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Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Tavole illustrative e cronologiche/Tavola terza - Notizie degli uomini illustri di Reggio

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Tavole illustrative e cronologiche - Tavola terza - Notizie degli uomini illustri di Reggio

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TAVOLA TERZA


NOTIZIE DEGLI UOMINI ILLUSTRI DI REGGIO.


ANTICHI


Learco. Antichissimo statuario reggino, che alcuni fanno discepolo di Dedalo d’Atene, il quale a’ tempi di Minos re di Creta fuggì in Sicilia, e fu autore di molti famosi lavori di scoltura e di architettura. Questo Learco fece per commissione degli Spartani un Giove di bronzo (che fu collocato nel tempio di Minerva, detto il Calcieco) composto di molti pezzi o lamine connessi con chiodi, statua che si giudicava la più antica di quante se ne conoscessero di quel metallo. È uopo vedere intorno all’artifizio dello statuario reggino quel che ne dice il Quatremère de Quincy (Le Iupiter Olimpien, L. III.)1.

Altri al contrario, come Pausania, crede che il reggino Learco non dell’antichissimo Dedalo di Atene fosse stato discepolo, ma bensì di Dedalo da Sicione, o de’ costui discepoli Dipeno e Scillide, che fiorirono mentre durava ancora l’impero de’ Medi, prima che Ciro avesse comincialo a regnare su Persiani, cioè verso l’olimpiade 50.

Clearco. Statuario. Fu discepolo di Euchire da Corinto, e maestro di Pitagora, altro statuario reggino famosissimo. Niun’altra notizia abbiamo di lui. Alcuni errano confondendolo con Learco.

Pitagora. Statuario. Fu discepolo del suo concittadino Clearco, [p. 174 modifica]e maestro di Sostrato da Sicione, ed anche come altri vuole (Guasco, Usage des Statues) del famoso scultore ateniese Lisippo. Sostrato gli era nipote dal lato di madre. Pitagora fu uno de’ più celebrati artefici antichi, ed eseguì moltissimi lavori e nella Magna Grecia, e nella Grecia orientale. Emulo di lui fu il famoso Mirone di Eleutere (città di Beozia); il quale però restò vinto dal nostro nel Pancrazio di Delfo. Pitagora avea cominciato a praticar l’arte sua molto prima dell’olimp. 87; imperciocchè si nominano di lui le statue in Olimpia di Eutimo Locrese vincitor del pugilato (olimp. 74. 76. 77.) e di Astilo vincitore nella corsa (olimp. 74. 75.). Condusse il gruppo d’Eteocle e di Polinice, e quello in bronzo del Ratto d’Europa, (di che fa menzione Taziano), lodatissimo da Varrone; di tal gruppo il Winckelmann non fa ricordanza. Rappresentò anche Leontisco da Messina cursor nello stadio. Il Winckelmann annovera il nostro Pitagora tra i cinque più famosi scultori che dopo Fidia fiorissero al tempo della guerra del Peloponneso. Ed il nostro reggino fu il primo che avesse cominciato a ridurre a regolari proporzioni le forme della sua scoltura, e ad avviar l’arte ad un’eleganza e perfezione non ancor conosciuta. Altre opere di Pitagora sono ricordate da Pausania: in Samo nel tempio di Giunone ammimiravansi tre statue di atleti, una delle quali figurava l’atleta Protolao da Mantinea, vincitore al pugilato, ed era lodatissimo lavoro del nostro Pitagora. Altra statua di Pitagora nello stesso tempio era quella del cursore Mnasea Libi da Cirene, in grave armatura.

In Leontini vede vasi un carro di bronzo di Cratistene da Cirene, sul quale ascendeva la Vittoria, e vi sedeva lo stesso Cratistene; il che fa supporre che costui fosse riuscito vincitore al corso de’ cavalli. Questo Cratistene credevasi figlio del detto Mnasea Libi. Di questo dono olimpico fu artefice il nostro Pitagora.

Ibico. Poeta. Suo padre si chiamò Certande. Secondo il Giraldi fiorì nell’Olimpiade 50, secondo Suida nella 54.a secondo Eusebio nella 60. Viveva a’ tempi di Anacreonte. I suoi versi, quasi tutti tendenti al lubrico, furon detti ibicini. Parlano di lui moltissimi scrittori antichi, fra i quali Stazio (lib. 5. Sylvarum), Ausonio (Monosyllaba), Plutarco (de Garrulitate), Antipatro (Antologia), Cicerone ecc. ecc.: Visse più tempo presso Policrate tiranno di Samo, regnante Creso.

Furono sue opere Amorum libri sette.
Certamina, poema.
Carminum, lib. 60.
Gorgia.
Raptus Ganimedis.
Pitho.
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Alcuni brevi frammenti delle sue poesie raccolse e pubblicò Enrico Stefano nel libro intitolato «Carmina novem illustrium foeminarum et lyricorum graecorum, ex bibliotheca Fulvii Ursini et latino versa reddita a Laurentio Gambara. Antuerpiae ex officina Platiniana, 1568, in 8.°» Presso Ateneo che lo cita spesso, si leggono parecchi versi d’Ibico.

Inventò il nostro Lirico un musicale istrumento di forma triangolare detto Ibicino dal suo nome, ed anche Sambuca. Il quale istrumento facea tal clamore, che, a detta di Suida, riuscì di sommo giovamento a’ Romani nella guerra co’ Celti.

Da Ibico venne il vecchio proverbio Ibyci equus, e dicesi di chi già avanzato in età e scemo di forza, cerchi tuttavia adoperarsi in cosa difficile e gravosa. Perciocchè Ibico, come scrive Platone nel Parmenide, aveva un cavallo già annoso, consumato ne’ tanti combattimenti atletici. Vedendo un dì il popolo ancora adoperato al corso un tal ronzone, si pose a ridere; al che rispose il nostro poeta: Il cavallo è simile al suo padrone, giacchè io stesso già vecchio sono incitato ad amare. E per verità Ibico era uomo assai lubrico, e quasi tutti lascivi componeva ancora i suoi versi; ne’ quali nondimeno era molta grazia e delicatezza, e si agguagliavano alla soavità di quelli di Stesicoro da Siracusa.

Da una sua avventura che gli cagionò la morte, nacque ancora l’altro proverbio Ibyci grues; la quale è così narrata da Plutarco (de futili loquacitate)». Cum enim Ibycus in latrones incidisset jam occidendus, grues forte supervolantes obtestatus est; aliquanto post tempore cum iidem latrones in foro sederent, rursumque grues supervolarent, per jocum inter se susurrabant in aurem; adsunt Ibyci grues. Eum sermonem assidentes in suspicionem rapuerunt, maxime desiderato jam pridem Ibyco. Rogati quidnam sibi vellet ea oratio, haesitanter ac inconstanter responderunt: subjecti tormentis facinus confessi sunt; atque ita, velut gruum indicio poenas Ibyco dederunt»: al qual proposito dice Ausonio (in Monosyllabis):

Ibycus ut periit vindex fuit altivolans
     Grus.

Non ci è indicato con chiarezza dagli scrittori il luogo dove Ibico fu ucciso; ma da due epigrammi dell’Antologia Greca, uno di Antipatro, l’altro di poeta incerto, parrebbe che i ladri fossero venuti dalla Sicilia, e che Ibico fosse stato assalito ed ucciso in un luogo deserto del lido reggino; parrebbe ancora che il luogo fosse non [p. 176 modifica]lungi molto da Reggio, perchè qui fu eretto il tumolo allo sventurato poeta.

Dei tre Epigrammi dell’Antologia Greca che parlano d’Ibico, uno, di poeta incerto, sopra i nove lirici, fa menzione de’ suoi lubrici amori.

Un altro è d’Antipatro sopra Ibico:

«Ibico a te già diero morte i ladri,
Che dall’isola venner nel deserto
Inaccessibil lido, mentre intanto
Alle grida volgevi a un stuol di grui,
Che testimon della tua cruda morte
A te venian. Né già gridasti indarno;
Poichè tua morte qualche furia ultrice
Collo stridore vendicò di quelle
Su la terra Sisifia. Ahi razza avara
Di ladri, come degli Dei lo sdegno
Voi non temeste? Poichè quell’Egisto,
Che già un poeta tempo addietro uccise,
Non sfuggì l’occhio delle nere Eumenidi».

Il terzo è anche d’incerto;

«Reggio, l’estrema parte dell’Italia
Fangosa, io canto, die tuttor dell’acque
Trinacrie è bagnata, della lira
Perché l’amante, e de’ fanciulli amante
Ibico sotto un fronzuto elmo pose
Dopo molti travagli qui sofferti.
E molta edera sparse intorno ed tumulo,
Ed una piantagion di bianche canne.

E siccome la terra Sisifia dell’epigramma d’Antipatro è Corinto, così ci si fa noto che nel pubblico mercato di questa furono intese dagli astanti le parole «Adsunt Ibyci grues», le quali diedero avviamento alla scoperta degli uccisori.

I frammenti greci delle poesie d’Ibico, già raccolti e pubblicati dallo Stefano furono novellamente illustrati ed accresciuti dal chiarissimo tedesco Federico Guglielmo Shneidewin, e messi a stampa in Gottinga nel 1833 presso G. Ruebero col titolo «Ibyci Carminum reliquiae». Essi son disposti così:

Carmina amatoria (13 frammenti.)
Carmina troica, argonautica, heraclea (4 fram.) [p. 177 modifica]
Carmen (per Diana d’Ortigia) (2 fram.)
Carmen (per Samo) (1 fram.)
Epigrammata.

E questi frammenti furono tradotti in versi italiani da G. Boccanera. Anche il Bergk, che riunì e pubblicò i Poetae lyrici graeci, raccolse molti nuovi frammenti delle poesie dell’antico reggino.

Il Lantier nel Viaggio d’Antenore narra le avventure d’Ibico, ma vi appone molte circostanze favolose.

Dice Ateneo che Ibico cantò ancora in versi gli Amori di Talo e Radamanto. Ed Eliano il chiama poeta comico, il che ci fa congetturare che fosse stato anche scrittore di commedie. Era sentenza d’Ibico: Non doversi offendere i Numi per piacere agli uomini.

Sulla morte di lui scrissero molti poeti greci versi compassionevoli, e tra’ moderni abbiamo un’elegante lirica poesia del celebre poeta tedesco Schiller. Questa poesia fu tradotta in leggiadri ed eleganti versi italiani dal gentil poeta reggino Antonio Giuffrè, uno de’ miei più intimi e cari amici. Nè i miei lettori sgradiranno che io ne porga loro un frammento:

Le greche genti accorrono in Corinto
Al certame de’ cocchi ed a la gara
Ardua de’ canti. Quivi trar s’affida
Ibico, amico degli Dei: chè Apollo
Assai la mente gli fiorì de’ sacri
Estri e del verso armonioso. Ei, veste
Presa di viator, muove di Reggio;
E l’afflato del Dio gli vibra in core.
    Già contemplano i vaghi occhi l’eccelsa
Acrocorinto; e le misteriose
Selve di Posidon lieto ei traversa;
Volge romito, nè di umano aspetto
Ombra gli pare. Sol per l’aer muto
Un gli è visto alla via stuolo di grue,
Che, di que’ giorni, da le occidue zone
Migrano desiando aura più calda.—
Io a voi saluto, o cari augelli! a voi,
Poichè meco d’un ora il mar varcaste.
Egual sorte ci corre: e noi di lunge
A una terra ospital del pari andiamo:
Ah, siam fidi a la dolce ospite noi,
Ch’ella da’ torti lo stranier difende.—

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Dice, e la via prosegue.
                        Il mezzo attinge
De l’arcana foresta: ed improvvisi
Due masnadieri ecco gl’incombon truci,
E l’investon a morte. Oppor difese,
Pugnar vuol e’, ma sì la man ricade;
Destra più che de l’arco vigoroso
De la lira a tirar lievi le corde.
Nulla è ch’ei gridi, e a soccorso ne chiami
Uomini e Dei. Per quanto aere trascorre
Alcun non fere la sua voce orecchio
Di vivente. — E sarà dunque poi vero
Che qui’n terra non mia per man di due
Miserabili io cada, e inonorato!
Ove nessun qui mi verrà, nessuno
N’avrò vendicator forse! — E, dicendo,
Pallido al suol tramazza di ferite.
In quella appunto per l’aer la frotta
Transita delle gru, che da gli acuti
Gridi s’annunzia. Ma levar le fioche
Non può in alto pupille il moribondo
Cantor. Egli allor prega: Oh, se non altra
Che mi vendichi è voce, oh almen la vostra
Da le altezze pur suoni, e gli omicidi
Al Sol n’accusi, o pii volanti! — E spira.
     Del bosco entro le verdi ombre è veduto
Un trafitto cadavere. Ed avvenga
Che il suo molto pallor lo disfiguri,
Pure ah il ravvisa chi onorar dovea
In Corinto al reggino Ibico entrante.
E a questo: — E tale era l’allegro viso
Ch’io recar ti volea? sì ti ritrovo!
È là la fronte che sperai mirarti
Coronata di allori? — I peregrini,
Che alla festa correan di Posidone,
Piangon d’Ibico tutti il giorno estremo:
Tutta Grecia è commossa: un vivo duolo,
Un’ira viva dentro il popol freme,
S’affolla al Pritaneo: quivi la morie
E’ vendicar chiede del vate, e i mani
Col sangue a lui chetar degli uccisori.

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Nella Fata Morgana leggesi una biografia d’Ibico scritta dal mio caro e culto amico e concittadino Felice Valentino.

Ippi, o Ippia. Storico. Visse circa l’olimp. 55, a tempi della guerra persiana. Al dir di Suida, fu il primo che abbia scritta un opera in cinque libri, Delle cose Sicule. Scrisse ancora delle Origini italiche, cinque libri De Temporibus, e tre Delle cose argoliche; ed un trattato De Hyadibus, come ci si narra negli scolii di Arato. Parlano di lui molti scrittori; tra i quali Plutarco (de Orac: delfic.) e Galeno (de histor. philosoph.) e vedi specialmente Vossio (Hist. Graec.) Esichio, e Giulio Polluce. Fu il reggino Ippia inventore delle Parodia, e del Choliambum, quasi claudum jambum, da colos, claudus; perchè il giambo, sturbato nella sesta, pare che zoppichi; o dicesi altresì scazon. Ippia fu ancora riputato filosofo morale. Senofonte il fece interlocutore con Socrate nel Dialogo del Giusto; e Platone gl’intitolò i libri de pulchro e de mendacio. Dice Eliano che Ippia usava sempre vesti purpuree. Ateneo, adducendo varie opinioni del vino biblino, e dell’origine di tal nome, cita il reggino Ippia colle parole che seguono: «Hippias Rheginus, quam vitem [testo greco] idest tortuosam dicebant, bibliam vocatam fuisse tradit; eamque argivum Pollin, qui regnava Syracusis, primum ex Italia Syracusas invexisse. Quamobrem quod dulce vinum Siculi Pollium nuncupant, biblinum fuerit.» Aggiunge qui il Mazzocchi: «Italia illa, ex qua vitis biblya Syracusas translata fuit, non alia quam Italia vetustissima erat.

Teagene. Scrittore. Fiorì a tempi di Cambise circa l’olimp. 63; ed è il più antico storico di cui trovisi fatta menzione tra gl’Italioti. Fu altresì il primo che scrisse sulle allegorie, età e patria d’Omero. È mentovato da molti antichi scrittori, e ne parla anche Erodoto. Vedi il Fabricio (Bibliot. Greca lib. 2. cap. 5.).

Glauco. Fu valente scrittore, musico, e filosofo pitagorico. Scrisse un’opera De’ Poeti e Musici antichi, che alcuni però attribuivano ad Antifonte oratore, come si legge presso Plutarco (de Musica). Fu contemporaneo di Democrito e visse circa l’olimp. 86. È mentovato, oltre degli antichi scrittori, dal Meursio (Biblioteca greca), dal Vossio (de historicis graecis, lib. 4. cap. 2.) e da Laerzio.

Androdamante. Filosofo, e legislatore de’ Calcedonesi di Tracia; e fiorì nell’olimp. 90. Fanno di lui menzione Aristotile (de Politica, lib. 2. cap. ult.) ed il Fabricio (Bibliot. gr. lib. 2 cap. 18).

Lico Butera. Storico. Visse a’ tempi di Tolomeo Lago verso l’olimp. 115. È noto per le insidie tesegli da Demetrio Falereo; e compose una Storia della Libia, ed un’altra della Sicilia. Licofrone fu suo figlio adottivo. [p. 180 modifica]

Cleomene. Poeta. Scrittore di ditirambi, e del Meleagro, che Ateneo, dandone contezza, ci assicura di aver letto. Fiorì a’ tempi di Alessandro, a cui scrisse delle Epistole, cioè circa l’olimp. 112.

Teeteto. Filosofo e legislatore. Vuolsi che sia quel medesimo, a cui Platone intitolò il suo libro de scientia: Visse verso l’olimp. 100.

Aristocrate. Filosofo pitagorico. Parlano di lui Giamblico (Vita di Pitag. cap. 27) ed il Fabricio (lib. 2, cap. 14.).

Pitio, Elicaone, Diocle, Teereto, ecc. Filosofi pitagorici. Vedi Giamblico ed il Fabricio.

Silace (o Silaso.) Pittore. Fiorì a’ tempi di Pitagora «perciocchè (dice il Betti nell’Illustre Italia) Simonide ed Epicarmo, per testimonianza di Ateneo, ricordarono le pitture che l’artefice reggino condusse nel Peloponneso per quei di Fliunte nel portico del Polemarchio. Opera insigne, che meritò d’essere particolarmente descritta da Polemone in quel libro che intitolò ad Adeo e ad Antigono».

Dionisio. Statuario. Il Barthélémy nel suo Viaggio di Anacarsi fa menzione di un Dionisio da Reggio statuario, vivuto nel V secolo prima di Cristo. Io non so dond’egli abbia tratta tale notizia, non essendomi riuscito di legger questo nome in alcuno scrittore antico.

Pitone. Capitano illustre e filosofo pitagorico. Difese sino all’estremo la sua patria contro le armi del tiranno Dionisio; e perì gloriosamente in quell’estremo eccidio della Repubblica Reggina.

Aristone. Musico. Visse circa l’olimp. 68 Conosciuto per la competenza musicale col musico locrese Eunomo, come narrammo nel libro I della nostra Storia.

Ursicino. Fu valoroso soldato sotto Belisario; è ricordato da me nel libro secondo.

MODERNI

Niccolò da Reggio. Dal Giannone è chiamato Nicolò Greco, dal Signorelli Nicolò Ruberti. Visse sotto re Roberto, e fu chiaro e dotto medico. Guido di Cauliac, suo contemporaneo, così scrive di lui: «In hoc tempore in Calabria Magister Nicolaus de Rhegio, in lingua graeca et latina perfectissimus, libros Galeni translatavit, et eos in Curia (cioè alla Corte del Papa in Avignone) nobis transmisit, qui altioris et perfectioris styli videntur, quam translati de arabica lingua.» — Da Gioan Cristiano Achermanno fu annoverato tra coloro che «maxime meriti sunt de Galeno, dicendo: Nicolaus Rheginus Calaber ob versos multos Galeni libros; et satis bene quidem [p. 181 modifica]barbariei temporibus.» — La più parte delle tradazioni dal greco furon da lui fatte per ordine di re Roberto, a cui era famigliarissimo. Dalla voluminosa opera medica di Nicolò Mirepso Alessandrino cavò fuori il nostro reggino 1065 capitoli, che tradusse dalla greca nella latina lingua, i quali poi uscirono alla luce con brevi note di Giovanni Agricola col titolo: «De compositione medicamentorum particularium. Ingolstat, 1541 in 4.° — Venetiis apud Andream Arrivabenum, 1543 in 8.

Sono altresì sue opere: Un libro in greco De Cemate che si è perduto; una Collatio de’ luoghi di Galeno e d’Ippocrate; le Opere di Galeno tradotte in latino, e pubblicate talune in Venezia da’ Giunti.

Nel catalogo de’ manoscritti della Biblioteca reale di Francia si veggono (dice il Tiraboschi) molte opere di Galeno da Niccolò recate di greco in latino. Moltissime traduzioni di diversi opuscoli di Galeno fatte da Niccolò tra il 1317 al 1345 trovansi ne’ primi due tomi dell’edizione latina delle Opere di lui, fatta da Pierantonio Rustico da Piacenza, professore dell’Università di Pavia, e stampata nella stessa città dal 1515 al 1516. Tra esse è degna di considerazione la dedicatoria di Niccolò al re Roberto di Napoli del libro di Galeno intitolato «De passione uniuscujusque particulae corporis,» nella quale dice che Andronico Imperatore d’Oriente, avendo udito per fama il gran sapere di Roberto, ed il desiderio ch’egli avea di posseder certe opere di Galeno, che non erano state ancora recate in latino, alcune gliene avea tosto mandate per fargli cosa gradita.

Giovanni Malatacca. Illustre capitano a’ tempi di Giovanna prima. Di lui ho fatto menzione nel libro 4.° della mia Storia.

Pietro Bosurgi. Celebre medico, il quale mentre re Ladislao si trovava al castello di S. Niceto (volgarmente S. Lucido) fu con sovrano ordine mandato Console in Messina nel 1404.

Filippo de Lanzano. Vescovo di Corone in partibus infidelium. Anno 1346.

Antonio Strada. Vescovo di Mileto nel 1420.

Pietro Vitale. Rocco Pirro lo chiama Pietro Pitale; ed era conosciuto più ordinariamente col soprannome di Pietro Calabrico, originario di Pentidattilo, nativo di Reggio. Fu Monaco Basiliano, prima Abate di Grottaferrata, poi Archimandrita del SS. Salvatore di Messina. Nel Concilio Fiorentino, (sotto Eugenio IV, nell’anno 1439) a cui intervenne, come racconta Sguropulo, disputò acremente con Gregorio Geromonaco (ch’era Primicerio della chiesa Alessandrina, e Legato del suo Patriarca) sopra la collazione del battesimo, secondo il rito latino. Scrisse il Vitale diverse opere, e fra queste Epistolae [p. 182 modifica]logistices libri; Arithmetica; De numeris; Geometria; Theologica Speculatio.

Matteo Saraceni. Fu Frate Minore dell’Osservanza. Compagno di S. Bernardino da Siena, corse cavallerescamente, unitosi a S. Giovanni di Capistrano, alla guerra di Ungheria contro i Turchi. Si cooperò efficacemente ad estirpare da varie parti del Reame la nuova eresia che si levava arditissima sotto il nome de’ Nuovi Cristiani. De’ meriti del Saraceni ebbe piena conoscenza il Pontefice Niccolò V, e volendo rimeritarnelo, gli propose per mezzo del Cardinal di Fermo l’Arcivescovado di Reggio. Ma il Frate non volle per niun verso accettare tal dignità; quantunque poi ebbe a pentirsene. E quando Pio II volle sollevarlo ad Arcivescovo di Rossano nel 1460 il Saraceni si porse arrendevole, ed accettò. Era eccellente Oratore, e si ammirava in lui profondità di dottrina e robustezza di argomenti accoppiata a calore e vivacità di fantasia. Egli fu il primo Arcivescovo che, vinti coraggiosamente infiniti ostacoli, avesse rimosso il rito greco dalla Chiesa di Rossano, ed introdotto il latino l’anno 1461. E reputando quest’azione degna di memoria, intese farla passare a’ posteri con un’iscrizione latina fatta scolpire nella cattedrale di Rossano; iscrizione che mi piace qui riferire, perchè è assai originale e curiosa:

     Hanc quam cernis, ille, cujus laus est perennis,
Transtulit in latinum, Ecclesiam, de graeco ad cultum divinum;
Cui nomen est Matthaeus, quem in Presulem elegit Eternus Deus.
Ordinis fuit Minorum, qui in numero fuit praedicatorum.

Del Saraceni dà molte notizie il Rodatà nella sua opera Dell’origine progresso e stato presente del rito greco in Italia.

Bernardo Molizzi. Nacque verso il 1466. Monaco dell’Ordine de’ Cappuccini, conosciuto più spesso col soprannome di lo Giorgi. Fu uno de’ fondatori del Convento de’ Cappuccini di Reggio. Essendo ancora tra i Padri Osservanti, divenne così prestante e dotto che «a facultate Parisiensi (son parole di Dionisio ab Ianua) Sacram Doctoratus lauream acceperit». Fu peritissimo della greca lingua, e parecchi libri di Santi tradusse da quell’idioma con tanta eleganza e spontaneità, che pareva fosse nato Greco. Di somma prontezza ad intendere le più difficili dottrine, fu versatissimo nelle arguzie, sottigliezze, e distinzioni della dottrina di Scolo. «Praeter publicas (dice ab Ianua) philosophicas ac theologicas elucubrationes, alia plura doctissime conscripsit, inter quae, ut notat Wadingus, extant adhuc doctissima Commentaria in Librum primum scripti Oxoniensis, in tria volumina distributa.» [p. 183 modifica]

Scrisse altresì: «Adnotationes in Sacram Divinam Scripturam, opera dedicata all’Arcivescovo Fra Gaspare dal Fosso; Conceptus quadragesimales; Chronicon Rhegii.» Voltò ancora di greco in latino la Vita di S. Elia Abbate della famiglia Labozzetta. Morì il Molizzi settuagenario nel 1536. Giusta l’asserzione del Zuccalà (Antichità di Reggio, opera che io veggo sovente citata, ma che non ho potuto leggere) le tre ultime opere del Molizzi si conservavano manoscritte nella Biblioteca de’ Cappuccini di Gerace.

Simone Porzio. Celebre filosofo, nominato dal Bombini e dal Martire ne’ loro manoscritti, che furono letti dall’Aceti.

Ludovico Cumbo. Dell’Ordine de’ Cappuccini. Uomo di austere virtù e di santa vita. Scrisse varii Sermoni latini, che (come ci assicura il Zavarroni) si conservavano manoscritti nella Biblioteca dei Cappuccini di Castelvetere.

Girolamo Tagliavia. Ci dà notizia di costui Tommaso Cornelio, il quale nel terzo de’ suoi Proginnasmata così dice: «Haec sententia (de motu terreni Globi circulari) apud Pithagoreos incolas nostros primum nata atque alta, multis ferme saeculis obliterata, et ex hominum memoria pene deleta jacuerat, donec illam ab oblivione ac silentio vindicavit Nicolaus Copernicus Borussus, cui cum omnem disciplinam, istitutionemque, tum hypotheseos hujus absolutam cognitionem uni debet Italiae. Nam praeter quam quod multa Cardinalis Cusanus de motu terrae memoraverat, fama est Hieronymum Tallaviam Rheginum plurima secum animo agitasse, et nonnulla etiam de hoc sistemate conscripsisse; et illius tandem fato praerepti adversaria in manum Copernici pervenisse». Così vien detto nell’edizione napolitana del 1688 fatta dal tipografo Giacomo Raillard; ma nell’edizione veneziana fatta anteriormente nel 1663 dagli eredi di Francesco Baba leggesi Calabrum in vece di Reginum, il che fa credere che il Cornelio, dopo quella prima stampa abbia avute certe notizie che il Tagliavia fosse reggino.

Simone Fornari, o Furnari. Fu figlio di Prospero e di Tedesca de Capua; l’uno e l’altro di nobili famiglie reggine. Il tempo della sua nascita può riferirsi a’ principii del secolo XVI. Fece i suoi primi studii letterarii sotto la direzione di un suo maggior fratello Ab: Giovanni Maria, e fu carissimo all’Arcivescovo di quel tempo Agostino Gonzaga. Crescendo poi negli anni e nelle conoscenze, uscì della patria, e recatosi in Toscana, fece non breve dimora in Pisa, per far tesoro delle discipline che in quella celebre Università s’insegnavano. Nè poco frutto ricavò da queste sue occupazioni, e si fece familiare ed amico de’ più famosi letterali di que’ tempi. Divenne perciò letterato [p. 184 modifica]esimio, e suo studio principale furono i classici italiani, specialmente Dante, Petrarca e Boccaccio. L’Orlando Furioso dell’Ariosto, venuto allora alla luce era letto e studiato da’ letterati, letto e cantato dal popolo. Il nostro reggino assunse l’impresa di comentarlo, e vi riuscì a meraviglia. L’opera sua ha per titolo: La sposizione di Messer Simone Fornari da Reggio sopra l’Orlando Furioso di messer Ludovico Ariosto.» La divide egli in due parti; delle quali la prima contiene i comenti, e le dilucidazioni in generale de’ Canti, ed in particolare delle stanze del Furioso, ed è da lui dedicata a Cosmo II dei Medici, Duca di Toscana. Nella seconda spiega le allegorie del poema, e la dedica ad Agostino Gonzaga, arcivescovo nostro. Pubblicò tale opera in Firenze dal 1549 al 1550 presso Lorenzo Torrentino. Premette a questa la vita dell’Ariosto tratta dalle costui opere e dalle notizie fornitegli da Virginio figliuolo e da Gabriele fratello dell’Ariosto. Tal vita fu poi di nuovo pubblicata nell’edizione che del Furioso si fece in Venezia nel 1566.

Alla vita dell’Ariosto fece il Fornari seguire l’Apologia del poema, ed a questa un altro lavoro contenente le Allusioni che si veggono nell’Orlando Furioso sopra molte cose o ne’ tempi nostri o ne’ più antichi accadute.

Del nostro Fornari fanno menzione molti scrittori e nostri e stranieri. Nelle Biografie francesi è memorato col nome di letterato di Reggio in Calabria; è omesso però nella Biografia degli Uomini illustri del Regno di Napoli, che è pure così piena di nomi che non meritavano di essere ricordati.

Tommaso Aceto ci afferma che il Furnari abbia scritte altre opere; ma di queste non abbiamo altra notizia tranne quella che ce ne dà il Zavarroni nella Biblioteca Calabra; cioè di un’Epistola sulle furie di Orlando amante, e di un volumetto di Poesie messe a stampa in Firenze nel 1596.

Ci è al tutto ignoto l’anno della morte di Simone. Sappiamo solo ch’egli vestì l’abito di Certosino, e che nella nostra Certosa di Santo Stefano del Bosco ebbero fine i suoi giorni. Chi voglia più ampie notizie del Furnari legga la Biografia che ne scrisse il chiaro nostro concittadino Girolamo Arcovito, e che fu pubblicata nella Fata Morgana foglio periodico di Reggio, anno 2.° n.° 3° 1839.

Giovanni Boccanelli. Fu egregio medico (1550); e pubblicò un’opera, De consensu medicorum in curandis morbis libri IV. ed un’altra, De consensu medicorum in cognoscendis simplicibus, pubblicate in Venezia nel 1553 in 8. Di lui null’altro sappiamo.

Bernardino Furnari. Fu figlio primogenito di Prospero, e fra[p. 185 modifica]tello perciò del letterato Simone. Si diede alla milizia, e vi si distinse assai egregiamente. Di che ebbe uno splendido attestato da Carlo V. Rammentando questo Imperatore, in un suo diploma dato da S. Giacomo il dì 26 marzo del 1520, i gratissimi, accettevolissimi e magnifici servigi renduti da Bernardino agli Aragonesi, e specialmente a Ferdinando il Cattolico, dice constare pienissimamente con quanta virilità abbia il nostro combattuto e nella Sicilia di qua dal Faro, e nella guerre d’Italia per la sicurezza e conservazione del Regno. Nulla aver mai omesso il Furnari di ciò che ad ottimo e prode uomo possa essere richiesto. Ed a rimeritarnelo l’Imperatore gli conferì per tutta la vita il governo della Bagliva di Santagata colla giurisdizione delle cause civili.

Nè voglio trascurare di dire che suo padre Prospero Furnari ebbe a’ suoi dì stato assai cospicuo. E tenne gli onorevoli uffizii di Maestro Portolano di Principato citeriore, di Maestro Segreto della Dogana di Reggio nel 1504, e di Segreto del fondaco di questa stessa città nel 1507. Delle quali cose ci porgono testimonianza i registri e notamenti de’ Privilegi dell’Archivio della già Regia Camera della Sommaria. Era in un medesimo Vice Ammiraglio di Reggio, nel quale uffizio fu confermato da Ferdinando il Cattolico con diploma dato nel Castel nuovo di Napoli addì cinque di febbrajo del 1507.

Ludovico Carerio. Celebre Giureconsulto. Occupò varii onorevoli uffizii nella sua patria, e fu sindaco nobile nell’anno 1544-45. Pubblicò un’opera assai pregiata a que’ tempi, ed intitolata: Practica nova causarum criminalium; ove tratta di proposito delle appellazioni, degl’indizii e della tortura, dell’omicidio, dell’assassinio, e degli eretici, non che delie disposizioni sopra tali materie negli statuti del Regno di Napoli, e nel Diritto civile e canonico: con in fine un repertorio alfabetico delle materie. È un bel volume in 8.° a due colonne. L’opera è dedicata all’Eccellentissimo Bernardino Martirano, e fu stampata dal Comino in Venezia nel 1548, e poi reimpressa ivi nel 1560, ed in Lione nel 1562 in 4 presso Guglielmo Rovillio. L’edizione cominiana è nella Biblioteca Borbonica di Napoli, ove io ebbi l’agio di leggerla, ed è lavoro che non meritava di esser dimenticato.

Marcantonio Politi. Fu medico riputatissimo. Nacque nel 1541; e fu sindaco nobile di Reggio prima nel 1608-9, poi nel 1615-16. Pubblicò una Cronica della nobile città di Reggio, in Messina presso Pietro Brea 1618. Prese la terza moglie ad 82 anni nel 1623; ed uscì di vita a’ due di novembre del 1626.

La sua Cronaca della Nobile e Fedelissima Città di Reggio è divi[p. 186 modifica]sa in due libri, ma ne’ tre esemplari da me veduti mancano nel libro secondo le pagine ultime dalla 97 in poi. Precedono il libro primo quattro sonetti in lode dell’autore; due de’ quali sono di Gerolamo Frassia, Dottore, (non so se reggino) Teologo, e Lettore nel pubblico, e mi piace qui riprodurli, come notevoli per la loro spontaneità, e semplicità:

Qua dove l’onda di Nettuno irato
     Tra la Sicania e il Bruzio il corso alterna;
     Dove da la profonda atra caverna
     S’ode Scilla mandar l’empio latrato:
Ove ingoja sovente il legno armato
     Cariddi, e pasce la sua fame eterna,
     Ove altrettanto (e fu grazia superna)
     Quanto è temuto il mare, il suolo è amato;
Lungo la riva a vagheggiar l’Occaso
     Siede il famoso Reggio, e serba ancora
     Nelle mine sue gli antichi onori:
Tu del Dio della Lira e di Parnaso,
     Politi imitator, la vaga Aurora
     Di lui ravvivi, e i primi suoi splendori.


L’antica patria, ove l’altere piume
     Vestì questa immortal dotta Fenice,
     Fu già famosa nell’età felice
     Quando in terra fioriva il bel costume.
Poscia, qual predator rapido fiume,
     Il tempo avaro, a cui pur troppo lice,
     Delle glorie di lei l’alta radice
     Svelse, ed estinse il glorioso lume.
Tu nella nostra età, Scrittor gentile,
     Dal sepolcro la chiami al primo stato,
     E fede acquisti al chiaro suo natale.
Alla luce ti aprì le luci, e il fiato
     Ella ti die; tu con l’eterno stile
     Rendi alla Madre tua vita immortale.

Silvestro Bendicio. Dell’ordine de’ Predicatori, e Missionario Apostolico. Fu preso da barbari corsali Tunisini, e tenuto per due anni in durissima prigionia; tentato invano per due mesi a rinnegare la fede di Cristo, non si lasciò smuovere nè da dolci persuasive, nè [p. 187 modifica]da minacce furibonde. Ma perseverando costantissimo nella cattolica credenza, fu da que’ rabbiosi gittato vivo in una fossa col collo in giù, e lapidato. Tolto quindi cadavere, gli fu tagliato il collo; e così meritò la palma del martirio circa l’anno 1655. Ciò ricaviamo da una nota di Tommaso Aceto al Barrio.

Francesco Spanò. Fu buon poeta del secolo XVII; ma null’altro ci resta delle cose sue che il seguente sonetto, conservatoci nell’opuscolo del Martirio di S. Stefano del P. Politi, a cui lode è scritto:

Non di mortal caduchi Semidei
     L’amor, le imprese, le vittorie, e l’armi,
     Spirto gentil, ne mostri in questi carmi,
     Ma di Celesti Eroi palme e trofei.
Come a’ tormenti insidiosi e rei
     Di zelo e fede il Pastor nostro s’armi
     Contro del fier Tiranno, i bronzi e i marmi
     Spregiando, (opra dell’uom) stupidi Dei:
Così cantando l’onorate some
     Onde a Dio vassi, al tempo chiare salme
     Imponi, acciò portar deggia il tuo nome.
Indi bramoso di più degne palme
     T’involasti dal mondo per dar, come
     Davi salute a’ corpi, or vita all’alme.

Paolo Diano. Vescovo di Oppido nel 1663. Morì l’anno 1674. Fu altro buon poeta contemporaneo dello Spanò. Ecco un suo sonetto in lode del P. Politi, che si legge premesso al Martirio di S. Stefano.

Mentre del gran Pastor Stefano canti
     I gloriosi gesti, e la gran fede,
     Oh, come dolce il liquor d’Ibla fiede
     Ogni mortal ne’ carmi tuoi tonanti;
Chè le passate pene, e i lieti pianti
    Del fedel di Gesù, di Paolo erede,
    Spieghi sì al vivo, che li cori arriede
    Da lieti in mesti, e da leggier costanti.
Che più? Così di Reggio i primi onori;
    Politi, in un sì dottamente avvivi,
    Che tiri l’alme, e fai gioire i cuori.
Fenice, che dal Ciel qua giù derivi,
    Cigno canoro, che cantando mori
    Nel secol nostro, e nella fama vivi.

[p. 188 modifica]

Paolo Filocamo. Da Arcidiacono della Chiesa Reggina fu sollevato a Vescovo di Squillace nel 1676. Morì nel 1687.

Silvestro Politi. Tutti i nostri cronisti, copiandosi l’uno dall’altro, confondono in una sola persona Marcantonio e Silvestro Politi, facendo che Marcantonio fattosi monaco, avesse mutato in Silvestro il suo primo nome. Ma ciò è un errore grossolano; mentre è pur certissimo che Marcantonio finì di vivere nel 1626, e Silvestro, molto più giovane, e frate dell’ordine de’ Predicatori, continuò la sua vita sino al giugno del 1681. Questo Silvestro era uomo assai culto, e di preclari costumi, e fu autore di una tragedia intitolata S. Stefano Vescovo di Reggio, che pubblicò in Messina presso Pietro Brea 1626 in 8. Primo a chiarire questa confusione de’ due Politi fu il Logoteta (Tempio d’Iside e Serapide).

La tragedia è dedicata a’ sindaci di Reggio Francesco del Giudice, Francesco Spanò, Pietro Gatto; ed il Politi parlando dello Spanò nella dedica dice: il quale fu prima cagione, e perpetuo compagno di questa mia fatica. Alla dedica seguono due sonetti in lode dell’autore, l’uno di Paolo Diano, l’altro del detto Spanò. È divisa tal tragedia in cinque atti, tessuti di versi endecasillabi e settenarii, ed a quando a quando rimati. Nel complesso non è che un mal digerito guazzabuglio di scene lunghe e nojose; e lo stile e la lingua, tranne una buona copia di pensieri ed espressioni leggiadre, si risentono delle antitesi, e degli strani traslati, che il gusto vizioso di quel tempo accettava per singolari pregi dello scriver poetico. Ogni atto è chiuso da un coro; ed io per dar saggio a’ lettori del verseggiare del Padre Silvestro, mi fo qui a riprodurre il coro dell’atto quarto:

Misera incauta gente,
     Confidi e poi ti lagni,
     Fuggi, fuggi dolente,
     Chè sotto forma d’Agni
     Nasconder fra lusinghe gli odii cupi
     Veggo del vostro sangue avidi i Lupi.
Serpe tra fiori ascoso,
     Imitatrice Iena,
     Coccodrillo pietoso,
     Cruda ed empia Sirena
     Sembra (lasso) con voi l’empio Girace,
     Ch’ha sempre guerra al core, e in bocca pace.

[p. 189 modifica]

Bella madre natura
     Al vostro mal consente,
     Che non può star sicura
     Fra tanto duol la gente,
     Mentre non ha per securtà d’amore
     Finestra al petto, onde si veggia il core.
O bella età dell’oro
     Quando palesi al volto
     Gli umani affetti foro!
     Or tra lusinghe avvolto
     Non risponde l’interno a quel di fore;
     Ch’oggi non è senza disegno amore.


Se mi fu data comodità di poter leggere questo libro rarissimo, debbo ciò alla cortesia, usatami qui in Napoli, del chiarissimo e dotto Cavalier Roberto Betti, a cui con soddisfazione sincerissima dell’animo mio riferisco qui pubbliche grazie degli amorevoli anzi paterni ammaestramenti di che mi fu sempre larghissimo, quando amministrando con sapienza civile la Calabria Ulteriore Prima ispirava nel mio giovine intelletto l’amore ed il gusto de’ nobilissimi studii, e mi andava sin d’allora incitando a scrivere questa Storia della mia patria.

Giovanni Battista Bovio. Fu Giureconsulto non meno dotto del Carerio. Abbiamo di lui un trattato De statutaria Urbis praescriptione, messo a stampa in Napoli, 1610 in 8.

Bonaventura Campagna. Dell’Ordine de’ Cappuccini, e di famiglia delle più nobili di Reggio. Scrisse una Cronica de’ Cappuccini di Reggio in buona lingua italiana. Rimane manoscritta nella Libreria del Convento de’ nostri Cappuccini; e non sarebbe immeritevole della stampa.

Diego de Mari. Esimio Giureconsulto. Cominciò a scrivere sin dalla sua più giovine età, e compose e pubblicò «Additiones ad Decisiones S. R. C. Neapolit. Thomae Grammatici Regii Consiliarii. Napoli presso Egidio Longo 1627 in 4. Altre sue opere furono:

Additiones ad Gizzarellum Iuris tum Civilis quam Canonici, ordine alphabetico digestae, presso lo stesso Longo; De pugna Doctorum, libri III super Eliseum Danza; Doctorum I. U. opiniones per eum collectae; Additiones, reconditae, selectae, practicae ad Decisiones S. R. C. Nicolai Antonii Gizzarelli sui condiscipuli. Queste opere furono tutte pubblicate in Napoli; ed altre ancora ne compose che rimasero manoscritte presso suo figlio Giuseppe. [p. 190 modifica]

Giovanni Angelo Spagnolio. Nacque da Santo e da Grandigia Peregrino a’ 19 giugno del 1573. Apparò Grammatica ed Umanità in Reggio, poi passò a studiar filosofia nel Collegio di Messina, ove insegnava questa scienza il P. Giovanni Battista Bucalo. Nel 1593 fece via per Roma a studiarvi il Diritto civile e canonico; e tanto fu ivi conosciuto il suo merito, che papa Clemente VIII gli conferì un canonicato che allora vacava nella nostra Metropolitana. E fu ivi ordinato in sacris, ed ottenuto il grado di Dottore nell’una e nell’altra legge ed il privilegio di Notajo Apostolico, tornò a Reggio nel 1596. Qui fu fatto sostituto alla Prebenda Teologale, e Rettore del Seminario, dove dettava anche filosofia, e diritto civile e canonico. Nel 1603 tornò in Roma, ov’ebbe la Cura della Parrocchia di S. Giovanni de’ Fiorentini, ma non vi dimorò a lungo, perciocchè avuta la dignità di Arcidiacono della Chiesa Reggina, e la Commenda dell’Abbadia di Terreti, tornò a ripatriarsi. Dall’Arcivescovo d’Afflitto ebbe pure la dignità della Teologale, e nel 1611 quella di Decano che ritenne per poco. Quando poi detto Arcivescovo passò di vita nel 1638 il nostro Spagnolio fu eletto Vicario Capitolare.

Consumando la sua vita tra le annuali fatiche quaresimali e le lunghe e periodiche lezioni teologali, non trascurò gli studii letterarii. Sin da quando era la prima volta in Roma nel 1594 avea concepito il disegno di comporre una storia di Reggio, e cominciò ad ammannirvi molto materiale, frugando tutte le antiche e più famose librerie di Roma per trovare quanto faceva al suo scopo. Ritornato in Reggio compose prima in lingua italiana una Cronica delle cose antiche di Reggio; ma poi nel 1610 cominciò ad ampliare il suo lavoro ed a ricomporlo in latino, intitolandolo De Rebus Rheginis libri XXII. Ed un esemplare ne stese anche in italiano collo stesso titolo Delle Cose di Reggio, e compartito pur questo in ventidue libri. Di quest’opera oggi non esiste che un esemplare assai monco presso il sig. Alessandro Nava (nipote); poichè sventuratamente l’esemplare completo trovandosi manoscritto nella libreria del Convento de’ Padri Riformati di S. Francesco, fu con tutte le altre carte dato alle fiamme per ordine del Magistrato municipale in occasione della pestilenza del 1743. Dell’opera italiana il signor Natale Musitano conserva una copia non autografa, mancante però del principio e del fine. Dall’autografo latino esistente si vede con quanta elegante semplicità abbia dettata lo Spagnolio l’opera sua; ma si desidera la severa ed imparziale critica dello storico; poichè lo Spagnolio fu assai facile ad ammettere nella sua narrazione molte [p. 191 modifica]cose non vere, nè appoggiate ad alcuna autorità storica, ma solo desunte da leggende favolose, o da esagerati ed ignoranti Cronisti. Altra opera che costò grandi fatiche al nostro dotto reggino fu l’Anfiteatro storico, distribuito in tre volumi, ed in lingua italiana, dove (come egli medesimo ci narra) «cunctarum gentium et omnium temporum gesta, scituque digna in Amphiteatro spectanda ope seduta ac summa congessi voluminibus tribus, memorabiliora ab initio ad haec usque tempora annuatim brevi et cloro stylo complexus. In indice serie concinnata rerum omnium elucescit historia». Compose anche in italiano un’operetta col titolo Mano aperta sul computo Ecclesiastico; ma sì questa che la precedente andaron perdute irreparabilmente.

Niuno dubitò mai che lo Spagnolio fosse autore dell’opera De Rebus Rheginis, e lo attestano unanimemente tutti i suoi contemporanei, e chiaro apparisce dal suo primo autografo tuttavia esistente e pieno zeppo di emendamenti, di giunte, e di cancellature. Contuttociò due Padri Domenicani di Soriano, chiamati Prestinacio e Benedetto Trumbio, ebbero l’audacia di asserire e voler sostenere in tempi posteriori che il manoscritto De Rebus Rheginis non fosse lavoro del reggino Spagnolio, ma sì di Vincenzo Bonardo Vescovo di Gerace. La quale asserzione e confutata egregiamente dal nostro chiaro reggino Francesco Ferrante ne’ suoi Opuscoli.

Dopo una vita di utilissime ed onorate fatiche moriva il nostro Arcidiacono a’ 5 aprile del 1645, e lasciava morendo un monumento eterno della sua pietà religiosa e cittadina. Imperciocchè fondava colla maggior parte de’ suoi beni un Monte a prò de giovani reggini che non avessero mezzi a studiare.

Siamo dolentissimi che le sue opere storiche sieno rimaste manoscritte, e distrutte dalle vicende del tempo; e dolentissimi siamo in specialtà che l’unico autografo De Rebus Rheginis sia ormai divenuto tanto guasto e monco, che non sarebbe più possibile ed util cosa metterlo a stampa.

Molte altre particolarità della vita dello Spagnolio possono utilmente leggersi nella Biografia scrittane con molta accuratezza dal mio culto amico Francesco Mantica, la quale fu pubblicata nella Fata Morgana, anno 3, n°. 12 e 13.

Nicola Spanò. Chiarissimo medico, contemporaneo dello Spagnolio, che lo nomina con molta lode.

Giovanni Battista Catanzariti. Fu originario dell’Epiro, e contuttociò avversissimo al rito greco della Cattolica di Reggio. Tantochè fatto Dittereo di essa contribuì principalmente a fare che il greco [p. 192 modifica]rito fosse mutato nel latino. Era uomo assai dotto nella greca e latina letteratura, e si firmava Catumsiritus. Scrisse contro il rito greco: De vera utriusque Ecclesiae Sacramentorum concordia. Quest’opera, secondo asserisce Leone Allacci, fu pubblicata in Venezia nel 1633, o nel 1632 come afferma il Rodotà, che accenna di averla letta. Compose ancora un trattato De Ecclesiae Orientalis et Occidentalis perpetuo consensu, che restò manoscritto, e non sappiamo che ne sia avvenuto.

Ottavio Sacco. Di nobil famiglia reggina. Resosi prete, divenne uomo assai dotto e pio; e recatosi in Roma, ed avutane la cittadinanza, entrò nella familiarità di papa Urbano VIII, che lo ebbe carissimo. Ed ivi morì a 22 febbrajo del 1660 più che ottuagenario. Ebbe sepoltura nella Chiesa di S. Maria della Minerva, ove gli fu posta questa Iscrizione, che accenna gli onorevoli uffizii sostenuti dal Sacco e la sua pietà:

Octavio Saccho Nobili Rheginensi
Patritio Romano Abbati Commendatario Caenobii S. Angeli
In Diaecesi Rheginensi
Civilium et Criminalium Caussarum
In Curia Romana Judici
Pauperum Patri
In circumjectu Romae tractu versantium
Quorum necessitatibus tum corporum, tum
Animarum perpetuo consuluit
Suffectis ad celebranda Sacra diebus festis
Et ministranda opportuna Sacramenta Sacerdotibus
Cum diligentia et ordine amplissimae Regioni
Prospiceret
Quo suas Paraecias Parochi singuli curarent
Obiit, die XXII Febr. 1660.

Francesco Sacco. Visse il più della sua vita in Roma, e fu chiarissimo poeta latino. Pubblicò ivi: Francisci Sacci Riccoboni Hippicon libri IV, Romae, apud Franciscum Mascardum 1634 in 4. Di tale opera Leone Allacci, a cui fu commessa la censura prima della stampa, scrisse con massima lode in tal modo: Opus profecto a Musis earumque Praeside in Hippocrenes adytis dictatum: ab authore fideliter exceptum, et erudito ac culto latini sermonis nitore, raris cum eloquentiae luminibus redditum. [p. 193 modifica]

Scrisse altresì il Sacco: La Vita di S. Ottavio e Compagni Martiri, e la stampò in Roma presso Carella 1638 in 4. Di due altre opere manoscritte fa ricordo il Toppi, ma non ne riferisce il titolo: solo ci afferma essere state di argomento piacevole ed erudito, e che si conservavano da Michele Giustiniani, studiosissimo cercatore di manoscritti di simil genere.

Girolamo Màllamo. Fu uomo dotto e di molta pietà. Compose e mise alle stampe: Il Cavalier famoso della Gran Croce di Gesù Cristo. Venezia 1642 in 4. I Panegirici di S. Maria del Rosario, e di S. Giorgio Martire Protettore di Reggio. Messina (non si dice l’anno della stampa).

Pietro Laboccetta. Negli atti della Visita della Cattolica fatta da Monsignor d’Afflitto nell’anno 1606 si dice di Pietro Laboccetta: Philosophiae studiis operam navavit, in litteris tam graecis quam latinis valde versalus, habet etiam peritiam casuum conscientiae; ad doctrinam christianam docendum, et etiam sermocinandum aptissimus; et est per S. R. D. approbatus in Confessarium per totam Diaecesim. Est etiam graecarum ceremoniarum peritissimus. Era uno de’ Cappellani della Chiesa Greca della Cattolica, e scrisse versi latini di molta eleganza. Il mio cultissimo amico Sacerdote Pietro Paolo Moschella conserva del Laboccetta un componimento latino In columnae Divi Pauli laudem. Non sarà discaro a miei lettori ch’io qui ne trascriva alcuni distici che dieno saggio del suo stile nel verseggiar latino. Parlando della venuta di S. Paolo, scrive così:

Paulus ubi Italiam Nicaenis venit ab oris
     Expertus longe mille pericla vitae,
Fit comes huic, qui Rhegina praesedit in urbe
     Primus, cui nomen jure corona dedit.
Hic pelago egressus de more ut nuper Athenis
     Affatur nostros, indigenesque trahit.
Tum divina quatit verborum spicula, at illi
     Cuncti se avertunt hospitis ore novi.
Dogmatibus suis contraria dieta sonantem
     Rident, jam multi deservere virum.
Sustineatis, ait, modo me, precor, ore loquentem
     Usque adeo lumen cereus iste dabit.
Ecce columna vices extincti luminis explet,
     Fitque inter flammas intemerata rubus.
Ignea fit, qualem Moses aspexerat olim
     Ethnica, . . . . . credula turba stupet.

[p. 194 modifica]

Abjiciunt vanos ritus, falsosque Penates,
     Seque salutari quilibet amne lavat.
     .......................


Marco Curio Mallamo. Egregio e dotto medico. Fu sindaco civile nel 1608-9. Scrisse molti componimenti in versi latini; ed alcuni suoi distici ch’egli intitolò De Rheginae Urbis laudibus Epigramma si conservano dal soprallodato Moschella. Ecco un saggio di tali distici:

Urbs haec illustris fuerat quae Rhegion olim
     Gentibus ac armis imperioque potens.
Respicit occiduum solem, montesque superbos
     Trinacriae, cujus pars erat una soli.
.......................
Sed quo spiramus tanta est clementia caeli
     Ut nostram externos cogat adire domum.
     ......................
Emittunt passim dulces sua littora lymphas,
     Gaudet et assiduo murmure fontis aquae.

Giovanni Maria de Mari. Pubblicò un volume di Poesie liriche. Reggio, presso Giacomo Mattei 1646 in 4.° Un esemplare di esse trovavasi presso il signor Giacinto Plutino. Niun’altra notizia abbiamo di lui.

Paolo Alagona. Chierico Regolare Teatino. Di nobilissima famiglia reggina. Fu uomo dotto, e pubblico Lettor primario de’ Sacri Canoni nell’Università di Messina. Pubblicò un libro intitolato Allegationi del gius dell’uno e l’altro Principe e de’ Regolari, per la causa delle Religioni della Nobilissima città di Messina co’ RR. PP. della Compagnia di Gesù, per conto del Convittorio eretto da’ detti Padri senza il dovuto assenso dell’Illmo Sig. Arcivescovo, e de’ Regolari, e senza darne parte all’Eccellenza del Principe. Verona, presso Francesco de Rossi, 1644. È un vol. in 8.° — Librorum ad scientiam de natura attinentium. Venezia, presso gli eredi di Francesco de Franciscis 1650 in 4.° Il primo è nella Biblioteca Borbonica di Napoli.

Francesco Majorana. Dell’ordine de’ Minori. Fu filosofo e teologo assai riputato. Lasciò alle stampe: Lavacrum sacramentale, Messina, presso Giacomo Matteo, 1643 in 4.° Promptuarium Sacramentorum, 1644, ivi in 4.°. [p. 195 modifica]

Antonio Tegani. Dovette nascere verso il 1522, giacchè Monsignor d’Afflitto nella Visita della Cattedrale fatta nel 1595 dice così: ut retulit Rev. Ab. Antonius Teganius Cantor dictae Ecclesiae, vir integrae vitae, et aetatis prope septuaginta trium annorum. Fu Canonico Cantore di essa Cattedrale, di non molta dottrina, ma assai studioso raccoglitore delle notizie patrie. Abbiamo di lui una Cronica di Reggio, dove andò raccogliendo con molta diligenza e semplicità le notizie de’ suoi tempi, la quale è diffusa in molte copie manoscritte, e va per le mani di molti nostri concittadini.

Giuseppe Zuccalà. Dell’ordine de’ Cappuccini. Fu assai amorevole delle cose patrie, e scrisse due volumi De Antiquitatibus et gloriis Civitatis Rheginae in XXIV libris divisa. Tale opera si conservava già manoscritta nella Biblioteca de’ Cappuccini di Reggio; ma oggi non si sa se esista, e dove.

Stefano Pepe. Fu figlio di Giovanni Battista, e di Feliciana Logoteta. Era Chierico Regolare Teatino, e divenne egregio Teologo. Scrisse e pubblicò varie vite di Santi ed opere ascetiche, e fra le altre Il Quaresimale, Roma 1658. Orazione funebre di Mons. Annibale d’Afflitto Arcivescovo di Reggio, Napoli 1638. Fece lunga dimora in Napoli, e fu ivi il fondatore degli Oratorii de’ SS. Apostoli.

Niceforo Sebasto Melisseno. Monaco Agostiniano, assai dotto ed erudito. Passato in Napoli ebbe l’uffizio di Esaminatore Sinodale in quella Curia Arcivescovile. Mise a stampa un opuscoletto De chocolatis potione, Napoli presso Girolamo Fasuli 1667 in 12; e poi se ne fecero altre due edizioni napolitane, delle quali l’ultima da Giovanni Francesco Paci nel 1671. Compose pure varie altre operette di materia ascetica.

Antonio Oliva. Nacque nel 1624 da Francesco, e da Giovanna de Ditto. Fece i suoi primi studii in patria, ma ancor giovanissimo si recò in Roma, e fattosi prete, si diede allo studio delle più severe e nobili discipline, ed ebbe a maestro di matematica il celebre Benedetto Castelli, il quale erane allora professore nel Collegio della Sapienza. Cominciò tosto ad esser conosciuto da’ più chiari uomini che fossero in Roma in que’ tempi. Ed il Cardinal Francesco Barberini gli pose tanta benevolenza che nel 1643 il creò suo Teologo nella freschissima età di diciannove anni.

Scoppiata in Napoli la rivoluzione di Masaniello nel 1646, l’Oliva, uomo di bollenti spiriti, corse a Reggio nel 1647, ed ebbe parte non poca nelle vicende politiche, che perturbarono allora la Calabria e la città nostra. Fu appresso caldo partigiano del Duca di Guisa; ma caduta la fortuna di questi, anche l’Oliva fu avvolto [p. 196 modifica]nella comune rovina, e nel 1648 fu incarcerato nel castello di Reggio: e non ne fu liberato che nel 1652, con patto che uscisse dei dominii spagnuoli. Passò allora in Firenze, e prese dimestichezza co’ più chiari uomini di quella nobilissima città, de’ quali ricordo Francesco Redi, Vincenzo Viviani, Lorenzo Magalotti, Lorenzo Bellini, Pierandrea Forzoni, Vincenzo d’Ambra, ed il calabrese Giovanni Alfonso Borelli. Fu ammesso quindi alla conversazione letteraria del Granduca Ferdinando II de’ Medici. E quando nel 1657, fu fondata (a cura del Principe Leopoldo, fratello del Granduca) l’Accademia del Cimento, il nostro Oliva fu annoverato tra gli Accademici ordinarii, e fu de’ più operosi e benemeriti. E molte esperienze egli vi fece in concorrenza cogli altri socii, e specialmente col Borelli, col Redi, e col Magalotti.

Scrisse l’Oliva un Trattato de’ liquidi, che come ci assicura Leopoldo de’ Medici in una lettera a Michelangelo Ricci, era già pronto per la stampa, ma non sappiamo che sia stato mai pubblicato. Solo di tal lavoro ci rimane una tavola sinottica, che il Targioni pubblicò ne’ suoi Atti e Memorie inedite dell’Accademia del Cimento. Opera molto maggiore sulla stessa materia era stata ancora composta dall’Oliva, della quale buona parte è stata veduta dallo stesso Leopoldo, come ci narra nella citata lettera al Ricci. Compose ancora l’Oliva una Memoria dei sali, e Lettere intorno alla generazione dei bacherozzoli, che non videro mai la luce, e forse giacciono dimenticate nel polveroso scaffale di qualche libreria fiorentina.

Nel 1663 avendo rinunziato il dottissimo Marcello Malpighi la cattedra nell’Università di Pisa, ov’era Professore di medicina teorica, questa fu data dal Granduca al nostro Oliva coll’annuo stipendio di trecento scudi. Tenne ancora in Pisa scuola privata di filosofia e di fisica dal 1665 al 1666 e parte del seguente anno. Leggeva e spiegava il Gassendi, ed il Galilei, ed andavano fra gli altri alla sua scuola Vincenzo d’Ambra, Tommaso Rospigliosi, il Conte Girolamo Rabatta, e Falco Rinuccini. Dettò ancora una sua Filosofia al Bellini, che questi veniva scrivendo giorno per giorno, e fu poscia ricopiata dall’Ambra, presso cui si conservava. Era l’Oliva salito in grandissima riputazione, e perspicacissimo ed ardente ingegno fu chiamato dal Borelli; dottissimo in ogni genere di scienze e sommo filosofo da Giovanni Battista Nelli; grande ingegno, ed uomo più virtuoso che mai dal Redi; sommo ed universale nelle scienze dal Salvini; feracissimo genio dal Mozzi; famoso per il suo gran sapere dal Targioni; valentuomo dal Tiraboschi.

Ma nel 1667 Antonio Oliva lasciava improvvisamente la cattedra [p. 197 modifica]di Pisa, usciva di Firenze e s’avviava a Roma. Di tal brusca partenza varie sono le opinioni degli scrittori contemporanei; la più certa cagione però fu una fierissima disputa letteraria avuta col Conte Bruto Annibali della Molara, gentiluomo del Granduca, a cui era sommamente accetto. A ciò si aggiunse la nimicizia con Francesco Redi. Giunto a Roma l’Oliva fu assai festeggiato da’ suoi antichi amici, e soprattutto dal Rospigliosi, stato già suo discepolo in Pisa. Era il Rospigliosi nipote di papa Clemente IX allora vivente; e quindi fu agevole all’Oliva acquistarsi la protezione di questo Pontefice. Si dette quivi alla professione di medico; ed ebbesi da Clemente una forte pensione sopra un Benefizio in S. Maria Maggiore. Non fu meno caro a’ Papi susseguenti, ed Innocenzo XI gli conferì l’uffizio di Bussolante nel palazzo pontificio; e poi Alessandro VIII il creò Vicedomino di Marino, grossa terra non molto lungi da Roma.

Ma quanto sinora era arrisa all’Oliva la fortuna, tanto cominciò finalmente a mutarglisi in sinistra. Sotto Alessandro VIII il Tribunale del S. Uffizio scopriva una conventicola, che si teneva in casa di Mons. Gabrielli, prelato romano. Era composta di chierici e laici fra i quali contavansi l’Oliva, un Picchetelli, soprannomato Cecco Fallegname, un Alfonsi, un Capra, i dottori Mazzutti, ed un Pignatta che n’era il segretario. Questa secreta riunione chiamavasi l’Accademia de’ Bianchi, perchè si proponeva dar di bianco, come essi dicevano, ad infiniti abusi del Governo pontificio, e ricondurre la cristiana religione alla sua antica purità. Tutti i componenti di essa furono arrestati in un dì, tranne l’Oliva, il quale trovandosi in carica in Marino, fu quivi avvisato a salvarsi da Lorenzo Onofrio Colonna, gran Contestabile del Re di Napoli, che gli era amicissimo. Di nottetempo adunque fuggì da Marino, e si ricovrò in Roma presso il Colonna. Dal quale e da altri suoi amici, che credevano la cosa non molto grave, fu persuaso a presentarsi al S. Uffizio. A tutti i prigionieri fu data la tortura, eccettochè al Gabrielli, il quale gravando ogni fallo sull’Oliva, coll’ajuto del suo parente Cardinale Altieri, fu trattato da imbecille, e liberato da ogni imputazione e della prigionia. L’Oliva fu condotto innanzi a quel Tribunale, ma dopo la seconda disamina vedendosi a mal partito, prese il disperato consiglio di gittarsi da una finestra di quel palagio, e fracassatosi il cervello, dopo tre ore morì miseramente. Così il dottissimo Antonio Oliva terminava la sua vita nel 1689 nella non vecchia età di anni sessantacinque.

Chi brama altre molte particolarità della vita di questo nostro [p. 198 modifica]concittadino, potrà leggerne la biografia da me scritta e pubblicata ne’ numeri 1, 2 e 3 dell’anno terzo (1843) della Fata Morgana.

Giuseppe Foti Gesuita. Scrisse e pubblicò le Vite di S. Francesco Sales, di S. Maria Maddalena de Pazzis, del Vener. Ignazio Abezeda e Compagni, di S. Demetrio, e di Annibale d’Afflitto Arcivescovo di Reggio. Inoltre La Conversione del buon Ladrone; Consolazione delle anime afflitte; Gli efficaci rimedii contro la peste; Risposte alle domande di un gran Prelato circa la Gerarchia ecclesiastica; Degli efficaci diletti dell’amore di G. Cristo; Il perpetuo coltello della Regina de’ Martiri di Lodovico Andries (traduzione dallo spagnuolo); Casi ed eventi della confessione fatta da Cristofaro Vega (traduzione dallo spagnuolo); L’Istoria Santa di Niccolò Folone (traduzione dallo spagnuolo); Epistola Parenetica della Povertà del Padre Goswin-Nikel (traduzione dal latino). Lasciò poi manoscritte Il Plauso Romano, e Gloriae Petri Mariae Burghesii S. R. E. Cardinalis (in versi latini); le quali due opere si conservavano già nella libreria dei Cappuccini di Reggio.

Ignazio Cumbo. Dell’ordine de Cappuccini, teologo e poeta di molta fama a’ suoi tempi. Dovette nascere verso la fine del decimosesto secolo, poichè sappiamo di certo esser uscito di vita assai decrepito nel 1686. Era Guardiano del nostro Convento de’ Cappuccini nell’anno 1657; ma niun’altra particolarità ci è nota della sua vita. Egli è autore di una raccolta di versi intitolata La lira sacra di varie corde poetiche, ordinata in due classi, che non fu mai pubblicata, e di un poema sacro intitolato La Maddalena liberata in venti canti pubblicato in Venezia presso Paolo Baglione 1673 in 12. Di tal poema fece un esame il nostro egregio Girolamo Arcovito nella Fata Morgana, anno primo 1838, ne’ num. 8, 10 e 12, a cui rimandiamo i lettori. Ma siccome non tutti possono avere tal foglio periodico, fatto già raro, non sarà discaro ad alcuno che io qui 9 per saggio del poetare del Cumbo, riferisca talune stanze del suo poema.

(Canto XV, Stanza 60 a 62)

Su’ Profeti.

Colui che lor precede allegramente
     È il Profeta evangelico Isaïa,
     Che di Cristo parlò sì chiaramente
     Che sembra istoria la sua Profezia;

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     L’altro, che mesto segue il precedente
     È L’elegiaco Vate Geremia,
     Che meritò nel sen chiuso materno
     D’esser purgato del malor paterno.
Seguita l’intricato Ezechïello
     D’oscure profezie fra mille ambagi,
     Che sul Cobàr, caldaico fiumicello,
     Scoperse inestricabili presagi,
     L’interpetre de’ sogni Danïello
     Succede poi, che da’ vecchion malvagi
     Liberò la castissima Susanna,
     Ed ei scampò la leonina zanna.
Vedi come i minor fanno corona
     A’ Profeti maggiori? Or mira Osea,
     Sofonia, Malachia, Gioello, e Giona,
     Naum, Addias, Amosso, Ageo, Michea;
     Senti Abacuc, che il cantico risuona
     Di Cristo, e Zaccaria ch’egro il piangea;
     Odi com’or sen va cogli altri Vati
     Lieto cantando per gli ameni prati.

(Canto XVI. Descrive il viaggio della Navicella Ebrea).

Mirasi qui la navicella ebrea
     Placido navigar tranquillo mare,
     E volgendo la poppa a la Giudea,
     Di Joppe abbandonar le spiagge care;
     Quelle poi tralasciar di Cesarea
     E di Dora, che ancor distrutta appare;
     Quelle alfine di Tiro e di Sidone
     Per la porpora illustri, e per Didone.
Nel golfo Issico scorre, di Cupido
     E di Ciprigna Cipro amata reggia,
     Nel mar Carpazio, incontro al Cario lido
     Rodo, dove il colosso giganteggia,
     La patria passa poi di Ctesia, Gnido,
     E d’Ippocrate, Coa poscia costeggia,
     Madri de’ mastri che la medic’arte
     Con le voci insegnaro e con le carte.

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D’Isole appresso seminato mira
     L’Egeo, solcato da rostrato aratro,
     Che fra l’Asia e l’Europa si raggira
     Sino a Sesto ed Abido, or lungo or quatro,
     Le Cicladi e le Sporadi rimira
     Spettacol del maritimo teatro,
     Fu di qua Tebe in terra, e in mare Euboja,
     Di là Tenedo in mare, e in terra Troja.
Giace l’eccelsa Troja in mezzo a l’erba
     Dispersa in pezzi e fra virgulti e spine,
     Che d’esser già magnifica e superba
     Ben mostra da l’altissime ruine;
     Nè de le altiere torri altro ella serba
     Che montagne di sassi e di calcine:
     Qual maraviglia or fia che l’uom sì frale
     Abbia, se l’han le rocche, il dì fatale?
Mira la fertil Chio con la maestra
     De’ vasi Samo, e Lesbo, e Palmo, e Lero,
     E Nasso, ed Andro, e Lenno, e l’Idra alpestra,
     Paro, Micone, e Cinto in mezzo altero.
     Scorge di fuor nel pelago a sinestra,
     Che in tre mari diversi ha trino impero,
     Per l’Ida illustre e per l’ambrosia lieta,
     E per cento città superba Creta.
Lascia l’Attico regno, a cui d’Egina
     Fa l’ondeggiante sen bianca corona,
     Dove de’ Saggi Atene fu reina,
     E sepolcro de’ Persi Maratona;
     Lascia Megara appresso e Salamina
     Che per Ajace il grande ancor risuona,
     Trova in Capo Maleo, per lo rincontro
     Di due contrarie Teti, avverso incontro.
Scorsa Citera poi, par che costeggi
     La senüosa sponda, ove l’Eurota
     Scende da la città che per le leggi
     Di Licurgo già fu sì chiara e nota;
     L’Erimanto d’Arcadia, e de le greggi
     D’Elide rio l’Alfeo mira, e remota
     Da le Strofadi passa, isole rie,
     Dove abitàr le mostruose Arpie.

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Nerito isola pur Dulichio e Same,
     Naupatto in riva al golfo, e fuor Zacinto;
     Su l’istmo che stringea l’Acheo reame
     Fra l’Ionio e l’Egeo mira Corinto.
     Ivi, il tempo avvolgendo un lungo stame
     D’anni, fia l’ottoman pirata vinto
     Da l’austriaco Pompeo, col collegato
     Di più classi cattoliche apparato.
Scorre la Grecia poi madre e nutrice
     De le scienze, e il regno de’ Feaci
     Lascia a sinistra, ove Alcinoo felice
     Visse fra gli orti suoi lieti e feraci.
     Scorre Acheloo che vien dalle radici
     Di Pindo, sacro a Febo ed a’ seguaci;
     E la patria di Pirro, la Caonia,
     Ov’è Butroto, italica Colonia.
Leuca bassa, e Leucàte eccelso affaccia
     Col tempio formidabile d’Apollo,
     E l’Azzio promontorio, e il sen d’Ambraccia,
     Dove ad Antonio Augusto ha dato il crollo.
     Qui l’Acheronte e la Ceraunia faccia
     Scansa, e ’l mar d’Adria, fatto il caracollo,
     E de l’Ionia Teti aprendo il seno
     Drizzasi al mar Sicano, al mar Tirreno.
Mira incontro al Sican ver l’Africano
     Malta che in mezzo a l’onde altiera siede,
     Dov’or del pio di Cristo Antesignano
     La milizia magnanima risiede;
     Che contra il fiero e barbaro Ottomano
     Pugna in difesa de la Santa Fede,
     Al cui vessillo trïonfal s’imbruna
     Per istinto fatal la tracia Luna.
Scopre l’Esperia intanto, e quella sponda
     Che lieta intorno e fertile si spande,
     Già dì greche repubbliche feconda,
     Detta da’ Greci allor la Grecia grande.
     Qui Zeffiro le appar rimpetto a l’onda
     Dov’Eolo i venti parte a varie bande,
     Che ver Capo Lacin, Cotron, Trischene,
     Palepoli, Squillaci, e Locri tiene.

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Fiorì Croton, repubblica più lustri,
     Per le leggi e per l’arme in guerra e in pace,
     Di filosofi chiari e duci illustri,
     E d’atleti fortissimi ferace;
     Presso a cui sorse su colonne industri
     La Scuola di Pitagora ch’or giace;
     E il tempio di Giunon, per la cui imago
     Zeusi da le sue donne apprese il vago.
Di tre città la tripoli Trischene
     Per le dottrine e per le squadre dome,
     A par de l’alta Roma e saggia Atene
     Spesso si coronò l’auguste chiome;
     Quinci a’ monti passata da le arene,
     Cangiò col novo sito il prisco nome;
     Ristretta in una la possanza terna,
     Se Trischene fu detta, oggi è Taverna.
La grandezza e il valor di Palepòli
     Ponnosi argomentar da la ruina
     De’ licei, de’ teatri, e de le moli
     Sparse tra ’l monte, e il piano e la marina,
     E da la gran città, da’ suoi figliuoli
     Popolata su lieta alta collina
     Che i capitani Achei gli edificâro
     Cataro e Zaro, è detta Catanzaro.
Squillaci, donde il golfo Scillaceo
     Su l’eccelsa fondato alta riviera,
     Prima apprese il saper dal saggio Alteo,
     Poi dal forte Roman l’arte guerriera;
     Dove aperse monastico liceo
     Poscia Cassïodoro a sacra schiera;
     Dove il Conte Ruggier tenne la reggia
     Col taumaturgo Agazio or vi campeggia.
Di Locri la repubblica, fra l’armi
     Gloriosa, e famosa in fra le carte,
     Fu detta in prosa e celebrata in carmi
     Accademia di Palla, agon di Marte;
     Pur di Zaleuco il zelo e i ricchi marmi
     Del tempio di Proserpina con l’arte
     La resero maggior, ma più risuona
     De la Venere sua per la corona.

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Quattro città verso Pachino vede
     Che forman la città di Siracusa
     Di Teocrito madre e d’Archimede,
     Dov’or chiara è Lucìa più ch’Aretusa;
     Augusta poi, che augustamente siede
     Sul porto augusto, quasi augusta Musa
     Sopra augusto Elicona; e ben s’aggiusta
     Col nome augusto la bellezza augusta.
Catania mira poi sopra la sponda
     E sotto Mongibel; Catania chiara
     Madre del gran legislator Caronda,
     Dove Cerere, or Agata tien l’ara:
     Tauromenio da poi, città gioconda,
     Da’ Zanclei già fondata, al ciel sì cara,
     Che meritò che le assegnasse un Piero
     Un Pancrazio per Vescovo primiero.
La nave già nel mar d’Italia giunge,
     Sul promontorio è già di Leucopètra;
     Or qui la terra un stretto sen disgiunge,
     C’or corre, or gira, or ferve, ora s’arretra,
     É fama ch’era unita un tempo, or lunge
     Quinci Calabria sta, quindi Triquètra;
     Che rompendo Nettuno i lor confini,
     Dove ararono buoi solcan delfini.
Mira sul ricco porto in trono d’oro
     Sedersi, quasi naturai reina,
     Piena di maestà, cinta d’alloro
     La trionfante e nobile Messina,
     La cui gloria maggior, benchè tesoro
     Sia de la gloria umana, è la divina
     De la Madre di Dio che n’ha la cura,
     Come per un suo foglio l’assicura.
Beato foglio, in cui la vergin Dea
     Con la divina man, vergata diede
     A l’amata repubblica Zanclea
     Di sua protezion perpetua fede,
     A te quel marmo, in cui la legge ebrea
     Scrisse il Nume a Moisè col dito, cede;
     Poichè quel, di rigor fu duro segno,
     Tu di pace e salute amico pegno.

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Mira, qual re di maestà nativa,
     Reggio d’aurei giardini incoronato,
     Vagheggiar da la sua su l’altra riva
     De la reina Zancla il volto amato;
     Fra gli Esperici un tempo egli fioriva
     Più d’ogni altra città, d’ogni Senato,
     Di Saggi, Duci, Artefici e Poeti,
     Di Divi e Dive, ora di oggetti lieti.
Vede a l’uscir de l’apollineo raggio
     La regïon latina e la sicana
     Rappresentar più vago cortinaggio,
     Che Frigia tela, o Babilonia lana,
     E specchiandosi in mar quel paesaggio
     La bella risultar Fata Morgana,
     A la cui vista il peregrin stupito
     Immobile divien sul mobil lito.
S’erge lieve un vapor, qual lunga tela,
     Ne l’ardente stagion su Teti bella,
     Che gli oggetti di là, di qua rivela
     Con usura moltiplice e novella;
     Per un porto e un castel, per una vela
     Dà più vele, più porti e più castella,
     Si strugge a un soffio, e si solleva a un tratto
     Qual scenario che appar sfatto e rifatto.

(Canto IV. a Maria Immacolata)

Nasci, o Verga di Jesse e d’Isaia,
     Spiega col vago fior l’arcano velo;
     Sorgi, o mistica nuvola d’Elia,
     E ricrea col tuo nembo il suo Carmelo.
     Gran Stella di Giacob, la profezia
     Di Balammo adempiendo, allegra il Cielo.
     Spunta, o bell’Alba dell’Eterno Sole,
     E consola Israel con la tua Prole.
     ....................
Ecco il rovo incombusto entro l’arsura,
     Ecco il vello bagnato in campo asciutto;
     Una Vergin concepe, e resta pura;
     Senza perdere il fior genera il frutto;

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     De la mortale ed immortal natura
     Senza confusion composto è un tutto;
     Dio l’uomo a sè senza persona unìo;
     Nè lasciò d’esser uom, nè d’esser Dio.
Felicissima Ebrea, che il Re Superno
     Hai de la tua beltà tanto invaghito,
     Che senza mai partir dal sen paterno
     Scese nel tuo, quasi d’amor ferito;
     Picciol d’immenso, e temporal d’eterno,
     E d’infinito fattosi finito;
     E divenisti, in divenir sua Madre,
     Sposa a lo Spirto Santo, e figlia al Padre.
     ...................
Tu sei Vergin feconda e Madre pura,
     Tu figlia sei de la tua stessa Prole,
     Tu sei fattrice di chi sei fattura,
     Tu cingi e cinta sei dal sommo Sole:
     Per te col Creator la Creatura
     Unissi, e per virtù di tue parole
     Tu chi non cape in ciel chiudi nell’alvo;
     Per te l’uom condannato è fatto salvo.
Tu sei per nostro ben, pietosa Diva,
     Mirra, Balsamo, Incenso, e Rosa, e Giglio,
     Palma, Cipresso, Platano, ed Oliva,
     Stella, Porto, Nocchier, Merce, e Naviglio;
     Torre, Muro, Città, Pozzo, e Sorgiva,
     Porta, Portiero, e Via, Guida, e Consiglio;
     Sei Luna, Aurora, e Sol; talchè per noi
     Tutto fai, nostra Speme, e tutto puoi.

(Canto XVII. La Maddalena in cerca del suo Sposo divino).

Va qual cerva ferita e sitibonda
     Al vivo fonte, al dittamo vitale;
     Va qual pecora inferma e moribonda
     A la man del pastor medicinale,
     Cerca dovunque va, che si nasconda
     Col manto vil la maestà reale,
     E non solo in tal guisa non la cela.
     Ma la spiega più tosto, e la rivela.

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Chè il decoro natio non le vien tolto
     Da quell’abito vile, anzi più piace:
     Come illustre disegno in ombre avvolto
     Più spiccante si mostra e più vivace,
     Che adorna più la verecondia un volto
     Ch’ogni lavor di femina fallace;
     Nè giammai tanto bella appar la donna
     Quanto in umil sembianza e in umil gonna.
Ma che pompa miglior, che miglior foggia
     De la nativa, a cui null’altra agguaglia?
     Circonda il capo di dorata pioggia,
     Di perle e di rubin la bocca intaglia;
     Con cui, dovunque va, dovunque poggia,
     I sensi ammaga, e gl’intelletti abbaglia;
     E chiede a le donzelle del suo Cristo,
     Vergini Ebree, dicendo, avetel visto?
Ditegli, io vi scongiuro, se giammai
     V’accorre, ch’io per lui languisco; ed elle:
     Che fattezze ha Colui, poichè tu ci hai
     Sì scongiurato, o bella infra le belle?
     Che maniere ha Colui, di cui ten vai
     Le grandi orme tracciando? Ed ella a quelle:
     Candido e rubicondo è il mio diletto,
     Tra le migliaja e le migliaja eletto.
Fin oro è il capo suo, qual palma i crini
     Spandonsi, ha di colomba i lumi santi;
     Le gote aje d’aromati, e’ divini
     Labri due gigli son mirra stillanti;
     L’auree man, fatte al torno, ha di rubini
     E di giacinti armate e di diamanti.
     L’eburneo venire ha zaffirin lavoro,
     E le marmoree gambe basi d’oro.
L’aspetto al vago Libano assomiglia
     Scelto a guisa di cedro alto e frondoso;
     Ha la gola soave a meraviglia,
     Tutto è placido insomma e grazïoso.
     Tal è il Diletto mio: se qualche Figlia
     Di Sïon sa dov’è, dov’è nascoso.
     Così costei per la città gran pezza
     Cercò Gesù, nè se le diè contezza.

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(Canto XII. Sulla venuta di S. Paolo in Reggio)

A la riva, o Reggini; ecco il vascello
     Che trae da poppa Castore e Polluce,
     Faraon vostri, e che Mosè novello
     Per camparvi l’Apostolo conduce.
     Vieni Austro, Aquilon parti, e sopra quello
     Spira influssi benigni, o somma Luce;
     Ecco approdar l’amico legno io veggio;
     Sbarca, gran Semideo, racquista Reggio.
Sceso, ad una colonna e’ fisso un lume,
     Chiede udïenza infili che quello splende;
     Che spento, al vasto d’eloquenza fiume,
     Ecco il marmo, oh stupor, per lui s’accende.
     Vola a’ petti l’ardor con auree piume,
     Onde acceso ciascun crede, e si rende,
     Gridando: Ah Gesù pio, Gesù benigno,
     Chi non arde per te, s’arde un macigno?
Reggio allor d’empio laccio, al santo raggio
     D’un’ardente colonna, avendo scampo,
     Di Maria fia non solo emulo saggio,
     Che scampò l’empio giogo a un sacro lampo;
     Ma d’Israel che uscì di cattivaggio
     D’un accesa colonna al previo vampo,
     Del battesmo, nel pelago sommerso
     D’idolatria l’Egizian perverso.
Fortunata colonna, in cui rinnova
     L’eterno Re le meraviglie antiche,
     Poi che guidar col tuo splendor gli giova,
     Come le squadre ebree, tant’alme amiche,
     Non t’offenda giammai, nè ti rimuova
     Braccio ladron da le tue piagge apriche,
     E se talun ti toglierà talvolta
     Ti riduchi uomo pio d’onde sei tolta.
Ergansi al Nume tuo tempii ed altari,
     Porgansi incensi, e sacrifici e voti,
     Corran da stranie terre e strani mari
     A riverirlo i popoli devoti,

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     E tu, giorno fatal, che con sì chiari
     Lumi notte sì rea da Reggio scuoti,
     Torna, ad onor de la Colonna ardente,
     Sempre fausto e felice a quella gente.


Carlo Musitano. Prete. Pubblicò in Napoli nel 1682 un’operetta intitolata Meditationes speculativae in linguam latinam, che meriterebbero tuttavia di essere studiate dagli amatori del classico idioma di Tullio e di Virgilio.

Giovanni Paolo Francoperta. Il nostro Cumbo nella dedicazione del suo poema a Giuseppe Francoperta principe di Cosoleto, narra che il nostro nobilissimo reggino Giovanni Paolo Francoperta, nella lega cristiana sotto D. Giovanni d’Austria contro il Turco, avesse armata una galea a sue spese: sulla quale, navigando colle altre navi dei Cristiani, guerreggiò e trionfò gloriosamente. Di modo che allora il Francoperta era annoverato tra i più prodi Capitani che avessero combattuto con pieno successo contro l’audacia ottomana.

Giovanni Alfonso Borelli. Di questo famoso scienziato non ci dilungheremo a narrar la vita e le opere, così conosciute nella storia letteraria d’Italia. Solo ci giova dimostrare ch’era, non Siciliano, non Napolitano, ma Calabrese, e che il suo paese nativo fu la nostra Santagata. Su di che riferiamo prima quanto va ragionando il nostro Girolamo Arcovito nella Biografia che ne scrisse, e che si conserva autografa dal suo culto nipote signor Natale Musitano. Sappiamo dunque dall’Arcovito che Tommaso Cornelio scrivendo sotto il nome di Marco Aurelio Severino al Borelli, chiama questi municipe suo; e calabrese era il Cornelio, ed il Severino, e tutti e due contemporanei del Borelli. «Ma altro noi abbiamo (scrive l’Arcovito) che dimostra il nostro assunto. Domenico Martire da Serra Peduci, contado di Cosenza, Canonico Decano della Chiesa Arcivescovile di quella città (uomo assai reputato per la sua Geografia Sagra, e per la Storia di Calabria con onore allegata da’ nostri dotti, che si conserva manoscritta in due volumi particolarmente in Roma nel Collegio di S. Francesco di Paola ad montes) costantemente ne’ suoi manoscritti dichiara calabrese il Borelli, nato precisamente in Santagata presso Reggio. Era il Martire, uomo ben erudito, contemporaneo del Borelli: poteva e doveva conoscere quel che scrivea. Non lo dice da Cosenza, non lo attribuisce a’ luoghi vicini, non alla sua provincia, onde possa la sua autorità esser sospetta, ma ad un ultimo angolo di questa estrema Calabria. I nostri scrittori, posteriori un tal poco, tali però che potevano per certa tradizione co[p. 209 modifica]noscere la patria dell’uomo famoso, lo dicono concordemente Agatese. Tommaso Aceti Accademico Cosentino, Beneficiato della Basilica Vaticana di Roma, poscia Vescovo di Cedogna in questo Regno, nelle annotazioni al Barrio asseverantemente ce ne assicura. Ex hoc loco (cioè di Santagata) fuit celebris ingeniorum phaenix Iohannes Alphonsus Borellius medicus ac philosophus, ac in matheseos institutis nulli secundus. Era l’Aceti in ogni genere di erudizione dottissimo, nato in Figline contado di Cosenza, educato e divenuto celebre in quella città feconda sempre di grandissimi ingegni, amantissimo delle patrie cose, in epoca in cui la sua adolescenza si univa alla vecchiezza ed alla rinomanza del Borelli, in luogo in cui aveva potuto attigner vere notizie da’ vecchi dotti di quella città, e di questa Provincia. I quali per la loro contemporaneità, o per fama, o per tradizioni non dubbie, erano al fatto dell’origine del Borelli: era in somma l’uomo che non poteva illudersi ne’ fatti de’ grandi uomini, se non contemporanei, dalla sua età poco discosti.

Angelo Zavarroni nella sua Biblioteca Calabra non pone in mezzo alcun dubbio sulla vera patria del Borelli. Il Zavarroni dotto calabrese, oltre delle tradizioni alle quali poteva appoggiare le sue asserzioni, le avea ben verificate nelle opere del sopra allegato Martire, ch’egli dice aver avute alle mani in Roma nella Biblioteca suddetta. Per lo stesso Zavarroni sappiamo che il Borelli ne’ primi suoi studii ebbe a maestro un abbate Oliva Canonico della nostra Metropolitana di Reggio. Egli ci dice sul conto di costui: Laudant virum celebrem Ioh. Alphonsus Borelli ejus discipulus, Scarfò, Zuccala, et alii. Non debbo tacere che l’articolo nel quale ciò scrisse è sotto il nome del Canonico Antonio Oliva; e noi non abbiamo avuto in quell’epoca, ma un secolo dopo, un Canonico di questo nome. Abbiamo avuto sì bene un Giacomo, e forse Giacomo Antonio Oliva nel 1630, che cessò di vivere nel febbrajo del 1655. Di queste notizie che ho voluto verificare io stesso negli Atti delle Visite degli antichi nostri Arcivescovi son io debitore all’ottimo amico sig. Canonico abbate Giacomo Merlino, tratte dalle sue accurate memorie. Ciò dunque posto, equivoco di nome deve esser corso o in Zavarroni, o negli autori ch’e’ cita: nè sarà men vero perciò che un Canonico Oliva Reggino sia stato il primo maestro del nostro Borelli. E non è questo un argomento invincibile per la nostra Santagata? Se Napoli, se Messina fosse stata la patria del Borelli, come e perchè si sarebbe ei trasferito a Reggio nella sua tenera età per istruirsi? Dalla vicina Santagata solevano allora, e soglion tuttora i giovinetti per cagion di studii recarsi in questa città.» [p. 210 modifica]

Sin qui l’Arcovito; ed io aggiungo talune altre notizie da me raccolte in Firenze nel 1839. Anton Francesco Marmi nelle sue Miscellanee, che si conservano manoscritte nella Magliabechiana di Firenze, chiama il nostro reggino Antonio Oliva concittadino di Alfonso Borelli; e valentuomini calabresi sono chiamati entrambi dal Cinelli in una sua opera manoscritta intitolata Toscana letterata, che si conserva ancora nella or citata Libreria di Firenze. Che poi molti altri scrittori abbian detto il Borelli napolitano, ciò non è contrario al dir nostro, poichè napolitani sogliono chiamarsi complessivamente tutti i regnicoli, e non i soli nativi di Napoli. Finalmente l’essere stato detto messinese venne da questo, ch’essendo egli Professore nell’Università di Messina amava di chiamarsi Professore Messinese, e ne nacque in altrui l’equivoco che fosse nativo di quella nobilissima città. Ma quasi a contrassegno della sua benevolenza per Reggio, dove fece i suoi primi studii, volle il Borelli che due sue opere fossero messe a stampa in questa città; e furono De motibus naturalibus a gravitate pendentibus, liber Io: Alfonsi Borrelli in Academia Pisana Matheseos Professoris. Regio Iulio. In officina Dominici Ferri, 1670 Superiorum permissu, in 4.° Historia et meteorologia incendii Aetnei anni 1669 Ioan. Alphonsi Borrelli in Academia Pisana Matheseos Professoris. Accessit responsio ad censuras Rev. P. Honorati Fabri contra librum auctoris de vi percussionis. Regio Iulio. In officina Dominici Ferri 1670 in 4.°

Mariano Spanò. Fu Canonico della Chiesa Reggina, ed uomo assai culto. In occasione di essere stata Reggio liberata da’ tremuoti del 1693, che distrussero al tutto la città di Catania, furono rese pubbliche e solenni grazie alla Madonna della Consolazione, con voto della città che annualmente agli undici di gennajo dovessero ripetersi tali grazie alla Vergine, celebrarsi una messa solenne nel Convento de’ Cappuccini, un’altra nella Cattedrale, e cantarsi il Te Deum a ventunora. Su tale argomento lo Spanò descrisse in ottantanove ottave: Il Trionfo di Reggio sopra la liberazione de’ tremuoti degli undici gennajo 1693. Queste ottave furono allora messe a stampa in Messina, ma per quante ricerche abbia io fatte nelle pubbliche e private librerie di quella città, non mi è riuscito di poterne vedere copia alcuna. Debbo perciò contentarmi di riferirne il giudizio che ne dà il P. Enrico Nava nella sua opera inedita: La Vera consolatrice degli afflitti. Con vivi pensieri (dice il Nava) dopo avere riferito sul principio le grazie principali dispensate dalla Madre della Consolazione, passa a descrivere il suddetto orrendo tremuoto, ed il gran prodigio della Vergine nel preservare questa città dalla ruina e dalla mor- [p. 211 modifica]te; e successivamente la magnifica festa che si fece alla Vergine protettrice in rendimento di grazie per tanto favore, individuando i luoghi ed i divoti, a spese de’ quali si fecero gli altari, ed altri apparati, e le storie o sia simboli in essi rappresentati per esprimere la protezione di Maria verso la città.

Antonio Spizzicagigli. Canonico Decano della Cattedrale Reggina. Era Accademico degl’Intronati di Siena. Nel principio del secolo decimottavo aprì in Reggio una libreria per comodità degli studenti poveri, come si rileva da una sua lettera a Girolamo Gigli. Stette in Roma moltissimo tempo: ritornato poi in patria cominciò a riunire in sua casa una conversazione di uomini letterati, la quale in breve divenne fioritissima, e si elevò ad Accademia detta degli Artificiosi, che durò sinchè durò la vita allo Spizzicagigli. Di ciò fanno menzione il Gigli ed il Perticari.

Morì lo Spizzicagigli in Reggio a’ 18 gennajo del 1724. Sono sue opere: Ponderazioni utilissime di eterne massime sopra gli esercizii spirituali del Glorios. Patriarca S. Ignazio Lojola, distinte in 10 venerdì, con la vita del Santo, Napoli, presso Felice Mosca, 1702. — Versi italiani e latini, in lode di parecchi illustri uomini e principi, che furono più volte stampati in Napoli, in Roma e in Messina.

Tra le 55 Lettere delle principali Accademie d’Italia scritte a Girolamo Gigli in approvazione delle cure da lui poste ad illustrare le opere di S. Caterina da Siena, sei appartengono ad accademie del nostro Regno, cioè degli Accademici Velati dell’Aquila, della Colonia napolitana del Sebeto, degl’Irrequieti di Salerno, degli Accademici di Cosenza, degli Artificiosi della nostra Reggio, e dell’Accademia di Lecce. Gradiranno certo i miei lettori ch’io qui trascriva la Lettera degli Artificiosi nostri, come documento importante della nostra coltura letteraria nel principio del secolo decimottavo:

«L’Accademia degli Artificiosi di Reggio di Calabria, da me nuovamente in quella mia patria fondata a maggior coltura di lettere sotto il consiglio di VS. Illustrissima, ed a norma della sua inclita Sanese Accademia Intronata, madre di tutte le italiane Accademie, debbe con più ragione di ogni altra concorrere nelle acclamazioni, ed interessarsi nelle glorie di Santa Caterina da Siena, e della sua letteratissima città natia. Onde è, che io in nome di tutti i miei Colleghi comparisco a tributare i sentimenti della comune venerazione loro alla dottrina angelica della Santa Vergine, la quale fu certamente colonna di fuoco accesa da Dio nel Cielo della Santa Chiesa per illuminare gli errori di quel secolo perverso e scismatico in molte Provincie cristiane, e fu similmente colonna di nuvola per distillare [p. 212 modifica]manna di saporitissima locuzione all’eloquenza volgare, mediante il dolcissimo sanese dialetto nelle divine prose sue mescolato, e la purità delle sue espressioni, colle quali la feconda e bene ammaestrata Verginella trovò tanta grazia appresso i Capi della Chiesa Romana, e diede forza a stabilirvi le colonne più vacillanti. Questa miniera di ricchezze della toscana più pura lingua stette per gran tempo nascosta, ed alterata nelle passate impressioni delle divine opere della Santa, per colpa de’ librai disattenti, come osservò il Corbinelli, e come più diffusamente voi ci avvisate nelle vostre erudite prefazioni, ed il Padre Federico Burlamacchi nelle sue dottissime annotazioni alle lettere della Santa ci vien significando. Onde gran mercè se ne debbe allo zelo che aveste voi, Illustrissimo Signore, per l’onore della Santa e di Siena, da cui foste sollecitato a promuovere con tanto dispendio d’oro e dei vostri sudori, dell’oro medesimo più pregevoli, un’impresa delle più utili che a’ dì nostri fatte si veggono, a benefizio insieme della pietà, e della toscana più scelta locuzione. E voi medesimo assaggiate il frutto delle vostre gloriose fatiche, mentre appena usciti i primi libri di queste prose ammirabili, riconoscete il pubblico gradimento nell’uso che tutti i volgari più letterati scrittori viventi fanno delle voci cateriniane, finora seppellite ed escluse (non sappiano se per negligenza o invidia al vostro sanese idiotismo) da’ compilatori del Vocabolario Fiorentino, che non vollero quasimente cogliere altri fiori, per inghirlandare l’italiana eloquenza, se non que’ soli nati nelle rive dell’Arno; al par del quale la vostra Arbia feracissima di grazie di dire, e popolatissima de’ coltivatori delle buone arti, ne produsse degli altrettanti odorosi e vaghi, siccome voi ci dimostrate nello strepitoso Catalogo degl’insigni scrittori Sanesi volgari vostri concittadini, riferiti nel vostro sanese giornale al giorno ultimo di maggio. Il che pure tutte le oltramontane nazioni confermano nel concorso, che sempre più di loro si vede alle vostre Accademie: potendosi anzi dire che ogni privala casa di Siena sia un’Accademia di ben parlare, ed un Areopago del buon viver cristiano, secondo che si vede nella numerosa serie de’ servi di Dio, la chiarezza de’ quali (disse il gran Cardinale Federigo Borromeo) fa distinguere il vostro benedetto paese fra gli altri, nel modo che la via lattea tanto spessata di stelle fa scomparire le altre parti del Cielo. Di tutto questo rimasi bene informato nella stanza, che io ho fatta di quarant’anni in Roma, dove la vostra studiosa e spiritosa nazione nobilissima non è seconda a quante qui ne concorrono da ogni parte: onde per sete di ritornarmene alla mia patria arricchito delle virtù de’ vostri Cittadini, de’ quali epilo[p. 213 modifica]gate in un medesimo tutti i pregi più sparsi, ho fatto sempre raccolta da’ librai di quanti sanesi scrittori vi ho ritrovati, confortandomi che questi sieno fra i migliori capitali della mia libreria Spizzicagigliana, la quale, come sapete, ad uso de’ poveri studiosi dovrà aprirsi nella città mia di Reggio, e di tal nome ho voluto chiamarla. Viva dunque la Santa Maestra Caterina Benincasa, viva il dialetto sanese, e viva il vostro nome tanto benemerito della letteratura di quest’età; il quale dietro all’ale di questa Serafina andrà a risplendere nel medesimo lume di lei, dentro del quale la nostra Accademia Reggina spera di fare qualche comparsa, mediante questo voto di solenne ossequio, che viene oberendo (sic) fra i voti di tutta la repubblica letteraria all’altare della sapienza della Sposa e Discepola eletta del Verbo incarnato, alla quale raccomandando gli avanzamenti della nostra Artificiosa nascente Adunanza, che giurerà sempre in verbis Magistrae, mi sottoscrivo per parte di tutto il detto Collegio alunno avventuroso dell’Accademia Sanese, e di tutta la sanese letteratura.

Roma, 30 Giugno 1719.

Divotis: Obbligatiss: Servit.

Abbate D. Antonio Spizzicagigli, Decano e Prima Dignità della Chiesa Metropolitana di Reggio in Calabria, vostro Collega in Arcadia, Fondatore dell’Accademia degli Artificiosi, e della Libreria Spizzicagigliana per li poveri studenti, ecc.

Questa Lettera è da me tratta da un libro intitolato Vita di Girolamo Gigli Sanese detto fra gli Arcadi Amaranto Sciaditico scritta da Oresbio Agièo Pastore Arcade. In Firenze 1746 nella stamperia all’insegna di Apollo. Mi fu data conoscenza di tal libro ed opportunità a leggerlo qui in Napoli dal ch. mio amico Cav. Roberto Betti. Io sapeva che tal lettera trovasi inserita nell’opera del Gigli intitolala Vocabolario Cateriniano; ma ad aver questa, era stata sinora inutile qualunque mia ricerca. Debbo esser quindi gratissimo al favore del Cav. Betti. che seppe appagare il mio desiderio.

Giovanni Battista Panagìa. Dottissimo antiquario dell’Imperatore Carlo VI. — Tommaso Aceti nelle note al Barrio, ed il Zavarroni lo dicono con asseveranza reggino. Anche reggino è chiamato dal nostro Ferrante suo contemporaneo con queste parole: Rheginus, latinis graecisque litteris atque omnigena eruditione apprime excultus, et antiquitatis peritissimus. Non voglio tacere però quel che me ne scrisse al proposito da Bova il mio culto amico signor Antonio Marzano, il [p. 214 modifica]quale sostiene che il Panagìa sia bovese. «Vi ricorderete felicemente quando leggeste il cenno biografico da me scritto pel fu abate Giovanni Battista Panagìa, la mia dispiacenza a non poter documentare i di lui natali qui col corrispondente atto di nascita; attesochè varii incendi, dopo quell’epoca, distrussero gli archivii Episcopali e quelli della Curia, ove tenevansi pure i libri parrocchiali. Dippiù, la casa Panagìa fu anche manomessa nei libri e carte di famiglia durante la minore età dell’attuale rappresentante D. Pasquale; ed Iddio sa come siasi salvata la copia del testamento di esso abate Giovanni Battista, rogato per atti del N.r Herold in Vienna, col quale chiamò suo erede il di lui nipote abate Francesco Panagìa, che recossi colà portando seco mobili, carte, e l’onorata immagine dell’illustre defunto. È certo però che i nostri antenati si gloriavano sempre col nostro paese di aver dato la nascita ad un uomo così cospicuo; ed il proavo dell’attuale D. Pasquale (fu D. Giovanni Battista) più volte disse a me: Pensate a studiare; fate onore al nostro paese, dove vi furono sempre uomini letterati; e vi basti sapere esservi nato il mostro di scienze fu mio prozio D. Giovanni Battista abate Panagìa, antiquario Cesareo di Carlo VI in Vienna, ove morì». Bova 11 aprile 1856. Io ho voluto qui trascrivere questa lettera, affinchè se il Panagìa è veramente bovese, non sembri che noi il volessimo reggino quando tale non fosse. Credo nondimeno non essere ancora assodato ch’egli sia bovese veramente; e mi pare probabile che essendo originario di Bova avesse avuto nascita in Reggio.

Francesco Ferrante. Fece i primi suoi studii in Reggio e poi li continuò in Napoli. Fattosi prete, e divenuto Canonico fu da Mons. Polou nominato Provicario generale a’ 22 agosto del 1746, e suo Vicegerente nell’anno appresso. Tornato in Napoli nel 1750, addì 10 luglio prese possesso di Giudice della Congregazione delle cause della Diocesi della Curia Arcivescovile di quella Capitale, in forza di patente dell’Eminentissimo Cardinale Spinelli allora Arcivescovo di Napoli. Agli undici di gennaio 1754 ottenne da Papa Benedetto XIV l’onorevole uffizio di Avvocato fiscale della Nunziatura Apostolica della stessa Napoli; e due anni appresso fu dal medesimo Pontefice scelto a Vescovo di Andria in Puglia, dopo i favorevolissimi rapporti avuti dal citato Cardinale Spinelli.

Divenne il Ferrante assai chiaro nella letteraria repubblica, e contrasse amicizia co’ più chiari letterati di quell’età, de’ quali nominiamo Alessio Simmaco Mazzocchi, Giuseppe Aurelio di Gennaro, Francesco Serào, Tommaso Fasano, Paolo Paciaudi, Giacomo Martorelli, Giovanni Antonio Sergio, ed Alessio Nicola Ruffo. [p. 215 modifica]

Scrisse in eleganti versi italiani quattro Canzoni ed otto Sonetti, e molte cose latine in verso ed in prosa. Suo fratello Gaetano ebbe cura di pubblicare in Napoli nel 1756 alcune opericciuole di lui col titolo: Francisci Ferrante Patricii Rhegini Opuscola, Cajetanus Ferrante ejus frater collegit. Neapoli dalla tipografia Simoniana. Questo volumetto contiene: Praefactio auctoris; Carmina latina; Epistolae; Additamentum ad Ughelli Italiae Sacrae cap. de Archiepiscopis Rheginis; Versi italiani. I sonetti, benchè composti in forbita lingua non sono gran cosa; ma le canzoni sono bellissime, e ricche d’imagini delicate ed assai vive. La prima è per la festa di Messina; la seconda per le nozze di Vinciguerra Colardo de’ conti di Collalto, e di Antonia de Silva Meneses de’ conti di Montesanto. La terza è per la morte de’ prodi reggini Domenico e Federico Musitano fratelli; e l’ultima in morte di Gaetano Argento. Ed affinchè i lettori abbiano un saggio del poetare del Ferrante, ed insieme qualche notizia della gloriosa morte de’ due Musitano, mi fo a trascrivere qui un buon tratto della terza Canzone:

«Se al suono i’ già cantai di lieti carmi
     I duo campion congiunti
     Non men di fe che di fraterno nodo;
     E quante ebber vittorie e gran trofei
     Sulle dacie campagne,
     Ove mostrar con prove illustri quanto
     Nelle italiche destre il ferro vaglia:
     E tante dier ferite, e sparser sangue
     Che l’empio Trace ancor ne geme e langue:

Rivolta oimè la cetra a tristi lai
     Lor morte acerba or piango:
     Morte che tinse di funesto orrore
     Il nostro bel natio dolce terreno,
     E di Trinacria i campi;
     Sì fìa che del mio pianto,
     E de’ miei luttuosi aspri lamenti
     Pietà ne giunga a le più stranie genti.

Oh qual fu l’aspra doglia e il tristo lutto
     Entro la gente armata,
     Quand’ella vide, ahi dolorosa vista!
     L’inclito Federigo a terra estinto
     Premer col busto esangue

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     Le sue stesse armi, e le guerrere insegne,
     L’elmo, il baston, lo scudo, e la famosa
     Spada di eterne glorie ornata e cinta,
     E ancor del tracio sangue aspersa e tinta.

Spettacolo non diè men fero e crudo
     Domenico sul campo, ov’ebbe gloria
     Egual quand’altri vinse, e quando e’ cadde;
     Però che pien di sangue e di ferite
     Disdegnando il feral breve riposo.
     Che agli egri ed a’ languenti
     Largo concede il furibondo Marte,
     Della crudel battaglia entro l’orrore
     Fermò il piede e la fronte, e’l ferro strinse,
     Finchè spirto e vigore
     Girò in sua destra debole e tremante;
     Ma poi cedendo al fato
     Chiuse i bei lumi; e assai soavemente
     Posando in su le insegne ambo le palme
     Spirò, sembrando dir: d’altro non calme.

Morte crudel, se per tuo colpo atroce
     Cader dovean sul campo
     I duo guerrieri in sul fiorir degli anni,
     E cinte appena le lor bionde chiome
     Di trionfali allori;
     Sparger del sangue lor le dacie arene
     Potevi, e saziar l’ire e il tuo furore;
     Perchè serbar loro aspra e ria sventura
     E’l fato estremo a le sicane mura?

Ah sì, per eternar la doglia e’l pianto
     Della patria infelice,
     Atro destino le appresenta agli occhi,
     Non che solo al pensier, l’orrida imago;
     E vuol che la dolente
     Vegga del sangue de’ suoi dolci figli
     Rosseggiar l’onde e’l mameritino lido,
     E’ colli di Trinacria, e le pianure
     Un tempo liete e chiare, or triste e scure.

Ahi quante volle il dì gli occhi volgendo
     Al gran Peloro intorno

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     Rammenta il caso orrendo; ahi quante addita
     I luoghi, u’ sua gran prole eterne impresse
     Orme di gloria, e dice:
     Qui pugnò Federigo, e al suon dell’arme
     Tremaro i colli e rimbombar le valli;
     Qui fu percosso: qui di sue ferite
     Lieto, scorrendo e insanguinando il piano
     Empièo la gente ostil d’atro spavento;
     Qui cominciò a languir... qui cadde spento!»
     ...............

Nè lascio di trascrivere anche qui i versi latini dove il Ferrante parla de’ detti suoi prodi concittadini, che ritornati da’ campi dell’Ungheria (ove la Cristianità armata era ita a combattere la tracotanza ottomana) morirono in battaglia nella Sicilia nella guerra tra Spagnuoli ed Austriaci. Egli adunque dice di loro:

Quos Carolo et belli Urbs vovit Rhegina periclis,
     Claraque quos fratres gens Musitana dedit,
Bistonidum victores qui rediere, peremptos
     Insula Sicaniae proxima condit humo.

Giacomo Gullì. Uomo assai chiaro nella milizia. Di lui sappiamo che nel 1722 era gentiluomo del Corpo dell’artiglieria che stava di guarnigione nel castello di Otranto, donde passò in Reggio col medesimo uffizio. Nel 1724 aveva il maneggio e comando dell’artiglieria non solo di Reggio, ma anche de’ castelli di Scilla, Amantea, Tropea, e Cotrone. Ebbe poi nel 1729 a’ nove di marzo il grado di Capitano di artiglieria nella medesima piazza di Reggio, e nel 1734 comandava inoltre tutte le batterie nuove che in Reggio, e su tutta la riviera calabrese rimpetto al Faro avea disposte il conte Formentini. Quando nel giugno del 1734 gli Spagnuoli con una divisione navale accennarono all’occupazione di Reggio, il Gullì vedendo che questa città non era atta a far durevole resistenza, prese il tempo di trafugarsi in Messina con tutta la guarnigione di Reggio, e di far trasportare celerissimamente nella stessa Messina tutta la munizione e gli attrezzi che stavano riposti nel nostro castello, e molta parte delle altre munizioni, attrezzi e cannoni che trovavansi nelle altre convicine batterie della riviera di Calabria. Egli continuò in Messina Uffiziale nella artiglieria tedesca di campagna sotto il comando del Tenente Colonnello Anton Ferdinando Fajer-Staien Comandante della medesima. [p. 218 modifica]

Essendosi poi gli Austriaci ritirati in cittadella nel mese di ottobre per l’arrivo dell’armata nemica, nello spazio di sette mesi che restarono bloccati, il Capitano Gullì seppe far tanto che quella guarnigione non patì mai difetto di viveri, de’ quali veniva certamente gran copia dalla vicina Reggio, mercè le abilissime pratiche di lui: con che rese a quella guarnigione un segnalato servigio. Ciò rilevasi da un certificato originale del Principe di Lobkovitz fatto in Messina addì venti di marzo del 1735 in lode del Gullì.

Cacciati finalmente gli Austriaci dal Reame, uscì anche con loro il Gullì, che col mutar di fortuna non volle mutare il suo animo al nuovo conquistatore. Egli continuò a restar Capitano di artiglieria della piazza di Trieste, che fu posta sotto il comando dell’anzidetto Tenente Colonnello Fajer-Staien. Ivi dimorò il Gullì dal primo di aprile 1735 a tutto il 25 settembre; nel qual tempo eseguì in quella città molte opere assai rilevanti, e che gli accrebbero fama di uomo valoroso e solertissimo nelle cose di artiglieria. Dopo, per ordine del supremo Consiglio aulico di Guerra, il Gullì con un distaccamento di artiglieria dovette muovere da Trieste per il Tirolo, dove si era fatta la massa dell’esercito: consecutivamente fu Capitano di artiglieria in Milano. Ma eccovi a narrar qualcuna delle sue ardite prodezze. Alla riviera del Danubio presso Radojovas, ov’era accampato l’esercito austriaco, era di stazione una nave da guerra il S. Carlo, della quale comandava l’artiglieria il nostro Gullì, per ordine del Generale conte Luca Pallavicini. Intanto l’esercito si era mosso da quelle stanze, e marciava altrove, ed al S. Carlo era ancora ingiunto a’ 29 settembre 1737 di scioglier l’ancora da quella rada, e far vela alla volta di Orsova. Ma i Turchi, come tosto seppero l’allontanarsi delle truppe nemiche, attaccarono il S. Carlo da terra e da mare il dì trenta del detto mese. Da terra cominciarono a piantarvi una batteria; colla fucilata e colle frecce e con quattro altre batterie ambulanti da tre a quattro cannoni per ognuna si dettero a fulminarlo ordinati in battaglia, e con ventisei bandiere spiegate. Da mare la nave austriaca fu investita da diciannove saiche turchesche, delle quali nove si fecero avanti alla nave, malgrado il fuoco vivissimo che questa faceva, e le altre dieci restarono a poppa. Contuttociò il S. Carlo difendendosi sempre egregiamente non lasciò di far cammino durante la notte, e la mattina appresso si trovò nello stretto presso all’isola di Ostra. Ivi i nemici mandarono con tutta celerità un distaccamento per terra dalla parte della Vallachia; e così la nave trovossi battuta da tutti i lati, ed in pericolo grandissimo. In tal solenne momento fu ammirabile il sangue freddo, il co[p. 219 modifica]raggio, e la solerzia del Capitano Gullì. Per opera di lui la resistenza del S. Carlo divenne sovrumana, ed urtò l’impeto nemico con insuperabile ed indefessa perseveranza. Durò accanito il combattimento da levata di sole all’occaso, ed un pieno successo compensò gli sforzi del Gullì; giacchè il nemico quando si accorse non poterla spuntare, prima allentò il fuoco, poi cesse del tutto, e si ritirò. Ed il S. Carlo riuscito libero da tanta serra, non ebbe che qualche morto e pochi feriti; mentre le perdite dell’assalitore furono stimate assai gravi. Per questa gloriosa fazione navale il Gullì venne in molta reputazione, ed acquistò ardire a nuove lotte.

Un’altra volta, si trovava alla direzione e maneggio di due batterie piantate sulla sponda del Danubio, per opporsi al passaggio delle saiche nemiche. Le quali batterie erano due, ciascuna di tre cannoni di ferro, sbarcati dal S. Carlo. Con queste il Gullì fece varie prove di valore, e più di una volta rintuzzò l’arroganza turchesca, onde fu meritamente tenuto a quel tempo uno de’ più valorosi ed abili Capitani di artiglieria dell’armata austriaca. Di quanto io qui sopra ho narrato porgono non dubbia testimonianza le relazioni onorevoli (documenti che si conservano dal mio culto amico, e gentil poeta reggino Francesco Paolo Gullì) che ne diede Giovanni Maria Merlo, Capitano del S. Carlo, in un cerlificato da lui scritto, e dato dalla stessa nave a’ 15 ottobre del 1737.

Queslo valoroso reggino morì in Orsova circa la One di dicembre del notato anno 1737.

Vincenzo Cannizzaro. Fu pittore esimio. Nacque verso il giugno del 1742 da Giovanni Battista. Il suo naturale istinto lo trasse di buon ora allo studio della pittura, e gli fu maestro in Reggio Antonino Cilèa, altro nostro pittore assai bravo, del quale si conservano tuttavia qui alcune pitture pregevolissime, come sono il quadro dell’altare maggiore della Chiesa di S. Francesco di Sales, e quello della Cappella del nostro Real Collegio, oggi Casa della Compagnia di Gesù. In breve tempo fece il Cannizzaro grandi progressi nell’arte, e gli venne desiderio di recarsi in Napoli nel 1758 per attendere con più efficacia allo studio. Era ivi allora in molto nome la scuola di pittura di Francesco de Mura, detto il Franceschiello, e questi volle a suo maestro. Durante la sua dimora in Napoli molti dipinti dovette eseguirvi il Cannizzaro, ma a noi altro non ci è noto che due ritratti de’ nostri Arcivescovi Domenico Zicari, e Matteo Testa-Piccolomini, che or si conservano nella sagrestia della nostra Cattedrale condotti con molta verità e correzione.

Ma il Cannizzaro non poteva resistere al desiderio di veder Ro[p. 220 modifica]ma, sede di tanti capolavori di belle arti, e vi si condusse nel 1763, ansioso di ammaestrarsi nello studio di que’ meravigliosi monumenti. Si fece quivi discepolo del famoso Pompeo Batoni, alla cui scuola si perfezionò nel disegno e nel colorito.

Intanto l’Accademia di belle Arti di Parma proponeva nel 1766 un concorso. Il nostro Cannizzaro colse con premura tale occasione per dar prova del suo valore nell’arte della pittura; e sul tema dato da essa Accademia condusse in tela la Trasfigurazione di Cristo sul Tabor; la qual opera com’ebbe fornita mandò a Parma. E qual gioja non fu la sua nel vedersi premiato nella stessa patria del Correggio e di tanti altri famosi artefici? In un foglio stampato allora in Parma, ed intitolato: Distribuzione de’ premii celebrata dalla reale Accademia delle belle arti in Parma il giorno 23 novembre l’anno 1766, si legge così: «Il premio delle arti si è in questo anno 1766 disputato da pochi. Si è tuttavia rallegrata l’accademia, che in due soli quadri il merito abbia compensato il numero.

L’autore coronato in pittura è stato il signor Vincenzo Cannizzaro di Reggio di Calabria. Il quadro aveva per soggetto la trasfigurazione di Gesù Cristo sul monte Tabor; e per divisa Hic est Filius meus carissimus; audite illum.

L’ottima disposizione di tutte le figure componenti il soggetto, il colorito di buon gusto, e principalmente bene studiato nell’estremità delle figure, tutte di bene animata espressione, hanno meritato a questo quadro la corona. Si è tuttavolta applaudito il quadro competitore del signor Domenico Pozzi svizzero che avea per divisa Faciamus hic tria tabernacula.

Il premio di pittura è una medaglia d’oro di once cinque, consacrata da’ nomi Augusti, e da’ simboli convenevoli».

Delle altre pitture fatte in Roma dal Cannizzaro non abbiamo notizia alcuna; solo sappiamo avervi condotta una bellissima tela rappresentante la Vergine Addolorata, che prima di partir da Roma ei lasciò in ricordo ad un Padre Certosino, che gli era familiarissimo amico. Ma veduto poi questo quadro ed ammirato dall’ambasciatore inglese, costui tanto fece e pregò, che il Certosino gliel cedette, e così l’egregia opera del nostro concittadino passò in Inghilterra.

In marzo del 1767 il Cannizzaro faceva ritorno in Reggio. Qui attese indefessamente a dipingere, e lasciò del suo pennello molte opere, nelle quali si ammira la corretta disposizione delle figure, la vivacità delle tinte, l’accuratezza delle invenzioni e del disegno. Noi ricordiamo tra le moltissime il Martirio di S. Lorenzo, la Battaglia di Giosuè, la Caduta di Simon Mago, e la Strage degl’Inno- [p. 221 modifica]centi, che si conservavano già dal signor Federico Genoese, uomo di molte virtù morali e civili, e fino conoscitore di belle arti; morto sventuratamente in Napoli nel 1848! Oggi tali pitture sono presso gli eredi del Genoese. Un bozzetto ad acquerello che descrive il Giudizio di Salomone, ed altri due disegni di minor rilievo, l’uno de’ quali ci mostra Cristo in atto di scacciare i profanatori del tempio, l’altro il Salvatore che concede al dubbioso Tommaso di palpargli la ferita aperta nel costato, si conservano presso il Padre Luigi Furnari Prevosto dell’Oratorio di S. Filippo Neri di Reggio. Ma quando più gli sorrideva un avvenire splendido di celebrità e di fortuna, il nostro Cannizzaro, travagliato da morbo consuntivo, finiva giovanissimo nelle braccia de’ suoi il dì 26 giugno del 1768.

Delle pitture di lui fece un ragionato e giudizioso esame il mio egregio amico Canonico Paolo Pellicano, nel n.° tredicesimo dell’anno I della Fata Morgana, dopo di aver narrata la vita del Cannizzaro nel dodicesimo numero. La qual vita fu anche pubblicata dal Pellicano in un opuscolo col ritratto del nostro pittore; a cui rimandiamo i lettori che ne vorranno più particolareggiate notizie.

Giuseppe Morisani. Nacque in Reggio a’ 18 novembre del 1720. Fu suo primo maestro di lettere un Canonico Sergi, il quale vedendo il fanciullo molto proclive allo studio, gli pose moltissimo amore, e vennelo ammaestrando utilmente nelle lettere greche e latine. Ma siccome Giuseppe sentiva di buon’ora vocazione per lo stato ecclesiastico, si applicò attesamente alle materie di teologia, e di diritto civile e canonico nelle scuole de’ PP. Domenicani. Fu ordinato Sacerdote dall’Arcivescovo Damiano Polou, e nel 1750 si avviò a Napoli, ove intese più di proposito agli studii, specialmente di matematica, ed ottenne la laurea nell’una e nell’altra legge. Ivi cominciò a farsi conoscere assai favorevolmente, e strinse amicizia co’ migliori letterati di quel tempo. Da Napoli passò a Roma, ove si dette a studiare la lingua ebraica; e venutogli quivi stesso il pensiero di qualche lavoro che illustrasse la sua terra natale, cominciò a rimuginare quelle primarie biblioteche, dalle quali raccolse gran copia di notizie opportune al suo scopo. E dopo cinque anni di dimora in Roma, ritornatosi a Reggio nel 1755, fu nominato precettore del Seminario, dove per diciassette anni insegnò rettorica, filosofia e storia ecclesiastica. E molti uomini egregi uscirono dalla sua scuola, educati a quell’ecletismo filosofico che il Morisani non cessò mai di propugnare nelle sue lezioni; ed in ciò fu egli per Reggio quel che fu per Cosenza Francesco Salfi, ed Antonio Genovesi per Napoli. [p. 222 modifica]

Nè tardarono ad esser noti all’universale i meriti letterarii e morali del nostro concittadino, il quale fu dopo non molto fatto Canonico della Metropolitana, ed appresso sollevato alla dignità di Cantore. Intanto in mezzo alle cure gravi del suo ministero non tralasciò di rivolgere per la mente qualche nobile opera, che tornasse utile ed onorevole al suo paese, e facesse chiaro il suo nome. Concepì quindi il vasto disegno di un patrio lavoro che tutta comprendesse la storia ecclesiastica, antica e moderna della Calabria, e che doveva intitolarsi Bruttium Ecclesiasticum vetus, graecanicum et novum. Intorno a che egli si venne affaticando per molti anni e disponendo un immenso materiale di notizie preziose. E sappiamo che tale opera doveva esser distribuita in tre libri, ed ogni libro in diatribe ed ogni diatriba in capi.

Tra alcuni frammenti di manoscritti del Morisani, che si conservano dal Prevosto Luigi Furnari, si trova il sommario delle materie, che dovevano esser trattate dal Morisani nel 1° e 2° libro del suo gran lavoro; dal qual sommario rileviamo quanto l’opera sua sarebbe riuscita importante all’illustrazione delle cose nostre. E perchè n’abbiano un’idea anche i miei lettori, non credo inutil cosa farlo pubblico in questo luogo.

Liber I. Bruttium Ecclesiasticum vetus, seu de origine, politia et disciplina Ecclesiarum in Bruttiis a primo fidei exortu ad abscissionem usque earumdem a Patriarchatu Romano.

Diatriba I. De Origine et situ Bruttiorum.

―    II. De Origine christianae religionis in Bruttiis.

— III. De Actis Martirii Sancti Stephani Nicaeni in primum Reginorum Antistitem a Divo Paulo ordinati.

— IV. De Sedibus Episcopalibus usque ad octavi saeculi initia per Bruttios constitutis.

— V. De praetensis quibusdam in Bruttios Episcopalibus Sedibus ante octavum saeculum.

— VI. De Politia Ecclesiarum in Bruttiis, earumque ad octavum saeculum Metropolitano. Questa sesta Diatriba è suddivisa in tre Syntagma, de’ quali il primo De universali totius Ecclesiae politia a primis saeculis; il secondo De politia Ecclesiarum Italiae usque ad octavum saeculum; unde certo eruitur Bruttiorum Metropolitanus; il terzo De praetenso jure Metropolitico plurimarum urbium Urbicariae Diaeceseos.

― VII. De Episcopis Reginae Ecclesiae quotquot ab ejus fundatione ad erectionem usque sedis in Metropolim innotescunt.

— VIII. De electionibus et consecrationibus Episcoporum in Bruttiis ante octavum saeculum, et de Episcopo Visitatore. [p. 223 modifica]

— IX. De Synodis et forma judiciorum Ecclesiae in caussis tum fidei tum disciplinae apud Bruttios ante octavum saeculum emergentibus.

— X. De Canonica Ecclesiarum in Bruttiis ante octavum saeculum disciplina.

Appendix. De monasteriis aliqua fama celebrioribus ante octavum saeculum in Bruttiis erectis.

Liber II. Bruttium Ecclesiasticum graecanicum, seu de politia et disciplina Ecclesiarum in Bruttiis, postquam Graecorum vi atque tyrannide in Constantinopolitanam Diaecesim inlatae sunt.

Diatriba I. De civili administratione in Bruttiis octavo saeculo.

— II. De Patriarchali jurisditione a Constantinopolitana sede in Ecclesias novae Calabriae usurpata.

— III. De variis Episcopatuum Calabriae notitiis post octavum saeculum ex Graecorum fontibus extractis.

— IV. De Episcopatibus ante, vel sub haec tempora per Bruttios antiquatis, novisque a Graecis erectis.

— V. De nova Politiae forma in Calabriae Ecclesias, a Graecis invecta.

— VI. De Reginis et Severinatibus Archiepiscopis sub Graecorum invasione florentibus.

— VII. De electionibus et consecrationibus Episcoporum, Synodis, ac forma judiciorum in Ecclesiis Calabriae sub Graecis.

— VIII. De disciplina Ecclesiarum Calabriae sub Patriarcha Constantinopolitano.

Appendix. De Monasteriis in Calabria hac aetate celeberrimis.

Del libro terzo che dovea comprendere il Bruttium Ecclesiasticum novum non esiste indice alcuno.

Un’altra opera, a cui lavorava assiduamente il Morisani è intitolata Antiquitatum veterum Bruttiorum, che doveva esser divisa in due libri; de’ quali il primo al tutto compiuto si conserva manoscritto nella Biblioteca Borbonica di Napoli, e fu da me consultato in agosto del 1856; del secondo non abbiamo che frammenti. Ecco l’Indice del libro primo, che contiene De Chorographia veterum Bruttiorum.

Diatriba I. De origine et nomine Bruttiorum.

— II. De periplo et limitibus veterum Bruttiorum.

— III. De viis militaribus ab Romanis per Bruttios constitutis.

— IV. De veteri Cismontanorum Bruttiorum chorographia a Lao flumine ad promontorium Lampeten.

— V. De sinu Hipponiate, et tum littoralibus quum cismontanis ad eum locis. [p. 224 modifica]

— VI. De sinu Bruttio et maritimis ac mediterraneis ad eum locis.

— VII. De Siciliae ab agro Bruttiorum discidio.

— VIII. De fretu Siculo, ejusque mirabilibus.

— IX. De ora Regina ad usque Herculeum promontorium.

— X. De maritimis et mediterraneis veterum Bruttiorum urbibus ab Herculeo ad Lacinium usque promontorium sitis.

— XI. De Bruttiorum urbibus a Lacinio promontorio ad Sybarim flumen, et inter haec veteris Bruttiorum regionis mediterranea loca investigantur.

— XII. De civili veterum Bruttiorum politia.

— XIII. De Municipiis et Coloniis Romanis apud Bruttios. Questa Diatriba divisa in cinque capi si conserva dal Prevosto Furnari.

— XIV. De veteri Romana Provincia Bruttiorum. Anche questa composta di sette capi è conservata dallo stesso Prevosto.

— XV. De veteri Bruttiorum provincia sub Imperio Orientali, invectoque in eam Calabriae nomine.

— XVI. De finibus novae Calabriae Graecorum, ejusque chorographia.

— XVII. De civili administratione Calabriae sub Graecis, variisque Langobardorum, et Saracenorum incursibus.

— XVIII. De Calabriae translatione in Nortmannos.

Syntagma. Marmorum, quae in diatribis laudantur syntagma cum observationibus criticis.

Ben si scorge da questo sommario che le opere del Morisani Inscriptiones Reginae, e De Protopapis messe a stampa, e l’altra inedita Acta Sancti Stephani Nicaeni non sono che membra staccate dalla sua grand’opera, che rimase incompiuta. Così le Inscriptiones Reginae corrispondono in gran parte al syntagma della diciottesima diatriba del libro primo delle Antiquitatum veterum Bruttiorum, e l’Acta S. Stephani alla terza diatriba del Bruttium Ecclesiasticum vetus. Compose anche il Morisani un trattato De militia clericorum.

Altre sue opere manoscritte sono:

1. Animadversiones criticae et additiones ad Ughellum Italiae Sacrae, tom. IX. edit. Coleti an. 1721, col. 317, de Archiepiscopis Rheginensibus. Queste dotte osservazioni sarebbero da pubblicarsi in qualche nuova edizione dell’Ughelli; il che darebbe maggior pregio a quel libro, e servirebbe a correggere non pochi errori, in cui è caduto quello scrittore trattando de’ nostri antichi Vescovi ed Arcivescovi.

2. Devotissimum in B. V. Dolorum Officium ex S. Scripturae verbis, orationibus etc. compositum. [p. 225 modifica]

3. Istruzione alle Monache.

4. Dissertazione sulla Fata Morgana.

5. Lettera al P. N. N. intorno all’antichità della Casa Ruffo.

6. Poesie varie. Ne’ versi trovi spesso nobili e leggiadri pensieri; ma desideri invano quella poetica eleganza e quel sapore di lingua che dà agli scritti poetici durabil vita. Noi per dare un picciol saggio del poetare del nostro Morisani trascriviamo due soli sonetti scelti fra i non pochi da lui scritti in varie occasioni.

La beltà è saggio del Cielo.

Qualor, Donna, que’ rai l’occhio vagheggia,
     Che da vostra beltà vibra l’Amore,
     Ah, che in questo mio sen vampa d’ardore,
     Da quelli accesa, il cor mi signoreggia.
Vampa ch’è pura, ardor che non vaneggia,
     Perchè acceso soltanto ad un splendore,
     Che gli occhi sì, ma viepiù vibra il cuore,
     Che carco di virtù gli occhi pareggia.
Volto, che di beltà seco ha la palma,
     Di divina beltà sfavilla un raggio,
     E se bello è l’esterno, è bella l’alma.
Non chiude un real sen cuore selvaggio,
     Non tien volto ferin si gentil salma
     Se terrena beltà del Cielo è saggio.

Donna bella che chiede fiori.

Mentre in lieto giardin di rose adorno
     Torce il passo il mio piè vago e ramingo,
     Ecco donna gentil girare intorno
     A quel prato di fiori ermo e solingo.
Ella due rose chiede, e in quel contorno
     Colto un fascio di quelle in pugno io stringo;
     Quindi ratto a colei faccio ritorno,
     E sua rara beltà così dipingo:
Rose chiedi? E non son due rose, o vaga,
     Le guance del tuo volto, ove ridendo
     L’ostro e i cinabri suoi stemprò Natura?

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Vorrai forse veder dove più appaga
     Il bel vermiglio? Ah no! mira piangendo
     Come fragil beltà qui si figura!


Il Morisani acquistò molta fama in Italia ed anche fuori, ed ebbe amicizia, e letteraria corrispondenza co’ più chiari letterati de’ suoi tempi. Morì a’ 28 dicembre del 1777, ed ebbe esequie condegna alla fama del suo nome ed a’ suoi meriti. Il dotto nostro concittadino Giuseppe Marra ne disse il funebre elogio. Venne seppellito nella chiesa dell’Oratorio di Gesù e Maria, dove a manca del sinistro altare laterale fu posto a pubbliche spese un modesto bassorilievo in marmo, e messavi un’iscrizione latina che rammemora a tutti il cittadino devoto alla virtù ed alla patria. Nel n. 44 anno 1779 dell’Antologia di Roma fu pubblicato un onorevole Elogio del nostro Morisani, ed un altro, da me scritto, può leggersi nel primo numero dell’anno primo della Fata Morgana.

Paolo Filocamo. Poeta. Era Barone di Galati. Scrisse moltissimi versi, ma la più parte poco onesti, e poco corretti; quantunque vi si ammiri sovente vena feconda e spontanea. Era molto amico del Morisani, a cui diresse parecchi suoi Sonetti in diverse occasioni, e n’ebbe sempre risposte in altrettanti Sonetti. Eccone uno.

Il Baron Filocamo al Morisani.

Poichè, Giuseppe, Iddio (che non fattura,
     Ma è sublime fattor de l’auree stelle)
     È di tanto splendor, che se con elle
     É eterno, e di stagion senza misura;

Eterno è il mondo ancor, dove natura,
     Per fabbricarci in queste parti e in quelle
     Meraviglie sì eccelse e tanto belle,
     Qual artefice industre ha ingegno e cura.

Sì ch’eterno il direi; perchè il possente
     Signor, ch’eterno fu, già non dovea
     Starne ozioso allor senz’oprar niente.

Nè mai starsi nell’ozio egli potea;
     Chè manchevole allor sarìa sua mente,
     E difettosa ancor l’eterna Idea.

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Risposta del Morisani.

Empio discorso! E potrà mai fattura
     Dar legge al gran Fattor de l’auree stelle?
     Frasi dello Stagira, e tu con elle
     Qual altro Alfonso a Dio dar vuoi misura?
Taci; chè orror ne sente anco natura.
     Libero è Dio; E’ queste cose e quelle
     Far volle in tempo, e potea far più belle:
     E poi che felle, n’è sostegno e cura.
Ond’Ei bene a ragion è Onnipotente,
     E quel ch’Egli non fe’ far non dovea;
     Nè mica pigro fu che non fe’ niente.
Dicea il Verbo in sè stesso, e far potea
     Mille mondi in un fiat, purchè a la mente
     Sol gli piacesse sua divina Idea.


Domenico Giuseppe Barilla. Tra i dotti e virtuosi uomini reggini del passato secolo non fu ultimo Domenico Giuseppe Barilla nato nel 1725 da Francesco Federico bravo giureconsulto ed Auditore di guerra della piazza e castello di Reggio. Ebbe la prima istruzione elementare dal sacerdote Giuseppe Furfari; e divenuto adolescente volle rendersi chierico. Studiò le discipline filosofiche e teologiche presso i PP. Domenicani, che allora tenevano il primato dell’istruzione, ed erano i comuni ammaestratori della gioventù. All’età di 25 anni venne ordinato sacerdote dall’Arcivescovo Polou. Essendo stato poi nel 1764 riformato il Seminario dall’Arcivescovo Matteo Testa Piccolomini, giusta lo statuto del Seminario urbano di Napoli, il nostro Barilla, ch’era già Canonico, ne fu prescelto a Rettore. Ivi per 36 anni venne ammaestrando la gioventù nelle morali, filosofiche e teologiche dottrine, e non pochi dotti e chiari uomini uscirono dalla sua scuola.

Abbiamo di lui la Dottrina cristiana di Spinelli comprovata coi passi della sacra scrittura, un Trattato delle virtù morali, un altro della Concordanza de’ quattro Evangelisti, e varii opuscoletti minori, opere tutte che rimangono tuttavia inedite. Non bisogna preterire in questo luogo quanto il Barilla abbia ajutato il Morisani per condurre a termine le dotte Inscriptiones Reginae; di che ce ne fa certi lo stesso autore nella prefazione dell’opera con queste parole: «Id etiam te scire volo (parla al lettore) aestuanti mihi saepe in hoc [p. 228 modifica]opere conscribendo, ac portum tot salebris haerendo vix speranti, unum tantum adtulisse suppetias Canonicum Dominicum Josephum Barillium hujus Regini Seminarii Rectorem eximium, qui diligentissimis lapidum transcriptionibus, nec non improbo scribendi labore, ac omni auxiliorum genere, pro eo quo in bonas litteras fervet amore, me egregie adjuvit». Ed il Morisani fu ajutato medesimamente dal Barilla nella compilazione dell’altra opera sua De militia clericorum, come lo assevera egli stesso nel proemio a questo libro.

E tanto egregio nome di uomo dotto e d’incorrotti costumi venne il Barilla acquistando, che nel 1791 fu nominato Vescovo di Oppido, ma egli rinunziò con umile fermezza a tal dignità, e preferì la modesta quiete della sua consueta vita. Tra i tanti amici ch’egli conobbe, gli furono i più cari e familiari il Morisani ed il Padre Gesualdo. Morì il Barilla nel 1815, ed ebbe solenni esequie prima nel Duomo, poi nella chiesa di S. Francesco di Sales, dov’ebbe sepoltura.

Enrico Nava. Dell’ordine de’ Cappuccini. Scrisse in buona lingua italiana la Vera Consolatrice degli Afflitti in tre volumi, dove tratta distesamente del nostro Convento de’ Cappuccini, della Vergine della Consolazione, de’ moltissimi miracoli di lei, e della vita di que’ Frati del detto Convento che più si distinsero per dottrina e santità di costumi. In tale sua opera il Padre Nava ci dà molte notizie appartenenti alla storia reggina, ma bisogna leggerlo con cautela, perchè spesso è inesatto, e tragge altrui nell’errore. L’autografo di questo lavoro è ora posseduto dal mio culto amico Francesco Mantica. Fece ancora una Descrizione della peste di Reggio nel 1743 e 44, che io non potei leggere, nè so se si conservi tuttora presso qualcuno, o sia andata perduta.

Domenico Giuffrè. Sacerdote di molta istruzione, e Dittereo della Collegiata Greca. Compose una lunga e minuta Relazione ad un suo amico sulla peste del 1743 con molta verità e colore, ed è la sola fonte, a cui possono attingersi rettamente le notizie di quella calamità cittadina, resa più aspra dall’umana malvagità. La maggior parte della narrazione ch’io feci di tal pestilenza e sue conseguenze nella mia Storia, è stata da me tratta dalla sopralodata Relazione, che si conserva manoscritta dal signor Gennaro Giuffrè di Domenico. Altre opere di materia ascetica e teologica scrisse ancora il Giuffrè, ma queste andarono perdute, o smarrite.

Gregorio Palestino. Fu nobile Reggino, Canonico Abate della nostra Metropolitana. Nacque nel 1704, e gli durò la vita sino [p. 229 modifica]al 1790. Sostenne con decoro varie incombenze chiesastiche: fu Esaminatore e Giudice Sinodale; suddelegato Apostolico nella diocesi di Nicastro; Avvocato de’ Poveri nella Curia Reggina; restauratore zelantissimo del Monastero di S. Niccolò degli Strozzi. Scrisse parecchie memorie ad illustrazione di cose patrie, ed a difesa di varii diritti e prerogative del municipio di Reggio: tra le quali sono da ricordarsi:

Un’Allegazione in difesa della città di Reggio per lo ricupero della terra di Sambatello; un Cenno Storico su’ tremuoti del 1783. Oltre a ciò compose un’Istituzione di Diritto civile e canonico; e tutto ciò si conserva manoscritto dal mio amico sig. Antonio Palestino, cullo e diligente raccoglitore di quanto possa riguardar notizie relative a cose di Reggio.

Gratuitamente il Canonico Palestino prestò per ben due volte l’opera sua, recandosi in Napoli per la difesa del Capitolo di Reggio, e sostenendo le ragioni pel Benefizio di S. Angelo a Valletuccio. E nella causa del Sindacato fu uno de’ più alacri difensori de’ Nobili ex genere, trovandosi allora in Napoli: onde il suo nome rimase onorato e benedetto fra i suoi concittadini.

Pietro Roscitano. Nacque il dì 17 aprile del 1740 da Francescantonio e da Rosa de Nava. Fu suo principal maestro il Cantore Giuseppe Morisani. Aveva da principio fatto consiglio di prender gli ordini sacri, ma poi cambiata opinione lasciò l’abito chiericale, e si avviò alla giurisprudenza. E recatosi in Napoli nel 1759 si diede istancabile allo studio del diritto di natura e delle genti, delle antichità romane, della storia, e della cronologia. Nel 1762 moveva da Napoli per Roma, donde ivi a non molto, preso da febbrile infermità, tornava all’aria nativa di Reggio. Nel 1769 era con sovrano dispaccio approvato Professore di lingua greca e latina nelle scuole pubbliche aperte in Reggio dopo l’espulsione de’ Gesuiti. Nel 1773 menava in moglie Maria de Nava, e n’ebbe copiosa prole. Il primo lavoro letterario di lui fu una Memoria storico-filosofica del tremuoto dopo l’orribile catastrofe del 1783; e quest’opuscoletto fu messo a stampa in Messina.

Conosciuto in Napoli il valore letterario del nostro concittadino, fu egli ammesso all’Arcadia napolitana, e chiamato nel diploma accademico Nearco Pisaurico.

Intanto nel 1794 un altro nostro egregio concittadino pubblicava un’erudita operetta intitolata Il Tempio d’Iside e di Serapide. A questa volle rispondere il Roscitano con un’altra scrittura non meno erudita, che divise in due Dissertazioni; ed intitolatala modesta[p. 230 modifica]mente Il Sacrario del Rispetto a fronte del tempio d’Iside e di Serapide di Reggio, la pubblicò in Napoli nel 1795 presso Onofrio Lorenzi.

Caduta poi Reggio sotto il dominio straniero, il Roscitano passava con tutta la sua famiglia in Messina, ed ivi finiva di vivere a’ 2 settembre del 1811.

Giuseppe Logoteta. Fu di una delle più nobili antiche ed illustri famiglie di Reggio. La sua vita è in gran parte strettamente collegata colla storia delle vicende politiche del Regno dal 1790 al 1799; e non è del nostro istituto narrarla. Finì al 1799 come tutti sanno. Aveva in mente di comporre una Storia di Reggio; ma questo suo pensiero non potè aver mai compimento. Scrisse e pubblicò varii opuscoli pieni di nobili pensieri, e di sensatissime osservazioni. Questi sono una Memoria sull’Assisa, ed un’altra Sull’Annona di Reggio, ed una erudita scrittura sul Tempio d’Iside e Serapide, ad illustrazione di una iscrizione lapidea trovata in Reggio nel 1789.

Una vita del Logoteta fu scritta, or son parecchi anni, dal signor Domenico Miceli, e pubblicata nell’Omnibus; ed un’altra se n’è ancora inserita nella Biografia degl’illustri Italiani che va pubblicando in Venezia Emilio de Tipaldo.

Demetrio Nava. Canonico della nostra Metropolitana. Nacque il dì 9 giugno del 1758 da Andrea e Santa Calarco. Le opere da lui scritte, e che oggi si conservano manoscritte presso il suo pronipote Alessandro Nava, sono:

De Saracenorum in Sicilia irruptione.

Del Capitolo della Chiesa Metropolitana di Reggio.

Cronica delle cose memorabili di Reggio.

Lezioni popolari su cose d’agricoltura.

Dissertazione fisico-istorica sulle cagioni e sugli effetti del tremuoto.

Appendice istorica delle varie ruine da tempo in tempo cagionate in Reggio dal tremuoto.

Sconvolgimenti seguiti in tutta la Calabria Ultra pe’ tremuoti del 1783.

Posizione ed istoria de’ bagni d’Alì.

Descrizione storico-economico-politica dell’isola della Favignana.

— «Antistitum Rheginae Ecclesiae, quotquot ab ejus fundatione ad haec usque tempora innotescunt, Syllabus».

Morì in Reggio nel 1817. La sua vita, scritta da suo nipote A[p. 231 modifica]lessandro Nava, si legge nella Biografia degli Uomini illustri del Regno di Napoli.

Gesualdo Melacrinò. Dell’ordine de’ Cappuccini. Fu prodigio di sapere, ed uomo di santi ed immacolati costumi. Nacque a’ 18 ottobre del 1725. Prese l’abito di Cappuccino nel 1740. Fu eletto nel 1777 Diffinitore provinciale. Re Ferdinando l’invitò ad accettare il Vescovado di Martorano, ma l’umil frate si rifiutò fermamente a tal dignità. Operosissima fu la sua vita, consumata in benefizio della religione e de’ suoi prossimi. Moltissime opere egli scrisse, che si conservano autografe nel Convento della Consolazione; delle quali molte meriterebbero l’onor della stampa, e sarebbero assai fruttuose alla studiosa gioventù che ami educarsi alla sana morale cattolica.

Io mi contenterò di riferirne qui il catalogo, quale il leggo nell’Elogio funebre del Padre Gesualdo pubblicato in Napoli nel 1851 dalla tipografia dell’Ariosto, a cura de’ nostri Cappuccini, che il corredarono di varie appendici e notizie relative alla vita di lui.

1. Istituzione di Filosofia, Vol. due in foglio.

2. Corso di matematica, Vol. uno in quarto.

3. Grammatica ebraica, Vol. uno in foglio.

4. Corso Teologico, Vol. cinque in quarto.

5. Storia sull’origine de’ Cappuccini in Calabria, Vol. uno in quarto.

6. Memorie concernenti questa provincia de’ Cappuccini di Reggio, Vol. 1 in 4.°

7. Manuale de’ Frati Minori, o sia gli obblighi del proprio stato, ed il modo di facilmente adempirli, Vol. uno in 4.°

8. Opuscolo concernente i Frati Minori, In 4.

9. Trattato sulle proviste lecite a’ Frati Minori Cappuccini, Vol. uno in 4.°

10. Lettere concernenti la povertà religiosa ed i Conventi di ritiro, Vol. uno in 4.°

11. Istruzioni su’ Conventi di ritiro, Vol. uno in 4.

12. Trattato delle virtù, Vol. uno in 4.°

13. Opuscoli Regolari e Morali, Vol. quattro in 4.

14. Sul disinganno de’ Grandi, Opuscolo.

15. Trattato della Ecclesiastica Potestà, Vol. uno in 4.

16. Memorie Ecclesiastiche, Vol. uno in 4.

17. Il Centone diviso in tre Censure:

Censura I suddivisa in 48 tesi di Antropologia.
II suddivisa in 9 paradossi di Febronio.
III suddivisa in dodici imposture de’ Masonisti.
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                IV suddivisa in 57 novità del Vescovo di Pistoja, con appendici alle tre Censure, e con riflessioni su certe autorità del Duguet concernenti la potestà pontificia, ed altre riflessioni sulla dichiarazione del Clero Gallicano contro l’infallibilità pontificia.

Altre opere manoscritte, che più non si trovano nella libreria del Convento sono:

Grammatica Greca.

Cronica di Reggio.

Storia de’ Concilii. Incompiuta.

Morì il Padre Gesualdo addì 27 gennajo del 1803. La sua morte fu pubblico lutto, e le esequiali cerimonie, a cui accorse ogni ordine di cittadini con religiosa mestizia, fecero testimonianza della pubblica riverenza per un uomo così insigne di virtù civili e religiose, e d’un esemplarità, che non dirò rara ma unica in tempi corrottissimi e calamitosi. Il funebre Elogio fu detto dal nostro egregio Girolamo Arcovito nella Chiesa Parrocchiale di S. Filippo e Giacomo. Giacciono le sue venerate ceneri nella Chiesa della Consolazione a pie’ dell’altare maggiore, ove leggesi un’iscrizione che ricorda a’ superstiti le preclare e desiderabili virtù del santo uomo.

Una succinta, ma esalta biografia (con ritratto) del Padre Gesualdo leggesi nelle Vite degl’illustri Cappuccini, impresse recentemente in Roma in tre eleganti volumi in ottavo.

  1. In dextera Calciaeci parte Iovis ex aere signum factum est, omnium quae ex eadem sunt materia vetustissimum; neque enim una et eadem fuit universi operis fabricatio, sed particulatim membra excusa, inter se deinde sunt apte clavis confixa, atque ita ne dissolvi possit coagmentata. Fecisse ajunt Learcum hominem Rheginum, quem Dipaeni et Scyllidis nonnulli, alii ipsius Daedali discipulum dicunt fuisse.

    (Pausania)