Storia della rivoluzione di Roma (vol. II)/Capitolo V
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[Anno 1848]
I casi di Parigi vennero in mal punto per la rivoluzione italiana, per quella intendiamo che avea per capi un Gioberti, un Balbo, un d’Azeglio, e che posava su base monarchica.
Essi ne intorbidarono i piani, ne sconvolsero i divisamenti, ne alterarono le intenzioni. Non così però la pensavano i seguaci del Mazzini, che collo svolgersi improvviso, e col subito trionfo di un insperato movimento repubblicano, videro anticiparsi per lo meno di dieci anni l’adempimento delle loro speranze.
Dopo di ciò, ecco alcuni capi della rivoluzione italiana ch’erano a Parigi, e che da Parigi guidavano il movimento romano, porsi all’opera per regolarne meglio il compito, a seconda delle loro individuali vedute. Di ciò abbiamo alcuni documenti irrefragabili nelle lettere in istampa mandate a Roma dal Gioberti, una delle quali diretta al suo grande amico Giuseppe Massari, e l’altra al Montanelli, che come tutti sanno era il capo dell’agitazione toscana, e fino ad un certo punto ancora il direttore dell’agitazione romana. Queste due lettere tendevano assolutamente a dissuadere o premunire gl’italiani dal non imitare il moto parigino.1 Un altro documento è il programma della formazione istantanea ch’ebbe luogo in Parigi il 5 marzo dell’associazione nazionale italiana, della quale il Mazzini fu fatto presidente, ed il ferrarese Lizabe Ruffoni segretario.2
In una parola, accaduta appena la rivoluzione di Francia, fu sollecito il Gioberti di scrivere agl’italiani per distoglierli dal servilismo imitativo dei Francesi, come in altre cose, anche in quelle politiche. Egli, cui era riuscito di accalappiare buona parte del clero col suo Primato papale, mal sosteneva che per le improntitudini di alcuni Italiani guastata venisse l’opera delle sue mani. E conseguentemente egli voleva sovrapporre al fuoco dell’acqua fresca, mentre il Mazzini per converso avrebbe voluto aggiungere nuovi carboni ardenti al fuoco già esistente. Ecco dunque due capi scuola agenti contemporaneamente nel luogo stesso, ma in senso diverso, perchè l’uno favoreggiando, avversando l’altro la repubblica. D Gioberti stampando e propagando le sue lettere, il Mazzini per segreti messaggi trasmettendo le sue istruzioni.
Ma le parole del primo son così chiare ed esplicite, che reputiamo pregio dell’opera il riportarne alcune che abbiamo estratte dalla lettera inviata al Massari. Esse dicono così:
«Quanto ai popoli italiani, l’interesse, la prudenza, il dovere debbono egualmente rimuoverli dal volere imitare stoltamente la Francia. L’interesse; perchè tanto sarebbe il parteggiare per la repubblica, quanto il rompere la lega italiana, precipitare i nostri principi in grembo all’Austria, e distruggere il maraviglioso lavoro di tre anni. La prudenza; perchè colla monarchia tuzionale certo e duraturo è il risorgimento italiano, laddove colla repubblica, nulla è di più incerto. Guardiamoci, popoli e principi, di volere sì scioccamente rifare il passato secolo; studiamoci invece di cansarne gli errori e le sventure. Nello stato attuale di Europa una repubblica, se non è antica come l’elvetica, o microscopica come la sammariniana, è cosa precaria per ragioni intrinseche ed estrinseche.»
E nella lettera al Montanelli diceva quanto segue:
«Come i sovrani d’Italia non han da temere della repubblica francese, così i popoli italiani non possono invidiarla. La libertà costituzionale non è minore in sostanza della repubblicana; ed è certo più salda e sicura. Essa è poi necessaria presentemente alla unione, che importa più di ogni altra cosa; giacchè se una setta aspirante a repubblica si formasse nella penisola, ciò basterebbe a seminare la diffidenza tra i popoli e i principi, e a distruggere l’acquistato. Oh guardiamoci da tal follia!»
E più sotto:
«Non veggo pure gran differenza tra le due forme di governo. Che cos’è un principe costituzionale se non un capo ereditario di repubblica? E un presidente di repubblica che un principe elettivo? L’essenza del governo rappresentativo sta nei modi della rappresentazione anzichè in altro.»
Il linguaggio del Gioberti ci sembra ben chiaro sotto un punto di vista, ma sotto l’altro è ben poco diplomatico, perchè contenente tali rivelazioni che sarebbe per esso stato meglio il tacere.
Primieramente quel parlare, di tre anni di lavoro fa conoscere che tutto ciò che si era veduto fino allora, in luogo di essere stato conseguenza naturale e spontanea delle concessioni papali, era stato effetto invece di un lavorìo, ed ogni lavorìo consta di macchine ch’ebbero i lor macchinisti per costruirle.
Ma quel dire così riciso che un re costituzionale equivale ad un capo ereditario di repubblica indur doveva diffidenza e sospetto nei principi italiani, perchè era lo stesso che dire otteniamo, otteniamo la costituzione, e noi avremo una repubblica bella e buona. Crediamo ancor noi che un re costituzionale di poco differisca da un capo di repubblica, ma non pertanto una simile confessione giammai uscir non doveva dalla penna del Gioberti con tanta ingenuità.
La verità poi che emerge dai fatti sovraccennati è questa, cioè che la rivoluzione italiana presentò sempre il dualismo alle prese. Gli Albertisti con Gioberti, Balbo e d’Azeglio alla testa, volevano una cosa. I repubblicani con Mazzini, Garibaldi e Brofferio per loro capi, ne volevano un’altra. Fin da Parigi incominciò la sfida come abbiamo narrato, quindi nella state del 1848 si scelse la città di Milano siccome l’arena fra i contendenti, ed ivi i Fusionisti ebbero a lottare con Mazzini e col suo giornale la Italia del Popolo. Nei 1849 poi il partito vincitore si trasferì ed intronizzò a Roma, e da qui beffeggiava e vituperava il Gioberti qualificandolo da trappolaro e da gomitante; e Carlo Alberto non era più la formidabile spada d’Italia, ma notavasi in vece siccome inetto ad un tempo e tiranno. Così gl’Italiani che a piena gola parlavan di concordia e di unione, detter la prova la più indubitata di quella disunione ch’è stata sempre il loro retaggio.
I consigli del Gioberti però furono ascoltati nel marzo del 1848, perchè il giorno 6 si vide il senato ed il popolo romano ossia il comune di Roma emettere un indirizzo al Santo Padre, col quale s’implorava un governo a forme rappresentative.
Detto indirizzo essendo riferito per intero dal Ranalli3 non che dalla Gazzetta di Roma,4 ci asteniamo dal riportarlo ancor noi intieramente, bastandoci di citarne il brano seguente:
«Eccovi dunque in cospetto, o Padre e Signore degli animi, quella Roma che molti secoli addietro cessò le stragi cittadine e le correrie barbaresche sotto l’usbergo dell’apostolica protezione. Oggi stimolata dai suoi bisogni, e fatta animosa pei vostri benefizi, prega che il suo governo sia quind’innanzi costituito per forma rappresentativa e perfettamente convenevole alla presente civiltà, durabile quanto non pur la vita, ma il nome e la gloria vostra.»
Rispose il Santo Padre quanto dignitosamente, altrettanto saviamente con queste parole:
«Gli avvenimenti che non dirò si succedono, ma si precipitano, giustificano bastantemente la domanda che ella, signor senatore, in nome del magistrato e del Consiglio mi ha fatta. Tutti sanno che mi sto indefessamente occupando per dare al governo quella forma, che è più consentanea alle attuali esigenze.
» Ognuno intende la difficoltà che s’incontra, da chi riunisce due grandi dignità, per tracciare la linea precisa che deve distinguere l’un potere dall’altro: e ciò che in un governo secolare si può fare in una notte, nel governo pontificio non si può fare che dopo maturo esame.
» Tuttavia mi lusingo che tra pochi giorni sarò in caso di annunciare, col compiuto lavoro, il risultato che spero sarà di gradimento a tutte le persone assennate, ed in conseguenza alle signorie loro ed al comune.
» Iddio benedica questi desideri e queste mie fatiche! E sperando che la religione ed i popoli siano per trarne vantaggio, pregherò continuamente affinchè dal Datore di ogni bene, che ha in mano i cuori degli uomini, possa conseguirsi il doppio scopo conducente alla vera felicità di essi popoli.»5
Il Ranalli alludendo alle domande dei circoli, alle insistenze dei comitati, alle petizioni e ambascerie che giungevano dalle provincie, ai clamori plateali, agl’indirizzi municipali, esclama nella sua storia con molta giustezza di vedute. «In vero non fu mai fatta ad alcun governo cotanta ressa per istrappargli quello che meno di ogni altro avrebbe potuto concedere.»6
Se noi non fossimo stati in Roma, e non avessimo veduto cogli occhi nostri che il vero governo era nella piazza e nei circoli; se non avessimo esperimentato e toccato con mani la pressura esterna e la violenza che, e nel governo, e nel municipio, e nelle accademie, e nei quartieri civici, e nelle mura domestiche perfino traforavansi; e non avessimo inoltre veduto i lenocinl, le gherminelle e gli abbindolamenti che adoperavansi per forzare in ogni modo le volontà individuali dei cittadini onde obbligarli a dire il più delle volte (per quiete propria) quello che non avrebber voluto, ma che pure piaceva al partito dominante che si dovesse dire, noi ci permetteremmo di disapprovare l’indirizzo del municipio, il quale in luogo di limitarsi all’amministrazione del comune, prendeva l’iniziativa nelle cose politiche, e forzava in certo modo la mano al potere per domandare nientemeno che un cambiamento di governo. Ma ripeteremo ciò che più e più volte abbiam detto, che i tempi così correvano, e che l’ipocrisia rivoluzionaria signoreggiando prepotentemente, dominava le cose e costringeva tutti a secondarla.
Eravamo nel regno del caos, e doveva chiamarsi il regno dell’ordine; si camminava versò il precipizio, e pareva a molti che si stesse al sicuro; veleggiavasi in un mare burrascoso, e sostenevasi che incolumi eravamo entrati nel desiderato porto. Questo lo stato vero delle cose nel marzo del 1848.
Parleremo fra poco dello statuto che si concedette, delle sue disposizioni generali, e dell’effetto che produsse.
Intanto gittiamo uno sguardo sopra le altre cose che accaddero in quei giorni d’intervallo.
Diremo pertanto che al banchetto piemontese del giorno 5, di cui parlammo nel capitolo precedente, successe quello dei Bolognesi il giorno 6.7
Proponevasi il giorno 8 dal colonnello Calderari ai carabinieri pontifici una sottoscrizione in favore della guardia civica.8
E sottoscrivevasi nel medesimo giorno il chirografo pontificio per l’affrancazione dei canoni, de’ livelli e delle decime, il quale venne preceduto da un rapporto del ministro delle finanze monsignor Morichini.9
Le notizie di Francia intanto che promettevano il trionfo della democrazia, determinarono i promotori del circolo popolare a richiedere l’approvazione dall’autorità del suo statuto, approvazione che si ottenne il giorno 8 marzo. Difatti al primo articolo dello statuto si dice: «Il circolo popolare nazionale è una società approvata dall’autorità fino dal giorno 8 marzo 1848.»
» Articolo secondo. — La società o circolo ha per suo presidente onorario perpetuo il chiarissimo italiano Vincenzo Gioberti, com’ebbe per promotore il popolano Angelo Brunetti soprannominato Ciceruacchio.»10 Da quell’epoca dunque data il sopravvento o la preminenza che il circolo popolare prese sul circolo romano non solo, ma su tutti gli altri circoli di Roma.
Eccoci giunti finalmente alla formazione di quel ministero costituzionale che preluder doveva alla promulgazione ed all’attuazione dello statuto, di quel ministero insomma, il quale riunendo nomi cari al progresso, e in parte, dobbiamo pur dirlo, alla rivoluzione, fece cessare i clamori della piazza e dei circoli, che fin dal 10 gennaio e dall18 febbraio si fecero sentire.11
Rileggendo i capitoli primo e terzo di questo volume, ove se ne parla, si vedrà chiaramente quali uomini, e quali cose si richiedessero.
Questo ministero, che chiamossi il ministero Recchi, fu formato il 10 marzo, e componevasi come appresso:
Cardinale Giacomo Antonelli segretario di stato, ministro degli affari esterni, e presidente del Consiglio dei ministri.
Conte Gaetano Recchi di Ferrara, ministro dell1 interno.
Avvocato Francesco Sturbinetti romano, ministro di grazia e giustizia.
Monsignor Carlo Luigi Morichini romano, arcivescovo di Nisibi, ministro delle finanze.
Marco Minghetti di Bologna, ministro dei lavori pubblici.
Principe Camillo Aldobrandini romano, ministro delle armi.
Avvocato Giuseppe Galletti di Bologna, ministro di polizia.
Cardinale Giuseppe Mezzofante di Bologna, ministro dell’istruzione pubblica.
Conte Giuseppe Pasolini di Ravenna, ministro del commercio.
Monsignor Gaetano Bedini di Sinigallia, sostituto di segreteria di stato, in luogo di monsignor Santucci.12
Professore Nicola Cavalieri S. Bertolo di Comacchio, sostituto al ministero dei lavori pubblici.
Professore Carlo Luigi Farini di Russi, sostituto al ministero dell’interno.13
Prescindendo dal colore politico di certuni, che per lo stato pontificio non potevano non presentare delle tinte anormali, non vorrà negarsi che detto ministero accogliesse un complesso di molti spettabili elementi: imperocchè niuno potrà contestare al cardinale Antonelli le qualità che si addicono ad un primo ministro di stato, checchè la stampa nostrana ed estera abbia pubblicato per oscurarlo, nè ai tre consultori più influenti, Recchi, Minghetti e Pasolini di essere per cognizioni molto esperti su ciò che richiedesi nell’amministrazione della cosa pubblica. Erano tutti e tre uomini di svegliato ingegno, ma di esaltati spiriti, nè è a maravigliarne: imperocchè essendo di Ferrara il primo, di Bologna il secondo, il terzo di Ravenna, appartenevano tutti e tre alle Romagne, e i Romagnoli (almeno così pare) non sono, per una gran parte, i più devoti della Santa Sede. Il principe Aldobrandini associava ad un gran nome una nobil natura cavalleresca; energia, cognizioni, amore del proprio paese. La celebrità del Mezzofante non ammette necessità di aggiunger parola. L’avvocato Sturbinetti passava per uno dei luminari del foro romano, e per uno dei più caldi ammiratori della romana grandezza.
L’elezione del Galletti soltanto presentò qualche cosa di singolare e anormale: imperocchè i suoi antecedenti in causa di cospirazione, ne avevan formato uno dei principali rei di stato, che condannato al carcere in vita, dovette al perdono del clementissimo Pio la sua liberazione.
Si meraviglia lo stesso Farini della sua elezione, e nel primo volume delle sue storie esce in. questa sentenza: «La nomina del Galletti al ministerio di polizia diede maraviglia: non segnalato egli per opere d’ingegno, ma per sofferti travagli in causa di cospirazione; non sicuro per opinioni temperate, che anzi in Bologna avevfi nome di stare cogli eccessivi, e di aver fatto parte contro i moderati; non esperto di pubblici negozii, per qual ragione veniva sollevato a seggio ministeriale, e prescelto a governar la polizia? — Strani tempi correvano. I moderati non avevano la coscienza di valer soli ad infrenar la rivoluzione: erano chiamati ad opra di governo difficile, quando già le piazze governavano.» 14
Esposti così i dubbi, le sorprese, e le disapprovazioni del Farini, ci attenteremo di schiarire i primi, e di spargere in pari tempo qualche luce su questo episodio importantissimo delle nostre storie.
Diremo dunque che la scelta del Galletti fu imposta dal Recchi e dagli altri ministri del suo partito al Santo Padre, e volevasi imporgliela fin da qualche tempo prima.
Alla nomina del Galletti si riferiscono appunto quelle parole che il Santo Padre pronunziò il giorno 11 di febbraio ai capi di tutti i corpi militari quando disse: «Quel che ho promesso voglio assolutamente mantenerlo, ed a quest’ora si sarebbe già effettuato, se quelli ai quali ho offerto il relativo portafoglio non si fossero espressi di volerlo accettare con condizioni, ed io condizioni non le riceverò giammai.»
I tempi però fattisi più grossi e minacciosi in seguito della francese rivoluzione, ed il solo Recchi potendo formare un ministero che calmasse la effervescenza del momento, fu forza subire allora l’imposizione del Galletti, alla quale da prima erasi fatta opposizione.
Il Farini però cui non entrava in capo la scelta del Galletti, non sospettava forse, quando scriveva la sua storia, che il celebre Montanelli ci avrebbe svelato un segreto, ed è che anche il Farini, in grado minore bensì, fosse stato un cospiratore: anzi ch’egli fosse stato l’autore del manifesto di Rimini, per sollevar le Romagne nell’anno 1845. Ecco le parole del Montanelli: «Trovavasi in Toscana Luigi Carlo Farini, al quale fu commesso stendere a norma dei suggerimenti Canutiani, un manifesto ai principi e ai popoli d’Europa, che sarebbe il programma dei sollevati. Farini mi comunicò il suo abbozzo, mi pregò farci le correzioni che credessi; volle scrivessi io i proclami popolari. A lui non andava gran cosa a genio tanta mitezza, ma diceva ogni secolo avere il suo carattere, e al carattere positivo e calcolatore del nostro doversi adattare gli artefici di rivoluzione; quelle del passato abortite, perchè troppo fidenti a poesia; questa, col quattro e quattr’otto delle migliorie materiali, riescirebbe; del resto m’assicurava le città delle legazioni benissimo disposte, la guarnigione d’Ancona guadagnata, e l’adesione di Mamiani arra della solidità dell’impresa.»15 Che dunque il Farini fosse stato un cospiratore, è provato fino all’ultima evidenza.
Il Recchi stesso aveva cospirato fin dall’anno 1831 come ci racconta il Gualterio nelle sue storie colle parole seguenti:16 «Per questo errore gravissimo si giunse il dì 8 febbraio (1831) fino alla dichiarazione della decadenza del pontefice; atto fatuo in quanto che consumato mentre la rivoluzione era padrona soltanto di qualche provincia, mentre Roma stava in mano del papa, e la rivoluzione non si vedeva, non dico assicurata, ma neppure apparecchiata agli eventi. Questa dichiarazione fu fatta dall’assemblea detta dei notabili o dei deputati delle provincie libere, nella quale fra molti altri sedevano l’iilustre avvocato Silvani e Gaetano Recchi.»
Cosicchè dal fin qui esposto si rileva (appoggiandoci sempre ai documenti storici, unica scorta dei nostri giudizi) che tanto il Recchi, quanto il Farini ed il Galletti, eran pannina di diverso colore e di differente tessuto, ma prodotto della stessa lana; e che il conte Recchi, come ministro dell’interno, il Farini, come sostituto al detto ministero, ed il Galletti, come ministro di polizia, avendo avuto effettivamente il potere nelle mani, può affermarsi senza esagerazione che il governo pontificio in quel tempo fu affidato a tre individui, i quali chi più, chi meno avevano cospirato nell’italica rivoluzione, e non avevan dato segno veruno di essere amici del papato.
Questi son fatti da non porsi in dubbio. Quanto alla spiegazione, ce la porge lo stesso Farmi quando ci dice che strani tempi correvano, e che le piazze governavano.
Qui dovremmo sostare, sembrandoci di sentire una voce che vada gridando: e la necessità gran cose insegna. Ma un’altra pure par che dica: non essere dicevole il far ciò che non dee farsi, anche a costo di perdere un trono. La voce di Dio però dall’alto dei cieli si fa sentire, dicendo: fui io che il permisi. Dopo di ciò non restaci che chinare la fronte.
Formato che fu il ministero di cui lungamente abbiamo discorso, sua prima cura fu quella di presentare il giorno seguente, 11 di marzo, il suo rapporto al Santo Padre. Esso rapporto, costituzionalmente parlando, avrebbe dovuto chiamarsi programma ministeriale, ma la Gazzetta officiale lo chiamò rapporto. Comunque si voglia, giudicandolo un atto importantissimo, lo trascriviamo per intiero. Esso diceva così:
- «Beatissimo Padre,
» Chiamati dalla Santità Vostra a far parte del suo governo, noi veggiamo le immense difficoltà che ci stanno incontro per le condizioni straordinariamente gravi dei tempi, e per la nostra insufficienza. Ma in momenti così importanti ogni cittadino deve posporre i privati riguardi al dovere verso il principe e verso la patria.
» Noi attendiamo la promulgazione della legge fondamentale, promessa dalla Santità Vostra, con viva fìducia. E la generosità delle concessioni date finora ci assicura che risponderà interamente ai bisogni dell’età presente ed alle attuali circostanze. Sarà nostro obbligo e nostra cura affrettarne l’adempimento largamente e lealmente.
» Allorchè questa legge fondamentale sarà promulgata, il ministero assumerà la solidarietà, e la responsabilità de’ suoi atti. Ma intanto gli corre obbligo di esporre alla Santità Vostra quali sono i bisogni principali, cui importa il provvedere senza indugio.
» Converrà in prima che tutti i poteri secondari dello stato siano informati dei principi che animano il ministero; sicchè la volontà del governo sia eseguita fedelmente e prontamente per tutti i rami dell’amministrazione, e dall’estremità al centro tutte le forze concorrano ad un solo fine.
» Converrà ancora dar subito opera all’armamento, conforme ai voti espressi dalla Consulta di stato, e mettere il paese nel miglior stato possibile di difesa; aumentando il numero delle truppe assoldate, e inviandole ai punti strategici; mobilizzando una parte della guardia civica, e organizzandone la riserva.
» Ma una grave difficoltà a questo intento è nelle finanze: perchè lo stato nostro, parte per circostanze speciali, e parte per quelle generali che hanno colpito tutta Europa, si trova in grandissime strettezze. Il ministero avviserà ai mezzi di sopperirvi, e confida che tanto i comuni i quali offersero a Vostra Santità gli averi e la vita, quanto le corporazioni doviziose alle quali deve importare la salute del paese, non risparmieranno sagrifici per una così nobile causa. .
» Noi confidiamo infine che i legami di amicizia, che già esistono fra il governo pontificio e gli altri governi costituzionali d’Italia, si stringeranno ognora maggiormente in beneficio della patria comune.
» Il ministero, procedendo francamente nella via tracciata, si confida di calmare l’agitazione che regna negli animi, e di serbare l’ordine necessario a fondare le nuove istituzioni, e ad assicurare la indipendenza nazionaie. A tale scopo spera di ottenere il concorso di tutti gli uomini sapienti e generosi, di tutti coloro che amano veracemente questa Italia, la quale da voi benedetta risorge ad una vita novella.»
Card. | G. Antonelli |
G. Recchi | |
C. L. Arcivescovo di Nisibi | |
G. Pasolini | |
C. Aldobrandini | |
F. Sturbinetti | |
M. Minghetti. 17 |
La nostra storia, come dicemmo dapprincipio, non è fatta per raccontare semplicemente ciò che si svolse sotto i nostri occhi, e che tutti come per fantasmagoria osservammo, ma sì bene per investigare tutte le cagioni, i moventi, le malizie, gl’inganni, i sotterfugi degli uni, l’esitazioni, le resistenze, i tratti di fermezza o le dabbenaggini degli altri, coordinando la narrazion de’ fatti allo scopo precipuo di fare aprir gli occhi ai nostri lettori, affinchè 1 possano veder chiaro in tanto buio, e ciò mercè la ricchezza dei documenti di cui siamo forniti, e che man mano veniamo producendo.
Or bene un tale scopo ci obbliga a commentare l’atto importantissimo dell’11 marzo, facendone rilevare quei difetti che allora per tali non si apprendevano, ma che oggi finalmente (sarà forse perchè veduti in distanza) sembrano una vera mostruosità.
Noi abbiamo sostenuto sempre che il papa voleva pace, e che il movimento solo vagheggiava armi ed armati per far la guerra. Abbiamo detto ancora che si voleva distruggere il papato, ed annientare o sbandeggiare almeno gli ordini religiosi. Non tacemmo pure a suo luogo sotto il 15 novembre 1847 che alla Consulta di stato volevasi dare altro significato da quello di un semplice corpo consultivo, e che si voleva invece riguardare quasi come una rappresentanza nazionale. Ebbene di tutte queste cose si ha la conferma leggendo con attenzione l’atto che sopra riportammo. Si parla in esso di armamento o aumento di truppa di linea, di mobilizzazione della civica e organizzamento della riserva, dicendosi che ciò deve farsi analogamente al voto della Consulta di stato.
Dunque la Consulta si qualificava da corpo deliberante e non consultivo soltanto; si consigliava agli ordini religiosi di contribuire alle spese dell’armamento, e (cosa strana e ridicola) non si chiamavan nell’atto ministeriale ordini monastici, nè ordini religiosi, ma ordini doviziosi.
Il linguaggio è chiaro, e se si ammette la pletora, ammettersi deve di necessità l’emission del sangue, e quindi gli ordini doviziosi dovevano cavar danari ch’eran la loro pletora. E non passarono due giorni difatti che già le corporazioni religiose, rispondendo all’invito ministeriale, facevan delle offerte a Sua Santità.18
La prova che che volesse giù il papato sta in parte nel volerlo compromettere involgendolo in una guerra, ma soprattutto nella infiltrazione già da noi memorata, dei tre caporioni del movimento rivoluzionario nella combinazione miqjsteriale.
Altra anormalità inesplicabile è quel congratularsi di stare bene coi vari stati costituzionali italiani, quasi che lo star bene con essi fosse tutto, e che le altre potenze continentali (mentre non se ne parla affatto) fossero un bel nulla.
E pure questo atto, si consideri bene, se era firmato da cinque laici, portava pure la firma di un cardinale di Santa Chiesa, e di un prelato arcivescovo; e ciò sia prova e documento addizionale o delle finzioni dei governi costituzionali, o della stranezza dei tempi che correvano.
Intanto, analogamente al detto atto, venne subito chiamato dal ministro della guerra il generai Durando, giunto essendo il tempo di mettere a profitto i suoi servigi.19
Mentre però queste cose occorrevano, una crisi terribile infieriva contro la banca romana. Di ciò per altro meglio e più a lungo nel capitolo seguente.
La tirannia intanto dei circoli e della piazza invadeva con piede sacrilego perfino il santuario, ed il giorno 12 di marzo fummo costretti a vedere una scena veramente scandalosa nella chiesa del Gesù.
Predicò nel detto giorno il padre Rossi gesuita. Era una domenica; e la predica non essendo piaciuta ai più esaltati, si recarono al principe Corsini molti di essi, accompagnati da una deputazione del circolo popolare, per richiamarsi contro quella predica. Traevan seco, come simbolo di autorità in quei tempi tristissimi, il vessillo o stemma del circolo. Recossi alla sua volta il Corsini dal pontefice, ed esso, presa cognizione della predica, non vi trovò cosa alcuna riprovevole. Tuttavia si seppe che una dimostrazione ostile al padre Rossi si era preparata pel giorno seguente. Ma a prevenire degli sconcerti si disse che il padre Rossi era malato, ed il pergamo rimase deserto.
La dimostrazione però pur troppo veniva preparandosi, perchè il lunedì 13 in un subito invadevasi la chiesa del Gesù da una quantità di giovani, quasi tutti appartenenti ai circoli, alla scolaresca, o agli offici dei giornali. Eran per la più gran parte con lunghe barbe e occhio torvo; e quantunque il loro aspetto indicasse piuttosto ferocia, anzichè devozione e raccoglimento, tuttavia posersi in atto di volere ascoltar la predica.
Appressandosi però già l’ora consueta del sermoneggiare, e non si vedendo ancora il predicatore venir fuori, alcuni dei più intolleranti, recatisi tosto in sagrestia, con una, non saprem dire se maggiore impazienza o alterezza, dissero di volere, in quel giorno, assolutamente la predica.
Allora il generale dei Gesuiti, per impedire qualsivoglia inconveniente ne potesse mai seguire, deputò un reverendo della medesima compagnia ad ascendere in pulpito, e questo reverendo fu il padre Marco Rossi, il quale asceso che fu in sul pergamo, recitò una predica sulla fede, trattando tale argomento più a maniera di teologo che di oratore. E così, quelli che simulando devozione, eran vogliosi di ascoltare la parola divina, appagati e delusi insieme si ritirarono, nè per quel giorno accadde sconcerto veruno.
La Pallade narra parte del fatto. Un cenno trovasi pure nel Corriere livornese, ma la pura verità è in quanto ho esposto di sopra.20
In seguito dello essere stato sottoposto nei giorni 10 e 13 di marzo ai cardinali riunitisi espressamente il progetto di uno statuto fondamentale, fu esso approvato, affinchè dopo riportatane la sanzione da Sua Santità, venisse al più presto che fosse possibile pubblicato.
Questa sanzione non si fece aspettare, ed il giorno 14 di marzo venne accordato da Sua Santità lo statuto fondamentale per gli stati di Santa Chiesa.
Noi noi riporteremo per disteso perchè trovasi trascritto altrove.21
Accennandone bensì le disposizioni, ci permetteremo qualche osservazione sul medesimo.
Si dice nell’esordio (il quale fu generalmente giudicato siccome un capo d’opera di saviezza) che si era come in via di esperimento creata una Consulta di stato; ma poichè i vicini dello stato pontificio avevan giudicato maturi i popoli a ricevere il benefizio di una rappresentanza non meramente consultiva ma deliberativa, aveva creduto il Santo Padre di doverne imitare l’esempio.
Ciò è quanto dire: Noi per verità non avevamo intensione di accordare uno statuto, ossia una costituzione, ma il nostro vicino il re di Napoli la dette, gli stati di Piemonte e di Toscana ne seguiron l’esempio, e ci fu quindi forza,per non restare isolati, di tentare l’esperimento accordandola ancor noi. Dio ce la mandi buona.
Fra le disposizioni generali la prima che ci si presenta è quella che il sacro collegio dei cardinali elettori del sommo pontefice è senato inseparabile dal medesimo.22
La seconda stabilisce i due Consigli deliberanti per la formazione delle leggi, cioè l’alto Consiglio ed il Consiglio dei deputati.
Il 3° articolo sull’amministrazione della giustizia, ammette l’indipendenza nell’ordine giudiziario, e il diritto di grazia riservato al sovrano.
Il 4° articolo stabilisce fra le altre cose che tutti sono eguali avanti la legge.
Il 5° ammette la guardia civica come istituzione dello stato.
Il 6* parla della libertà personale, cosicchè niuno possa essere arrestato se non in forza di un atto emanato dall’autorità competente, salvo il caso di delitto flagrante.
Il 7° garantisce il debito pubblico.
In forza dell’8° tutte le proprietà indistintamente, compresi i corpi morali, contribuir devono agli aggravi dello stato.
Si assicura col 9° la inviolabilità del diritto di proprietà, salvo il caso di espropriazione per causa di pubblica utilità.
Il 10° riconosce la proprietà letteraria.
L’11° abolisce l’attuale censura preventiva sulla stampa, e promette un’apposita legge per le misure repressive.
L’articolo 12° tratta di pubblici spettacoli, e della censura sulle composizioni teatrali.
Si stabilisce coll’articolo 13° che i cittadini avranno l’amministrazione comunale e provinciale.
Dall’articolo 14° all’articolo 32° si parla dell’alto Consiglio e del Consiglio dei deputati. Riportiamo per intero il 14.° Esso è così concepito:
«Il sommo pontefice convoca, proroga, e chiude le sessioni di ambedue i Consigli. Scioglie quello dei deputati, convocandolo nuovamente nel termine di tre mesi per mezzo di nuove elezioni. La durata ordinaria della sessione annuale non oltrepassa i tre mesi.»
Dall’articolo 33° all’articolo 51° si stabiliscono le attribuzioni dei due Consigli. Si dice nell’articolo 33° che tutte le leggi in materie civili, amministrative e governative, sono proposte, discusse, e votate nei due Consigli.
All’articolo 34° che non avran forza le leggi votate, se non dopo riportata la sanzione del sommo pontefice.
All’articolo 35° si dice che i ministri proporrano le leggi, ma che può pure una legge esser proposta da ognuno dei due Consigli, dietro richiesta di dieci dei suoi membri.
Proibisce l’articolo 36° ai Consigli di proporre alcuna legge che riguardi
1° affari ecclesiastici o misti,
2° che sia contraria ai canoni o alle discipline della Chiesa,
3° che tenda a variare o modificare lo statuto.
Si stabilisce coll’articolo 37° che i Consigli possano essere consultati in affari misti.
L’articolo 38° vieta ogni discussione riguardante le relazioni diplomatico-religiose della Santa Sede all’estero.
Gli articoli 39° 40° e 41° determinano quali sono le cose delle quali precipuamente devono occuparsi i Consigli.
Il 42° dice che è consentita per un anno l’imposta diretta. Le indirette potersi stabilire per più anni.
Gli articoli 43° e 44° danno le disposizioni sulle proposte delle leggi, sulla loro ammissione, sulla mancanza della sanzione sovrana, nel qual caso non potranno esser riprodotte nel corso della sessione.
Il 45° tratta della verifica dei poteri.
L’articolo 46° ammette nel Consiglio dei deputati il diritto di porre in istato di accusa i ministri, e all’alto Consiglio dà quello di giudicarli se laici. Se i ministri sono ecclesiastici l’accusa è deferita al sacro collegio che dovrà procedere nelle forme canoniche.
Gli articoli 47° e 48° vertono sulle petizioni al Consiglio dei deputati, e sui rapporti dei due Consigli.
Riportiamo per intiero gli articoli 49° 50° e 51° che sono i seguenti:
Articolo 49° «Le somme occorrenti pel trattamento del sommo pontefice, del sacro collegio dei cardinali, per le congregazioni ecclesiastiche, per sussidio o assegno a quella di propaganda-fide, pel ministero degli affari esteri, pel corpo diplomatico della Santa Sede all’estero, pel mantenimento delle guardie palatine pontificie, per le sacre funzioni, per l’ordinaria manutenzione e custodia dei palazzi apostolici e di loro dipendenze, degli annessi musei e biblioteca, per gli assegnamenti, giubilazioni e pensioni degli addetti alla corte pontificia, sono determinate in annui scudi seicentomila sulle basi dello stato attuale, compreso un fondo di riserva per le spese eventuali. Detta somma sarà riportata in ogni annuo preventivo. Di pieno diritto si ha sempre per approvata e sanzionata tale partita, e sarà pagata al maggiordomo del sommo pontefice, o ad altra persona da esso destinata. Nel rendiconto o consuntivo annuo sarà portata la sola giustificazione di tale pagamento.»
Articolo 50° «Rimangono inoltre a piena disposizione del sommo pontefice i canoni, tributi, e censi, ascendenti ad un’annua somma di scudi tredici mila circa, non che i diritti de’ quali si fa menzione in occasione della Camera dei tributi nella vigilia e festa dei santi apostoli Pietro e Paolo.»
Articolo 51° «Le spese straordinarie di grandi riparazioni nei palazzi apostolici, dipendenze, musei ed annessi, le quali non sono comprese nelle dette somme (quando abbiano luogo) saranno portate e discusse nei preventivi annuali, e nei consuntivi.»
L’articolo 52° è sul sacro concistoro. Ivi si stabilisce che alle leggi proposte ed ammesse dai due Consigli, il pontefice dà o niega la sanzione dopo udito il voto dei cardinali.
Gli articoli 53°, 54° e 55° trattano dei ministri.
Gli articoli 56°, 57°, 58°, 59°, 60° e 61° trattano del tempo della sede vacante.
Gli articoli 62° e 63° del consiglio di stato.
Gli articoli 64°, 65°, 66°, 67°, 68° e 69° contengono alcune disposizioni transitorie.
Enunciati gli articoli, riportiamo la chiusa di questo atto importantissimo. Eccola:
«E similmente vogliamo, e decretiamo che nessuna legge o consuetudine preesistente, o diritto quesito, o diritto dei terzi, o vizio di orrezione o surrezione possa allegarsi contro le disposizioni del presente statuto, il quale intendiamo che debba essere quanto prima inserito in una bolla concistoriale, secondo l’antica forma, a perpetua memoria.
» Datum Roma apud Sanctam Mariam Majorem die XIV martii MDGGGXLVIII, pontificatus nostri anno secundo.
» Pius PP. IX.»
Ci asteniamo da qualunque osservazione sugli articoli dello statuto, ma il solo quarantanovesimo ci chiama a rilevare che se si considera ciò che si paga in Francia ed in Inghilterra per la lista civile de’ sovrani (quantunque lo siano di stati immensamente più vasti e ragguardevoli comparativamente a quei della Chiesa), non si può non esser colpiti dalla esiguità della somma accordata al papa, il quale è la prima dignità che sia sulla terra; e questa sorpresa deve essere tanto maggiore se si considera che nella somma dei seicento mila scudi accordatagli, oltre al mantenimento proprio e della propria corte, è compreso il trattamento o piatto cardinalizio, l’assegno per i nunzi, legati, delegati, gl’incaricati di affari presso le estere corti, le guardie nobili e le svizzere, le congregazioni ecclesiastiche, non che la manutenzione del palazzo e giardino annesso tanto al Vaticano quanto al Quirinale, del museo, della biblioteca vaticana, e di tutte le loro dipendenze.
Queste nostre osservazioni tendono a provare l’ingiustizia delle accuse di scialacquamento che si prodigano gratuitamente e con troppa leggerezza contro il governo di Roma, negli scritti soprattutto che in Francia e in Inghilterra vengono pubblicati, e ciò lo facciamo con tanto maggior fondamento, in quanto che il Santo Padre, dal 1848 in poi, ha continuato a ricevere soltanto pei titoli surriferiti la cifra di seicento mila scudi.
La promulgazione dello statuto pontificio sul quale abbiam trattenuto lungamente i nostri lettori, ebbe luogo il giorno seguente ossia il 15 di marzo, e venne solennizzata con ogni modo di dimostrazioni, perchè lo stesso giorno alle quattro pomeridiane vi fu riunione sulla piazza del Popolo, di civica, truppa di linea, aggregati ai casini o circoli, alcuni giovani della università ed altri, non escluse alcune donne; e tutti indossavan più o meno nastri, sciarpe, e coccarde tricolori, e recavan vessilli ed emblemi. Quindi, accompagnati dai concerti musicali, recaronsi processionalmente al Quirinale, ed ivi ricevettero la benedizione dal pontefice. E fu notevole come al primo apparir del medesimo, i civici sollevassero gli elmi sulla punta delle baionette. Dopo di che il festante cortèo ordinatamente ritirossi passando per le Quattro fontane e pel Corso, ove sentivansi a quando a quando alcune voci che gridavano viva Pio IX, e viva le costituzioni italiane dalle alpi al mare.23
L’indomani alle ore il antimeridiane si cantò il Te Deum nella chiesa di Ara-Coeli, concorrendovi il senato ed il popolo romano.24
Nelle ore pomeridiane vi fu riunione al Campidoglio d’onde partir dovevano il senato ed il Consiglio di Roma per recarsi a ringraziare il pontefice. Colà si venne pure raggranellando il cortèo, che quindi recarsi doveva nel maggior tempio della cattolicità san Pietro; nel quale cortèo vedevansi i dragoni a cavallo, poi le bandiere di Bologna e Ferrara, un concerto musicale, eposcia il cocchio del senatore, circondato dalle bandiere dei rioni: poi le carrozze dei conservatori con altre bandiere, e quindi gli officiali, superiori di tutte le armi, preceduti da uno stendardo accennante a concordia. Seguivano i cento consiglieri municipali nei cocchi rispettivi, a tutto treno di gala bandiere, stemmi, targhe, perfino quelle di Toscana e di Gavinana (ov’è la tomba del Ferruccio), e poi la civica, il corpo dei vigili, e il popolo. Lo scopo (dice una relazione stampata che abbiam sott’occhio) fu quello di ringraziare Iddio per la ottenuta costituzione, e poscia soggiunge: da qui a non molto verremo in questo stesso tempio a sciogliere un altro cantico.25
E noi risponderemo subito che colse nel segno il pronosticante, perchè circa un anno dopo (il giorno 11 febbraio 1849) in quello stesso tempio si cantò il Te Deum per la decadenza del papato dal potere, e per la proclamazione della repubblica.
Reputiamo meritevole di ricordanza il discorso di ringraziamento pronunziato dal principe Corsini al cospetto del Santo Padre il giorno 16 per il concesso statuto. Esso diceva così:
- «Beatissimo Padre,
» Se ciascun’ora del vostro immortale pontificato è segnata da molte beneficenze che da voi scaturiscono, e da mille benedizioni che dal nostro animo vi rispondono, il giorno decimoquinto di marzo ha compiuto un’era pe’vostri sudditi così fausta, e tanto gloriosa alla Sedia apostolica, che non so se altri prima di noi abbia sperato vederla. Ogni popolo aspira naturalmente ad alcuna parte di libertà; e noi, non immemori d’averla un tempo meritata e difesa, eravamo talora, non dico risoluti a volerla, sì almeno disposti di vagheggiarla. Sapevamo dall’altra parte la fede che ogni buon suddito, deve a principe, e noi specialmente ai pontefici, per averci non conquistati con armi, ma sottratti alla barbarie, aiutati dalla oppressione. Era in noi così forte 1a riverenza delle somme chiavi, e vivo il pensiero di tanti debiti, che ci venne sempre più dolce obbedire a voi ciecamente, che farci liberi senza vol. Ma quell’amore che può tutto, congiunse mirabilmente i vostri sagri diritti coi nostri desideri: ci fece spontaneamente del poter vostro partecipi: e quanto permetteva la dignità apostolica, ci donò una tal forma che i nostri posteri non saranno liberi men di noi. Di così nuovo, sublime, perenne benefizio non so se lingua che suoni in terra, sia tanto eloquente da ringraziarvi come si converrebbe. Voi solo siete degnissimo a farlo. Se i nostri cuori potessero tutti insieme esservi manifesti, vedreste di quanto vincono la parola, che non osando levarsi all’altezza dell’argomento, si limita a supplicarvi per tutti i Romani che a voi medesimo degne grazie rendiate; e che la vostra non mai vana preghiera salendo al trono dell’Altissimo, rappresenti a lui la tenera gratitudine del suo popolo, per aver confermato e magnificato il regno di santa Chiesa.»
Sua Santità rispose nei seguenti termini: .
«Le dimostrazioni che ieri ricevetti dal buon popolo di Roma, e che oggi sento confermare da loro che ne sono i legittimi rappresentanti, mi assicurano della riconoscenza del popolo medesimo. Accolgo queste espressioni con infinito piacere: e prego loro di far noto a Roma e a tutto lo stato, che quanto io poteva fare l’ho fatto e che l’intero fcacro collegio vi ha convenuto di buon grado ed unanimemente. Se non se ne contentassero alcuni, guidati più dal capriccio che dalla ragione, credo che il popolo generalmente ne sia contento: mentre, ripeto, ho fatto quanto poteva, nè potrei fare di più. Desidero che questi miei sentimenti sieno manifesti a tutti, affinchè si ristabilisca la calma è non abbiano ad accadere quei turbamenti, che in alcuni luoghi alterarono l’ordine pubblico. La libertà non può essere disgiunta dall’ordine. L’ordine produce la felicità. Dall’ordine deriva l’unità, tanto necessaria affinchè ciascun cittadino goda tranquillamente della sua libertà, e raccolga il frutto del seme sparso nel terreno politico. L’ordine è benedetto da Dio e dagli uomini, e conduce a quello che tutti desiderano, cioè alla giustizia e alla pace in seno delle proprie famiglie.»26
Questa risposta del Santo Padre, per le belle e amorevoli parole, e pei paterni e savi consigli che accoglie, fu degna del cuore nobile e generoso, quale si è quello del regnante sommo pontefice Pio IX. E notevole riuscì per ricercatezza di frasi il discorso o atto di ringraziamento del senato che aveala preceduta e che abbiam riportato di sopra. Se non che parve a molti di riconoscervi non tanto il linguaggio del popolo romano, quanto quello di un partito politico.
Pur tuttavia le cose in quel tempo stavano agli antipodi delle parole. E a tal proposito osserveremo che diceva bene il filosofo Democrito quando annunciava che la verità era in fondo di un pozzo, perchè crediamo ancor noi ed agevolmente ci persuadiamo che la verità poco si trovi, e difficilmente siasi trovata anche nei tempi decorsi, salvo che non voglia ricorrersi alla decantata età dell’oro, che così bene ci venne dipinta dal poeta Giovenale con quei versi della sesta satira, i quali noi, cambiata la parola pudicitiam in veritatem, riportiamo:
Credo veritatem Saturno Rege moratam |
Imperocchè mentre abbiamo enumerato le feste per la costituzione, i popolari tripudi, le dimostrazioni di ossequio al pontefice, gl’indirizzi, e i rendimenti di grazie del popolo beneficato al sovrano beneficatore, non che le compiacenze e le benedizioni pontificie, tutte quelle dimostrazioni insomma di affetto reciproco fra il sovrano ed il popolo, in guisa che, giudicando dalle apparenze, ognuno avrebbe creduto che Roma si trovasse in un paradiso terrestre, chi potrebbe immaginare che lo stesso giorno 14 di marzo in cui si sottoscriveva la costituzione, che chiamossi statuto, venisse dettato ed emanato dall’animo contristato del sommo pontefice l’atto seguente?
«Romani, e quanti siete figli e sudditi pontifici, ascoltate ancora una volta la voce di un padre che vi ama, e che desidera di vedervi amati e .stimati da tutto il mondo. Roma è la sede della religione, ove sempre ebbero stanza i ministri della medesima, che sotto diverse forme costituiscono quella mirabile varietà, della quale è bella la Chiesa di Gesù Cristo. Noi v’invitiamo tutti e v’inculchiamo di rispettarla, e di non provocar giammai il terribile anatema di un Dio sdegnato, che fulminerebbe le sue sante vendette contro gli assalitori degli Unti suoi. Risparmiate uno scandalo, del quale il mondo intero resterebbe maravigliato, e la massima parte dei sudditi afflitta e dolente. Risparmiate il colmo all’amarezza, ond’è già travagliato il pontefice pe’ fatti di simil genere testè altrove accaduti. Che se anche fra gli uomini, che in qualunque istituto appartengono alla Chiesa di Dio, ve ne fossero di quelli che meritassero per la loro condotta la disistima e la diffidenza, havvi sempre aperta la strada alle legali rappresentanze, le quali, quando sian giuste, noi come sommo pontefice, saremo pronti ad accoglierle per provvedervi. Siamo persuasi che queste parole basteranno a far tornare in senno tutti quelli, i quali (speriamo sian pochi) avessero formato qualche pravo disegno, la cui esecuzione mentre servirebbe al nostro cuore di acuto dolore, chiamerebbe sul loro capo i flagelli che Dio sempre scagliò sopra gl’ingrati. Che se queste nostre voci per somma sventura non bastassero a trattenere i traviati, noi intendiamo di far prova della fedeltà della civica, e di tutte le forze che sono da noi destinate a manter l’ordine pubblico. Noi siamo pieni di fiducia di vedere il buon effetto di queste nostre disposizioni, e di veder sostituita in tutto lo stato all’agitazione la calma e i pratici sentimenti di religione, che deve professare un popolo eminentemente cattolico, sul quale hanno diritto di prender norma le altre nazioni.
»Non vogliamo amareggiare il nostro spirito e il cuore di tutti i buoni, con la previsione delle risoluzioni che saremmo costretti di prendere, per non soffrire lo spettacolo dei flagelli, coi quali suole Iddio richiamare i popoli dagli errori; e invece speriamo che la benedizione apostolica, che spargiamo sopra.tutti, allontanerà ogni funesto presagio.
» Datum Romæ apud Sanctam Mariam Majorem die XIV martii MDCCCXLVIII, pontificatus nostri anno secundo.»
Pius Papa IX.27
Questo atto che fu fatto stampare dall’autorità pontificia in tutti i formati, e diffondere largamente per la città, non fu riportato dai giornali, meno che dalla Gazzetta di Roma, dal Labaro, e dal Roman Advertiser, che si pubblicava in lingua inglese, e che i soli Inglesi leggevano. Tutti gli altri giornali, essendo del movimento, se ne astennero, affinchè non si conoscesse all’estero la verità delle nostre tristi condizioni. Lo Sterbini però, senza parlar dell’atto, fulminò con un articolo veementissimo nel suo Contemporaneo, coloro che insinuavano al pontefice dubbî mal fondati, e timori inesistenti, imperocchè i veri amici di Pio IX (esso diceva), quelli che per lui avrebber versato il proprio sangue, erano i soli liberali. Gli altri costituivano evidentemente la falange dei suoi più pronunziati nemici.28 I fatti che si svolsero poco dopo fecer conoscere se si apponesse al vero il Santo Padre Pio IX, o l’avventato scrittore del Contemporaneo.
Ora ci è d’uopo di raccontare un episodio che nacque dalla pubblicazione di detto atto.
Ed affinchè i nostri lettori si possan formare un’idea adeguata della caldezza degli spiriti per quella parola sacrosanta (se ben definita e rispettata) che nomasi libertà, o per meglio dire di quello spirito di vertigine e di frenesia che invadeva le menti degli uomini, non solamente in Roma e nello stato pontificio, ma nella Italia tutta, diremo che era surta nelle loro fervide immaginazioni l’idea, che a conseguire completa ed intera questa sognata libertà, che pur troppo tutti invocano, e niuno conosce e rispetta, fosse d’uopo di pigliarsela col clero, cogli ordini religiosi in genere, ed in ispecie con la guardia avanzata del cattolicismo, i Gesuiti, e le loro filiazioni o dipendenze, che dicevansi essere le Sorelle del Sacro Cuore, i Liguorini, ed i Fratelli delle Scuole cristiane, chiamati ancora gl’Ignorantelli.
Da ciò quei dileggi, quelle caricature, quelle persecuzioni e violenze che disonorano non solo la vera libertà, ma la civiltà e la umanità stessa, e che in quel tempo facevansi in molte città d’Italia, non esclusane la stessa Napoli, e poco più tardi finirono col perpetrarsi anche in Roma.
Intanto, non già per dare una giustificazione, ma per somministrare una qualche spiegazione delle indegnità che commettevansi, diremo che in grandissima parte furono esse una conseguenza delle dottrine che l’andazzo de’ tempi aveva messo in voga, auspice e propugnatore delle medesime il famoso Gioberti.
E siccome il Gioberti col blandire e l’esaltare Roma e il papato, erasi amicata una buona parte del basso clero, e massimamente quella che e per dottrina e per esemplarità non teneva il primo posto, così questo, lungi dal dissuadere e calmare le effervescenze anti-gesuitiche, soffiava per entro il fuoco, e sollucheravasi al vedere sbandeggiati e depressi quelli che in fatto di sapere, stavano al disopra di lui, e che pur non ostante vezzeggiavasi di chiamarli coll’epiteto di rugiadosi.
Egli è massimamente a questa iniziata persecuzione che alludono le parole testè riportate del sommo pontefice, e siccome si era alla vigilia dei turpi fatti che andavansi maturando nell’ombra, e dei quali l’autorità era bene informata, il Santo Padre che confidava nella guardia civica, volle fare alla medesima un appello per mezzo del suo capo il generale principe Rospigliosi. A tal effetto gl’indirizzò la seguente lettera autografa, con ingiunzione che venisse istantaneamente affissa in tutti i quartieri civici.
«Le ripetute proteste che lei, signor generale, e la intera civica ci hanno manifestate di attaccamento alla nostra sacra persona e all’ordine pubblico, sono tali, che ci convinsero e ci convincono che siano per eseguirsi nel fatto con quella lealtà che distingue questo corpo.
» Raccomando pertanto nelle presenti circostanze che restino illese e le persone e le sostanze di tutti indistintamente, qualora si attentasse dai facinorosi contro le une o le altre. Ripeto, signor generale, in questa occasione i sentimenti d’illimitata fiducia che noi abbiamo riposta nella civica di Roma, e che noi le abbiamo esposti nel giorno, per noi consolante, che ci vedemmo circondati da tutti i capi di battaglione, e nell’atto in cui parlammo all’intiero corpo.29
» Dio benedica la civica, e la faccia istromento nelle sue mani di preservazione di ogni scandalo e di ogni eccesso in questa sua città.»
Pius Papa IX. |
La prima obbligazione dei corpi militari essendo la obbedienza cieca agli ordini dei capi, ed avendo il principe Rospigliosi come generale in capo della civica romana, ordinato per espresso comando del pontefice l’affissione dell’ordine del giorno che annunciava i voleri del Santo Padre, accadde che il marchese Filippo Patrizi colonnello dell’ottavo battaglione, volendo adempiere il suo dovere, fu sollecito di fare affiggere nel suo quartiere a San Luigi de’ Francesi l’enunciato ordine del giorno, e a tal effetto fece battere la generale quasi in segno di allarme.
Ciò per altro, lungi dal procurargli lode, gli venne dai progressisti apposto a colpa, si gridò al gesuita colonnello, e così il rispetto in disprezzo, e la sottomissione in disobbedienza convertironsi per parte dei suoi militi (o almeno dei più influenti e chiassosi fra i medesimi) che alle riprovevoli vociferazioni facevan eco.
Fu consigliato allora il Patrizi, a preservazione dell’ordine, ed a reintegrazione dell’infranta disciplina, di recarsi al caffè delle Belle Arti, ch’era il focolare di tutte le improntitudini, e colà far professione di fede politica, dichiarando i suoi sensi italiani, e procurando di astergersi dalla macchia di gesuitismo, che in allora disgradava quelle di ladro e di assassino. E il Patrizi cedendo al consiglio, si presentò di fatti al caffè, e fece quella professione di fede che si voleva.31
Questo atto di debolezza, che nel medio evo sarebbesi chiamato atto di ammenda onorevole, fu compiuto dal bersagliato marchese ond’essere, per così dire, ribenedetto. A tal frenesia trascinava la malvagità dei tempi, e l’alterazion delle idee!
Con tutto ciò pochi mesi dopo l’onorevole colonnello, specchio ed onore del romano patriziato, recossi coi propri figli nelle pianure di Lombardia per combattere contro gli Austriaci, che predicavansi nemici del papato e d’Italia, ponendosi a capo di un battaglione di volontari romani: ed in prova ulteriore del suo italiano patriottismo profuse oltre un dieci mila scudi a pro del suo battaglione; e non pertanto nel 1849 ebbe in benemerenza, come diremo meglio a suo luogo, la sua villa e palazzo annesso fuori la porta Pia devastati e distrutti. Con questo porse un esempio salutare ai contemporanei ed ai futuri di quanto poco valgano anche le azioni nobili e generose, quando gli uomini per le passioni politiche perdono il senno, ed il punto d’onore.
Note
- ↑ Vedi le due lettere del Gioberti nel vol. IV, Documenti al num. 46.
- ↑ Vedi G. Mazzini, Prose politiche. Genova, 1849, in-12, pag. 5.
- ↑ Vedi Ranalli vol. II. pag. 204.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma, del 7 marzo 1848 num. 37.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma, del 7 marzo 1848. — Vedi Atti officiali, vol. I, num. 44. A. — Vedi Documenti vol. IV, num. 56 e 57.
- ↑ Vedi Ranalli, vol. II, pag. 203.
- ↑ Vedi la Pallade, del 9 marzo 1848.
- ↑ Vedi il vol. IV dei Documenti, num. 60.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma, del 10 marzo 1848.
- ↑ Vedi Statuto del circolo popolare, nel vol. IV Documenti, num. 61.
- ↑ Vedansi le date rispettive nei capitoli primo e terso di questo volume.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma, del 10 marzo 1848.
- ↑ Vedi Farini vol. I, pag. 345. — Vedi la Gazzetta di Roma, del 3 aprile.
- ↑ Vedi Farini, Lo Stato romano, terza edizione vol. I, pag. 346.
- ↑ Vedi Montanelli, Memorie, vol. I, pag. 104.
- ↑ Vedi Gualterio, ediz. di Firenze del 1850 voi, I, pag. 51.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma, dell’11 marzo 1848.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma, del 13 marzo 1848.
- ↑ Vedi la detta Gazzetta, dell’11 detto.
- ↑ Vedi la Pallade, del 13 marzo 1848. — Vedi il Corriere livornese, del 17 e del 24 detto.
- ↑ Vedilo per intiero nella Gazzetta di Roma, del 16 marzo e nel volume I del Farini, dalla pag. 347 alla pag. 362.
- ↑ Vedi il vol. I Motu-proprî ec. n. 38. — Vedi la Gazzetta di Roma, del 16 marzo 1848. — Vedi Documenti del vol. IV, num. 71 e 74.
- ↑ Vedi la Pallade, del marzo 1848.
- ↑ Vedi l’Epoca, del 17 detto — Vedi il vol. IV dei Documenti, n. 80.
- ↑ Vedi il Documento num. 53 nel vol. IV.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma, del 17 marzo 1848 num. 44.
- ↑ Vedi il vol. II Motu-proprî ec. num. 6. C. — Vedi la Gazzetta di Roma, del 14 marzo 1848 pag. I. — Vedi il Roman Advertiser del 18 detto.
- ↑ Vedi il Contemporaneo del 16 marzo 1848.
- ↑ Ciò accadde il giorno 11 febbraio 1848.
- ↑ Vedi il Labaro, del 15 marzo 1848. — Vedi l’Epoca, num. 1. — Vedi il vol. IV dei Documenti, num. 73.
- ↑ Vedine un cenno nella Pallade, del 14 e del 17 marzo 1848. — Vedi pure il cenno che ne dà il Grandoni alla pag. 151.
- Testi in cui è citato Felice Cleter
- Testi in cui è citato Vincenzo Gioberti
- Testi in cui è citato Cesare Balbo
- Testi in cui è citato Massimo d'Azeglio
- Testi in cui è citato Giuseppe Mazzini
- Testi in cui è citato Giuseppe Massari
- Testi in cui è citato Giuseppe Montanelli
- Testi in cui è citato Giuseppe Garibaldi
- Testi in cui è citato Angelo Brofferio (1802-1866)
- Testi in cui è citato Ferdinando Ranalli
- Testi in cui è citato Carlo Luigi Morichini
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- Testi in cui è citato Giacomo Antonelli
- Testi in cui è citato Gaetano Recchi
- Testi in cui è citato Francesco Sturbinetti
- Testi in cui è citato Marco Minghetti
- Testi in cui è citato Giuseppe Galletti (politico)
- Testi in cui è citato Giuseppe Gasparo Mezzofanti
- Testi in cui è citato Giuseppe Pasolini
- Testi in cui è citato Nicola Cavalieri San Bertolo
- Testi in cui è citato Luigi Carlo Farini
- Testi in cui è citato Antonio Silvani
- Testi in cui è citato Tommaso Corsini
- Testi in cui è citato Democrito
- Testi in cui è citato Decimo Giunio Giovenale
- Testi in cui è citato Pietro Sterbini
- Testi in cui è citato Benedetto Grandoni
- Testi SAL 75%