Zeno (Lettere a monsig. Fontani ni, p. 207), afferma che quando morì, era in età di sessantacinque anni; e vedremo eli’ egli morì nel 1544. Ma a un dipresso si può argomentare che nascesse circa il 1480. Lo scrittor della Vita e il Papadopoli (Hist. Gymn. patav. t. 2, p. 256), citando un non so (qual Michele Giustiniani, scrittore, credo io, diverso dall’autore degli Scrittori Liguri, narrano che, mandato in età fanciullesca a Venezia, vi apprese gli elementi della lingua latina, e che fu nell’italiana istruito da un mercatante fiorentino, di cui il padre di Giulio era sensale; e che, a spese dello stesso mercatante, mandato a Padova, vi ebbe poscia a maestro il celebre Lazzaro Buonamici; anzi il Papadopoli aggiugne che questi in una sua lettera il nomina tra’ suoi più cari discepoli. Ma nè io ho potuto trovar questa lettera, nè il Cammillo potè essere scolaro del Buonamici, che non cominciò a tenere scuola in Padova che nel 1530, quando il Cammillo avea ornai cinquant’anni , e quando appunto egli andossene [p. 2229 modifica]TERZO 2229 in Francia la prima volta. Se dunque il Cammillo studiò in Padova, il che non è improbabile, ciò dovett’essere sotto altri maestri. Il sopraccitato scrittor della Vita dice eh* ei ili poscia maestro in S. Vito terra del Friuli, indi in Udine, e finalmente professore di dialettica in Bologna. Gli autori ch’ei cita in pruova della scuola dal Cammillo tenuta in S. Vito e in Udine, sono non poco posteriori di tempo. Nondimeno è certo che nel 1528 egli era in S. Vito , come ci mostrano due lettere da lui scritte al conte Antonio Altan di Salvarolo e a Bernardino Fratina (Camillo, Op. t. 2, p. 223, ed. ven. 1560); ed è verisimile di’ ei vi fosse per T accennato motivo. Ch’ei fosse ancora alcuni anni prima, cioè nel 1521, in Bologna , raccogliesi da un’altra lettera da lui scritta dalla detta città in quell’anno ad Agostino Abbioso (ivi, t. 1, p. 295), dalla quale ancora si trae che in addietro era stato professore di loica: Ho ricevuto lettere da uno gentilhuomo et castellano del Friuli... il quale per esser stato altre volte sotto la nostra disciplina, mentre leggeva Loica... mi prega strettamente, dì io gli trovi casa più vicina, c/ì io possa , a quella in che albergo. Ma queste parole ci mostran bensì di’ egli avea tenuta scuola di loica , ma non clic f avesse tenuta in Bologna. Certo di lui non fa alcuna menzion l’Alidosi. E parmi più probabile ch’ei fosse ivi per suo trattenimento, o per trovar qualche appoggio con cui sostentare la vita. Così sappiamo di’ ei fu qualche tempo in Genova con Stefano Sauli, come altrove si è detto (par. 1). [p. 2230 modifica]2230 LIBRO Un’altra lettera cel mostra in Venezia nel luglio del 1529 (l. cit. p. 294) 7 e un’altra di nuovo in Bologna a’ 18 di febbraio del 1530 quando ivi era Carlo V per ricevere la corona imperiale (ivi. t. 1, p. 208). Ma allora era egli vicino a intraprendere il primo suo viaggio verso la Francia, di cui parla nella medesima lettera. XIV. Non avea finallora il Cammillo pubblicata opera alcuna; ma andava seco medesimo meditando il disegno di un cotal suo teatro, in cui, come dice egli stesso (ivi, p. 212); dovean essere per lochi et imagi ni disposti tutti quei luoghi , che posson bastare a tener collocati , et ministrar tutti gli humani concetti, tutte le cose, che sono in tutto il mondo, non pur quelle, che si appartengono alle Scienze tutte et alle arti nobili et meccaniche. Questo teatro doveva esso venire adombrato sol colla penna? dovea essere disegnato colla pittura? dovea esser fabbricato o di legno , o di pietre? Chi può indovinarlo? Io credo che lo stesso Cammillo non bene il sapesse. Ei ne diede , come vedremo , l’idea , che forse da lui medesimo non fu intesa. N i fu chi poscia la disegnò col pennello; e taluno ancora afferma che lo stesso Cammillo ne mostrò l’esecuzione in una gran macchina di legno, di che tra poco diremo. Ma in qualunque modo fosse questa idea sensibilmente spiegata, gran rumore se ne fece allora in Italia per le ampie promesse che l’inventor di essa faceva di voler in brevissimo tempo insegnar tutto ciò che dall’umano intelletto si potesse comprendere, [p. 2231 modifica]TERZO 223I singolarmente per riguardo all’eloquenza. Parve a lui che l’Italia non fosse bastevol campo alle sue vaste idee; e bramava di andarsene in Francia , e al re Francesco I, che a tutti i dotti era noto per la sua splendida munificenza verso le lettere, comunicare i suoi grandi disegni. O egli cercasse di farsi conoscere a quel monarca, o questi ne udisse ragionar da altri, è certo che il Cammillo fu a quella corte chiamato, e ch’egli andovvi col conte Claudio Rangone, detto da lui ornamento della nobiltà di questo secolo (ivi, t. 1, p. 34), e con Girolamo Muzio. Che ciò accadesse nel 1530, provasi non sol dalla lettera poc* anzi accennala, ma da un’altra ancora di Andrea Alciati, scritta da Bourges. nel settembre dell’anno stesso a Francesco Calivi: Accepi, gli scrive egli (post Gudii Epist. p. 109), et in Aulam venisse Julium quemdam Camillum a Foro Julii, doctum hominem qui Regi obtulerit, brevissimo tempore, puta mense, facturum se, ut res tam eleganter Graece et Latine, prosa et verso sermone dicere possit, quam Demosthenes, et Cicero, et Virgilius, aut Homerus, dum horam diurnam illi Rex solus praestare velit; nolle enim ea arcana inferiori cuiquam a Rege patefieri, et nec id quidem gratis; sed redditum annuum duorum millium aureorum in sacerdotiis pro mercede petere. Persuasit constantia vultus ipsi Regi; bis interfuit docenti, emunxitque illi sexcentos aureos , et dimissus est. Vereor, ne in fabulam res transeat. Ma Gaillard nella sua Vita di Francesco I, dopo aver narrato ciò che dall "Alciati udito abbiamo, soggiugne (t. 7, p. ’a5o) che [p. 2232 modifica]2l32 LIBRO altrove si legge (ma egli non cita autore) che un certo Giulio Cammillo gran cabalista, assai versato nelle lingue orientali, oratore e poeta latino, presentò al re una gran macchina di legno, in cui vedeansi in un certo ordin disposti i principi! dell* arte oratoria, tratti da Cicerone e da altri scrittori; ch’essendo quell’ordine sembrato ingegnoso al re Francesco gli donò 500 ducati; e che dicesi che il Cammillo impiegasse quarant’anni, e cbe spendese i5oo ducati in tal lavoro; e conchiude che questo fatto, benchè narrato alquanto diversamente, è forse lo stesso che narrasi dall’Alciati. Io non ne dubito punto; perciocchè il Commillo nelle sue opere si mostra pazzamente perduto dietro alla cabala, e sfoggia nell’erudizione della lingua ebraica. Ma che egli offrisse al re quella macchina, e che tanto tempo e tanti denari vi avesse gittati, io nol crederò facilmente; perciocchè non v’ ha scrittoi’ di que’ tempi che ci parli di macchina dal Cammillo posta in esecuzione. Più degno di fede è il racconto del Muzio, compagno del Cammillo in quel viaggio, il quale così ne dice: La prima volta, che Giulio Camillo andò in Francia, egli ed io facemmo quel viaggio insieme col Conte Claudio Rangoni, et insieme stemmo a quella Corte per molti mesi. Vi andò Giulio Camillo domandato dal Re; fu rattenuto parecchi mesi avanti che potesse render ragion delle cose sue, et alla fine la rese presente il Cardinale di Lorena et il Gran Maestro di Francia, che fu poi fatto Gran Contestabile. Il aveva Giulio Camillo da tornare a Vinegia per ritornare poi a [p. 2233 modifica]TERZO 2 233 ’ firmarsi in Francia; quel Re così grande et così liberale gli fece dare seicento scudi. (Muzio , Lettere, p. 72, ed. Fir. 1590). Certe an; cor sono le ampollose promesse eh1 ei lece aì re; ed egli non pago di esprimerle colla voce, le pubblicò ancora nelle sue opere: O Christianissimo, dic’egli egli (c. p. 210), o felicissimo Re Francesco, questi sono i thè sori et le ricchezze dell Eloquenza, che’ l ser\>o di Tua Maestà Giulio Camillo ti apparecchia; queste son le vie per le quali ascenderai alla immortalità; per queste non solamente fieli’ impresa Latina salir potrai a tanta altezza che gli altri Re del mondo perderanno la vista, se ti vorranno in su guardare; ma ancor le Muse Francesche potranno per questi ornamenti andare al pari delle Romane et delle Greche. Viva pur felice la grandezza tua, che se alcuna cosa mancava ne’ molti ornamenti dell altissimo ingegno tuo, la gran fabbrica, che io gli apparecchio, certamente gliela apporterà. Qui ancor si parla di macchina già eseguita, la qual veramente io credo che dal Cammillo non si recasse mai ad effetto, ma che solo con replicate promesse ne tenesse viva fra’ dotti l’espettazione. Tornossene dunque il Cammillo in Italia, ove egli era almen verso la fine i53i, o al principio del 1532, perciocchè in una lettera scritta da Bologna a’ 20 di settembre del 1532 ei dice che dal marzo fino a quel tempo era stato confinato sempre nel letto (Op. t. 1, p. 197). Un’altra lettera scritta a’ 29 di gennaio dell1 anno seguente ci mostra ch’egli era allora in Venezia (ivi, p. 198). Tornossene poscia, non sappiam quando, in [p. 2234 modifica]2234 LIBRO Francia, ove certo egli era a’ 5 di maggio del 1535, come ci addita una lettera che in quel giorno egli scrisse da Rovano in Francia (ivi, p. 311). Nè egli stette ozioso in (quel regno, perciocchè ivi egli scrisse prima il trattato Della Imitazione, poscia quello Delle Meteore. Nel primo egli impugna fra le altre cose il celebre dialogo.di Erasmo intitolato Ciceronianus; ed essendo al medesimo tempo uscita la prima orazione di Giulio Cesare Scaligero contro lo stesso dialogo, Erasmo, ingannato dalla somiglianza del nome, credette che questa fosse opera del Cammillo, e amaramente poi se ne dolse in una sua lettera (Erasm. Epist. t. 2, App. ep. 370). Quello dell’Imitazione fu da lui dedicato al duca di Ferrara Ercole II, e nel principio di esso ei dice che stava per venire di nuovo in Italia col Cardinal di Lorena, ma che il viaggio andavasi già da alcuni mesi differendo. XV. Frattanto il Cammillo ne’ suoi famigliari ragionamenti di altro non parlava che del suo teatro, ch’era perciò l’oggetto de’ discorsi, e talvolta ancor delle risa degli eruditi. Ortensio Landi nel suo capriccioso dialogo intitolato Cicero relegatus, che si suppone tenuto nel 1533, introduce Geremia Landi che, volendo esiliar Cicerone, propone ch’ei sia confinato entro al teatro del Cammillo (p. 14). Aonio Paleario, in una sua lettera che non ha data , così ne scrive: Julius Camillus theatrum exaedi ficai magno sumptu: numquam fuit tanta conspiratio imperitorum, qui putant sine studio ac labore Tulliane se posse scribere. Ad signa [p. 2235 modifica]TERZO 2*i35 stellarum errantium capsulis dispositis schedulas describit.... Rides? Non jocor: grandem pecuniam ab his coegit, quibuscum eloquentiam pollicetur concubituram (Palear. l. 1, ep. 17). J3artoloninieo Ricci al contrario, pubblicando nel 1533 il suo Apparato della lingua latina, nella prefazione ne promise cose ammirabili e portentose: Sed id, ilice egli, a Julio Camillo viro in hac una praecipiendi facultate facile principe cumulate absolutum expectare licebit, qui in suo theatro ita ad sua capita vel unumquodque., quod homini in mentem dicere venire possit, ex ordine digestum habet, ut inde vel infanti Latina oratio in calamum scribenti quam uberrime confluire possit. Quod quidem divinum opus ne aliquo maligno fato nobis intercipiatur (nam aliquot annos ad Regiam voluntates nobis proferri aequo animo perferri potet) summis precibus a Diis immortalibus contendendum est, Con più moderazione ne parlò Pietro Bunello francese in una sua lettera scritta da Venezia: Audieram Patavii esse, qui Julio Camillo partim obscure inviderent, partim aperte ejus existimationem oppugnare non desisterent, quorum institutum equidem laudare non poteram, quod homini, ut ego sentio, optimo ac eloquentissimo, qui nihil de eorum laude aut quaestu detrahere vellet, nulla praesertim ab eo injuria lacessiti, nocere cogitarent. Nam ut largiar illis, quo maxime nituntur, artificium istud nunc primum ab eo excogitatum et inventum omnem fidem excedere, favere tamen pulcherrimis conatibus, non obsistere, debuerant. Gallorum fortasse [p. 2236 modifica]2 236 unno partes istae, fuerint, ei qui per fraudem , ut isti quidem putant., aliquid a Rege auferre velit, aditus omnes praecludere. Ab Italis quidem certe homo Italus in re tam honesta adjuvandus fuit (Epist. cl. Viror, ed. ven. 1568, p. 67). Non erano probabilmente ignoti al Cammillo tali ragionamenti; ma egli, lungi dall’atterrirsene , scrisse il Discorso in materia del suo Teatro a M. Trifon Gabrielle et ad alcuni altri gentilhuomini, in cui dà qualche idea di questo suo sognato teatro; la qual operetta fu da lui scritta mentre era per andarsene in Francia , ma non sappiamo in qual de’ due viaggi già mentovati. Nel 1536 il Cardinal di Lorena venne finalmente in Italia spedito dal re Francesco all’imperador Carlo V che qui allor si trovava (Murati Ann. di tal. ad h. a.), e che il Cammillo con lui venisse, come avea divisato, si trae da una lettera di Baldassarre Altieri aquilano scritta da Modena all’Aretino a’ 28 di aprile del 1536: Domenica, gli scrive (Lettere all’A reti ti 1, p. 302), passò di qua lo Reverendissimo I,oreno. Se ne va in posta a Cesare per acquetare questi tumulti Un giorno dopo passò il suo pedagogo Julio Camillo, penso per non fargli perder tempo ad imparare le sue castronerie. Et bon per lui che s’è accostato ad huomini, che non hanno juditio, che lo possino conoscere (*). Io 11011 so quanto tempo (*) Tra quelli che rimirarono il Cammillo come un impostore, deesi anche annoverare Stefano Doleto; poichè del Cammillo solo può intendersi quell’epigramma di esso, che è intitolato In Italum quemdam, e che comincia: Ardua promittis, solo vel mense disertos Cum te nos juras reddere posse viros. [p. 2237 modifica]TERZO 223^ si trattenesse il Cammillo in Italia, ma è certo ch’ei tornossene poscia in Francia. Ivi però non potè mai il Cammillo trovar quella sorte a cui aspirava , e i duemila scudi di entrata da lui chiesti al re Francesco, non furono che una sua inutile brama. Pensò dunque a partirne. Ma prima di ricondurlo in Italia, vuolsi ricordare un fatto di’ ei narra avvenutogli in Parigi, ma non ci dice in qual tempo; cioè che trovandosi egli con più altri in una sala, un leone, fuggito dalla sua carcere, vi entrò d1 improvviso; e mentre tutti gli altri fuggivano, la fiera a lui accostavasi, il venne dolcemente accarezzando e lambendo, perchè, dice egli ingegnosamente, il leone conobbe in lui esser molto della virtù solare (Op. t. 1, p. t)5). Di questo fatto fa menzione ancor Giuseppe Betussi nel suo Raverta, stampato nel 1544 (p- l^9)j ^ quale introduce a narrarlo lo stesso Raverta che vi era stato presente. Checchè sia di ciò, Giulio venne di nuovo in Italia verso f ottobre del i543, come raccogliam da una lettera di Girolamo Muzio (Muzio, Lettere, p. 66, ed. Fir. i5t)o).* Questo valentuomo fu un di coloro che si lasciaron sedurre dalle belle promesse che faceva il Cammillo; e adoperossi perciò allora col marchese del Vasto, presso cui egli E dopo aver detto che di cotali impostori vi ha in ogni parte gran copia, soggiugne che ciò che a lui è proprio, si è l’arte di raccoglier denaro colle sue impostine: Vi* il ir.-un? nostri Rcges rmungcrp mimmi*: list id , quo doctum vincer»» quemque potes. L. 2 , rui M. 7. [p. 2238 modifica]2238 LIBRO era, perchè il facesse venire alla sua corte, e si facesse spiegar l’idea del suo teatro. Se la soverchia lunghezza non mel vietasse , io recherei qui volentieri due lettere del Muzio a Francesco Calvo (ivi, p. 68), nelle quali racconta in qual modo il marchese s’invaghì di avere presso di sè il Cammillo; come questi, al suo ritorno di Francia , gli venne innanzi in Vigevano, e come sì felicemente spiegogli la sue idee, parlando seguitamente per cinque mattine lo spazio di un’ora e mezza, che il marchese ne fu rapito, e prima ancor eli’ ei compisse la sua spiegazione, gli assegnò un’annua entrata di 400 scudi; e perchè il Cammillo dovea fare una scorsa a Venezia, altri 500 gliene fece dare per viaggio. Queste lettere ci danno una sì bella idea delle amabili maniere e della splendida liberalità di quel gran cavaliere verso i dotti, che non si posson leggere senza sentirsi commuovere a tenerezza , e senza dolersi insieme che tanta munificenza non fosse a miglior uso rivolta. Ma esse al tempo medesimo ci fan conoscere che il Cammillo era uno di quegli eloquenti e facili parlatori-, sulle cui labbra ogni motto sembra un oracolo. Ecco come il Muzio descrive il primo ragionamento che col marchese ebbe il Cammillo: Istandosi il Signore in letto senza altri testimonii, serrata la camera per mano mia di dentro, Giulio Camillo cominciò a render ragione delle sue invenzioni. E per un ora e mezza ragionò con tanta /eli ità di lingua, con tanta abbondanza di cose, e con tanto ordine, che il Marchese ne rimase intronato. A me non pane [p. 2239 modifica]TERZO 223<J cosa nuova, che altra volta l’ho io udito a far con me solo alcuni ragionamenti che mi levavano fuor di me stesso. E vi vo’ dir tanto ora, che mi sono trovato da me a lui a metterlo in sul parlare , e lo ho visto andarsi in modo scaldando, che a poco mi pareva vederlo uscir di sè, ed esser rapito in ispirato sì fattamente, che nel viso di lui e negli occhi suoi mi si rappresentava una tale spezie, di f urore, quale descrivono i Poeti della Sibilla o della Profetessa de’ tripodi (IA polline: il che io non poteva sofferire senza spavento. Prima che il Cammillo partisse per Venezia , il che accadde al principio di febbraio del i.r>44, volle il marchese ch’egli lasciasse in iscritto l’idea del suo teatro; e perchè potesse farlo più agevolmente, ordinò al Muzio che scrivesse ciò ch’ei volesse dettargli: Così adunque ne è seguito, scrive il Muzio (ivi, p. 73), che dormendo noi in una medesima camera in due letti vicini, per sette mattine ad hora di mattino svegliandoci, e dettando egli, e scrivendo io infino al dì chiaro, abbiamo ridotta C opera a compimento. E questa è l’opera che fu poscia stampata col titolo: Idea del Teatro di Giulio Camillo. Questi da Venezia prontamente tornò alla corte del marchese del Vasto; ma poco tempo vi stette, rapito da improvvisa morte in Milano in casa di Domenico Sauli, ove egli crasi al dopo pranzo recato insieme col Muzio. Questi ci ha lasciata la descrizione della funesta fine di Giulio in una sua lettera inedita, parte della quale è stata pubblicata da Apostolo Zeno (Letter. a monsig. Fontan p. 204). Essa [p. 2240 modifica]2 24° LIBRO non è molto onorevole alla memoria del Cammillo; perciocchè ei dimostra che un uomo il quale pareva che altro ricercasse che le più sublimi idee, era più che non conveniva amante de’ piaceri sensuali, e se n’era indecentemente occupato poche ore prima. La lettera stessa non ha data, nè ci indica quando precisamente morisse il Cammillo. Ma ne abbiamo l’epoca nella iscrizion sepolcrale che allora gli fece porre nella chiesa di Santa Maria delle Grazie il suddetto Domenico Sauli, c che è stata pubblicata dal ch. P. Allegranza (De Sepulchr. Christian. p. 132), nella quale il Cammillo dicesi morto a’ 15 di maggio del 1544- Il Muzio stesso ne pianse la morte in una sua egloga italiana (Eglog. p. 8~, cd. Vcn. i55o). XVI. Noi abbiam già rammentate nel formarne la V ita parecchie opere del Cammillo, come il Discorso in materia del suo Teatro, l’Idea del medesimo, i Trattati delle Materie, e dell’imitazione. Dello stesso genere sono La Topica ovvero delti Elocuzione, c il Discorso sopra le Idee di Hermogene, e la traduzione del libro Delle Idee del medesimo Ermogene. Quasi t ut te queste opere del Cammillo non furon date alle Stampe, che poichè egli fu morto; e la gran fama ch’egli avea presso molti ottenuta vivendo, sostennesi ancora per qualche tempo. Il Taegio ricorda una villa di Pomponio Cotta milanese, ove avea egli fatto dipingere il teatro del Cammillo: In questa nobile compagnia, dice egli (La Villa, p. 71), viene il vertuosissimo Sig. Pomponio Cotta lucentissimo lume di divinità, il quale fuggendo talvolta dalle nojosc [p. 2241 modifica]TERZO aa.-j I carceri di Melano > lior cerca nelle solitudini della sua villa di Varè di perder gli altri huomini per ritrovar se stesso Et fra le mirabili pitture, che vi sono, si vede l’alta et incomparabile fabbrica del maraviglioso theatro delI eccellentissimo Giulio Camillo, dove egli con lunga fatica nelle sette sopracelesti misure rappresentate per gli sette pianeti trovò ordine capace, bastante, et distinto, et tale, che tiene sempre il senso svegliato, et la memoria percossa, et fa non solamente ufficio di conservarci le affidate cose, parole, et arti, che a man salva ad ogni nostro bisogno si possano trovare, ma ci dà ancora la vera sapienza, nei fonti della quale veniamo in cognizione delle cose dalle caggioni, et non dagli effetti. Ma ora chi può avere la sofferenza di legger l’opera del Cammillo? Io sfido coloro che ci vorrebbono persuadere ch’egli avesse chiaramente svolta l’idea del suo teatro, a spiegarci qual essa sia veramente, e a comentare le opere di questo scrittore in modo che vengano intese. Un capriccioso intreccio di astrologia giudiciaria, di mitologia, di cabala e di mille inutili speculazioni, ecco tutto il fondamento dell’ammirabile teatro del Cammillo, nelle cui opere la vera erudizione, il buon gusto, il senso comune si cerca invano. S’ei mi si mostrasse versato nella lettura de’ migliori scrittori, s’egli scrivesse in maniera ingegnosa sì e sottile, ma pure intelligibile da chi non è del tutto privo di lumi, io gli perdonerei volentieri gli errori ne’ quali fosse caduto. Ma nel Cammillo io non veggio che un 1101110 che cerca di raggirare i lettori [p. 2242 modifica]2 2.J2 LIBRO in un inestricabile labirinto, acciocchè essi non trovando la via di uscirne, e credendo a lui ben note le vie per le quali li va conducendo, per poco nol credano un uomo divino. Aggiungasi che un uomo il quale si dichiara di non voler comunicare i suoi alti segreti che a’ re e a’ gran personaggi, che ne chiede prima per ricompensa un’annua entrata di duemila scudi, che promette le più gran cose del mondo, senza poter additare una pruova visibile del riuscimento delle sue idee; un uomo tale, io dico, a me sembra un solenne impostore. E tale in fatti lo giudicò saggiamente il Giraldi che del Cammillo così ragiona: Fuit Julius Camillus Forojuliensis Polyhistor, qui in disciplinis novas quasdam methodos se. invenisse gloriabatur, ut Theatrum illud suum, quo miraculose conclusas disciplinas praedicabat, ad ostentationem et quaestum potius quam ad erudiendos credulos adolescentes, unde non modo ab amicis, sed et a principibus viris grandem pecuniam iterdum extorquebat. Vidi vero ejus pleraque carmina cum Latina, tum vernacula, non inerudita illa quidem, sed quasi invitis Musis et Minerva composita, quorum et nonnulla suis ipse commentariis est interpretatus. Certe dum vixit, multos in sui admirationem convertit (De Poetis suor, temp. dial. 2). Di lui abbiamo ancora l’Artificio della Bucolica di Virgilio, la Sposizione di alcune Rime del Petrarca, e un Trattato di Gramatica, opere scritte sul medesimo stile delle altre; due orazioni da lui composte in nome di Cosimo Pallavicino, e da questo dette in favor del vescovo suo fratello [p. 2243 modifica]TERZO 2243 innanzi al re di Francia, inserite in diverse Raccolte di orazioni d’uomini illustri, ma poco degne di un tal onore; alcune lettere e alcune poesie italiane, scritte in uno stile assai gonfio , e che molto s’accosta a quello del secolo xvii. Un’orazione latina scrisse egli ancora in difesa del suo Teatro, diretta a’ Francesi, e stampata nel 1587, della quale non mi è lecito dar giudizio, perchè non l’ho avuta sott’occhio. Se ne hanno ancora alcune poesie latine, e un componimento in lode del marchese del Vasto ne ha pubblicato il più volte citato autor della Vita; ed esso ci mostra che nel poetare latinamente non avea il Cammillo eleganza e grazia maggiore che nelle sue rime. Di alcune altre opere che ne rimangono manoscritte, e che possiamo sperare che si lasceranno giacer tra la polvere di cui son degne, si parla nella Vita medesima, e alcuni sonetti inediti ne rammenta Apostolo Zeno (Lettere a monsig. Fontan. p. 190). XVII. Più saggiamente scrisse dell’Arte rettorica Bartolommeo Cavalcanti, comunque egli non ne fosse mai professore. Ei fu di patria fiorentino, e nato di nobil famiglia nel 1503. Negli anni suoi giovanili, i tumulti della sua patria il costrinsero a trattar le armi più che i libri. Ei diè segno nondimeno non solo del suo valore, ma ancor della sua eloquenza, in una orazione che nel febbraio del 1530, armato in corsaletto, recitò in S. Spirito alla milizia fiorentina, e in un’altra che disse nel maggio dell’anno medesimo sopra la libertà (V. Zeno, Note al Fontan. t. 1, p. 90). La prima fu data alle Tiraboscui, Voi XIII. 18 [p. 2244 modifica]2244 LIBRO slampe; ma letta piacque meno che udita. Nelle guerre de’ Fiorentini contro de’ Medici, ei fu sempre del partito a questi contrario. Non fu però mai esule dalla patria, e solo nel 1537 dopo l’uccisione del duca Alessandro e l’elezione di Cosimo, ei fece volontaria partenza dalla sua patria Credesi comunemente ch’egli allora passasse a Roma. Ma a me sembra verisimile che fosse prima in Ferrara, e me lo persuade la stretta amicizia ch’egli ebbe con Bartolommeo Ricci e con Giambattista Pigna; l’esortarlo che fece il Cardinal Ippolito II di Este a scriver la sua Rettorica, dal qual cardinale ei dice ancora nella dedica di essa di essere stato incaricato di gravi a Ilari presso il re di Francia Arrigo II; e il cenno che dà il Ricci in una sua lettera del grado di suo famigliare a lui dato dal duca Ercole (Op. t. 2, p. 172) (*). (*) Io ho congetturato che il Cavalcanti fosse in Francia, e che fosse attaccato al servigio del Cardinal Ippolito d’Este il giovane. Ciò confermasi chiaramente da una lettera del medesimo cardinale, scritta al duca Ercole II suo fratello , da San Sofforino in Francia, a’ 10 di ottobre del 1537, che si conserva in questo ducale archivio, e della quale recherò qui quella parte che al Cavalcanti appartiene. M. Bartolommeo Cavalcanti presente exhibitor se ne ritorna in Italia con animo forse di voler habitare qualche mese in Ferrara. Et essendo egli gentile et vertuosa persona et max. havendola qui in Francia praticata , ch’in effetto m’è riuscita tale, tu’ è parso, havendo egli questo desiderio, di non lassarlo venir a V. E. senza la presente mia in raccomandazion sua, siccome lo raccomando , pregandola, che si degni vederlo volentieri, et in ogni sua occurrenza sì in quella Città, conte in ogrf altro luoco fargli piacer, et usargli quelle dimostrazioni maggiori, che ella [p. 2245 modifica]TERZO 2245 % certo però, ch’ei passò poscia a Roma, e che ivi fu assai caro al pontefice Paolo III, e da lui sovente adoperato in importanti negoziazioni , benchè al tempo medesimo ei non cessasse dal coltivare i suoi studj. Il Pigna in certi versi a lui indirizzati così gli dice: Et qui Pontificis Maximi ad arcana vocatus cs, Si ti magnus studiis nobilibus te retinet Plato, Seu Paulus propriis , quae tibi curanda , negotiis. Negli ultimi anni della sua vita ritirossi a un onorato ozio in Padova, ove morì nel 1562, e fu sepolto in S. Francesco coll’iscrizione postagli da Giovanni di lui figliuolo, che vien riferita dal Tommasini (Inscript. patav. p. 345). La Rettorica del Cavalcanti, stampata la prima volta nel i559, c poscia molte altre volte di nuovo data alla luce, si ha in conto della migliore che in questo secolo si pubblicasse. Essa ancora però ha il difetto alle altre comune, cioè di riguardare i precetti d’Aristotele come infallibili oracoli, da cui sia grave delitto allontanarsi e il prendere a norma degl1 insegnamenti, più l’altrui autorità, o un’astratta speculazione , che la voce della natura, sola e vera guida cui l’arte dee seguire nell’eloquenza. Pregevoli ancora ne sono i Trattati sopra gli ottimi reggimenti delle Repubbliche antiche e moderne, stampati nel 1555. Un’altra stessa judicharà convenirgli, et ol’re che fr. Ex. farà piacer a questo Gentilìiuomo, che poi gli ne sarà molto Servidor, io di ciò, usandole qualche avantaggio per amor mio, gli ne resterò con obbligo grande, ec. [p. 2246 modifica]2246 LIBRO opera di somigliante argomento, cioè un Comento su’ tre primi libri della Politica d’Aristotele in lingua italiana, avea egli scritto di cui parla con molta lode il Pigna in una sua lettera scritta nel 1569), dicendo che poco prima della sua morte aveagli ciò narrato il medesimo Cavalcanti , e aggiugnendo eh1 egli temeva ch’essa cadesse nelle mani di qualche plagiario (Cl. Viror. Epist. ad P. Victor, t. 2, p. 41 Ei tradusse innoltre dalla lingua greca nell’italiana la Castrametazion di Polibio. A lui per ultimo fu attribuito da alcuni il giudizio sopra la Canace di Sperone Speroni; ma già abbiamo altrove avvertito che non v’ lia argomento che basti a provarlo. XVIII. Io potrei ancora continuare per lungo tratto a far menzione di molti altri che o insegnando dalle cattedre, o dando l’opere loro alla luce, promossero gli studj dell’eloquenza. Ebbe gran nome al principio del secolo Filippo Beroaldo bolognese, detto il giovane a distinzione del vecchio, di cui nel precedente tomo si è detto, che dopo essere stato per qualche tempo professore di belle lettere neh f università della sua patria, fu chiamato al medesimo impiego alla Sapienza di Roma sul principio del secolo, indi nel 1516 eletto bibliotecario della Vaticana, e morì poi dopo due soli anni nell’agosto del 1518. Di questo autore ha parlato a lungo il conte Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 2, par. 2, p. 1017), e alcune altre notizie ce ne ha date il sig. abate Laneellolti nelle sue Memorie della Vita di Angiolo Colocci (p. 5a, cc.), e qualche altra cosa [p. 2247 modifica]TERZO a347 ancora potrebbesi ad esse aggiugnere, tratta dalle Lettere latine del Bembo (l. 3 Fam. ep. 3 , 4, 5; l. 4 * <*p- 20) (a). Oltre le poesie latine di esso , che , benchè siano eleganti, ebbero nondimeno plauso forse maggiore che loro non si dovesse, e oltre la versione latina d’un’orazione d’Isocrate, ne abbiamo le note su i primi cinque libri degli Annali di Tacito, che furono allor ritrovati, e pubblicati per ordine di Leon X. Giammario Mazio bresciano fu per più anni professore d’eloquenza in Alessandria, colà chiamato dal vescovo Girolamo Gallerati; e ivi ancora morì nel 1600 in età di sessantott’anni, dopo aver date alla luce diverse sue fatiche sugli antichi scrittori, e alcune giunte ai Lessici del Calepino e del Nizzolio. Di Lodovico Martelli udinese abbiamo un libro in insulsos ac frigidos Oratore.s, stampato in Venezia nel 1573, in cui egli biasima alcuni che, per sembrare eloquenti oratori, comparivano ogni terzo giorno in pubblico a recitare le lor dicerie su gravissimi affari; cosa, dice egli, che a un saggio ed eloquente oratore non è possibile. Sulla fine del libro ei rammenta la versione latina che avea intrapresa di Demetrio Falereo, illustrata con esempj tratti da’ latini scrittori, ma non sappiam che tal opera venisse a luce. Sebastiano Regolo natio di Brisighella, professore per 25 anni di lettere umane (a) Si può ora vedere l’articolo del co. Faoturz’i intorno al giovane lleroaldo , in cui tulio ciò che a lui c alle opere di esso appartiene, vedrussi diligentemente raccolto (Scritt. bologn. l. i, p. t3(>). [p. 2248 modifica]2 248 LIBRO in Bologna, ed ivi morto, secondo l’Alidosi (Dott. bologn. di Teol., ec. p. 169), nel 1570 in età di cinquantasei anni, oltre una sua orazione e il Comento sul primo libro dell’Eneide, pubblicò le sue Note sulla prima Verrina di Cicerone, illustrandone singolarmente l’artificio oratorio. Ne abbiamo ancora una lettera a Pier Vettori (Cl. Viror. Epist. ad P. Victor, t. 1 p. 70), e tra quelle del Poggiano parecchie ne ha a lui scritte con sentimenti di grande stima (t 1 , ep. 112, 139, ec.). Jacopo Grifoli, il quale, come raccogliam dalle Lettere di Bartolommeo Ricci (Op. ti 2, p. 332) , e da uiT altra di Paolo Manuzio (Manuz. Lettere p. 47;), fu proposto per successore all’Egnazio in Venezia, e richiesto ancora dall’università di Bologna, e fu poi pubblico professor di eloquenza in Vicenza, impugnò il libro del Calcagnini contro gli Ufficj di Cicerone, e scrisse ancora Comenti sulla Poetica d’Orazio, molto lodati da Pier Vettori Epist. l. 2, p. 4°)• Due Italiani furon chiamati a Ragusa a tenervi scuola d’eloquenza; Daniello de’ Clari parmigiano al principio del secolo, a cui Aldo Manuzio dedicò la sua edizione delle Poesie di Prudenzio; e Nascimbene Nascimbeni che colà fu chiamato nel 1561, per opera di Giambattista Amalteo Lettere volgari di diversi , Ven. 1564 p. 192, ec.). Di Gianbernardo Feliciano, che avea nella sua propria casa in Venezia aperta una scuola celebre cf eloquenza greca e latina, troviam menzione nelle Lettere di Lucillo Filalteo, il quale, a lui scrivendo nell’aprile del 1531 , Nimis prudentcr, [p. 2249 modifica]TERZO e 22^9 egli ilice, (Epist p. 74). instituisti domum tuam officinam bonarum et politiorum literarum. Non erti ir. ludum aperuisti pueris et paedagogis, sed ve lui gymnasium his, qui optimarum artium et maxima rum scientiarum elementa et mysteria cognoscere cupiunt.... Quare te aperuisse officinam ejusmodi gaudeo, in qua nobilissimam juventutem cum graece, tum latine institues , et exercebis 1 socratico modo et more, ut vel historiam condere, vel perorare, vel philosophiam interpretati et leges noscat, arte adhibita, et stilo maxime perornato. Di lui parla ancora con molta stima il medesimo Filalteo in altre sue lettere (p. 5i, 95), dalle quali ancora ricavasi che nel 1528 si pensò a condurlo a Bologna con onorevole stipendio; ma non pare che ciò si eseguisse. L’Ali dosi rammenta tra’ professori di belle lettere in Bologna il conte Andrea Bentivoglio, di cui dice (I)ott. bologn. di Teol. p. 11) che dal 1515 lesse umanità le feste, e poi rettorica e poesia fino all1 anno i523. Ma noi non sapremmo ch’ei fosse uomo di molto valore, poichè nulla ne abbiamo in luce, se non ce n’avesse lasciata memoria Giannantonio Flaminio, che in una lettera a lui scritta circa il 1515 loda una Prelezione da lui recitata, dicendo: Dii bonif quo te sucessu auditum (intellexi), quae studia hominum, quot laudes secutas! Quindi esortandolo a continuare nella ben cominciata Carriera: Videor enim , dice, te quidem brevi in eum virum evasurum, qui familiae illustri, qui patriae. , qui denique literis , maximum [p. 2250 modifica]225o LIBRO ornamentum sit allaturus (l. 2, ep. 22). Aggiungansi a tutto ciò le versioni della Rettorica d’Aristotele fatte dal Brucioli, dal Segni, dal Caro, dal Piccolomini e da Matteo Franceschi e quelle dell’Opere retoriche di Cicerone fatte dal medesimo Brucioli, da Orazio Toscanella, da Rocco Cattaneo e da Simon della Barba, dal Dolce e da altri *, e le opere dello stesso argomento date alla luce da Giammaria Memmo, da Francesco Sansovino, da Daniello Barbaro, da Francesco Patrizio, da Mercurio Concorreggio, da Giason de Nores, da Fabio Benvoglienti, da Gabriello Zinano, da Lodovico Carbone di Costacciaro e da più altri, e si vedrà che copiosissimo fu questo secolo di maestri e di scrittori dell’arte rettorica. Qual fosse il frutto che da tante fatiche si trasse , si vedrà nel capo seguente, ove ragioneremo dello stato dell’eloquenza di questo secolo. Frattanto da’ professori d’eloquenza facciam passaggio a’ professori di gramatica, benchè alcuni di essi si avanzasse!’ talvolta o a salir le cattedre , o a scriver precetti d’eloquenza. XIX. Se grande fu il numero de’ professori e degli scrittori dell’arte rettorica, assai maggiore fu quello de’ professori e degli scrittor di gramatica, come necessariamente allor richiedeva , e richiede anche al presente, la gran copia di fanciulli che a quello studio si volge. Ma allora pure avveniva ciò che a me non appartiene a decidere se avvenga anche a’ dì nostri, che fra cento maestri, due, o tre appena si potessero additare a cui un tal [p. 2251 modifica]TERZO 325I nome a ragion convenisse; e la turba de’ rozzi e fastidiosi pedanti era fin da que’ tempi grandissima. Quindi il conte Niccolò d1 Arco, in uno dei suoi Endecasillabi, contro essi si volge , e non pochi ne annovera: Paedagoguli abite, abite pestes, Istinc ferte pedem , invenusti, inepti, Invisi pueris bonis malisque, Abite in miseram crucem, exsecrati, Saecli perniciesque literarum , Limprandi, Metriique, Fusiique, Prandini, Ochinari, atque Juliani. Scopaecque, et Boreae, et Rutiliani. L. 3, carm. Tutti i soprannomati pedanti son uomini oscuri nella repubblica delle lettere. Il solo tra essi che avesse qualche nome a’ suoi tempi, benchè poscia venisse presto dimenticato, fu Lucio Giovanni Scopa napoletano, maestro di gramatica per molti anni nella sua patria, ed ivi morto verso il 1540, autore di una Gramatica, e di alcune altre opere di somigliante argomento, ma uomo di una intollerabile arroganza , e deriso perciò da Jacopo Sannazzaro (Atan. Lettere facete, l. 1 , p. 169, ed. ven. 1582) e da Niccolò Franco, il quale così leggiadramente se ne fa beffe: Chi è quegli, che ogni giorno fa stampare la sua Gramatica? Giovanni Scoppa. Chi è quegli, che ogni giorno ci fa la giunta? Giovanni Scoppa. Chi è quegli, che non compone altro che cose rare? Giovanni Scoppa. Chi è quegli, che poi le vende nella sua Scuola? Giovanni Scoppa. Vedete dunque , che honore sarà quello, che [p. 2252 modifica]2203. LIBRO merita Giovanni Scoppa (Dialoghi, di al. 2, p. 43, ed. Ven. 1600)/ Di lui parla più a lungo il Tafuri (Scritti napol. ti 3, par. 1 , p. 559, ec.). XX. Nulla inferiore allo Scopa nell’arroganza, ma forse superiore alquanto in sapere, fu Gianfrancesco Quinziano Stoa, di cui abbiamo di fresco avuta la Vita, scritta dal sig. Giuseppe Nember, e stampata in Brescia nel 1777, piena di esatte ed erudite notizie, ma nella quale io temo che il dotto scrittore abbia secondate alquanto le favorevoli sue prevenzioni per questo gramatico. Ei nacque in Quinzano nel territorio di Brescia nel 1484 da Giovanni Conti originario da Gandino, terra del Bergamasco , e da Bartolommea Vertumia oscuri e poveri genitori. Ma egli poscia, lasciato il proprio cognome, prese quel di Quinziano, e si aggiunse il soprannome di Stoa. Vogliam noi sapere l1 origine non sol del secondo, ma anche del primo soprannome? Egli stesso ce lo dirà; e ci darà insieme il primo saggio della sua rara modestia. Ci narra egli dunque che essendo fanciullo , egli destava tanta aspettazion di se stesso , e scriveva versi con sì ammirabile felicità, che veniva da tutti detto Portico delle Muse, usando la voce greca Stoa, che significa Portico (Epograph. 2, c. 15); e che i suoi condiscepoli avean di lui tanta stima, che gli davano ad emendare i lor versi, e il chiamavan perciò Quinziano, avendo letto in Marziale che un certo Quinziano era il censor de’ suoi versi (Epograph. 4). Da Brescia, ove fece i primi suoi studj, passò a Padova; c il padre [p. 2253 modifica]TERZO. 2253 avrebbe voluto eli’ ei divenisse un illustre giureconsulto. Ma egli, che non volea lasciare di esser Portico delle Muse, tornossene presto a Brescia e ai primi suoi studj. Il sig. Nember ci narra che lo Stoa, vago di farsi conoscere in paesi lontani, passò circa il 1503 in Francia; che il celebre Ottavio Pantagato , il quale in Parigi faceva i suoi studj, lo accolse amorevolmente; ch’egli vi si fece presto conoscere ed ammirare per modo , che il re Luigi XII lo destinò maestro del futuro suo successore Francesco I; che poscia fu scelto professore di belle lettere nella università, di cui fu anche rettore; e che nel 1508 tornò col re in Italia. Io chieggo licenza a questo valoroso scrittore di proporgli alcuni miei dubbj su questo primo viaggio del Quinziano a Parigi. Il Pantagato certamente non poteva allora essere studente in quella città; perciocchè egli era nato, come a suo luogo si è detto (par. 2), nel 1494 e non recossi a Parigi se non poichè fu entrato nell’Ordin de’ Servi; il che non potè avvenire che verso il 1510. Quali pruove poi si adducono di un tale viaggio? Gli scrittori dicono eli’ ei fu in Parigi. Nè io il nego; ma cercasi a qual tempo. E io non trovo che alcuno c1 indichi lo spazio tra ’l 1503 e ’l 1508;e perciò la loro asserzione si può intendere del viaggio in Francia , che il sig. Nember chiama il secondo, e che io inclino a creder l’unico. In fatti io non trovo alcuna opera dello Stoa stampata in Parigi nel corso de’ detti anni, trattene tre Ode in lode del Cardinal Amboise arcivescovo di Roano, stampate nel 1503. Ma si [p. 2254 modifica]2254 LIBRO rifletta che il Cardinal d’Amboise fu quell’anno in Italia (V. Murati Ann. d Jtal. ad h. a.) f e non è perciò inverisimile che lo Stoa, che abitava in Pavia città allora soggetta a’ Francesi, gli offrisse ivi quelle Ode, e ch’esse dal Cardinal mandate a Parigi, fossero date alla luce. Io veggo al contrario che nello stesso anno 1503 egli pubblicò in Pavia il suo libro De accentu, gli otto libri De Martis et Veneris concubitu, i xii libri intitolati Diariorum, e gli otto libri delle sue Epografie; che nel 1504 diè ivi alla luce la sua Ortografia vecchia e nuova; e che nel 1506 nella città medesima stampò i suoi Distici sulle Metamorfosi d’Ovidio: indicj assai evidenti del soggiorno che ivi allora faceva lo Stoa, il quale, se fosse stato in Parigi, ivi le avrebbe stampate , come poscia fece, quando vi fu veramente. Ch’ei fosse maestro di Francesco I, si afferma da molti scrittori, ma quasi tutti del secolo XVII, l’autorità de’ quali perciò non è di gran peso. Maggior forza pare che abbiano una lettera di Giovanni Planerio contemporaneo e concittadino dello Stoa , da lui però scritta per solo esercizio di stile, e che finge a sè indirizzata da Aldo Manuzio, la testimonianza di Claudio nipote dello Stoa, che in certi suoi manoscritti di ciò fa menzione, e l’Iscrizione al ritratto di esso aggiunta da Giuseppe Giardini, che gli fu pure contemporaneo. Ma ciò non ostante , confesso che io ne dubito ancora. Lasciamo stare il silenzio degli altri scrittori di que’ tempi. È egli verisimile che lo Stoa, millantatore sì glorioso delle sue lodi, non abbia mai in [p. 2255 modifica]TERZO 2255 tante sue opere fatto un cenno di tanto onore, egli che tante altre sue cose di assai minor conto rammenta con sì gran fasto? Il mio argomento è negativo, ma parmi che abbia forza al par di qualunque più forte pruova. Innoltre il re Luigi XII nel diploma della laurea a lui conceduto, di cui tra poco diremo, non avrebbe taciuto un tal merito dello Stoa; e la voce benemerita ivi usata è troppo generale, perchè possa credersi usata per disegnare sì grande onore. Che se pure si volesse ad ogni modo che lo Stoa fosse maestro di Francesco I, converrà differirne l’epoca circa l’anno 1513, poichè, come si è detto, prima d’allora lo Stoa non fu in Francia. Ma a quel tempo Francesco non era ormai più in età che sofferisse di avere a fianco un pedante. La cattedra da lui sostenuta nell’università di Parigi, e molto più quella di rettore della medesima a lui conferita , parmi ancor più dubbiosa che il magistero accennato. Il sig. Nember a provare la prima , si appoggia alla lettera con cui lo Stoa dedica le sue Epografie a’ figli di Jafredo Carli presidente del Delfinato e del Milanese, in cui dice che per favore del padre loro, in età di ventitré anni, cioè nel 1507 avea cominciato ad essere pubblico professore. Ma si rifletta che il Carli era in Milano, ed avea ivi tutta l’autorità, niuna ne avea in Parigi. In Milano adunque, o in Pavia, e non già in Parigi, dovea esser la cattedra dal Carli assegnata allo Stoa. È vero che questi in altro luogo, citato dal sig. Nember, dice: Nam in Gallia public e pròfessus sum (Mirandor. p. 21). Ala ancorché [p. 2256 modifica]□256 LIBRO ciò dovesse concedersi , sarebbe d’uopo fissarne l’epoca al 1513,o 1514 nel qual tempo fu veramente in Francia. Benchè anche di ciò mi rende molto dubbioso il silenzio degli storici di quella università, i quali, benchè faccian menzione di molti altri Italiani, dello Stoa non fanno motto. Il qual silenzio ha ancor maggior forza riguardo alla carica di rettore che vuolsi da lui sostenuta, e di cui non v’ ha presso essi il menomo indicio. Come dunque potè 1’autore dell1 iscrizione accennata sognare tai cose? Io non mi stupirei che lo Stoa , sì pronto a esaggerar le sue lodi, ne’ suoi famigliari ragionamenti spacciasse di aver ricevuti cotali onori, e cercasse così d1 imporre alla posterità, e qualche cenno ne desse ancora nelle sue opere, come si è veduto eh1 ei fa della cattedra, ma più parcamente, per timore di esser convinto di falsità e d’impostura. XXL A me dunque sembra più verisimile che lo Stoa sul principio del secolo da Brescia passasse a Pavia, ove cel mostrano le prime opere da lui pubblicate, e che ivi fattosi conoscere al presidente Carli, ne ottenesse nel 1507, mentr’ei contava ventitré anni, una cattedra in quella università, benchè il Parodi nel suo Catalogo de’ Professori di essa non ne faccia menzione che all’an 1518. Frattanto essendo il re Luigi XII sceso coll’esercito in Italia nel 1509), lo Stoa prese occasione di celebrarne le illustri vittorie in un suo poema intitolato Heraclea bellumve Vene tura, e datolo alla luce, il fè presentare a quel re , e trovò mediatori che gli ottenesser per premio l’onore della [p. 2257 modifica]terzo 3207 corona d’alloro. L’ottenne in fatti, e ne fu cinto «lai re medesimo, che fece poscia spedirgli il diploma segnato in Milano a* i.j di luglio del detto anno, il qual lcggesi al fine dell’accennata Vita. Lieto lo Stoa di questo onore, che era troppo conforme all’ambiziosa sua indole, continuò il suo soggiorno or in Pavia, or in Milano, e in amendue le città stampò gli anni seguenti più opere. Ma quando nel 1512 cambiossi la fortuna de’ Francesi in Italia, e lo Stato di Milano ricadde in potere degli Imperiali , lo Stoa volle seguire la sorte de’ primi , e andossene in Francia. Ivi sembra ch’ei fosse fin dal principio del 1513; perciocchè abbiamo Poesie da lui composte in morte della reina Anna moglie del re, la quale accadde a’ 9 di gennaio del detto anno, che si veggono stampate in Parigi, e vi furono probabilmente stampate pochi giorni dopo tal morte. Anzi un’Elegia dello Stoa al re medesimo fu ivi stampata fin dal 1512. Più altre opere dello Stoa veggiamo stampate nella città medesima l’aunoi5i47 e mi sembra degno di riflessione che in niuna, eli’ io sappia, di queste opere ei prende il titolo o di maestro del Delfino, o di professore nell’università; il che non parmi eli’ egli avrebbe lasciato di fare, se avesse goduto di alcun di quei titoli. Sembra anzi eli’ ei vi fosse disprezzato, o, com’egli si duole, invidiato da molti, e che perciò si risolvesse di far ritorno in Italia. Ivi egli è probabile eli’ egli fosse al principio del 1515, perciocchè veggiamo stampati in Pavia i suoi Treni sulla morte del re Luigi XII, avvenuta il primo di quell’unno; e [p. 2258 modifica]2 258 LIBRO altri sicuri riscontri si hanno del soggiorno da lui fatto allora in Milano (Agostini, Notiz. della Vita di B. Egnaz. p. 65); ed è probabile che essendosi il nuovo re Francesco I impadronito in quell’anno di quello Stato, lo Stoa fosse rimesso alla sua cattedra nell’università di Pavia. Nell’Elenco degli Atti di essa, più volte citato, al 1 di giugno del 1520 si trova/ accennato un decreto pro solutione salarii Magì stri Quintiani Lectoris super sciitis ioo si disi dii exacti (p. 48). Ed ivi era ancora lo Stoa nel marzo del 1521, come ci mostra una lettera da lui scritta a Federigo Nausea (Epist. miscell, ad Frid. Nauseam, p. 3). Ma avendo i Francesi nell’anno stesso perduto di nuovo il dominio di quello Stato, lo Stoa, privo de’ suoi protettori, determinossi a fissare la sua dimora in Brescia. Ivi nell’agosto del 1522 porse supplica alla città per essere ammesso nel ruolo de’ cittadini , e le preghiere ne furono esaudite. Giovanni Planerio, amicissimo dello Stoa, con cui avea comune la patria, ci narra gran cose degli onori ad esso renduti. Ei dice che molti vennero dalla Francia a Brescia sol per vedere lo Stoa; che avendolo il conte Bartolommeo Martinengo suo gran protettore condotto a Venezia, i più ragguardevoli senatori e i più gran letterati furon solleciti di conoscerlo; che il doge f onoro del titolo di cavaliere; che il senato volle farlo presidente dell* università di Padova; che in questa città , appena ei vi fu giunto, tutta la scolaresca accorse in folla a vederlo. Ma io bramerei che di sì illustri contrassegni d’onore i [p. 2259 modifica]TERZO 2259 si avesse qualche testimonianza più autorevole di quella del Planerio, che può essere sospetta , e che si potesse citare almeno un altro scrittor di que’ tempi che ne facesse fede. Lo Stoa passò il rimanente de’ giorni suoi parte in Brescia, parte in V illachiaru presso il Martinengo, e parte in Quinzano, ove negli ultimi anni si ritirò, e ove ancora finì di vivere a’ 7 di ottobre del 1557. Moltissime sono le opere dello Stoa, tutte in latino, altre in versi, altre in prosa; e si può dire che non v’ha argomento di cui egli non iscrivesse. Il lor catalogo si può vedere aggiunto alla Vita più volte da noi mentovata. L’erudito autore di essa ne dice gran lodi, e trova le orazioni dello Stoa piene di robustezza e di grazia, le opere storiche scritte con buon criterio, le poesie leggiadre e vivaci, le altre opere piene di cognizioni scientifiche e filosofiche d1 ogni maniera; e sol ne biasima lo stile troppo ricercato e troppo amante della più rimota antichità della lingua latina, Io confesso che poche opere ho vedute di questo scrittore; ma quelle poche, a dir vero, a me non sembrano degne di tanti elogi. Le poesie son migliori delle prose; ma finalmente, a mio giudizio , non son che mediocri. Lo stile parmi non già antico, ma barbaro; e a me non è riuscito di rinvenirvi quella sì vasta erudizione che in esse da altri si loda. Io non veggo innoltre tra gli eleganti scrittori di quei tempi un solo che ne abbia parlato con lode, se traggasene Giulio Cesare Scaligero che fa qualche elogio delle Tragedie da lui pubblicate. Ma qual onore c Tuuboschi, Voi XIII. 19 [p. 2260 modifica]2 26o LIBRO egli mai l’esser lodato da chi ad Euripide antipone Seneca, e da chi stima Giovenale miglior di Orario l Dal Giraldi al contrario, giudice assai migliore dello Scaligero , egli è detto gloriosus nebulo (De Poetis suor, tempi, dial 2). E veramente non vi ha cosa che tanto dispiaccia nelle opere di questo scrittore, quanto la intollerabil jattanza con cui di se stesso ragiona , a corregger la quale non basta eli1 egli abbia altrove parlato più modestamente di se medesimo; perciocchè anche i più arroganti scrittori più degli altri si abbassan talvolta, ove l’interesse loro il richiede. Rechiamone un passo , tratto dalla dedica già mentovata delle sue Epografie a’ figli del presidente Jafredo Carli: Multa edidi, plura editurus, et plurima. Nonne plusquam carminum sex millia nostrorum edita? Nonne et diecula sola octingentos deducere versiculos et mille, qui me experti sunt, noverunt? Quot Tragoediae, quot Comoediae , quot Satyrae a me natae luctantur egredi l Quid Epigrammata , Monosyllaba , Disthyca, in Valerium Maximun dubitationum volumina , de Mulieribus opera , Panegyricos , Orationes, Fabulas, Epistolas , Odas, Ludovicis Regis vitam, Miraculorum libros Ethnicorum, Hendecasyllaba, Sylvas, et Heracleam Bellumve Venetum, et Orphea, alique sexcentum enumerem? Nonne tetrium et vigesimum annum agens patris vestri munere publicus plausibiliter auctoratus sum Professor? Nonne ab invictissimo Galli arum Rege Ludovico corona decoratus sum laurea? An id factum sine honoris adminiculo, ut quod pauci in senectute [p. 2261 modifica]• TERZO 226l et senio assequuntar, ego in quinta Olympiadis limbo Poeta fuerim laureatus? A uno scrittore sì barbaro conviene ella una sì superba arroganza (*) l XXII. Più gloriosa a Brescia è la memoria di un altro gramatico, nato nel territorio di quella città, cioè di Giovita Rapido, o, come altri scrivono, Ravizza. Belle notizie di lui ci ba date il Cardinal Querini (Spettini. Brix. (*) Contro questo passo della mia Storia, in cui ragiono della vita e delle opere dello Stoa, è stato pubblicato un opuscolo colla data di Sideropoli nel 1779, in cui si cerca di difendere il sig. Nember, e le cose da lui asserite, e da me impugnate, o almen poste in dubbio. Su due punti esso aggirasi singolarmente; cincin primo luogo sulla cattedra dallo Stoa sostenuta in Parigi, e sull’onore che vuolsi che ivi avesse, di esser maestro di Francesco I, e in secondo luogo sul giudizio che delle opere di esso io ho recato. Quanto al primo non veggo che si produca alcuna nuova autorità che possa farmi cambiar parere, e parmi che altro non si faccia che ridire il già detto. Solo veggo citarsi l’autorità del Buleo nella sua Storia dell’Università di Parigi, nella quale si vuole ch’egli affermi esservi stato la Stoa professore e rettore. Io ho cercato nella Storia del Buleo il passo ivi riferito; ma ogni mia diligenza per ritrovarlo è stata inutile. Nè io dico perciò, ch’esso non vi sia, e forse mi sarà fuggito dagli occhi; ma sarebbe stato bene che si citasse il tomo e la pagina in cui quel passo si legge. E innoltre le parole che se ne recano, non c’indicano nè il tempo in cui ivi insegnasse lo Stoa, che è il punto principale della controversia, nè fanno motto della scuola da lui tenuta a Francesco I. Per ciò poi che appartiene al giudizio delle opere dello Stoa, io non sono punto disposto a cambiarlo. Se il mio gusto sia buono , o reo , toccherà agli altri a deciderne. Ma io non dirò mai che mi piaccia ciò che non mi piace. [p. 2262 modifica]2262 LIBRO • literat pars 2, p. 63, ec., 91, ec., 192, ec.) f dalle quali e da alcuni.scrittori di que’ tempi noi trarremo le cose più importanti a saperne (a). Chiari ne fu la patria; e pare eli1 ei vi nascesse verso il 1480, poichè vedremo che in una lettera scritta nel 1538 ei dice di essere omai vecchio. La prima città a cui egli venne chiamato ad ammaestrare i fanciulli, fu Bergamo, ed egli vi fece assai lungo soggiorno, ed ivi scrisse un trattato latino dell1 Istituzion de* fanciulli, che fu poi stampato in Venezia nel 1551. Il Cardinal Querini ne ha pubblicata (l. cit p. 72) la dedica eli* egli ne fece a’ rettori e a’ decurioni di quella città, e che non fu allora data alle stampe, nella quale egli dice cbe erano ornai quindici anni che occupavasi ivi in quel difficile ministero: e così la dedica stessa come tutto questo trattato ci danno un* assai vantaggiosa idea e dell* eleganza e del buon gusto di questo scrittore c dell1 ottimo metodo eli1 egli (a) Il sig. canonico Lodovico Ricci di Chiari ci ha dato un’assai più esatta c più copiosa Vita di Giovila Rapido inserita nel tomo primo della Biblioteca ecclesiastica, stampalo in Pavia Panno 1790. Egli pruovn in essa che Giovila nacque n’i^i di febbraio «lei i476, rlift si fermò in Bergamo tra 51 1 5o8 e ’l i5a4 » onde passò a Vicenza, e poi a Venezia; cd esamina poscia con somma accuratezza tutto ciò che appartiene alle cattedre da Ini sostenute e alle opere da lui pubblicate; e a questa occasione ci ba date ancora belle notizie delle scuole di belle lettere che sulla fine del secolo xv e sul cominciar del seguente fiorivano in Bergamo. Egli ba anche pubblicato un piano dal ilupicio proposto pel buon regolamento di quelle scuole, e da lui diretto u lettori di quella città. [p. 2263 modifica]TERZO 2263 teneva nell’insegnare. Questa dedica non ha data, nè sappiamo fin quando egli si trattenesse in Bergamo. Sappiamo solo ciò eh1 egli scrisse nel 1538 al magistrato e a’ cittadini di Brescia, cioè che da varie città d1 Italia era stato onorevolmente condotto con assai onorevole stipendio, che i Vicentini l’aveano onorato della loro cittadinanza, e che poco appresso era stato chiamato a Venezia (Epist. cl. Viror. p. 61, ed. Ven. 1568), ove per più anni fu occupato in istruire nelle belle lettere i giovani destinati alla pubblica cancelleria. Nella detta lettera ei dice cb1 essendo ornai vecchio, bramava di ritirarsi a Brescia , e di esser perciò ascritto a quella cittadinanza. Egli ottenne ciò che bramava; e con altra sua lettera rendè grazie a quel Pubblico del favor compartitogli, benchè que’ di Chiari, che più di tutti dovean essergli in ciò favorevoli, se gli fossero caldamente opposti (ib. p. 62). Ei nondimeno non partì da Venezia , e continuò per più anni nel medesimo impiego. Alcune lettere scritte dal Bembo a Giambattista Rannusio nel 1545 e nel 1546 ci fan vedere che questi aveasi allor preso in casa il Rapicio, perchè istruisse nelle lettere Paolo suo figlio; e che il Bembo bramò ed ottenne che a Paolo si aggiugnesse ancora un figlio di M. Carlo Gualteruzzi (Letti t. 2, l. 3,- Op. ti 3, p. 124). Anzi il Bembo medesimo scrisse poi al Rapicio una lettera latina, di ciò ringraziandolo, nella quale fra le altre cose gli dice: Amavi te quidem omini tempore doctrinac tuae pracstantissiniae incensus splendore ac nomine; quem sane amorem erga te meum auxerunt cum et mores [p. 2264 modifica]2 264 LIBRO lionestissimi fui, et inculpatac vitae sanctitas tum vero, quod sciebam amari me abs te (l. 6 Famil, ep. 129). Visse il Rapicio fino a’ 16 di agosto del 1553, in cui morì in Venezia, dopo avere dettato il suo testamento con tal senno e con tale eleganza, che Aldo Manuzio il giovane lo volle inserir tutto ne’ suoi Comenti sul terzo libro degli Uffici di Cicerone. Paolo Manuzio, scrivendo da Bologna agli 8 d’agosto del 1555 (Lettere, p. 73), si duole che dopo la morte di Giovita la cancelleria ha gran bisogno di buon maestro, e dice eh* egli non ebbe alcuno di bontà superiore, e nelle Lettere a giudicio mio è stato un Varrone o Nigidio. Anche il Cardinal Polo ne parlò con molta lode in una sua lettera scritta nel 1554 Brusselles (Epist. t. 4, ep. 63, p. 180). Oltre le Lettere già citate, e alcune altre che lor vengono appresso, ne abbiamo alle stampe alcune orazioni e alcuni opuscoli di diverso argomento. Ma io qui ne rammenterò solamente i cinque libri De numero oratorio, che sono la miglior opera di’ ei ci abbia lasciato. In essi minutamente ricerca ciò che richiedesi a render armonioso e soave e a diversi argomenti adattato lo stil latino, e seguendo le tracce di Cicerone e di altri antichi maestri, dà i più opportuni precetti a scrivere non solo con eleganza, ma anche con armonia, e risponde insieme al Melantone che avea scritto essere ora inutili cotai precetti, poichè la lingua latina più non si pronuncia da noi come pronunciavasi da’ Romani, e al Bucoldiano che avea affermato esser del tutto a un oratore inutile una cotale armonia. [p. 2265 modifica]TERZO 2 2G5 pila è opera questa che anche al presente si può leggere con piacere e con frutto da chi è persuaso che f armonia dello stile si apprenda più da’ precetti che dagli esempj; ed ella è scritta in uno stile assai colto e puro. Egli tradusse ancora non infelicemente in verso alcuni Salmi di Davide, la qual versione va aggiunta all’opera poc’anzi lodata. XX11I. Due altri gramatici bresciani e le opere loro rammenta con lode il Cardinal Querini, cioè Paolo Soardi e Agostino Saturnio Lazzaroni nato in Ducano nella Valcamonica (l. cit. p. 3i, 3.{ y cc.). Ma noi che non possiamo occuparci nel ricercare di tutti gli scrittori di tale argomento, passiamo invece a dire di alcuni altri, i cui nomi son rimasti; ’ titolo di professor d’eloquenza, dee nondimeno piuttosto aver luogo tra’ gramatici, perchè non occupossi comunemente che in fare annotazioni gramaticali agli antichi scrittori. Ei fu Battista Pio di patria bolognese, di cui più diligentemente di tutti ha scritto l’eruditissimo dottor Sassi (Hist. tj’pogr. Medi oh p. 43 li ec-)* (n)L’AIidosi par che fissi il principio della cattedra di rettorica e di poesia da lui sostenuta in Bologna all’anno x(Dott. bologn. di (a) Più esatte notizie intorno al Pio e alle opere da lui composte si posson ora vedere nel diligente articolo che ce ne ha dato il sig. conte. Giovanni Fan tu zzi (Scritt. bologn. t. 7, p. 3i). Il soggiorno in Bergamo del Pio dee stabilirsi dall’anno 1505 al 1507, come ha provato il sig. canonico Ricci nella Vita del Rapicio poc’anzi citata. c di uno primieramente [p. 2266 modifica]2266 LIBRO Teol., ec. p. g5), e aggi tigne poscia soltanto che lesse fino al 1532 nella detta città, ed anche in Lucca, in Milano e in Roma, ove diè fine ai suoi giorni. E forse cominciò egli nel detto anno a tenere scuola nella sua patria. Ma se ciò fu, poco tempo allora vi si trattenne; poichè nel i4<)8 egli era certamente in Milano come pruova il Sassi. Questi da ottime congetture deduce che nel 1500 il Pio fu dal Senato di Bologna da Milano richiamato alla patria, e colla testimonianza di una prelezione del medesimo Pio dimostra che nel 1509 fu egli chiamato a Roma, in tempo che l’università di Bologna era pe’ tumulti di guerra quasi abbandonata e deserta. È certo però che in questo frattempo ei fu ancora maestro in Bergamo, come afferma Giovanni Britannico in una sua lettera citata dal Cardinal Querini (Specilli. Brix. Li ter. pars 1, p. 83); ed ivi ebbe a suo scolaro il celebre Bernardo Tasso, come osserva il ch. signor abate Serassi nella Vita di questo illustre poeta (a). Egli era ancora in Roma verso il i520, quando Francesco Arsilli scrivea il suo poemetto De Poetis urbanis, tra1 quali lo annovera , facendo insieme menzione di una donna da lui (a) Il Pio fu ancora in Mantova , e vi fu assai caro alla marchesa Isabella Estense Gonzaga , come ci mostra la dedica da lui premessa alla sua traduzione della Tavola di Cebete. Questo lavoro del Pio, non conosciuto finora , conservasi ms. nella libreria Capilupi in Mantova; e se il ch. sig. abate Andres pubblicherà il Catalogo di que’ codici, con molta diligenza da lui composto, ci somministrerà molte altre notizie intorno alla vita e alle opere del Pio. [p. 2267 modifica]TERZO 32G7 amata, ch’io non so se fosse quella medesima ch’egli in una elegia, citata dal Sassi, si duole di aver lasciata in Milano. Ivi egli ebbe fra gli altri scolari il celebre Marcantonio Flaminio, e tra le lettere di Giannantonio di lui padre una ne abbiamo in cui al Pio caldamente il raccomanda, e la risposta dal Pio segnata il primo di giugno del 1514» con cui loda il giovinetto Flaminio (Epist. l. 5, ep. 19, 20). Altre lettere abbiamo di Giannantonio al Pio, colle risposte di questo; e le prime ci mostrano che il Flaminio ne stimava molto l’erudizione e il sapere (l. 11, ep. 1, 2, ec; l. 12, ep. 1, 4» 5, 6, ec.); e in un’altra lettera a Matteo Caranti, il quale pare che non avesse grande stima del Beroaldo e del Pio, ei dice che erano uomini amendue di singolare dottrina, e che il Pio era assai accetto al pontefice Leon X, in modo che veniva detto comunemente lettor del pontefice (l. 5, ep. 20). È probabile che dopo la morte di Leon X tornasse a Bologna. Ivi certo egli era nel 1524; perciocchè Romolo Amaseo in una sualettera scritta a’ 13 di settembre del detto anno, Giungemmo, dice (Vita R. A mas. p. 209), in Bologna io e Violante e i putti li 21 d’Agosto. Io non sono mai uscito di casa, mentre che sono stato colà, perchè essendo in caldo le p ratti che della ricondotta mia, e smaniando tutti gli Umanisti, duce Pio, e parlando e scrivendo di me vituperosamente, e adoperandosi per loro tutti i suoi, et usando tutte le arti in fare, che la ricondotta non passasse, et oltra di ciò minacciandomi loro in ogni suo parlare e scrivere bestialissimamente sopra la vita, non mi assicurai [p. 2268 modifica]2268 LIBRO di uscir di casa, e vi stetti venti giorni. E agli 8 di marzo del 1525, quando già l’Amaseo avea cominciata in Bologna la sua lettura, La invidia degli altri, dice (ib. p. 21.4), è consueta, e singolarmente del Pio e Bocci ilo, li quali mi hanno cercato rovinare della vita propria. Questo non è, a dir vero, il più glorioso passo della vita del Pio, ma non è nuovo che un vecchio professore si offenda e si sdegni al vedersi antiposto un giovane eli* ei crede troppo a sè inferiore. E il dispetto del Pio andò tant’oltre, ch’ei, lasciata Bologna, recossi a Lucca, ed ivi aprì pubblica scuola. Così raccogliamo da’ versi da Giglio Giraldi composti poco dopo il sacco di Roma del 1527, ne’ quali dell’A’ naseo e del Pio così dice: Romulus uxori et gnatis sua gaudia narrat, Proemia quanta sibi et quot millia Felsina pendat,Hoc damnat Baptista Pio , incusatque maligna Tempora, et una omnes, haec qui jussere, Quirites. Scilicet hic annis et majestate verendus Proemia debuerat multo majora tulisse; Nunc ideo procul a patria, patriam ipse perosus Ingratam , dat Lucensi dictata juventae. Op. t. a , p. 914. I11 questa città trattennesi il Pio almeno fino all’an 1534? perciocchè Ortensio Landi, in un suo opuscolo composto e stampato in quell’anno, parlando de’ Lucchesi, Habent, dice (Quaestiones phorcianae p. 3), perinsignes Praeceptores , quorum alter Baptista Bononiensis, re et cognomento Pius, qua vero eruditione ex ingenii sui monimentis cognitum puto. Paolo III, che avealo conosciuto in Roma, poichè fu eletto [p. 2269 modifica]TERZO 2 2Gl) pontefice, il volle ili nuovo professore nella Sapienza, e ivi continuò il Pio a vivere e ad insegnare, finchè giunto all’età di ottanta anni, un giorno dopo aver lietamente pranzato, preso tra le mani il libro di Galeno degl1 Indici! «Iella vicina morte, gli parve di averli patenti nelle macchie delle sue unghie, e senza punto turbarsi, dispostosi alla morte, fu da essa quasi senza alcun male sorpreso non molto dopo (Jovius in Elog.). Io non farò il catalogo delle opere del Pio, le quali son molte, e per lo più appartengono alla gramatica latina e greca, o alla illustrazione degli antichi scrittori. Egli era uomo erudito, ma di quella erudizione ispida e selvaggia che uccide i lettori colla soverchia minutezza delle inutili riflessioni; oltre che lo stile ne è duro e stentato , quanto esser possa. Ei fu perciò deriso da molti fin da quando vivea; e in Roma singolarmente, ove tanti leggiadri ed eleganti poeti eran raccolti a’ tempi di Leon X, fu, come narra il Giovio (ib.), chi scrisse una commedia, la qual ancor fu stampata, in cui introducevasi a ragionare il Pio in quel suo stile grottesco, per cui poscia venivagli dato quel poco onorevol gastigo che i pedanti danno talvolta a’ fanciulli. Anch’egli però fu amante della poesia, e ne abbiamo non pochi versi latini che se non sono elegantissimi, superan però di gran lunga le prose da lui pubblicate. Quindi saggio e prudente è il giudizio che ne dà il Giraldi: Baptista quoque Pius Bononiensis versus aliquando facit, cujus etsi obscura et coecata est oratio, ita ut plerunque inquinate loqui videatur, versus tamen, [p. 2270 modifica]227° LIBRO qitos edulit, et Elegiarum libri alicubi aliquam praeferunt Pprie re ni At (quae ex Apollonio Latina feci t, ut Argonautica V. Flacci perficeret. magis ab aliquibus commendantur; alliorum hoc, non inclini sit judicium (De Poet. suor, temp. dial. 1). Dei versi del Pio parlò con lode anche il Bembo, dalla cui lettera però, ad esso scritta da Urbino nel 1506, si raccoglie che quegli erasi a lui raccomandato , perchè lo onorasse con qualche lode nelle sue opere (Bemb. Famil. l. 4 j ep. 19). XXIV. Tra gl’illustratori della lingua latina dee a ragione annoverarsi il celebre cardinale Adriano, benchè egli in tutt* altro si occupasse che in tenere scuola a’ fanciulli. Di lui ha scritto sì ampiamente il ch. sig. abaie Girolamo Ferri, il quale ne ha premessa la Vita alle sue Lettere in difesa della lingua latina contro M. d’Alembert, stampate in Faenza nell 1771, che noi possiamo parlare in breve , accennando solo le cose da lui provate con gran copia di monumenti. Egli ha proccurato di abbattere la comune opinione di1 ei fosse di oscura e vilissima origine, e ha dimostrato che la famiglia de’ Castelleschi, o de’ Castelli, che voglia dirsi, di cui fu il cardinale Adriano, era assai ragguardevole in Corneto che ne fu la patria. Parmi però che possa ancora rimaner qualche dubbio; perciocchè non essendosi ancora scoperto di chi fosse figlio Adriano, potrebbe essere avvenuto che due famiglie dello stesso cognome ivi fossero, come spesso accade, una nobile, l’altra vile, e che da questa traesse la sua origine il cardinale. Checchè ne sia, Adriano, nato [p. 2271 modifica]TERZO 227I probabilmente circa il 1458, passò in età giovanile a Roma, ove al diligente studio delle lingue latina , greca ed ebraica congiunse il dare non pochi saggi della sua attività e destrezza, per modo che essendo ancor giovane, fu dal pontefice Innocenzo VIII mandato nel 1488 suo nuncio al re di Scozia, e poscia nel i4i)° a quel d’Inghilterra. Alessandro VI richiamollo a Roma , e col dargli il titolo di segretario, lo ammise talmente alla sua confidenza, che Adriano era quasi l’arbitro degli affari. Adoperato da lui in diverse onorevoli nunciature, sollevato alla carica di tesoriere, fu nel 1503 onorato ancor della porpora; e parte pe’ pingui beneficj che ottenuti avea nell’Inghilterra , parte pel favore di cui godeva presso il pontefice, arricchissi per modo, che non v’era forse in Roma chi nella magnificenza e nel lusso lo superasse. Il troppo famoso Cesare Borgia non potea soffrir senza sdegno un uomo che pareva gareggiar con lui. in grandezza e in potere; e in una cena imbandita nella villa stessa del cardinale, lo avvelenò , cioè in quella cena medesima in cui vogliono molti ch’egli incautamente avvelenasse lo stesso pontefice suo padre, benchè non manchin ragioni di dubitarne (V. Murati Ann. d’J tal. ad an. 1503). Il cardinale a gran pena salvò la vita. Il pontificato di Giulio II non fu ugualmente a’ lui favorevole; e benchè egli fosse un di que’ che il seguirono nel viaggio di Bologna, all’occasione però di certe controversie ch’egli ebbe in Roma col vescovo di Vigorn ambasciadore del re d’Inghilterra, parendogli che il pontefice fosse con lui sdegnato , fuggì segretamente [p. 2272 modifica]22^2 LIBRO da Roma nel i5o7, e fi,lclte visse Giulio II stette esule nel territorio di Trento; nel qual tempo contrasse amicizia col conte. Niccolò d’Arco. Tra le poesie di questo colto poeta abbiamo alcuni versi ne’ quali il ringrazia di certo favor prestatogli, e dice clic all usanza degli antichi Romani vuole ordinare solenni supplicazioni in onor di esso; e avendogli il cardinale con altri suoi versi risposto che ei non volea cotali onori, il conte. d’Arco, scherzando sul timor ch’egli avea di papa Giulio, così gli replica: Non vis suppliciis remunerat i , Quod pacis fueris sequester almae? Hoc saltem mihi non potes negare: Optabo tibi Julium perire. Archad. Carm, p. 181. Dopo la morte di Giulio e l’elezione di Leon X tornò il cardinale a Roma; e si vide dal nuovo pontefice accolto onorevolmente, e in più guise onorato. Ma la congiura contro Leone ordita dal Cardinal Petrucci fu al Cardinal Adriano cagione della sua totale rovina; perciocchè egli fu accusato di averne avuta contezza e di non averla rivelata; benchè alcuni pretendano che fosse questa una calunnia ordita da’ nemici del cardinale affine di.perderlo. Ma o vera, o falsa fosse l’accusa, egli, dopo aver pagata una multa che perciò gli fu imposta, temendo ancor peggio, fuggì occultamente nel giugno del 1517 , e dopo essere stato qualche tempo in Venezia, si trafugò di nuovo; nè più si seppe che fosse di lui avvenuto. L’opinion comune però, come narrasi dal Valeriano (De [p. 2273 modifica]TERZO 22^3 Jnfelic. Lit l. 1), fu ch’ei fosse ucciso da un suo domestico, affin di rubargli il denaro che seco portava, e che questi poscia ne ascondesse il cadavero in modo che non potesse trovarsi. Oltre alcune eleganti poesie latine, fra le quali son note singolarmente quelle sulla Caccia, e la descrizione del viaggio di Giulio II a Bologna, ne abbiamo due opere avute sempre in gran pregio, e più volte stampate, delle quali la prima è quella De vera Philosophia, che è in somma un compendio della Religion cristiana, ed è scritta con erudizione non meno che con eleganza; e perciò anche di fresco è stata nuovamente data alla luce; l’altra è quella che propriamente appartiene a questo luogo, ed è intitolata De Sermone latino, et de modis latine loquendi; le quali due parti furon prima da lui pubblicate separatamente, e poi in più edizioni vennero insieme unite. La prima comprende la storia della lingua latina dalla prima sua origine fino al totale decadimento. La seconda contiene i più eleganti modi di dire tratti da’ migliori scrittori di tutta l’antichità; e nell’una cosa e nell1 altra il Cardinal Adriano ben fa conoscere quanto studio avesse egli fatto di quella lingua , e quanto perfettamente la possedesse. XXV. Ma io entrerei in troppo spazioso campo, e mi accingerei a grave non meno che inutil fatica, se tutti volessi annoverare coloro che o colf insegnar dalle cattedre, o col pubblicar libri promosser lo studio della lingua latina. Basti accennarne alcuni altri di volo come per saggio di que’ molti che ancor si [p. 2274 modifica]22^4 LIBRO petrebbono annoverare. Abbiamo le Istituzioni gramaticali di Francesco Bernardino Cipellario da Busseto maestro in Piacenza , stampate in Venezia nel 1534, e da lui dedicate a’ cittadini piacentini (*). Nel 1520 fu pubblicata in Verona un’operetta intitolata Gramatices fundamenta di Marcantonio Mauro nato in Gandino nel territorio di Bergamo , ma fatto cittadino di Verona , ove trasportata avea la sua famiglia f c da lui dedicata a Marco Andrea e a Marco Aurelio suoi figliuoli. Nella prefazione ei loda Gandino sua patria, e la dice patria ancora di Gasparino Barzizza; e rammenta poscia il loro avo , il lor bisavolo e più altri fino a dodici della sua e loro famiglia, i quali tutti erano stati maestri di gramatica , e ne produce sul fine della lettera i nomi con ordine genealogico. Questo scrittore, che per la cittadinanza avuta si può dire ancor veronese, è sfuggito alla diligenza del marchese Maffei; e io ne debbo la notizia al sig. Giuseppe Beltramelli coltissimo cavalier bergamasco, che questo libro a me (*) Il Cipellario qui nominato fu veramente della famiglia ti pelli , ebbe n Maestro Niccolò Luccaro , c scrisse in versi eroici il Panegirico di S. Antonino Martire, stampato in Milano nel i5ai. Di lui parla enn lode Federigo Scotti in un’orazione fatta per la laurea di Teoponto figlio di Francesco Bernardino, e Costanzo Laudi nelle sue Poesie cbe rass. si conservano nella B. biblioteca di Parma , e inoltre il Cavilclli (Ann. Cremon. p. 12 3) e l’A risi (Cremon. liter. pars 1, p. 386). Ma più copiose e pù esatte uotizie ne dà il P. Ireneo Affò nella sua Biblioteca degli Scrittori Parmigiani (t. 3, p. a56, ec.). [p. 2275 modifica]TERZO 22^5 ancora sconosciuto mi ha additato cortesemente. Celebre fu nella terra di S. Daniello nel Friuli il nome di Giampietro Astemio, che per più anni tenne ivi scuola, anzi quasi un convitto di giovani, i quali egli non volle mai che oltrepassassero i trenta, credendo di non potere estendere a maggior numero la sua diligenza. Egli sarebbe uomo del tutto oscuro, se non ce ne avesse lasciata memoria il vescovo Antonio Maria Graziani che fin da Roma fu colà inviato, perchè gli fosse discepolo: Hic adolescentes docebat, ilice egli (De Scriptis invita Minerva t. 2, p. 3), Joannes Petrus Abstemius vir culto ingenio et erudito, et eo diligentior, quod praefinierat discipulorum numerum , nec supra triginta admittebat. Omnes domi suae justa mercede alebat instituebatque victu sobrio, arcta et. severa disciplina, et erant totius gentis nobilissimi Savorniani. Turrii, Po rei li i, Valvasonii, Coloreti, Sbroliavaci, et praeterea Veneti aliquot patricii generis, Justiniani , Mauroceni, Grimani, Contareni, Garzonii, Balbi. Io non so s’ei fosse della stessa famiglia di quel Lorenzo Astemio maceratese da noi rammentato altrove (t. 6, par. 2). Guido Gualtieri natio di S. Genesio fu per più anni professore di belle lettere nella sua patria in Narni, in Macerata, in Camerino, in Ancona, in Roma, ove anche tenne scuola di leggi, e fu assai caro al pontefice Sisto V, che di lui si valse nello scrivere le lettere latine. Di esso, e di alcune orazioni da lui pubblicate, e di altre opere inedite parla a lungo il Tiraisoscui, Poi. XIII. 20 [p. 2276 modifica]22^6 LIBRO ch. sig. Tdesforo Benigni in una sua lettera stampata in Roma nel 1772. Di Francesco Florido, autor di più opere di argomento gramaticale, ci fa un bell1 elogio Leandro Alberti, il quale, parlando di Poggio Donadeo luogo presso il Farfaro , dice (Italia , p. 94): patria di Francesco Florido, huomo ornato di lettere Greche e Latine, e di grande humanità e di costumi, che ha scritte molte dignissime opere, fralle quali ewi un Apologia contro i calunniatori di Plauto e degli altri scrittori della lingua Latina, degli Interpreti delle Leggi Civili, tre libri della eccellenza di Giulio Cesare, tre libri delle Lezioni successive (lectionum subcisivarum) con altri libri di diverse cose, ove dimostrò I cleganzia del suo ingegno, essendo ancora molto giovane. Alquanto tempo dimorò gli anni passati in Bologna , facendo isperienza della sua dottrina, poscia deli anno 1547 Passb ali altra vita in Francia. Di lui abbiamo ancora la traduzione de’ primi otto libri dell’Odissea , stampata in Parigi nell’anno 1545 e dedicata al re Francesco I, la quale con gran plauso fu accolta , e fece desiderare che l’autore conducesse l’opera a compimento; ma la morte non gliel permise. Lucio Vitruvio Roscio canonico regolare di S. Salvadore, e di patria parmigiano, oltre un’operetta De ratione studendi, stampata in Bologna nell’anno 1536, diè a luce in Genova nel 1542 le sue Questioni gramaticali, nelle quali fa ancor menzione delle sue Istituzioni gramaticali già pubblicate. I suddetti nomi furono da lui presi probabilmente per vezzo d’antichità, ma io non ho potuto [p. 2277 modifica]TERZO 3277 trovare quali fossero quelli con cui era volgarmente chiamato. Di Bernardino Rutilio natio di Cologna terra tra Verona e Vicenza, e autor di una Decuria di osservazioni su diversi scrittori latini, di alcune Vite de’ giureconsulti, delle Note sulle Lettere di Cicerone, e di altre opere, si posson vedere copiose notizie nella Dissertazione de’ Letterati Colognesi del sig. Giambattista Sabbioni (Calogerà, Racc. t. i4). Un1 oda a lui diretta dal conte Niccolò d* Arco (l. 2, carm. 23) ci fa conoscere che uomo assai valente nella lingua latina era un certo Candido Albino, che dal Cardinal Ercole Gonzaga fu chiamato a Mantova, perchè istruisse nelle lettere il giovane principe e poi duca Francesco. Alle notizie che di esso ci ha date il conte Mazzucchelli (Scritt ititi t. 1, par. 1, p. 334), io aggiugnerò che abbiamo due lettere a lui scritte da Lucillo Filalteo (Epist. p. 48, 101), le quali parimente son piene delle lodi di questo maestro. Io accennerò qui ancora il nome di un maestro di gramatica detto Pietro Antonio Montagnana , di cui niuno fa menzione, e di cui non P avrei fatta io pure, se il dottissimo P. abate Trombelli non mi avesse cortesemente comunicato un codice ms. in cui si contengono moltissime lettere da lui scritte a’ suoi amici. Da esse raccogliesi eli’ egli era natio di Monfestino nella montagna di Modena; che stette qualche tempo in Bologna; che non trovando ivi l’impiego, venne circa il 1531 a Modena, e stette qualche tempo presso Andrea Castaldi, ora in città, ove egli dice che abitava presso S. Lorenzo, or nella villa della Staggia; che [p. 2278 modifica]22^8 LIBRO verso il 1535 fu chiamato maestro di gramatica a Cento; che ivi benchè non fosse troppo contento del numero de’ suoi scolari, e del vantaggio che dalla sua scuola traeva , e che perciò ne partisse talvolta, fu nondimeno or confermato più volte, or richiamato e accolto sempre con molto onore, sicchè in diverse fiate vi stette fin presso a venti anni; che nel 1557 fu chiamato in casa Ludovisi a Bologna, ad ammaestrar nelle lettere i fanciulli di quella famiglia; che otto anni appresso, invitato dalla comunità di Viadana a recarsi colà per tenervi scuola, se ne scusò, perchè non gli veniva permesso l’allontanarsi dalla casa Ludovisi. Nè altro di lui sappiamo; perciocchè queste lettere sono la sola memoria che ce ne sia rimasta. Ad esse va unita un’orazion da lui detta in Bologna , all’occasione che i tribuni della plebe prendevan possesso della lor carica. Nè io so che di lui si abbia cosa alcuna alle stampe. Finalmente vuolsi qui ricordare di nuovo , a onor dell* Italia , quel Benedetto Teocreno , o Taglia carne , cbe fu maestro de’ figli di Francesco I re di Francia. Di lui abbiamo già parlato altrove; e io qui lo nomino per far menzione del successore ch’egli ebbe in quell’impiego, di cui dobbiam la notizia alla lettera di Pietro Morelli da Tours, con cui nel 1579 egli offre a Jacopo e a Giovanni da S. Andrea la sua versione latina de’ primi cinque libri dell’opera di Niceta Coniata, intitolata Thesaurus Orthodoxae Fidei. In essa così egli dice: Ut taceam Bibliothecam Graecis et Latinis auctoribus instructissimam, quam mihi testamento [p. 2279 modifica]TERZO 2279 legavit D. Galli elmus Mainus magni Ri uhm in procurando trilingui Mus arimi Judaea Helladeque profugarum Cameracensi Xenodochio ipso in Academiae Parisiensis meditullio Achates, Benedicti Theocreni in Regiis Francisci Magni Literarum et Artium liberalium parentis liberis Francisco, Henrico, et Carolo instituendis successor. Questo Guglielmo Maino, di’ cui il Morelli loda qui e la ricca biblioteca e l’opera da lui prestata nella fondazione del collegio di Cambray in Parigi, e il succedere eli’ ei fatto aveva al Teocreno nell’ammaestrare i figli di Francesco I, potrebbe credersi milanese , se col nome di Maino se ne indicasse la famiglia , perciocchè in questa città ed era allora, ed è tuttora la famiglia di tal cognome. Ma io non ne ho potuta trovare alcun’altra notizia , e forse la voce Mainus è ivi usata a spiegare la patria di Guglielmo , che per avventura era natio della provincia du Maine in Francia. XXVI. Fin da que’ tempi si cominciò a disputare fra gli eruditi se fosse miglior consiglio lo scrivere le gramatiche della lingua latina nella lingua medesima, ovvero nella volgare. E non furono pochi coloro che seguirono l’opinione or divenuta comune. Quindi fin dal 1529 veggiam pubblicata in Venezia la Gramatica latina in volgare, opera anonima, ma di cui Apostolo Zeno sospetta che sia autore Bernardino Donato (Note al Fontanini, t. 1 , p. 52). Dietro a lui venne Francesco Priscianese fiorentino, che nel 1540 pubblicò sei libri Della Lingua romana y c il libro de’ Principii [p. 2280 modifica]2 280 LIBRO. della lingua romana dedicati al re Francesco I, e poscia più altre volte stampati; le quali opere piacquero per modo a Romolo Amaseo, che benchè egli fosse sì dichiarato difensore della lingua latina , scrisse però al Priscianese una lettera approvando e lodando il metodo d’insegnarla col) mezzo della lingua italiana, la quale lettera fu poi dal Priscianese inserita nelle posteriori edizioni. Opere a questa somiglianti sono quella intitolata Teorica della lingua latina di Giovanni Fabbrino da Fighine fiorentino, e lo Specchio della lingua latina di Giovanni Andrea Grifoni da Pesaro, e le Istituzioni gramaticali di Orazio Toscanelli, ed alcune altre, delle quali non giova il far distinta menzione. Altri al tempo medesimo presero a raccogliere le più eleganti maniere di favellare degli antichi scrittori, e a ridurle nella volgar nostra lingua , fra’ quali io nominerò solamente Ercole Ciofano natio di Sulmona nel regno di Napoli, di cui abbiamo le Locuzioni volgari e latine di Cicerone, stampate in Venezia nel 1584? e ch’è ancora più noto pe’ suoi Comenti sulle opere del suo compatriota Ovidio. Ma non è forse ugualmente nota la guerra ch’ei mosse ad Aldo Manuzio il giovane. Egli era stato amico di Paolo padre di Aldo, come ci danno a vedere due lettere che questi gli scrisse nel 1569 (Epist. Famil. l. 9, ep. 10, 11); anzi aveva soggiornato per qualche tempo in Venezia con suo sommo piacere presso il medesimo Aldo, come scrive egli stesso a Pier Vettori, a cui abbiamo più lettere del Ciofano (Cl. Viror. Epist. ad P. Victor. t. 2, p. 137, ec.), [p. 2281 modifica]TERZO 228l aggiugnendo che presto sarcbbono usciti i Comenti da sè composti sugli Uffici di Cicerone. Ma poscia avendo saputo che Aldo pensava di pubblicar i suoi Comenti su tutte 1’opere di Cicerone , scrisse da Sulmona nel 1572 una sanguinosa lettera allo stesso Vettori (ib.p. 151, ec.), nella quale gli dice che nulla aveva Aldo di suo in quell’opera, trattene alcune inezie; che tutto aveva tolto a Paolo suo padre, a più altri e a sè ancora; eli cgli perciò aveva separate le sue proprie note, e aveale mandate in Anversa al Plantino, segnando ciò che Aldo gli aveva involato; che sarebbe a bramare che lo stesso facesser tutti, poichè allora Aldo sarebbe veramente rimasto quale spennacchiata cornacchia; e quindi aggiunge che egli sa bene che il Mureto , il Pinelli, il Mercuriale, il Riccobuoni, il Cardinal Sirleto, il Bargeo, l’Orsini e tutta Venezia conosce e odia e disprezza Aldo; e ch’egli muoverà ogni pietra, e non cesserà mai dall1 adoperarsi con ogni premura, perchè colui sia scoperto e conosciuto da tutti come solenne ladro delle altrui letterarie fatiche. In questo stile ognun vede un irragionevol trasporto, o d’invidia, o di sdegno. È probabile che il prudente Vettori occultasse la lettera, sicchè Aldo nulla ne risapesse; perchè non veggi amo clic questi gli facesse risposta. Ma frattanto nè il Ciofano potè ottenere che le sue Note su’ libri degli Uffici fossero pubblicate , nè potè persuadere ad alcuno che Aldo non fosse assai più di lui erudito e più colto scrittore, e che le opere di esso non meritassero quell’applauso [p. 2282 modifica]2282 LIBRO e quella stima di cui egli riputavate indegne (a). XXVII. Niuno però tra1 gramalici di questo secolo fu sì felice, quanto il celebre Ambrogio da Calepio, il quale col pubblicare un vocabolario della lingua latina ottenne clic te opere di tal natura fossero comunemente dal suo cognome distinte col titolo di Calepino, gareggiando, direi quasi, con Amerigo Vespucci che circa il tempo medesimo dava il suo nome alle terre nuovamente scoperte. E in ciò ancora gli fu egli somigliante, che come il Vespucci benché non fosse il primo a scoprire l’America, ebbe nondimeno l’onore di darle il suo nome, così Ambrogio ebbe quello di darlo a’ vocabolari , benché ci non ne fosse il primo autore, poiché abbiamo veduto nel tomo precedente (t. 6, par. 3) che Giuniano Maggi nel e Fra Nestore Dionigi novarese nel i483 avean pubblicala un’opera somigliante. Egli era nato in Bergamo dell’antica e nobilissima famiglia de1 conti di Calepio, ed era figlio del conte Trnssardo. Il P. Calvi, citando i monumenti dell’archivio del convento di S. Agostino in Bergamo, lo dice nato a’ 29 di gennaio del 1 {35 (Efcmeridi, t. 2, p. 255). Ala questo scrittore non è coerente a se stesso nel fissar fanno in (a) Il sig. Don Pietro Napoli Signorelli ha preso a difendere il Ciofano, e a sostenere ragionevole e giusta l’accusa da lui data ad Aldo Manuzio (Vicende della coltura tu lle due Sicil. t. 4, p. 289, ec.); e io lascerò volentieri che gli eruditi ne seguano le ragioni, quando esse lor sembrino abbastanza probabili. [p. 2283 modifica]TERZO 2383 cui entri» nell’Ordine di S. Agostino; perciocché in un luogo dice che ciò avvenne nel 1451 (ivi, p- 6), e altrove afferma che ciò fu nell’anno 1458 (Scena letter. p. 32); nè io ho monumenti che diano su ciò maggior lume (a). Pare ch’egli tutta la sua vita impiegasse studiando e affaticandosi singolarmente intorno al suo Vocabolario. Si dice comunemente eh’ei ne fece la prima edizione nel i5o5, dedicata al Senato di Bergamo, e la seconda nel i5ot). Ma leggendo la dedica che di questa egli fece al suo generale Egidio da Viterbo, parmi che si raccolga che due altre l’avessero preceduta: Dictionum interprctanicnta olim quidem a me edita, proximis vero annis incudi reddito, cc. Anzi egli si duole che la prima edizione fosse stata da altri adulterata e guasta: Nam de priore editione et quae incautins dieta videbantur, et (a) Belle ed esatte notizie intorno al Calepio ci ha poi date il più volte da me lodato P. Verani agostiniano , che sono state inserite in questo Giornal modenese (t. 26, p. 130, ec.; t. 32 , p. 142, ec.). Egli dunque ha provato che il Calepio non nacque nel 1435 ma circa il 1440 e che nel 1458 rendettesi religioso, e che finì di vivere non nel i5i 1, ma nel gennaio del 1510. Egli ha anche esattamente descritto l’originale che di quest’opera conservavasi in Bergamo nel convento di S. Agostino, al cui fine si legge la data: die 6 Octobris 1487; ha risposto alle accuse che alcuni danno al Calepio , dicendolo plagiario di Niccolò Perotti; ha mostrato di quante notizie letterarie ha egli sparso il suo Vocabolario; diligentemente ha annoverate tutte f edizioni a lui note, che ne sono state fatte, fra le quali la prima fu fatta in Reggio nel 1502 nella stamperia di Dionigi Bertocco; e ci ha data esatta notizia delle altre opere da lui composte. [p. 2284 modifica]2 28} LIBRO quae nescio quis perversae sedulitatis corruptor, me nesciente, adjecerat, detraxi. Quando egli fece nel 1509 questa terza edizione, era già assai vecchio e cieco; e quindi così conchiude la dedica al detto generale, segnata da Bergamo il primo d’ottobre del 1509: Vale Pater R , et Congregationem nostram, ac prasertim Bergomensem Conventum habe commendatissimum. Nam et te, ut debeat, omnes mirifice amant ac reventur, et me decrepitum jam senem atque oculis captum mira pietate complectuntur. Egli morì, per testimonianza del P. Calvi (ivi), a’ 30 di novembre del 1511. Le moltissime edizioni fatte poi di quest’opera, mentre le altre due rimasero dimenticate, mostrano con quale applauso fosse ella accolta. Ad essa è avvenuto ciò che al Dizionario storico del Moreri, cioè che da un picciol volume in cui l’autore dapprima l’aveva racchiusa, si è stesa a molti tomi, e ora appena vi si riconosce vestigio di ciò che leggevasi nelle prime edizioni. E così doveva accadere per rendere migliore quest’opera, che, qual fu dal suo autore pubblicata, era molto mancante e sparsa di molti errori, come avvien sempre dei primi saggi di un’opera di vasta estensione. Chi nondimeno prenderà a esaminare le dette prime edizioni, non potrà negare che vi si scuopra la molta erudizione di Ambrogio non sol nella lingua latina, ma ancor nella greca e nell’ebraica, di cui dà talor qualche saggio, e il molto e diligente studio ch’egli avea fatto sugli antichi scrittori; e noi dobbiamo perciò sapergli grado della molta fatica da lui in ciò impiegata, [p. 2285 modifica]terzo 3385 c. perdonargli volentieri gli errori nei quali è caduto. Alcune altre operette inedite ne rammenta il p Ossinger (Bibl. Augustin. p. 177), fra le quali le due odi in lode di S. Agostino e della b. Chiara di Montefalco si conservano ancora nella libreria de’ PP. Agostiniani di Bergamo, insieme colf originale del Vocabolario, come mi ha cortesemente avvertito l’ornatissimo cavalier sig. conte Giulio di Calepio. XXV11I. Sia l’ultimo tra’ gramatici di questo secolo uno che nel numero e nell’erudizione dell’opere non fu inferiore ad alcuno, e di cui maggiore ancora sarebbe la gloria, se non l’avesse oscurata colf apostasia dalla cattolica Religione, cioè Celio Secondo Curione. L’orazion funebre che ne fece l’anno 1570 Giannicolò Stoppali!, e che è stata di nuovo pubblicata dallo Schelornio (Amoneit. Liter. t. \.\, p. 325), ce ne darà le più sicure notizie. Egli era nato nel 1530 in Piemonte, in un luogo che lo Stoppani latinamente dice Cyriacum, e che debb’essere presso Torino, perchè egli dice che Jacopo Troterio Curione di lui padre, uomo d’illustre nascita, aveva presso che tutti i suoi beni in Moncalieri che non ne è molto distante, e ove perciò fu nè primi suoi anni allevato ancor Celio. Indi passò a Torino, ove attese a’ più gravi studj, e a quello sopra tutti della giurisprudenza. In questo tempo, mentre ei non avea ancora vent’anni, udì parlare delle nuove opinioni di Lutero e di altri maestri dell* eresia; e invogliatosi di leggere i loro libri, ne fu sedotto per modo, che con due suoi compagni determinò di andarsene in Allemagna, e si [p. 2286 modifica]2286 LIBRO pose in viaggio. Ma scoperto e arrestato nella valle d’Aosta, dopo essere stato due mesi prigione in una fortezza, ne fu liberato, e inviato al monastero di S. Benigno, perchè ivi fosse meglio istruito ne’ dogmi della cattolica Fede. Ma egli non seppe spogliarsi degli errori de’ quali si era imbevuto; e fuggitone qualche tempo appresso, dopo aver lungamente viaggiato per diverse città d’Italia, fermossi in Milano, ove alcuni anni trattennesi studiando e insegnando, e ivi prese per moglie Maddalena Bianca Isacchi fanciulla di nobil famiglia, colla quale passò poscia a Casale di Monferrato, e indi, avendo udito che di ventitré tra fratelli e sorelle una sorella sola gli era rimasta, tornò in Piemonte. Ma ivi avendo egli scoperte le ree sue opinioni, fu di nuovo arrestato in Torino, e chiuso in prigione. L’accorgimento con cui seppe deludere il suo guardiano, gli aprì la via allo scampo in quella piacevol maniera che fu da lui descritta nel suo dialogo intitolato Probus. Ritirossi allora a Sale nel territorio di Pavia, donde fu a questa città chiamato all1 impiego di professore. In fatti nell’Elenco degli Atti di quella università troviamo a’ 9 di ottobre del 1538 accennato questo documento: Literae Civitatis Illustri D. Senatus Prasidi, ut ponatur in rotulo D. Secundus Curionus Lector (p. 54)• Ma scopertosi presto chi egli fosse, sarebbe stato arrestato, se gli scolari vegliandone alla difesa, non l’avessero per ben tre anni fatto sicuro. Finalmente le istanze del papa presso il Senato di Milano consigliarono il Curione a fuggirsene, e ritiratosi prima a Venezia, c di là a Ferrara, [p. 2287 modifica]TERZO 3287 da quella duchessa Renata fu inviato a Lucca, ove ella gli ottenne una cattedra. Appena però avea ivi passato un anno, che quella Repubblica fu dal papa richiesta a darglielo nelle mani, al che benchè ella non consentisse, fu nondimeno persuaso al Curione di andarsene. Il Sigonio rimproverò poscia al Robortello di essere stato l’autore di questa tempesta contro il Cu1 ione eccitata: Age vero, non ne Lucac cum Coelio Curione insigni doctrina viro simultates exercuisti adeo acerbas, ut etiam illum delatione nominis non Luca solum, sed Italia quoque ipsa, depuleris (Disput. Patav. l. 2)? Chiunque fosse l’accusator del Curione, questi, passato negli Svizzeri, fu prima maestro in Losanna, quindi quattro anni dopo fu destinato professore di belle lettere in Basilea, ove poscia dimorò finchè visse, benchè invitato colla promessa di magnifiche ricompense da altri principi. Ardì una volta di ritornare in Italia, per prender seco la moglie e i figli ivi lasciati, e corse gran rischio di esser fermato; perciocchè già il bargello e gli sgherri ne avean cinto l’alloggio in un luogo presso Lucca; ma egli preso dalla mensa, a cui sedeva, un coltello, e con esso mostratosi a’ fanti, o essi ne rimanessero atterriti, o nol conoscessero, potè loro fuggir dalle mani. Morì a’ 24 di novembre del(1569, dopo aver pubblicate non poche opere, alcune sulle materie teologiche, secondo le opinioni de’ Protestanti, altre morali, altre satiriche, altre storiche, altre di diversi altri argomenti. Ma molto singolarmente egli affaticossi nell’illustrare la lingua latina, alla qual [p. 2288 modifica]2288 LIBRO classe appartengono la gramatica da lui pubblicata , e il libro del perfetto Gramatico, e quello della Maniera d’insegnar la Gramatica, ei cinque libri intorno alf Istituzion de’ fanciulli, e gli accrescimenti fatti al Nizzolio e al Tesoro della lingua latina, e le note su molte opere di Cicerone , e le correzioni di più altri antichi scrittori. Di queste opere del Curione si può vedere un più distinto catalogo presso lo Schelornio, il qual poscia ragiona ancora de’ figli e delle figlie ch’egli ebbe e di altri della stessa famiglia, i quali tutti nel coltivar le scienze e le lettere seguirono felicemente le tracce e l’esempio di Celio. XXIX. Qual fosse il frutto che dalle fatiche di tanti celebri professori e di tanti valorosi scrittori si trasse, tutto il corso di questa Storia ce lo ha abbastanza mostrato. Noi abbiam in essa veduti e poeti e storici e filologi e scrittori d’ogni maniera coltissimi; e anche tra’ coltivatori delle più gravi scienze, alcuni ne abbiam rinvenuti che seppero spiegare leggiadramente ciò che prima era involto fra una incolta barbarie. Qual differenza fra gli scrittori di questo e que’ del secolo precedente! La moltiplicità de’ libri accresciuta col moltiplicar delle stampe , le migliori e più corrette edizioni de’ classici autori venute a luce, le note e i comenti co’ quali essi furono rischiarati, i tanti libri didascalici che in questo genere si pubblicarono, la separazione che cominciò a farsi tra gli scrittori del secolo d’Augusto e que’ de’ secoli susseguenti, sicchè non si avessero nel medesimo conto Cicerone e Seneca, Virgilio e Lucano, [p. 2289 modifica]TERZO ^289 gli antichi monumenti scoperti e illustrati, le contese su alcuni punti di lingua insorte tra’ letterati, il numero delle scuole e de’ maestri accresciuto in ogni parte d’Italia, tutto ciò fu d’incredibile giovamento alla perfezione della lingua latina, e agevolò agli scrittori la via per richiamarne l’antica maestà e bellezza. Alcuni furono in ciò scrupolosi oltre il dovere, e credendo di farsi rei di grave delitto, se avessero usata una voce non usata da Tullio, gittaron molte volte nel cercar di un’acconcia parola quel tempo che meglio sarebbe stato impiegato in più utili oggetti. E così suole avvenire che a un’estrema rozzezza succeda un’estrema delicatezza, finchè poscia ritornin le cose a un giusto equilibrio. Ma di ciò abbiamo altrove parlato a lungo (ti 2, Diss. prel.), nè fa d’uopo il ripetere ciò che già si è detto. Veggiam nondimeno che verso la metà, del secolo si facevan doglianze che la lingua latina fosse tra noi disprezzata e quasi dimenticata. Paolo Manuzio, scrivendo ad Andrea Patrizio, Italia vero nostra, dice egli (l. 4* cp. 36), in qua vigebant olim artes bonae... ita veterem illam quasi formam videtur amisisse, vix jam ut agnoscatur. E a Marco Antonio Natta: An nescis, scrive egli (l. 3, ep. 31), libros Latinos optimos veteres ita nunc jacere, ut pene sordium in genere putentur! vix jam Ciceronem ipsum, Caesarem, Salustium legi, a multis etiam ne legi quidem, plancque contemni? Ma il Manuzio, come ad altra occasione abbiamo osservato (par. 1), era uomo querulo oltremodo, nè deesi molta fede a tali doglianze. E certo noi abbiam vedalo che [p. 2290 modifica]2HJO LIBRO verso la metà del secolo fioriva egregiamente l’amena letteratura in Italia, e vi erano scrittori latini di rara eleganza. Più ragionevole io credo che fosse il lamento che Latino Latini faceva sulla fine del secolo, cioè nel 1584, dolendosi che le università italiane fossero allora sì scarse di professori di belle lettere, che convenisse chiamarli fin d’Oltremonti: Male, scrive da Roma a Gammi Ilo Paleotti (Latinii Epist. t. 1, p. 277), ut nunc quidem est, Palaeotte suavissime, apud Italos cum litteris agitur, si, quod gemens scribis, quae olim gymnasia ita fiorebant, et eruditorum virorum numerosa examina solita erant effundere, et ultra alpes et maria ad omnium liberalium artium scientiam disseminandam excolendamque mittere, nunc ita sunt exausta, ut ex aliis Provinciis ad nos, non sine ignaviae nostrae nota, evocandi sint; quorum industria Itala juventus et linguarum scientia et rerum cognitione imbuatur. Hic enim, ut audio, qui in utraque lingua humaniores, quas dicunt litteras, publicis stipendiis conducti profitentur, Lusitani, Hispani, Galli que majore ex parte sunt. Infatti verso questi tempi furono professori di belle lettere nella Sapienza di Roma Tommaso Correa portoghese, Marcantonio Mureto e Maurizio Bresse francesi (Carafa, de Gymn. rom. t. 2, p. 317). E il decorso di questa Storia medesima ci ha dimostrato che gli ultimi anni di questo secolo furono men fecondi di colti scrittori e di professori valorosi che i primi, per quelle consuete vicende per cui l’ardore di una nazione per qualchcsiasi oggetto non suole durare [p. 2291 modifica]TERZO a39» lungamente, ma viene illanguidendo e scemando, finchè quasi si estingue. Noi ne vedremo gli effetti nella storia del secolo seguente, e frattanto mi sia solo permesso il riflettere che al tempo medesimo cominciò ancora a introdursi in Italia il reo e corrotto gusto che gittò poscia sì ampie radici, come a suo luogo vedremo. XXX. Mentre la lingua latina avea tanti e sì illustri scrittori che ne accrescevan l’onore e ne propagavan lo studio, anche la lingua italiana cominciò ad avere i suoi legislatori e maestri. Ella è cosa strana a riflettere che una lingua nella quale già da oltre a tre secoli non sol si parlava, ma scrivevasi ancora, e che si usava ne’ libri che si pubblicavano, non avesse ancora principj e regole stabili, e fosse lecito ad ognuno lo scrivere come pareagli meglio. A dir vero però, egli è necessario che così avvenga ad ogni nuova lingua. Se da prima non le si lascia libero il corso , sicchè possa ognuno usare quelle espressioni e quelle parole che più gli sembrino opportune, e appena nata vogliasi essa restringere entro determinati confini, non formerassi mai una lingua copiosa e perfetta. Ma dappoichè col volger degli anni essa si è arricchita, e può bastare per se medesima a spiegare i sentimenti tutti dell’animo, allora osservando le leggi che hanno comunemente osservate i più applauditi scrittori, e le avvertenze colle quali a comun giudizio si rende più soave e più armonioso lo stile, si posson esse ridurre a certi determinati principj; e senza ristringer la lingua in modo che nulla più le si possa aggiugner di nuovo, fissar le regole colle quali Thuboschi, Voi XIII. 21 [p. 2292 modifica]41 22C)3 LIBRO si abbia a parlare e a scrivere correttamente. Così avvenne della lingua italiana. Per lo spazio di oltre a tre secoli ognuno aveala usata come pareagli più opportuno a spiegare le sue idee. Il tempo, il più sicuro e il più imparziale giudice delle opere d’ingegno, assicurò l’immortalità alle opere di Dante, del! Petrarca, del Boccaccio e di tanti altri colti scrittori che furono sempre avuti e sempre si avranno in conto di maestri del ben parlare, e distrusse la memoria di tanti scrittori italiani incolti e rozzi, le cui opere o son perite , o giaccion tuttor tra la polvere. Al principio dunque del secolo xvi si cominciò a esaminare le opere de’ più rinomati scrittori; e sugli esempj loro si venner formando quelle leggi e quelle avvertenze che riducendo, per così dire, la lingua italiana in sistema , la rendesser sempre più bella, e servisser di norma agli altri, per ornare le opere loro colle grazie di uno stil colto e leggiadro. Pare che la lingua latina al veder V italiana, ch’ella rimirava come sua figlia, ingentilirsi di giorno in giorno, e adornarsi di nuovi vezzi, ne divenisse in certo modo gelosa, e cominciasse a temer che la figlia non si levasse contro la madre, e si usurpasse quel regno di cui ella avea finallora tranquillamente goduto. Quindi eccitò ella alcuni de’ suoi più devoti adoratori e seguaci a prender le sue difese e a sostenerla contro questa orgogliosa rivale. Romolo Amaseo fu il primo che uscisse in campo per essa, quando nel 1529 in Bologna innanzi aH’impcrador Carlo V, al pontefice Clemente VII e a più altri gravissimi personaggi recitò le due eloquenti [p. 2293 modifica]TERZO 3293 orazioni ili difesa della lingua latina, da noi già mentovate, nelle quali egli sostenne che l’italiana dovea essere confinata nelle ville, ne’ mercanti, nelle botteghe, e usata solo da uomini di basso affare. Lo stesso fecero Pietro Angelio da Barga in una sua orazione detta nello Studio di Pisa, Celio Calcagnini in un suo trattato della Imitazione, diretto a Giambattista Giraldi, nel quale egli si mostra desideroso che la lingua italiana sia totalmente sbandita dal mondo, Francesco Florido nell1 Apologia di Plauto, da noi poco anzi accennata, Bartolommeo Ricci nel secondo de’ suoi libri dell’Imitazione, Giambatista Goineo in un Paradosso da lui recitato nell1 Accademia degl’Infiammati di Padova; a’ quali scrittori, nominati dal Varchi (Ercolano, p. 243, ed. ven. 1570), si possono aggiugnere alcuni altri rammentati da Apostolo Zeno (Note al Fontan. ti 1, p. 35), e fra essi il famoso Sigonio nella sua orazione De latinae linguae usu retinendo. Ma se la lingua latina potè trovare valorosi scrittori che si presero a cuore il sostenerne l’onore, molti ne ebbe ancor l’italiana, che o col promuoverne.e agevolarne lo studio , o col difenderne l’eccellenza ed i pregi, la tenner ferma contro gl impetuosi assalti de’ suoi nemici, e con sì felice successo , eli’ ella andò sempre più propagandosi e stendendo per ogni parte il suo regno. Nè ella pretese allora di cacciar dal trono la lingua latina, ma solo o di regnare con essa, o di avere almen dopo essa il primo grado d’onore. E così in fatti avvenne nel secolo di cui scriviamo; benchè poscia ella abbia preso [p. 2294 modifica]3294 * LIBRO maggior coraggio, e or cominci a minacciare la sua madre medesima di quell’esilio a cui fu ella già in pericolo di essere condennata. Di questi illustratori e difensori della lingua italiana dobbiam qui ragionare, e noi il faremo con quella brevità che è necessaria a non allungarci soverchiamente, e a non annoiare chi legge con inutili e, direi quasi, superstiziose ricerche. XXXI. Il primo a tentare questa non facile impresa fu il Bembo, a cui non è agevole il di flit lire se più debba la lingua latina o P italiana. Ma ei non fu il primo a comunicare al pubblico i frutti delle sue ricerche. Gianfrancesco Fortunio schiavone di nascita, ma vissuto per lo più in Italia , e di professione giureconsulto, prima di tutti diè alla luce in Ancona nel 1516 le Regole gramaticali della volgar lingua , le quali piacquero allora per modo, che fino a 15 edizioni fattene fino al 1552 ne annovera Apostolo Zeno (ivi, t. 1, p. 7). Egli ebbe una fine infelice; perciocchè essendo podestà in Ancona , ove con molta lode esercitava il suo ministero, fu veduto un giorno dalle finestre del pretorio precipitato al basso e morto: e benchè gli Anconitani affermassero che in un impeto di mania si era egli stesso gittato dalle finestre, si dubitò nondimeno se altri per avventura non ve l’avesse sospinto (Valer. de Infelic. Liter. l. 1, p. 43). Dopo il Fortunio entrò nello stesso argomento Niccolò Liburnio veneziano, che dopo essere stabilito per sette anni maestro di Luigi Pisani poi cardinale, fu piovano di S. Fosca in Venezia e canonico della [p. 2295 modifica]TERZO 231^5 ducal basilica di S. Marco, e morì in età di ottantatrè anni nel 1557. Di lui sono Le. vulgari eleganzie stampate in Venezia nel 1521, e innoltre Le tre Fontane che uscirono in luce nell’anno 1526, e nelle quali pure ei ragiona della lingua italiana, e mostra doversi rigettare le lettere in essa dal Trissino introdotte, di che diremo tra poco. Egli è ancora autore delle traduzioni del iv libro dell’Eneide in versi sciolti, e dell’opera del Boccaccio de’ Monti e de’ Fiumi, di un libro di poco valore, intitolato Le Occorrenze fiumane, e di qualche altra operetta (a). Nell’anno medesimo in cui fu pubblicata l’opera del Liburnio, fu pur pubblicato il Compendio della volgar Gramatica di Marcantonio Flaminio allor giovinetto. Ma tutte queste opere parvero quasi ecclissarsi, quando si videro comparire le Prose del Bembo. Fin dal 1502 avea ei cominciato a scrivere alcune note sulla volgar nostra lingua, e fin dal 1512 aveane egli compiuti i primi due libri, come dimostra Apostolo Zeno (l. cit. t. 1 p. 9), benchè poscia, distratto probabilmente dall’impiego di suo segretario addossatogli da Leon X, non potesse ridurle a fine, nè pubblicarle prima del 1525. Quindi avendo egli inteso che Pellegrino Moretto o Moratto mantovano avea fatte certe annotazioni sopra esse, e tacciatolo di (a) Del Liburnio si ha anche una poro conosciuta operetta latina, stampata in Venezia nel i.53o, col titolo: Divini Plalonis gemmae ad excnlendos mortal uni tnores et viiam recte instituendam a Eicohio Liburnio colleciac. [p. 2296 modifica]2296 LTBRO aver rubate al Fortunio alcune poche cose, ei se ne dolse in una lettera a Bernardo Tasso (t. 3, l. 6), affermando che anzi il Fortunio avea da lui avuto quel primo abbozzo della sua opera , e di esso si era giovato nel suo libro. E il Bembo era uomo troppo leale e sincero , per non dovergli in ciò prestar fede. Egli è vero che anche il Fortunio nel suo proemio protesta ch’egli avea cominciata quella fatica fin da più anni addietro; ma ei non ne reca alcun monumento, nè veruna testimonianza, come fa il Bembo riguardo all’opera sua. Or questa, benchè posteriore di tempo quanto alla sua pubblicazione , fu veramente la prima opera da cui si potesse dire illustrata la nostra lingua; non già ch’essa sia scritta col metodo con cui i libri elementari vogliono essere scritti, ma perchè l’autore esamina giustamente e con buon senso discorre intorno a’ pregi della lingua medesima, e su’ migliori scrittori di essa va facendo utilissime riflessioni. Essa fu perciò lodata da molti anche tra i Fiorentini, e il Varchi fra gli altri ne parla spesso con molta lode nel suo Ercolano, e nella dedica fatta nel 1549 delle Prose medesime al duca Cosimo , dice che i Fiorentini non potranno mai essere abbastanza grati al Bembo, per aver egli la loro lingua dalla ruggine de’ passati secoli non pure purgata, ma intanto scaltrita, e illustrata, che ella ne è divenuta quale si vede. Ma non perciò le mancarono contraddittori e nemici. Fra gli altri il Castel vetro ne scrisse un1 aspra censura, parte della quale fu pubblicata in Modena nel i563; [p. 2297 modifica]TERZO 2297 R rimanente fu per la prima volta aggiunto all’edizion delle Prose fatta in Napoli nel 1724* In essa sembra che il Castelvetro talvolta riprenda a ragione il Bembo; ma talvolta ancora , lasciandosi trasportare dal troppo acuto suo ingegno, si abbandona a sottigliezze, dalle quali altro frutto non si ritrae che di stringere e d1 imbrigliare per modo chi scrivendo si vuol ad esse attenere, che non sappia egli pure come avanzarsi, e gitti per disperazione la penna. XXXII. L’esempio del Bembo eccitò molti altri scrittori a illustrare co’ loro libri la lingua italiana. E io crederei di gittare inutilmente il tempo , se volessi tesserne il catalogo Esso si può vedere nella Biblioteca di monsignor Fontanini colle Note di Apostolo Zeno, ed ivi si troveranno annoverate distintamente le opere di questo genere pubblicate da Marcantonio Ateneo Carlino napoletano, che in pessimo stile volle insegnarci a scrivere con eleganza; di Jacopo Gabrielli , di cui abbiam ragionato nel trattar de’ filosofi; di Gianfiloteo Achillini, del conte Matteo di S. Martino, di Giorgio Bartoli, di Lazzaro Fenucci da Sassolo, di Orazio Lombardelli, di Vincenzo Menni , di Paolo dal Rosso , di Reginaldo Accetto domenicano, di Giaropicrio Valeri a no , il quale, come già Leonardo Aretino, pensava che la lingua italiana fosse antica al pari, e più ancora che la latina; di Ascanio Persio, di Girolamo Ruscelli e di altri scrittori, le cui opere non son più molto curate, dappoichè tante altre di gran lunga migliori han veduta la luce. E ad essi si può aggiugnerc Giambatista [p. 2298 modifica]2298 LIBRO Bacchini modenese, che, come raccogliesi da più lettere del Minturno (Minturno, Lettere, /. leu. 10; l. 2, lett. 1, 2, 3, ec.), essendo in Sicilia segretario del vicerè, stava scrivendo un’Opera divina sulla toscana favella, e pensava ancor di raccogliere le rime inedite del Petrarca; ma nel 1534» fattosi frate di una Riforma di S. Francesco in Calabria, volse a tufi’ altro il pensiero («); e Filippo Oriolo da Basciano, che dal Bembo nel i.r)3i fu esortato a pubblicar certe Regole della lingua italiana da lui composte (Op. t. 3, p. 271). Fra essi dee annoverarsi Rinaldo Corso , degno di più distinta menzione per più altre opere che ci ha date, e per le lodi di cui è stato onorato dagli scrittori di que’ tempi. Egli era oriondo dalla Corsica, onde Rinaldo il vecchio di lui avolo trasferì la famiglia a Correggio, ove ebbe da Lisabetta Marescalchi sua moglie Ercole Macone celebre soldato al soldo de’ Veneziani , ucciso nel 1526 nell’assalto di Cremona, e onorato poi da Rinaldo suo figlio di un bel monumento di marmo, e di una onorevole iscrizione che tuttor si vede presso la chiesa di S. Francesco.in Correggio , c che è riferita dal ch. sig. Girolamo Colleoni (Scritt. di Corregg. p. 22, ec.). Da lui adunque e da Margherita Merli di lui moglie nacque Rinaldo in Verona, ove allor trovavasi il padre, come pruova il suddetto scrittore. Dopo la morte di Macone. tornò ancora fanciullo a Correggio sua (a) Veggansi più a lungo esposte le vicende del Bocchini nella Biblioteca modenese (t. 1, p. 225). [p. 2299 modifica]TERZO 229J) patria, indi passato a Bologna, vi ebbe per maestro nella giurisprudenza il celebre Andrea Alciati, e restituitosi poscia alla patria, vi esercitò per più anni l’impiego di giudice presso i conti di Correggio. Ortensio Landi, nella capricciosa descrizione del suo viaggio per 1’ 1talia , ove ogni cosa descrive per allegorie e per metafore, parlando di Correggio, dice (Commenti delle cose notab. d’Ital. p. 20)- di avervi ritrovato un Corso , il quale invece di uccidere e d assassinare altrui, difendeva vedove e pupilli, distendeva bellissime prose, e concordava dolcissime rime, e prosiegue rammentando le cortesie ivi usategli in una sua malattia dalla Signora Veronica Gambara, dalla Signora Lucrezia d Estc, dalla Rev. et illustre Signora Barbara da Correggio , e dalla Signora Virginia e dalla Sorella. E altrove (Paneg. della marchesa della Padulla, p. 24): O dotto Rinaldo Corso, chiama tutto il Choro delle Muse Toscane , che tanto ti sono obbligate, per haver tu sì dottamente scritto i fondamenti della lor pulita lingua. Ei parla ancora con molta lode del Corso non meno che di Correggio in una delle lettere da lui scritte, e di voi gate sotto il nome di Lucrezia Gonzaga (Lucr. Gonzaga, Letti p. 328). Anche Girolamo Catena, nella lettera da lui premessa alla prima edizione delle Lettere latine del Cardinal Cortese, parlando di Rinaldo, dalla cui libreria dice di averle avute, lo chiama omnium rerum magnarum cognitione in primis instructum, tum singulari eloquentia, tum probitate atque humanitate ornatum ac perpolitum. Essendo ei rimasto vedovo nel 156} [p. 2300 modifica]a3oo LIBRO di Lucrezia Lombardi, entrò nello stato ecclesiastico, e quindi a’ 3 ri’ agosto del 1579 fu fatto vescovo di Strongoli, e tra le Lettere del Catena se ne ha una de’ 25 giugno del 1572 (p. 220), dalla qual si raccoglie che sin da quell’anno sarebbe egli stato vescovo, se il papa , che il credette Corso di nazione e non di cognome, non se ne fosse perciò trattenuto. L’Ughelli ne fissa la morte al 1582, ma il soprallodato sig. Colleoni dimostra ch’ei morì poco dopo aver fatto il suo testamento, che fu rogato ai 18 di settembre de! i58o (a). Oltre i Fondamenti del parlar toscano , stampati nel 1549, più altre opere del Corso ci son rimaste , cioè la Sposizione sulle Rime di Vittoria Colonna, il libro Delle private Rappacificazioni , che fu poi da lui stesso tradotto in latino, e di nuovo stampato, ed è stato uno de’ libri in questo genere più pregiati, sinchè i libri di questo genere sono stati pregiati; un Dialogo del Ballo, la Vita di Giberto 111 signorili Correggio, con quella di Veronica Gambara, ed altre cose sulla famiglia di Correggio; una tragedia intitolata la Pantia, e alcune altre opere poetiche, legali e di altre materie, delle quali ci dà il catalogo il sig. Colleoni. Il Dolce ancora, che ad ogni argomento volle metter la mano, non lasciò questo intatto; ma , se crediamo al Muzio, ne ebbe assai poco (fl) 11 Corso mori certamente nel settembre del i5Ko, come si è dimostrato nella Biblioteca modenese (t. 2, p. 16, ec.; 1. 4, p. 68, ec.) ove della vita e delle opere di es>o si sono date assai più copiose notizie. [p. 2301 modifica]TERZO a3oi onore: L’anno cinquantesimo sopra i mille della nostra salute, dice egli parlando del Dolce (Battaglie , p- 37, ed. ven. 1582), trovandomi io in. Venegia, dove io feci stampare diverse opere mie, egli mandò fuori una sua Gramatica, nella quale fralle altre cose diceva, che di que’ verbi Latini, i quali terminano il preterito perfetto in xi, in questa lingua la terminazione è in ssi, come rego , rexi, et lego. lexi; et di molte altre goffarie erano in quel libro. Di che (per quanto mi fu riferito) M. Claudio Tolomei un giorno fra’ suoi Accademici ne fece le risa. Vero è, che perciò il Dolce ammonito da’ suoi amici, raccolse, come il meglio potè, quelle prime stampe , et si andò ritrattando. XXXIII. Frattanto alcune contese insorte intorno alla lingua italiana diedero occasione a diverse opere. dalle quali ella fu sempre più illustrata. Parve ad alcuni di’ essa non fosse abbastanza fornita di lettere a spiegare il diverso lor suono, e perciò fin dal principio del secolo erasi in Siena pensato ad aggiugnerne alcune nuove. Ma mentre ivi s’indugia a porre in esecuzione questo disegno, il Trissino, in cui erasi risvegliata la medesima idea, fu il primo a condurla ad effetto; e nel 1524 pubblicò in Roma l’Epistola delle lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana. Tra esse voleva egli introdurre l’ε e l’ω greco, la c, I’ / e fu consonanti, e alcune lettere composte, come ch, gh, th, phj e con queste lettere fece egli stampare l’anno medesimo la sua Sofonisba con altri opuscoli. Contro questa invenzione del Trissino si sollevaron parecchi, [p. 2302 modifica]a3oa LIBRO come Lodovico Martelli, Agnolo Firenzuola, Niccolò Liburnio e Claudio Tolomei, il primo de’ quali saggiamente si attenne a riprovar come inutili le nuove lettere, il secondo più acremente censurò il Trissino, tacciandolo ancora come plagiario e usurpator delle idee avute già da’ Sanesi, di che però non potè egli arrecare veruna pruova; il terzo impugnò il Trissino nella sua operetta intitolata Le tre Fontane; il quarto, a cui s’attribuise Il Polito, pubblicato sotto il nome di Adriano Franci, non pago di rigettare le lettere ritrovate dal Trissino, volle egli poi aggiugnerne altre alla lingua italiana, e distinguere il diverso suono della pronuncia nelle vocali collo scriverle diversamente , e con questa sua ortografia pubblicò egli le sue Lettere nell’anno 1547- Il Trissino non si atterrì pel numero e pel valore de’ suoi nemici, e co’ suoi Dubbj grammaticali, col dialogo intitolato Il Castellano e colla Gramatica si sforzò di sostenere le sue idee; e in difesa del Trissino levossi ancora Vincenzo Oreadino da Perugia con un suo Opuscolo latino fatto poi ristampare dal marchese Maffei nella sua bella edizione delle Opere del Trissino. Ma nè le lettere del Trissino, nè quelle del Tolommei non ebbero lunga vita. Solo il Trissino ottenne di vedere introdotte e ricevute comunemente nella volgar nostra lingua V j e Y v consonanti; e forse ancora a lui deesi Y introduzione della z nella lingua italiana innanzi all’i seguita da altra vocale , invece di cui usavasi allora di scrivere t. Di questa contesa parlan più a lungo Apostolo Zeno (Note al Fontan. t, 1, p. 28 , ec.) e Pier [p. 2303 modifica]terzo a3o3 Filippo Castelli (Vita del Triss. p. 33, ec.), e ad alcuni sembrerà forse ch’io abbia detto più ancor del bisogno. XXXIV. Più fervida ancora fu l’altra contesa che si eccitò tra gli eruditi Italiani, qual nome dovesse darsi la nostra lingua, se volgare dovesse ella chiamarsi, o fiorentina, o toscana , o italiana; lite veramente degna intorno a cui si affaticassero uomini di acuto ingegno e di vasta erudizione! Claudio Tolommei fu il primo che credesse ben impiegato un tomo in quarto per disputarne, com’egli fece nel suo Cesano, nel qual si disputa del nome, con cui si dee chiamare la volgar lingua, stampato nel 1555, e volle ch’ella si dicesse toscana. Il Trissino avea già sostenuto ch’ella dovea dirsi italiana, del qual parere fu poscia ancora Girolamo Muzio, il quale nelle sue Battaglie stampate nel 1582, opera in cui molte osservazioni contengonsi alla nostra lingua assai utili, impugnò a lungo Il Cesano del Tolommei. Il Varchi, che prese a scrivere il suo Ercolano ossia Dialogo delle Lingue all’occasione della contesa tra ’l Caro e’I Castelvetro, da noi altrove narrata, sostenne ch’essa dovea appellarsi fiorentina, e citò ancora in suo favore l’autorità del Bembo. Quindi l’Ercolano fu censurato esso pure dal Muzio nelle sopraccennate Battaglie, e dal Castelvetro, che pubblicò nel 1572 la Correzione di alcune cose del Dialogo delle Lingue. I Sanesi non stettero in questa contesa oziosi, e Scipione Bargagli, Celso Cittadino e Belisario Bulgarini pretesero che la nostra volgar lingua dovesse dirsi sanese. Qual fu il frutto di si lunghe c di [p. 2304 modifica]a3o4 LIBRO sì calde dispute? Il rimanersi ognuno nel suo parere, e il persuadersi di aver ragione. A me nulla preme il sapere chi abbiala veramente, e sono persuaso che, purchè si scriva con esattezza e con eleganza, poco importa finalmente con qual nome debba distinguersi la nostra lingua. Molto meno entrerò io a parlare dell’altra ancor più fredda quistione intorno a’ titoli di Altezza , di Eccellenza , di Signoria, che dal Tolommei, da Bernardo Tasso, dal Bini, dal Contile , dal Caro, dal Muzio si volevano dalle lettere scritte in lingua italiana esclusi, dal Ruscelli il contrario e da altri si volevan conservati; l’opinion de’ quali ultimi fu alla fin vittoriosa , e i detti titoli generalmente furono ricevuti. XXXV. Ciò che non vuolsi dissimulare a gloria degl’italiani nati fuori della Toscana, si è ch’essi furono i primi a dar precetti della volgar nostra lingua; perciocchè, se se ne traggano gli opuscoli scritti contro il Trissino, i quali però furono posteriori alle opere del Bembo , del Fortunio e del Liburnio, il primo fra’ Toscani a scrivere della lingua italiana fu Pierfrancesco Giambullari di patria fiorentino, di cui già si è detto nel ragionar degli storici. Qui dunque ne rammenteremo solo il Gello ossia il Trattato della lingua che si parla e scrive in Firenze, stampato primieramente nel i5 j7, c poscia più altre volte, aggiuntovi un dialogo di Giambattista Gelli sopra la difficoltà di ordinar detta lingua. Volle il Giambullari persuaderci che la nostra lingua venisse dall’antica etrusca, e fosse accresciuta poi anche dall’ebraica e dall’aramea; e ognun può immaginare quai belle [p. 2305 modifica]terzo a3o5 cose dovesse dire su tal proposito. Nondimeno ei dee aversi in conto di uno degli scrittori più benemeriti della lingua italiana per la sceltezza delle voci e delle espressioni. Non così riguardo alla gramatica e alla ortografia, nelle quali, come avverte Apostolo Zeno (l. cit. p. 25), ei non è modello troppo degno d’imitazione, essendo a lui pure avvenuto ciò che, secondo il canonico Salvino Sul vini (Fasti consol. p. 70), accadde talvolta ad altri Toscani, cioè ch’essi, fondati sul benefizio del Cielo, che donò loro il più gentil parlare d’Italia, trascurano i loro stessi beni, non osservando perfettamente V esatta correzione, e non curandosi di aggiugnere alla fertilità, per dir così, del lor terreno la.necessaria cultura , e a’ loro componimenti l’ultimo pulimento. In seguito al Giambullari moltissimi altri Toscani scrissero a illustrazione della lingua italiana, e non pochi ne abbiam poc’anzi accennati. L’Accademia fiorentina e quella della Crusca presero a principale oggetto delle loro fatiche la prefazione di essa; e quindi vennero le tante lezioni su’ più colti scrittori , e singolarmente sul Petrarca e sul Boccaccio. Frutto ancora di tali studj furono le tante edizioni che de’ detti autori e di più altri del buon secolo della lingua toscana si fecero allora , e quella singolarmente del Decamerone, poichè la celebre edizione fatta in Venezia nel 1527, benchè da alcuni giovani fiorentini fosse diligentemente riveduta e corretta su alcuni codici assai pregiati , parea nondimeno aver bisogno di qualche emenda, e inoltre per le empietà che rendevane la lettura pericolosa, era stata, come [p. 2306 modifica]a3o6 LIBRO le altre, dalla Chiesa proscritta. Il gran duca Cosimo scelse alcuni de’ più periti nella lingua toscana, perchè presiedessero a questa edizione , sicchè ella riuscisse quanto più esser poteva esatta e corretta , e ne fosser tolte le cose che offendevano la Religione. Questi, secondo il ch. sig. Manni (Stor, del Decam, par. 2 , c.10), furono Bastiano Antinori, Agnolo Guicciardini, Vincenzio Borghini e Antonio Benivieni; e il Decamerone per opera loro uscì in Firenze dalle stampe de’ Giunti nel 1573, e l’anno seguente si pubblicarono le Annotazioni de’ Deputati medesimi sopra alcuni luoghi del Boccaccio , la qual opera fu però distesa interamente dal suddetto Borghini. Ma questa edizione non soddisfece agli amatori della lingua toscana; e parve loro che troppo severi fossero stati i censori togliendo dal Decamerone*più cose-cbe poteano senza scandalo lasciarsi intatte. Al contrario il gran duca Francesco, successore di Cosimo, credette ch’essa non fosse abbastanza corretta, e che più cose ancora se ne dovesser troncare , e ordinò al cav. Lionardo Salviati di darne una nuova edizione, Diededela il Salviati nel 1582, e benchè essa venisse poscia ripetuta più volte, è nondimeno biasimato l’editore dagli eruditi, per averne tolte più cose che niuno danno arrecavano al buon costume , per avere cambiati a capriccio i nomi di alcuni paesi, per avere ancora mutate talvolta senza necessità le parole, e sconvolto l’ordine de’ periodi, per avere interpolati alcuni passi, e aggiunta qualche cosa del suo, e talvolta con gravissimi errori; intorno a che si posson vedere la Storia del [p. 2307 modifica]terzo a3o7 Decamerone del Manni, e le Note di Apostolo Zeno alla Biblioteca del Fontanini (t. 2,p. 177). XXXVl..Mollo ciò non ostante giovò il Salviati colle sue opere a perfezionare la nostra lingua; ed è degno perciò di onorevol memoria nella Storia della letteratura italiana. Nato in Firenze nel 1540 da nobilissima famiglia, ebbe per genitori Giambattista Salviati e Ginevra Corbinelli. Nel 1569 fu onorato della croce di S. Stefano, e visse caro non meno a’ suoi principi che ad altri signori, fra’ quali servì per più anni il duca di Sora Jacopo Buoncompagni gran mecenate de’ dotti, a cui perciò dedicò egli la sua edizione del Decamerone. In eia di vent’auni scrisse i Dialoghi dell1 Amicizia, clic furon poi pubblicati nel 1564, e mentre non contavane ancora che ventisei, fu consolo dell’Accademia fiorentina; e nell’anno medesimo avendo egli composta la commedia intitolata Il Granchio, fu essa dall’Accademia medesima fatta rappresentare pubblicamente. Un’altra poscia ei ne compose intitolata La Spina] e amendue si annoverano tra le migliori che, quanto allo stile, abbia la nostra lingua. In molte solenni occasioni fu egli destinato a perorare in pubblico, e tutte queste orazioni furon poscia raccolte e date alle stampe. L’Accademia fiorentina, di cui fu uno de’ principali ornamenti, gli diede occasione di recitare in essa parecchie lezioni, le quali pure vider la pubblica luce. Egli era uno de’ deputati alla formazione del Vocabolario della Crusca; ma morì innanzi ch’esso fosse compito. Fra tutte però le opere del cavaliere Salviati, quella che lo ha renduto più celebre, sono gli Tiiuboschi, Voi. XIII. 23 [p. 2308 modifica]a3o8 libro Avvertimenti della lingua sopra il Decamerone in due tomi, pubblicati nel 1584 e ,nel 1586, ne’ quali egli assai più ampiamente che non si fosse ancor fatto, spone tutti i precetti necessarj a scrivere correttamente. Fu quest’opera criticata da Vitale Papazzoni bolognese nel suo libro intitolato Ampliazione della lingua volgare stampato nel , il qual diede occasione a contese e ad altri libri tra ’l Papazzoni medesimo e Orlando Pescetti; e anche Pierantonio Corsuto prese ad impugnare il Salviati nel suo Capece, ovvero le Riprensioni, libro pubblicato nel 1592. Egli ebbe ancor parte nell’aspra guerra che l’Accademia della Crusca dichiarò al Tasso; e di lui sono i libri che in quell’occasione vennero a luce sotto il nome dell’Infarinato nel 1585 e nel 1588. Anzi vuolsi da alcuni ch’ei sia l’autore delle Considerazioni pubblicate sotto il nome di Carlo Fioretti da Vernio. E forse avrebbe il Salviati continuato a scrivere su quell’argomento, se la morte non l’avesse rapito in età di soli cinquantanni nel i589 (a). Della vita e di queste opere del Salviati, e di altre che o giacciono inedite, o son perite, più distinta contezza si potrà avere nelle Notizie dell’Accademia fiorentina (p. 216, ec.), ne’ Fasti consolari della medesima (p. 185, ec.) e negli Elogi degl’illustri Toscani (t. 4). Io avrei (a) Non doveasi lacere che il Salviati fu per qualche tempo alla corte di Ferrara, a cui recossi con onorevole provvisione Tanno ir)87. Ma solo dieci mesi vi si trattenne, e tornossene a Firenze, dice il eh. aliale Secassi (Vita di T. Tasso, p. 35q, 3(>2), più povero e puì mal soddisfano che mai, e vi morì puco appresso. [p. 2309 modifica]TERZO * bramato però, che nelle dette Notizie dell’Accademia, ove si ri ferisco n gli elogi che molti scrittori han fatto del Salviati, si fosse usata maggiore sincerità nel riportare il giudizio cbe deli’ opere di esso diede scrivendo a lui medesimo Annibal Caro (Lettere, t 2, lett. 265); e che dopo avere prodotto ciò ch’egli ne dice in lode, non si fosse taciuto ciò ch’egli in esse riprende modestamente. Questo giudizio è sì ragionevole e saggio, che piacerà, io spero, a chi legge, eli’ io qui ne rechi almen qualche parte: Perchè non so quello, dice egli, che Don Silvano vi si abbia riferito, vi dirò parimente che le vostre cose mi piacciono; e non tanto c/i io le riprenda, le giudico degne di molta lode, e le celebro con ognuno, come ho fatto con lui. E quello, di io gli dissi, che non ci vorrei, mi ci piace sommamente, perchè mi dà indizio di molta virtù, e speranza di gran perfezione, perchè, secondo me, il dir vostro, se pur pecca, pecca in bontà.... La fecondità dell’ingegno vi fa soprabbondare e nelle cose, e nelle parole; e nel metterle insieme vagar più che a me non par che bisogni.... Io lodo nel vostro dire la dottrina, la grandezza , la copia, la varietà, la lingua, gli ornamenti, ed il numero, ed invero quasi ogni cosa, se non il troppo in ciascuna di queste cose, perchè alle volte mi par, che vi sforziate, e che trapassiate con l’artificio il naturale di molto più che non bisogna per dire efficacemente e probabilmente.... Quanto (alle parole, a me pajono tutte scelte e belle; le locuzioni proprie della lingua, e le ìne.tafore e le figure ben fatte. [p. 2310 modifica]u3lO LIBRO Soli alcuni aggiunti o epiteti mi ci pajono alle volte oziosi.... E delle parole non altro. La composizion dì esse per bella, artificiosa, e ben figurata che sia, mi pare alle volte confusa. E questo credo, che proceda dalla lunghezza de’ periodi, perchè alle volte mi pajono di molti più membri, che non bisogna alla chiarezza del dire; il che sapete. che fa confusione, e si lascia indietro gli auditori, ec. XXXV II. Le regole e i precetti gramaticali giovavano a scrivere correttamente. Ma ciò non bastava. Come in tutte le altre lingue si eran pubblicati lessici o vocabolarj che, unendo insieme le più eleganti maniere di favellare, agevolassero agli studiosi la via d1 imitare scrivendo i migliori scrittori, così conveniva che somiglianti libri avesse ancor la nostra lingua italiana. Il primo a darne un tenue saggio fu Lucillo Minerbi, il quale alla edizion del Decamerone fatta in Venezia nel 1535 aggiunse un Vocabolario delle voci usate dal Boccaccio. Ma ei non raccolse le voci che di questo scrittore. Più ampio fu il disegno di Fabricio Luna napoletano, che l’anno 1536 pubblicò in Napoli il Vocabolario di cinque mila Vocaboli Toschi del Furioso, Petrarca, Boccaccio e Dante, opera che, come suole avvenire alle prime in Ogni genere, parve assai imperfetta e nell’ordine e nella scelta. Del Luna, ch’è anche autore di un libro di Poesie latine, si posson vedere più copiose notizie presso Apostolo Zeno (Note al Fontan. t. 1, p. 62). Miglior successo ebbero le fatiche di Alberto Accarigio, il quale in Cento sua patria pubblicò nel i5.{3 il Vocabolario [p. 2311 modifica]t terzo ’a3n colla Gramalica r. l’Ortografia della lingua volgare, e che fin dal 1536 avea data alla luce una Gramatica diversa da quella eli1 egli unì poscia al suddetto Vocabolario (ivi, e Mazzucch. Scritt. ital. t. 1, par. 1, p. 31). Ma come l’opera dell’Accarigi fece cadere a terra quella del Luna, così essa pur fu oscurata da quella che le venne appresso di Francesco Alunno. Intorno a questo scrittor ferrarese, morto nel 1556, e che fu celebre singolarmente per la sua rara eleganza nel formar caratteri d1 ogni sorta, di che fu maestro nella cancelleria di Venezia, e che giunse a scrivere sì minutamente, che nello spazio di un denaio potè scrivere senza abbreviature il Credo e il primo capo del Vangelo di S. Giovanni: di lui, io dico, non ho che aggiugnere a ciò cbe esattamente Inumo scritto il Zeno (l. c. p 63, ec.) e il conte Mazzucchelli (l. cit. p. 552, ec.). Egli ci diede dapprima le osservazioni sopra il Petrarca, stampate in Venezia nel 1539, poscia ampliato nel 1550. Indi diè alla luce nel i5 |3 le Ricchezze della lingua volgare, nella qual opera con ordine alfabetico raccoglie tutte le voci e tutte le più eleganti espressioni dal Boccaccio usate. Per ultimo pubblicò la Fabbrica del Mondo nel i5 |6, divisa in dieci libri, in cui si contengon le voci de’ primi tre padri della lingua italiana, disposte per ordine di materie, opera che il Tassoni forse troppo severamente disse fabbrica di mattoni mal cotti (Consider. sopra il Petr. p. 341); ma che certo sarebbe più pregevole assai se migliore ne fosse 1" ordino , e più giudiziosa la scelta. Lasciamo in disparte la Copia delle [p. 2312 modifica]3312 LIBRO parole (li Giovanni Marinelli, i Vocabolarj del Galesini, del Ruscelli, del Sansovino, del Venuti, che servono ad amendue le lingue, ed accenniamo solo due opere di più vasta estensione. La prima sono i xii libri Delle Frasi toscane di Giovanni Stefano da Montemerlo gentiluomo di Tortona, stampata in Venezia nel 1566, alla quale edizione medesima cambiato il titolo per le solite arti degli stampatori, fu sostituito quello di Tesoro della lingua toscana, fingendolo stampato nel 1594 (V. Zeno, l. cit. p. 71). L’altra cbe è la migliore di quante opere (di tal natura in questo secolo si composero, benchè essa non uscisse a luce che nel 1601, è il Memoriale della lingua di Jacopo Pergamini da Fossombroni. Il Pergamini era stato per lungo tempo al servigio della casa Gonzaga, e principalmente del cardinale Scipione, in nome di cui abbiamo alle stampe più Lettere da lui scritte negli anni 1587 e 1588 (Zucchi, Idea del Segr. par. 1, p. 1445 ec.). Di quest’opera del Pergamini fa onorevol menzione Bernardino Baldi in una sua lettera inedita a don Ferrante II duca di Guastalla, scritta da Venezia a’ 25 di maggio del 1603: Con la prima occasione manderò all E. V. un libro detto il Memoriale della lingua, fatica simile alla Fabbrica del Mondo, ma copiosissima, e tale, quale talhora l’E. V. ha mostrato di desiderare. V autore è il Sig. Giacomo Pergamini da Fossombrone, che fu già Segretario del Patriarca e poi Cardinale Scipione di f. m. Ma tutte queste opere cadder molto di pregio, quando uscì la prima volta alla luce il Vocabolario della Crusca nel 1612. Di esso dobbiam [p. 2313 modifica]terzo a3i3 riserbarci a parlare nella storia del secolo susseguente; e qui terminerem questo capo eolf accennare che anche la poesia italiana ebbe in questo secolo alcuni scrittori che ne scrisser le regole; perciocchè, oltre che molti degli scrittori dell’Arte poetica trattarono ancor delle leggi della volgar poesia, Girolamo Ruscelli scrisse e divulgò nel 1559 un Trattato del modo di comporre in versi nella lingua italiana. E questo pure fu il secolo in cui si cominciò a pubblicare i rimarj. Fulvio Pellegrino Moreto, o Morato ne diè il primo saggio col raccoglier eli’ ci fece le Cadenze di Dante e del Petrarca, stampate nel 1528. Seguì appresso Giammaria Lanfranco parmigiano che nel 1531 pubblicò in Brescia le Concordanze del Petrarca. Più ampio fu il Rimario di Benedetto Falco napoletano, stampato in Napoli nel 1535, ma l’ampiezza ne è l’unico pregio, e ad essa non ben corrisponde la critica e la scelta. Finalmente il Ruscelli al suo suddetto Trattato aggiunse anche il Rimario migliore de’ precedenti, ma non perciò esatto e compito. Ma di tutte queste opere ci dee bastare F aver fatto un semplice cenno; e parrà forse ad alcuni che anche il sol cenno si potesse da noi tralasciare, senza recare alcun danno all1 onore dell1 italiana letteratura. \