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Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Appendice

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APPENDICE


Non mi pare di poter dare miglior conclusione a queste pagine che pubblicando un’elegante Ode latina che sulle amenità di Reggio scrisse il mio egregio amico Michelangelo Naldi, e la traduzione fattane in bellissimi versi italiani dal chiaro e nobil poeta Nicola Sole. A’ quali componimenti fo seguire anche un leggiadrissimo Sonetto del caro e gentil poeta Vincenzo Baffi.

Rhegii Amoenitates

ODE

Quid majus oris Italiae ultimis,
Vel invidendum? En Pharos, ubi rapax
     Scyllae et Charybdis sistit aestus,
     Instat atris fere pictus undis,
Quarumque cursus fluctibus invicem
Arctis in ima parte refrangitur,
     Summusque gurges nunc profundum,
     Nunc superum repetens hiatum
Terrei carinas. En bipatens plaga
Miranda visu, qua medius liquor
     Secernit Aetneos ab almis
     Ausoniae uberibus parentis.
Ducunt choreas undique Gratiae
Hoc, quem unus anteit Bosphorus, angulo;
     Solesque verni et purus aether
     Sidereo radiant colore.
Hic arva florent, longior annua
Hic ridet aestas, mitibus et caput
     Praecingit autumnus racemis,
     Hinc pluviae, glaciesque iniquae
Procul facessunt. Hic, dum arethusium
Fontem revolvis mente, tibi en nitet
    Messana et Ætna, en Fata, solis
    In speculis radios reflectens

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Gibbis per aer, per mare concavis,
Æstatis alba, monstrat imagines[1]
     Zancles venustae, vel Columnae,
     Et miseri simulacra Glauci[2].
Portenta! Nosne Euripus, et aureus
Hermus, Chorintus vel bimaris juvat,
     Delusque Latonae, Paphiosque,
     Et zephyris agitala Tempe?
Immane quantum distat ab inclyta
Haec urbs Hidaspe et fontibus integris
     Pimplae! Rosarum necte, Chlori,
     Necte novam Rhegio coronam.
Cerne ut propinquos leniter adsilit
Colles, et almis comta coloribus
     Iucunda protendit lacertos
     Ionio Siculoque ponto.
Est ipsa ramis arbor ut aureis,
Quam propter undat fluminis alveus,
     Suis daturam poma laeto
     Dulcia temporibus colono.
Ipsi perennat gratia frondium,
Et mala certant citrea fructibus,
     Quam solis aestus non adurit,
     Nec glaciant hyemes nivosae.
Et si irretorto murmure spiritus
Austri vehementis concitat aerem[3],
     Nunquam tepentis lumen aurae
     Corripiat Boreae susurrus.
Cum terra vernis irrubuit rosis,
Frons ecce floret tota simillima
     Lauro, et corollis jactat albis
     Ambrosios ubicumque odores[4].
En Taurocinî villa nec exteris,
Quae nec paternis floribus invidet,
     Suum decorem rebus auget
     Artis et ingenii paratis[5].
O rus Valeri o balneolum, o domus
Musis amica! o Leucopetra, o sinus
     Praerupte, defles aestuosi
Immeritata rabiem gigantis!

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Villae Valeri relliquiis date
Vitam insepultis, atque viae appiae
     Ad sacra curvantis, nepotes
     Polliciti meliora, Romae[6].
O terra felix! Paulus ad italas
Ingressus oras, te docuit prius,
     Novumque firmavit salutis
     Foedus in ingenium tuorum,
Facesque Orestis matris acinaci
Atras revellens, lumen ab aethere
     Ductum vetustae tum columnae
     Imposuit, populo probante.
Sacrumque centena aes vice tinniens
Noctem premendam nocte monet semel,
     Meridiana horaque corpus,
     Vitae onus ut subigat, levandum.
Quo nunc eremus vota Deo erigit,
Ventis cupressus perdita floruit,
     Ad quam priores admoventes
     Barbaricum pepulere turmas[7].
Quorum arma pendent, velut adorea,
Funis et aris, sanguine lurida
     Nondum expiato. Summe coeli
     Rector et orbis, atrox, et omne
Hinc pelle crimen, verte malum procul;
Quod terra, et aer, quod mare proferat,
     Frui da, et infige adjacentes
     Encelados, pede ne retuso
Rursus hoc beatum concutiant solum,
Sic clara rursus gens Iapeti viret,
     Nec tardat ut, cui nulla vis, nec
     Imminuit rabics quietem,
Laetetur aetas lenis, et ingeni
Vigor per artes permeet arduas[8],
     Hinc dite cornu larga frugum
     Copia Bretiades beabit.

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libera versione di nicola sole

Di queste ultime forse itale sponde
     V’ha più vago paese? È quello il Faro,
     Ove da le voragini profonde
     Scilla e Cariddi fervono del paro
     Rapacemente, e su pel mar cangiante
     Quasi pinta ne appar l’ira estuante.
Ve’ come, onda sovr’onda esagitata,
     Giù l’assidua marea si rompe e tuona,
     E in improvvisi abissi or si dilata,
     E d’improvvisi colli or s’incorona,
     Terror de’ naviganti. Ecco lo Stretto
     Di formidato ed ammirando aspetto!
L’interfuso Oceàn parte gli Etnei
     Dal grembo del materno italo suolo:
     Per questa proda genïal, cui dei
     Preporre il singolar Bosforo solo,
     Guidan danze le Grazie, e più gentile
     Il puro aër balena al sol d’aprile.
Ove tu volga il piè, fiori qui premi:
     Qui l’està sorridente obblia sua meta;
     Qui di soavi e gravidi racemi
     Avvolge Autunno la sua fronte lieta;
     Da questi inverni temperati e brevi
     Fugge remoto il gel, fuggon le nevi.
Mentre voli coll’alma innamorata
     A l’Aretusio fonte, ecco le vette
     De l’Etna! Ecco Messina! Ecco la Fata,
     Che per sì varie guise i rai riflette
     Del sol nascente, quando l’alba estiva
     De le porpore sue veste la riva!
Pe’ concavi del mare e pe’ convessi
     Specchi del ciel Morgana i rai sorgenti
     Mesce e tempera sì, che, pinte in essi,
     Salde dirai le imagini e viventi
     Di Glauco afflitto che d’amor ragiona,
     E di Zancle la bella, e di Catona.

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Mira portenti! E noi l’Euripo, e noi
     De l’Ermo aurato ammirïam la sponda,
     E Corinto che specchia i merli suoi
     Entro al duplice mar che la circonda,
     E Delo illustre, e Pafo, e Tempe ombrosa,
     Cullata da perenne aura odorosa?
Quanto all’Idaspe glorïoso, oh quanto
     Questa proda sovrasta, e al cristallino
     Pe’ recessi Pimplei fonte del canto,
     Che da’ poeti ancor detto è divino!
     Qui le più fresche rose intreccia, o Flora,
     E dell’unica Reggio il vel ne indora!
Guarda siccome pe’ vicini clivi
     L’alma città soavemente sale,
     E de’ colori più sereni e vivi
     La s’inghirlanda in maestà reale!
     Ve’ con che vezzo le sue braccia aperte
     A l’onda Ionia e al mar sican converte!
Ella somiglia a un arbore lucente
     Che per l’aere spanda i rami d’oro,
     Ed intorno al cui piè l’onda corrente
     Volga in gelidi gorghi il suo tesoro;
     Arbor che a tempo al provvido cultore
     Renderà frutto di soave odore.
E mai non perde de le fronde il vezzo,
     E gareggian di poma i suoi cederni,
     Nè langue adusta de la state al mezzo,
     Nè langue al gel de’ ricorrenti inverni;
     Che se pur l’austro violento e diro
     Ne rompe l’aër col suo rauco spiro,
Unqua di Borea non estingue il gelo
     Le sue lascivïenti aure amorose.
     E quando il suol sotto quest’aureo cielo
     Al novo april s’imporpora di rose,
     L’arancio in fior, che tutte empie le sponde,
     Da le nivee corolle incensi effonde.
Qui la villa gentil di Musitano,
     Che a nessun’altra invidiar potria,
     Fiori approdati da paese estrano,
     O schiusi a questa dolce aura natia,
     De la innata beltà sorvanza il segno
     Per le industrie dell’arte e dell’ingegno.

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O Villa di Valerio, o Bagno ameno,
     O caro ostello, ed a le muse amico!
     O Leucopètra, o trarupato seno,
     Indizio ancor di cataclismo antico,
     Tu gl’immertati ignivomi furori
     Del fulmineo gigante anche deplori!
O nepoti di Roma, o voi che molte
     Glorie v’imprometteste oltre l’avita,
     De la villa Valeria a le insepolte
     Reliquie or date nuovo lustro e vita,
     E a l’appia via che tanto suol rigava,
     Ed a’ sacri di Roma atrii piegava.
O Terra avventurata! O d’ogni bene,
     O di tutti i tesor colma da Dio!
     Paolo, che a le fatali itale arene
     Primo i portenti de la fede aprio,
     Terra felice, a’ figli tuoi primiero
     Temprò l’ingegno ne l’eterno vero;
Quando le truci per crüor materno
     D’Oreste ei ruppe espïatorie tede,
     Ed una luce, cui dal ciel superno
     Per forza ei trasse de la nuova fede,
     Sovra colonna, ornai vetusta, ei mise,
     Ed ogni cor maravigliando arrise.
Ed or qui l’eco di consorti squille
     Suol ne la notte rammentar la morte
     Con cento tocchi a le dormenti ville;
     Ed allor che il meriggio arde più forte
     Con altrettanti da le torri invita
     Del pasto usato a confortar la vita.
E quivi, ond’oggi supplici concenti
     Da serafico chiostro ergonsi a Dio,
     Divorato dall’impeto de’ venti
     Un solingo cipresso un dì fiorio,
     A cui le genti ivan piegando intorno
     Innanzi all’ira barbaresca un giorno.
Ma già di sangue inespïato oscure
     L’arme di que’ terribili corsari,
     Quasi trofeo di belliche venture,
     Pendon da’ templi e da’ tranquilli altari...
     Eterno Iddio! Tu, la cui man rinserra
     I destini del cielo e de la terra,

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Cure, affanni, ed ogni altra opra nefanda
     Da questa bella regïon rimuovi;
     Sì che quanto la terra e il mar le manda
     In tutta pace rifruir le giovi:
     Tu fra le spire di miglior catena
     Il suo vicino Encelado raffrena,
Perchè di nuovo questo suol beato
     Non balzi a l’urto del terribil piede!...
     D’ogni bell’opra il fior guarda rinato
     In questo popol di Giapeto erede;
     Ed un’età, cui nè proposto audace,
     Nè demenza maggior turbò la pace,
Di sua mitezza esulterà fra poco,
     E de’ veggenti il provvido pensiero
     Securo passerà di loco in loco
     Degli ardui studi ad allargar l’impero,
     E l’abbondanza verserà maggiori
     Su le bruzie campagne i suoi tesori.

REGGIO

Sonetto


Ride la rosa, amor di primavera,
     Ride l’etereo azzurro, e tra le sponde,
     Odorate di fior, ridono l’onde
     Che increspa una soave aura leggiera.
È vago riso la natura intera
     Che a la beltà di questo Eden risponde,
     L’aura d’april co’ fiori si confonde,
     E la nota d’amor con la preghiera.
D’aranci profumata, una lontana
     Aura sospira su per l’onde liete,
     Ove si specchia la gentil Morgana.
E l’alma più su l’ale irrequiete
     S’alza del Vero a la sorgente arcana
     In queste, ospiti a’ carmi, ombre segrete.

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NOTE ALL’ODE

(fatte dal Naldi)

Note

  1. [p. 306 modifica]

    (1) Spiegare il fenomeno della Fata Morgana per l’angolo, limite, o per la totale riflessione, è volerlo spiegare piuttosto matematicamente, ossia per le idee e cognizioni generali delle cose, quando la fisica nasce dalle idee e cognizioni particolari delle stesse cose sensibili. Non mi fu dato di leggere che n’abbia scritto il reggino Arcovito, ed il gesuita P. Minasi, noto anche pei Granchi paguri. Le teorie del moto alla luce che diffondesi su tutti gli oggetti sensibili per la sua universale presenza nell’universo sensibile, e precipuamente sugli organi visuali di tutti gli esseri animali per mezzo dell’atmosfera terrestre, e de’ corpi centrali, luminosi, diffusivi e moventi la luce, (donde le leggi e il calcolo della diffusione, rifrazione, riflessione, ed effetti della luce rifratta su’ corpi opachi); la cognizione della perenne decomposizione e composizione di tutti i corpi ne’ loro elementi, mercè le leggi e forze della natura, per cui s’intende quella del fluido atmosferico o aere, (la cui natura, densità, qualità e moto fanno la scienza aerologica, come la meteorologia è fatta da’ fenomeni, detti meteore, che nell’aria son prodotti da’ varii elementi in essa esistenti, secondo le loro rispettive forze e leggi); il fatto del flusso e del ritorno o rema circoscritto fra certi spazii; le punte del promontorio Cenide o Pezzo, del porto di Messina, e di Calamizzi (presso a Reggio); il concorso dell’està, poichè quando il fenomeno apparisce nelle ore pomeridiane chiamasi la Sirena, sono tante particolarità che allontanano la spiegazione per ragioni generiche. Ho pensato qui cennar queste cose, avendo in qualche congiuntura discorso dell’avviso ch’io ne porto.

  2. [p. 306 modifica]

    (2) Ho creduto dare a Catona la voce latina di Columna, sapendosi che l’Iter Antonini, il quale da Roma cominciava, finiva a questa Colonna che ne segnava il milliario, e da essa, lambita da bel porto, si passava alla Sicilia, e perciò la via s’appellava iter ad Trajectum, quasi solo destinata a tal passaggio, o comunicazione dell’Italia co’ fecondi granai siculi.

    Ho poi voluto chiamar Gallico colla parola Glaucus, perchè, surto senza dubbio prima che le galliche cose ci lordassero l’idioma, m’è paruto derivare da una memoria favolosa. Se dura il nome a Scilla, non doveva mancar quello di Glauco, ch’erane l’amante. Ognuno sa che costui, non potendo raggiunger l’amore di quella Ninfa, pregò Circe che a’ suoi desiderii la piegasse. Ma la Dea, che di lui era ardentemente accesa, con venefica bevanda spense la vita alla leggiadrissima Scilla. Era giusto che Glauco, poco discosto, fosse rimasto a piangere sulla spoglie dell’amata.

  3. [p. 306 modifica]

    (3) All’austro ho dato l’aggiuntivo vehementis per serbare il vero che Cicerone osservò in una delle sue epistole ad Attico.

  4. [p. 306 modifica] [p. 307 modifica]

    (4) La particolarità che veramente abbella Reggio ed i luoghi circostanti è la copia degli agrumi; e se la Sicilia, Sorrento, Portici, e altro clima dolcissimo ne abbonda, le loro sessantasei varietà, che come in uno specchio vedi raccolte nell’ammirevole villetta del gentilissimo Signor Vincenzo Musitano, che ha gusto del bello, sono solo privilegio di quella contrada. Il bergamotto, che ha le sue specie variegato, cedro, limo, ed è anche un capo di ricchezza, si trapiantò in Reggio per Carlo Meuza, che prima o dopo del canonicato datogli nel 1726, dall’Italia ne portò l’innesto, il quale si fa a pezza o ad occhio; e portò pure una vite di Noc3ra che fu subito propagata. I fiori dall’arancio colà son detti zàgari. A comprendere tutta la famiglia degli agrumi, che aromatizzano quell’aria, mi son valuto della simiglianza che, secondo Virgilio, ha col laurus.

    A questa nota del Naldi credo acconcio aggiungere quel che dice il mio cultissimo amico e concittadino Antonino Màntica in un suo discorso letto nella Società Economica di Reggio:

    «È per la bocca di tutti, e con particolarità presso i nostri villani, un racconto sul bergamotto. Si volle e si vuole costantemente che un tal Vazzana, detto per soprannome Rovetto, non più che un secolo e pochi lustri indietro, essendo stato a Roma ha veduto nelle stufe e serbatoi questa pianta, alla quale era apposto il titolo di bergamotto. Ne chiese l’origine, e gli s’indicò come indigena di Bergamo, donde portata in Roma si esponeva in vendita. Il Vazzana, fattone l’acquisto di varie piante, le introdusse in Reggio sua patria, trapiantandole in un suo fondo in Santa Caterina, ove si cominciarono a fare i primi innesti sull’arancio amaro, e da dove si propagarono per i diversi proprietarii. Nondimeno può stare che dall’isola Barbada furon portate a Bergamo, dalla quale città per la via di Roma si sono introdotte a Reggio, e bergamotti furon perciò chiamate. Certo si è però, per quanto si sa, che nè in Roma nè in Bergamo si produce affatto questo frutto, nè tampoco nell’isola Barbada, mentre non si ha notizia di tale produzione in alcuna parte dell’America, nè altrove. La natura talvolta vuole anche schiribizzare nelle sue produzioni, ed aggiungere delle nuove alle antiche piante formando delle terze specie; come forse lo fa pel bergamotto, che è creduto un ibrido nato dal limone e dall’arancio, e come lo è pel portogallo-limone, che ebbe origine, non son forse trent’anni, alla marina di Bova in un fondo de’ signori Nesci, il cui albero tuttavia esiste; ed è mirabile vedersi ne’ medesimi rami uniti al portogallo-limone anche i limoni di Spagna, mentre in origine questo albero era solo portogallo, forse innestato sul limone di Spagna». Sin qui il Mantica; ma il nostro dotto, virtuoso e rispettabile medico Francesco Calabrò, in un suo opuscolo Della balsamica virtù del bergamotto, è di opinione che quest’albero sia veramente originario dell’isola Barbada, e così nominato per la similitudine del pero bergamotto. (Nota del Bolani.)

    (5) Il Calopinace, che scaturisce da Privitera, due ore di cammino sopra Tirreti, o Pertugio d’oro, anticamente s’appellava Taurocinium.

  5. [p. 307 modifica]

    (5) Il Calopinace, che scaturisce da Privitera, due ore di cammino sopra Tirreti, o Pertugio d’oro, anticamente s’appellava Taurocinium.

  6. [p. 307 modifica] [p. 308 modifica]

    (6) Una imperdonabile negligenza ad ogni antico monumento, annientò opere di sommo pregio; ed è chi sprezza i bei lavori del Canonico Morisani, che si studiò raccoglierne alcuni avanzi; ma ora il cultissimo ingegno di Domenico Spanò Bolani rivendica dall’obblio tante preziose memorie. Pare che avesse vinto ogni barbarie il destino ch’era posto alla villa di Publio Valerio, guardandosene ancor erta una reliquia; ed io vidi alcune colonne di granito intonacate, come base a poca terra, da cui l’ingordigia trae solo pochi grani. Questo avanzo deve credersi che fosse stato il bagno; e la villa era sulla strada Appia, che da Reggio, movendo per Leucopetra lambiva il Jonio, e per Brindisi nella Lucania s’addentrava, e poi per il vallo di Sejano a Pompei, Nola; quindi a Roma. Chi de’ Reggini non si esalta leggendo di questa villa le parole di Cicerone nell’epistola quarta del libro sedicesimo, e nella seconda filippica?

  7. [p. 308 modifica]

    (7) Reggio che, quando ancora il fiero ligure ed il potente Veneto avea prevalenza, poteva guardarsi, patì nondimeno cinque o sei saccheggi; il primo a’ tredici giugno del 1519; il secondo a’ sedici giugno del 1543 per Barbarossa, che pure di fuoco l’afflisse; il terzo a’ quattro luglio del 1552; il quarto addì otto giugno del 1558; il quinto da Scipione Cicala, che dal due al cinque settembre del 1594 maltrattandola, trovò validissimo ostacolo dinanzi al cipresso che giganteggiava, come sul Libano; decoro al tempietto sacro alla Madonna della Consolazione. La cui festa in settembre è una specialità storica; e un innesto di splendidezza cattolica, e di affetto alle tradizioni pagane, per le faci notturne e balli villerecci e moreschi. Le più migliaja di lumi, riuniti e divisi per tante ninfe su quelle molte spaziose e diritte strade, la sinfonia di strumenti montanini a varii crocchi, i serici parati, gli archi, gli artifizii di fuoco, fanno giocondissime le tre serate delle feste reggine.

  8. [p. 308 modifica]

    (8) Leggasi la visita che Annibale d’Afflitto fece in quella Diocesi nel 1631, ed il racconto dell’altro Arciv. Gaspare de Creales, in idioma spagnuolo stampato in Napoli nel 1646, che trovasi nella Biblioteca degli Studii.

[p. 298 modifica]Un gran numero di scrittori antichi e moderni vennero sempre lodando questa deliziosa contrada, ove siede la bellissima Reggio, quando incontrò loro di dover farne menzione. Io mi contenterò solo di ricordare il chiarissimo e nobilissimo poeta messinese Cav. Felice Bisazza; il quale in sei eleganti lettere intitolate Una gitarella a Reggio, dirette al cultissimo Stefano Ribera, e pubblicate nel Tremacoldo (giornale letterario di Messina) si fa a descrivere, assai gentilmente e con molto splendore di stile, le principali qualità fisiche, morali, religiose e civili dell’odierna Reggio. Di che io non voglio pretermettere di riferir qui pubbliche grazie al mio illustre amico, in nome di tutti quei miei culti concittadini, che sentono per lui una vivissima stima, e ne conserveranno una durevole riconoscenza.

Tali lettere furono anche ristampate in Napoli nel Poliorama Pittoresco a cura del signor Filippo Carelli.