Sui monti, nel cielo e nel mare/La battaglia fra le nevi/L'attacco austriaco al Pal Piccolo

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L’attacco austriaco al Pal Piccolo

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L’ATTACCO AUSTRIACO AL PAL PICCOLO.

29 marzo.

Nella notte oscurissima si svegliò un fuoco di fucileria serrato, intenso, scrosciante.

Tra le vette rocciose, benché ovattate da inverosimili spessori di neve ad ogni scabrosità, striate di gelo, incrostate di verglas, cariche di soffici candori, i colpi di fucile hanno una risonanza strana, profonda, prolungata da echi infiniti, strisciante, che pare si sgrani come se ogni fucilata crepitasse con un rumore di tronco che si schianta. Le esplosioni hanno sulla montagna una continuità prodigiosa. Dallo Zellonkofel al pizzo di Timau ha rintronato il frastuono metallico e lacerante di una scaramuccia. Le vedette hanno passato la voce ai corpi di guardia: Si combatte al Pal Piccolo. Erano le due e mezza del mattino del 26 marzo.

Spesso avviene alla notte che il tiro intermittente delle sentinelle austriache, per un allarme, per la illusione di un movimento sulle nevi, per lo strisciare di qualche piccola valanga sui declivi, si stringa in scariche concitate, alle quali si unisce lo strepito regolare, sonoro e martellante della mitragliatrice. Per [p. 122 modifica] qualche tempo si è creduto che anche allora si trattasse di uno di questi sussulti della vigilanza nemica. Ma il fuoco continuava.

Poi tutte le cime nevose sono apparse vividamente illuminate dallo splendore azzurro dei razzi austriaci. Il solenne panorama dei picchi, dei canaloni, delle vallette, immenso, vario, fantastico, pieno di violenza in alto, dove le rocce nere irrompono, e di mollezze nei ripieghi e nei dorsi colmi di neve e ammorbiditi, palpitava, acceso e come fosforescente, netto e preciso sullo sfondo tenebroso del cielo, a quella luce fantastica che pareva il bagliore meteorico di prodigiose stelle filanti. Su tutti i fili telefonici sepolti nelle nevi le informazioni correvano.

La prima notizia, mandata dai ricoveri Cantore, situati alle spalle delle posizioni di Pal Piccolo, diceva: «È un piccolo attacco alla quota 1859, niente di grave». Ma poco dopo, dal baraccamento detto Castello Rosso, eretto sul rovescio della Quota stessa, il capitano che comandava la difesa in quel punto chiedeva rinforzi. Con un colpo di sorpresa il nemico si era insediato sul «trincerone» della vetta.

— «Contrattaccate subito!» — ordinava dalla sua baracca il tenente colonnello comandante il settore, un bel tipo di alpino dalla faccia rasa da marinaio.

— «Ho tentato — rispondeva il capitano, un valoroso decorato con la medaglia di [p. 123 modifica] argento per la conquista del Freikofel. — Ma ho già una quarantina di uomini fuori combattimento. Reggerò fino al vostro arrivo!»

Subito dopo il telefono si interruppe.

Non era più possibile sapere nulla di quella compagnia avanzata e bloccata. Il suo isolamento, la sua estrema vicinanza alla posizione presa dal nemico, il suo silenzio che nessun messaggio di staffette interrompeva, lasciavano penetrare in tutti a poco a poco l’angosciosa persuasione che essa fosse prigioniera.

Cominciarono nei camminamenti di neve, prima ancora dell’alba, i movimenti delle piccole riserve. La scaramuccia si stava trasformando in battaglia, nella più grande e bella battaglia che si sia mai combattuta fra i glaciali orrori dell’alta montagna, sul bordo di precipizii, in trincee di neve, in mezzo alle immense onde maestose di una tempesta di pietra e di gelo.

È stata una battaglia superba, lenta, lunga, terribile, piena di tragiche vicende, agitata da critiche alternative, sanguinosa, sfolgorante di eroismo, vinta in virtù di sforzi sovrumani, di volontà ardenti, di entusiasmi magnifici, una battaglia che ha sventato il più formidabile piano di attacco del nemico contro quella porta d’Italia.

Non si è trattato semplicemente della lotta per il possesso di una trincea. Il nemico sulla vetta del Pal Piccolo voleva dire il nemico padrone in breve del Passo di Monte Croce. [p. 124 modifica] Tutta la linea della nostra difesa era in pericolo. Gli austriaci si sarebbero potuti affacciare alla valle del Bût, che è il vestibolo della valle del Tagliamento.

Nei suoi preparativi di guerra contro di noi, i preparativi del tradimento fatti nell’epoca della pace e dell’alleanza, non aveva trascurato quella via di invasione. Mauthen, sul Gail, era trasformato in un gran centro militare, con caserme, magazzini, panifici, ospedali, e una rete di nuove strade lo allacciava a tutte le posizioni dominanti il Passo di Monte Croce. La nostra linea di difesa era al di qua della frontiera, lungo la dorsale del Tierz e del Crostis. Fu in virtù di azioni audaci, le quali hanno del favoloso, che noi riuscimmo a scalare le pareti del Freikofel, a occupare il Pal Grande e il Pal Piccolo, a scacciare gli austriaci dal loro stesso baluardo facendolo nostro.

Tutte quelle vette furono prese, perdute, riconquistate, riperdute, riespugnate, fino all’insediamento definitivo. Gli austriaci non si rassegnarono subito. Ricordate i bollettini ufficiali del luglio? Tutte le notti erano attacchi al Pal Grande, al Freikofel, al Pal Piccolo, allo Zellonkofel, all’una o all’altra di queste bizzarre cime allineate, che hanno declivi accessibili verso il nemico e pareti dirupate e immani dalla parte italiana.

Non era soltanto la paralisi di tutta la preparazione strategica di una offensiva che [p. 125 modifica] esasperava il nemico, ma era anche il carattere della sua sconfitta, umiliante, subita su posizioni inaccessibili, avendo sopra di noi una superiorità di forze e di mezzi. I comandi austriaci erano furiosi e reiteravano l’ordine di riprendere ad ogni costo quei torrioni rocciosi, che pochi alpini avevano conquistato scalando e baionettando. La nostra occupazione era chiamata nelle proclamazioni austriache alle truppe «un'onta da lavare». Gli alpini sono così odiati dal nemico, che, secondo le deposizioni dei prigionieri, vi è l’ordine di non dar loro quartiere.

Nel disperato tentativo attuale degli austriaci di prendere l’offensiva su tutta la nostra fronte, non è stato dimenticato il Passo di Monte Croce. L’attività del nemico non ha preso l’aspetto di un attacco generale. Per ottenere facili resultati, sia pure superficiali, esso ha organizzato l’azione isolata contro i punti che apparivano i più deboli della linea nostra. Nel primo periodo della guerra l’impulso offensivo ci ha trascinati su certe posizioni che non avremmo mai scelto per la difesa, posizioni di transito nelle quali abbiamo dovuto far sosta e che apparentemente male si prestano ad una sicura resistenza. Perciò l’attacco austriaco ha puntato su Oslavia, poi sul Rombon, poi sul Grafenberg. Nel programma nemico, miseramente fallito all’attuazione, vi era la riconquista della testata del Bût. [p. 126 modifica]

Delle truppe nuove erano state concentrate a Mauthen. Fra queste, per sostenere la parte più dura dell’azione, erano delle unità composte di uomini della regione: battaglioni di cacciatori carinziani. Al loro arrivo sui luoghi era stato distribuito a questi montanari un proclama del generale Rohr, comandante la zona. È stato trovato sui morti, insanguinato, il volgare documento austriaco, stampato come una canzonetta, illustrato da una veduta dei monti della Carinzia sormontati da un’enorme aquila in volo, dalle ali tese. Esso dice:

«Contemporaneamente ai vostri compatrioti «del reggimento Rhevenhüller voi giungete nella vostra amatissima Carinzia. Dopo centinaia di battaglie, di attacchi e di combattimenti, nei lontani e nei prossimi confini, voi vi siete mostrati valorosi al cospetto dell’intero esercito. Il vostro comandante vi richiama ma non ancora per i lavori della pace. Voi dovete ancora ricacciare il vostro nemico acerrimo, il traditore e spregevole italiano. Sui confini della Carinzia i vostri camerati di tutti i distretti dell’Austria-Ungheria lo hanno finora tenuto a bada. Anche adesso egli non deve forzare i vostri monti. Nessun piede italiano deve mai calcare il suolo della Carinzia. Come è suonata l’ora dei russi, dei serbi, dei montenegrini, così verrà l’ora in cui gli italiani morderanno la polvere dinanzi agli stendardi degli Absburgo». [p. 127 modifica]

Ma gli spregevoli italiani sono giudicati dai soldati austriaci in modo ben diverso che dal loro generale. «Gl’italiani si battono come demoni» — dice una lettera trovata sopra un cadavere austriaco, e un’altra dice: «Gl’italiani sono i nemici più terribili contro i quali combattiamo.» Il proclama del generale Rohr, col suo ignobile linguaggio, dimostra che, senza preoccuparsi troppo della lealtà dei mezzi, anche la preparazione, diciamo così, morale dell’azione era curata.

Numerose batterie nuove erano state messe in posizione fra il Polenick e il Köderhohe, sui rovesci delle creste. L’attacco aveva per obiettivo la vetta del Pal Piccolo perchè essa domina, a tiro di fucile, tutti gli approcci del Freikofel. Chi tiene quella tiene il resto. L’azione austriaca è stata organizzata con una perfezione che la rendeva quasi sicura. La sorpresa non poteva fallire. Il nemico aveva trovato il modo di arrivare invisibile quasi nella nostra trincea.

Il massiccio del Pal Piccolo, irregolare, tormentato, dirupato, si culmina in un caos di scogliere, di burroncelli, di valloni, di spaccature, di costoni. Non è una montagna con una cima, è una specie di immensa terrazza tutta a gradini, a cucuzzoli, varia e sorprendente. Nel centro è come una conca, intorno ai cui bordi precipitosi le posizioni nostre, al sud, e quelle nemiche, al nord, si aggrampano. [p. 128 modifica] Girando intorno alla conca, a levante, le posizioni avversarie si avvicinano fra loro e si elevano bruscamente: su questo lato sono le vette più alte, a picco sulla valle dell’Anger.

Nel punto di massima altitudine la montagna si culmina in due dirupati crestoni paralleli. Uno è nostro, l’altro è austriaco. Le trincee nemiche sono lontane meno di un centinaio di metri, ma le separa dalle nostre un valloncello scosceso che la neve ha colmato. Qui è avvenuto l’attacco.

È caduta tanta neve che i veri trinceramenti ne sono sepolti e si sta dei metri più in alto, come in un secondo piano cristallino ed effimero, trincerati dietro parapetti candidi. Gli avvallamenti orridi, nei quali la tormenta ha accumulato masse fantastiche di neve, non hanno più che dei declivi lisci, bianchi, immacolati, con una apparenza leggera, vaporosa, quasi fluida, come quei paesaggi di nubi sui quali stanno eretti i santi delle pitture. Anche i ricoveri sono sepolti, e da essi si accede alle trincee per camminamenti profondi che solcano l’ermellino della superfice, per scalette tagliate nel ghiaccio, per gallerie fantastiche, scavate nello spessore delle nevi, piene di ombra azzurra e di riflessi glauchi.

La neve non si è solidificata; è troppo molle e farinosa per permettere dei facili movimenti; vi si affonda anche con le racchette e con gli sky. Se gli austriaci avessero tentato un [p. 129 modifica] assalto, sia pure di sorpresa, non sarebbero mai riusciti. Se fossero venuti adagio adagio, coperti di camici bianchi, sarebbero stati visti al biancore incontaminato della gran coltre gelata, che anche nelle notti più oscure vince le tenebre e pare imbevuta di un riflesso di luna. Le nostre vedette vigilavano, e non hanno scorto nulla. Niente si è mosso sulla neve, avanti a loro. E il nemico era arrivato, le toccava già.

Era passato sotto.

Dalla sua trincea, lavorando per giorni e giorni, aveva aperto delle gallerie nel ghiaccio, si era scavato dei cunicoli di approccio. Un intenso bombardamento di tutte le nostre posizioni, durato tre giorni, dal 19 a mattina alla sera del 21, oltre allo scopo di stancarci e di sconvolgere le nostre opere, aveva avuto probabilmente anche quello di non permetterci di sentire lo stridore dello scavo nello strato di neve.

Le gallerie austriache, passate sotto ai nostri «cavalli di Frisia» erano arrivate a ridosso del parapetto, e affioravano la superfice. Le prime pattuglie di attacco, vestite di bianco, sono sbucate improvvisamente dal suolo, come per magia, e hanno sopraffatto le nostre vedette.

Una breve lotta a corpo a corpo, dei gridi di allarme, pochi colpi di fucile, e la trincea era presa. Ammassati nelle gallerie gli austriaci venivano su a decine. Erano plotoni di volontari di Carinzia. [p. 130 modifica]

Una compagnia di cacciatori li ha appoggiati salendo a rincalzo. Abbandonando le gallerie ormai inutili, il nemico tracciava subito dopo dei camminamenti all’aperto. Un battaglione ungherese avanza a ridosso della trincea. L’occupazione nemica si allargava, si fortificava. Faceva della vetta un baluardo formidabile, quasi inaccessibile.

Vedremo come lo abbiamo riconquistato.