Sui monti, nel cielo e nel mare/La battaglia fra le nevi/L'assalto

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L’assalto

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La battaglia fra le nevi La battaglia fra le nevi - L'attacco austriaco al Pal Piccolo
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L’ASSALTO.

29 marzo.

Abbiamo visto come gli austriaci, scavate delle gallerie nella neve, sono riusciti nella notte ad arrivare di sorpresa alla trincea nostra sulla cresta più alta del Pal Piccolo.

Le vedette italiane sono state massacrate barbaramente. Quattro alpini soltanto erano rimasti nelle mani del nemico, che non ha dato quartiere. Esso ha prima legato i prigionieri ai polsi con del filo di ferro, poi li ha trucidati a colpi di calcio di fucile sulla testa. Si vede che, avvinti e atterriti, gli mettevano ancora paura.

Padroni della posizione, gli austriaci hanno occupato subito anche le nostre gallerie di accesso. Dal ricovero nostro aggrampato al rovescio della cresta, sepolto nella neve, si saliva alla trincea per brevi camminamenti scoscesi, in alcuni punti tagliati a gradinata, poi per delle scalette a piuoli di legno che davano accesso a due cunicoli scavati nella neve, i quali sboccavano nel trincerone. Il nemico è entrato nei cunicoli, è arrivato al loro ingresso verso il ricovero, ha rovesciato e battuto giù le scale [p. 108 modifica] di legno, ed ha barricato l’apertura con sacchi pieni di detriti di roccia. Da queste specie di grotte di gelo, alte, esso fucilava gli approcci.


La compagnia alpina che aveva la difesa della cresta ha cercato inutilmente di salire per i camminamenti spazzati dal piombo. Uscita fuori dai passaggi per spiegarsi e tentare l’assalto, si è trovata ingolfata nella neve alta sotto raffiche di mitragliatrici. Ha fatto allora del rifugio, detto il Castello Rosso, quasi scomparso sotto la neve, il suo fortilizio. Lo ha tenuto come posizione avanzata, aspettando aiuti. Si è costruito dei baluardi di neve attraverso il labirinto dei passaggi per barrare la strada ad ogni ulteriore avanzata nemica. Tutto questo nelle tenebre, diradate appena dal chiarore sidereo dei ghiacci, e di tanto in tanto dissipate vivamente dal bagliore dei razzi al quale anche i monti lontani, dello Zellonkofel a Timau, parevano destarsi e sorgere, bianchi, diafani, spettrali.

La grandine della mitraglia isolava la compagnia. Interrotte le comunicazioni telefoniche, il capitano ha mandato fuori delle staffette. Nessuna è arrivata.

Il nemico lavorava, vociava, urlava e cantava. Si capiva che ogni nuovo reparto che arrivava sulla posizione presa, lanciava il suo urrah e intonava il suo inno. Mai gli austriaci [p. 109 modifica] avevano mostrato tanta esultanza. Gridavano in italiano ai nostri: «Andate via! Da qui non ci sloggiate più! Quassù non ci tornerete mai! Oggi Pal Piccolo, domani Pal Grande!».

Fino dalla sera prima si era manifestato clamorosamente questo entusiasmo. Verso le nove, tutte le trincee austriache, in certi punti lontane appena venti metri da quelle italiane, si erano fatte rumorose. Per solito nelle nostre si ride, si parla, si canta; nelle loro il silenzio è assoluto, profondo, sinistro; nulla può dare l’espressione truce di quelle fosse piene di uomini che non hanno voce, che non danno segno di vita. Urrah e canti erano scoppiati improvvisamente su tutte le posizioni nemiche. Noi, meravigliati, avevamo creduto a qualche festività, e non avevamo dato importanza al gridìo, che salutava forse la lettura di un proclama.

La gioia austriaca nasceva dalla certezza. Il nemico credeva giunta l'ora della rivincita. Bisogna riconoscere che il piano di attacco era così ben preparato da giustificare la sicurezza del successo.

Appena presa, la posizione era trasformata. Vi era affluito un materiale enorme di difesa: sacchi a terra, scudi di acciaio, quattro mitragliatrici, granate a mano, masse di munizioni. Tutto era pronto, studiato, calcolato.

«Bisogna agire subito! — ordinava il comando della zona. — Ogni ora che passa ci [p. 110 modifica] costa centinaia di uomini di più, per il contrattacco più duro!» Mancata l’azione immediata della compagnia alpina, ora bloccata al Castello Rosso, e che poco dopo si è supposta da tutti perduta, una compagnia di bersaglieri, che era in riserva ai ricoveri Cantore — dei baraccamenti che sembrano incastrati fra le rocce e le nevi al rovescio del Pal Piccolo — ha avuto l’ordine di tentare un’avanzata sulla sinistra.


I bersaglieri hanno cominciato ad aprire dei nuovi camminamenti nella neve profonda; ma, appena girato il massiccio che protegge i ricoveri, sboccati in un valloncello ascendendo verso le posizioni, sono entrati nella raffica delle mitragliatrici e centinaia di fucili spazzavano tutta la regione, chiudevano ogni sbocco, ogni approccio, con una grandine sibilante di proiettili.

Bisogna raffigurarsi il terreno di alta montagna. Le distanze sono brevi ed i percorsi sono lunghi. Un punto lontano duecento metri non si raggiunge che scendendo in infiniti zig-zag giù per scogliere precipitose e risalendo poi faticosamente declivi scoscesi. L’inaccessibile crea passaggi obbligati. La neve soffice trattiene, ferma sotto al fuoco, fa degli uomini dei bersagli neri sul bianco. Il campo di battaglia è piccolo e la manovra è immensa. Si combatte a corta distanza, e i movimenti si sviluppano per cammini senza fine. Pare quasi [p. 111 modifica] che la montagna entri nella lotta, che faccia la sua guerra; oppone ad ogni passo le sue barriere, baluardi giganti che hanno l’abisso per fossato, e bisogna vincere lei prima di vincere il nemico. La battaglia del Pal Piccolo ha avuto uno sviluppo lento, grandioso e terribile di vasta azione, per giorni e per notti, ed era tutta contenuta fra le orride scabrosità di una cima spesso immersa nelle nubi. Nessuna vetta ha mai sollevato verso il cielo sui suoi dorsi glaciali tanta moltitudine, tanta vita e tanta morte.

In qualche minuto il fuoco nemico ha abbattuto il comandante della compagnia dei bersaglieri, il quale ascendeva in testa della truppa, obbligata a procedere in fila indiana, ha abbattuto due tenenti e alcuni soldati. Impossibile avanzare più oltre. La compagnia ha appoggiato a sinistra, cercando riparo a ridosso di trinceramenti coronanti un costone, e si è fermata. Era l’alba.

Nella supposizione dolorosa che i difensori della cresta perduta fossero prigionieri, e che la linea fosse sfondata, si sono cominciati febbrilmente i lavori per fortificare una seconda linea di appoggio. Sopra un massiccio, un formicaio di bersaglieri si è messo all’opera, scavando trinceramenti nella neve. Dietro questa seconda linea si concentrarono nuove truppe. Il nemico lo intuiva, e ha cominciato un tiro a shrapnell. Ma è durato poco. Forse i [p. 112 modifica] cannoni austriaci non avevano più munizioni. Nel bombardamento del 19, del 20 e del 21 avevano lanciato sulle nostre posizioni non meno di 18 000 proiettili.

La nebbia anche rendeva difficile il tiro. Era scesa una bruma gelata che ricopriva i cappotti di brina. Poco dopo un nevischio rado e duro è cominciato a cadere, mulinato dal vento. La nostra artiglieria, chiamata al soccorso per demolire le difese già accumulate dal nemico, non è potuta intervenire, l’osservazione era impossibile.

Adunate delle forze, durante la mattinata si è tentato più e più volte di avanzare arditamente verso la vetta. I fuochi incrociati delle mitragliatrici sollevavano intorno agli uomini spruzzi di ghiaccio, uno spolverio bianco e turbinante. Si sprofondava nella neve fino all’anca, talvolta fino alle spalle, e dei soldati scomparivano quasi, come assorbiti dall’ostile candore. I feriti si sentivano andar giù, come seppellire in fosse glaciali, e le pattuglie dovevano darsi la mano in opere di salvataggio, chiamate dalle voci di aiuto.

I comandi superiori della zona e del settore si erano portati audacemente fra le truppe nella primissima linea. L’operazione richiedeva uno sviluppo sempre più vasto a mano a mano che il tempo passava. Gli austriaci non ristavano dal rafforzare la cresta, sulla quale si vedevano sorgere nuovi parapetti, nuove [p. 113 modifica] scudature, attraverso il velo azzurrastro del fumo e fra le vampe delle mitragliatrici.


A questo punto un nuovo piano di azione è stato dettato dal comando. Era l’una del pomeriggio. La fronte di attacco aveva reparti alpini al centro, della fanteria a destra, dei bersaglieri a sinistra. Per rendere più sicura l’avvicinata si è pensato di scavare delle gallerie nella neve.

Ma allo scavo di ogni tunnel non potevano lavorare più di tre uomini alla volta. Il lavoro progrediva troppo lentamente. Dopo due ore si è constatato che l’intera perforazione dei cunicoli avrebbe richiesto giorni e giorni. E bisognava attaccare subito, bisognava vincere presto, ad ogni costo, o tutte le posizioni potevano divenire intenibili. Era necessario quindi rinunziare alle gallerie e passare sopra alle nevi profonde e molli, nel diluvio del fuoco. Si sono raccolte tutte le racchette disponibili.

Non bastavano per fornire ogni soldato, ma erano sufficienti per i plotoni che avrebbero aperto il passo. Le truppe di attacco avrebbero profittato delle larghe orme ovali lasciate dalle racchette dei pionieri. Poco prima di iniziare la manovra, un alpino della compagnia bloccata al Castello Rosso è sbucato fuori, non si sa dove. Portava notizie.

Era in cammino dal mattino; si era dovuto [p. 114 modifica] aprire nella neve, con le mani, anguste e brevi gallerie, nelle quali aveva strisciato carponi, per attraversare non visto i punti più battuti, e arrivava sorridente, rosso e ansimante. Dieci minuti dopo una comunicazione era fatta alle truppe: «La compagnia è salva. Essa si difende eroicamente. Al prezzo di qualunque sacrificio dobbiamo portare soccorso ai nostri fratelli che combattono isolati e che ci aspettano per vincere insieme.»

Un evviva formidabile ha echeggiato fra le balze. Subito dopo un altro messaggio è stato comunicato ai soldati: «Il nemico, attaccato al Passo del Cavallo fra il Freikofel e il Pal Grande, è stato sloggiato dalla prima e dalla seconda linea, ha subìto gravissime perdite ed ha lasciato nelle nostre mani numerosi prigionieri». L’acclamazione ha ripreso. E quando si è ordinato l’avanti, le truppe hanno mostrato lo slancio di una volontà decisa, l’ardore di un superbo entusiasmo.

Avanzavano come in manovra. Per disorientare il tiro nemico facevano piccoli balzi a gruppetti di tre uomini. Un gruppo era appena visto che era sparito, e altri più lontano sorgevano per un istante. Il fuoco austriaco non sapeva come dirigersi, e imperversava cieco, ora qua, ora là; si concentrava con furore sollevando sulla linea di avanzata nubi di nevischio, come un getto di pompa. Nell’aria era tutto un sibilo lacerante, tutto uno scroscio, [p. 115 modifica] tutto un rombo senza fine formato dagli echi. E sulle candide distese delle nevi gli uomini minuscoli e neri sorgevano, sparivano, risorgevano, a tre alla volta, sempre più lontani, sostando più a lungo nei luoghi riparati, affondandosi in trincee frettolosamente scavate con pochi colpi di badile, vociando, chiamandosi, dandosi la mano o porgendosi il bastone nei passi difficili.

I passi difficili erano molti. Sui declivi più ripidi si vedevano dei soldati rotolar giù annaspando, mezzo sepolti nella neve, come nuotatori fra delle spume bianche. Arrivavano così precipitosamente in fondo ai valloncelli, trascinando con loro piccole valanghe, e dopo un istante di sbalordimento ripigliavano la salita nel solco lasciato dalla loro caduta.

Non erano gravi le perdite ancora. Densi nembi di nebbia passavano sospinti dal vento. Le nubi venivano a lacerarsi sulle vette, e a tratti una caligine plumbea copriva l’attacco. Inoltre, delle mitragliatrici ben piazzate su dei cucuzzoli alla sinistra della cresta, battevano d’infilata il trincerone e si udiva il grandinare metallico delle pallottole sugli scudi austriaci.

Ad un certo momento un cannone ha cominciato a folgorare da vicino, dalle rocce di sinistra anche lui. I soldati lo hanno riconosciuto alla voce e lo hanno salutato per nome: «Bravo Carlino! Viva Carlino!» Due cannoncini di [p. 116 modifica] bronzo da montagna, che vivono con le fanterie sul Pal Piccolo, accucciati nelle trincee come cani da guardia e dalle quali abbaiano di tanto in tanto al nemico, sono stati battezzati dalle truppe uno Carlino e l’altro Vico, non si sa perchè. Forse perchè alla guerra tutto vive, tutto ha un’anima, tutto è amico o avversario, e anche le rocce che non hanno mai avuto un nome, i pianori, i macigni, a seconda che difendono o che minacciano, acquistano una personalità favolosa agli occhi dei soldati, che riassumono in una parola la loro simpatia o il loro rancore. Bravo Carlino! E Carlino giù shrapnells sulla trincea austriaca.


Alle sette e mezzo di sera l’attacco era arrivato sotto al Castello Rosso. Qui il terreno protegge, forma un angolo morto. L’avanzata ha avuto una lunga sosta. Nell’ultimo tratto le perdite erano andate aumentando. Si erano dovute attraversare lentamente zone battute da fuochi di interdizione, percosse da un tiro serrato, furibondo, fisso, che creava barriere di morte. Chi passava vicino ad un ferito lasciava piantato a terra il suo alpenstock perchè rimanesse un segnale sulla neve, e andava avanti.

Un grido di esultanza ha salutato l’incontro con la compagnia che era bloccata. I comandanti si sono abbracciati e baciati. Il ricovero era pieno di feriti. Si udivano le voci degli austriaci gridare con scherno: «Venite su, [p. 117 modifica] taliani!» La trincea loro non era più lontana che un centinaio di metri, ma in alto, dominante, come la muraglia di un castello. Per raggiungerla bisognava inerpicarsi sopra una costa scabrosa e scoscesa, coperta di neve, rasa dalla mitraglia. Un primo tentativo era fallito subito. Si aspettò la notte.

Alle nove salì sfavillante sul Castello Rosso il razzo di segnale convenuto. Il comando si era insediato lì. Da tutte le parti l’assalto cominciò. Ma il cielo avvampò di razzi illuminanti, un proiettore si accese sulla posizione austriaca, e tutta la zona apparve immersa in un palpitante e favoloso splendore. Le mitragliatrici austriache non avevano sosta. Sul terreno scoperto volgevano il loro getto contro qualunque cosa si muovesse. Era una scena infernale in quella luce di prodigio.

La fanteria, con qualche plotone alpino, ad onta delle perdite potè avanzare un po’ a destra, favorita dal terreno, lungo il costone che strapiomba sul torrente Anger. Ma l’assalto frontale era fermato. Fermato, non rovesciato. I nostri tenevano il terreno guadagnato. Stavano là, aggrampati, accoccolati, incastrati nelle anfrattuosità, annidati nella neve, come facendo corpo con le rocce, tenendosi in qualche punto per le mani in catena per potersi reggere, decisi a non arretrare, a non cedere, insensibili al freddo, immobili, attenti, silenziosi, e il raggio del proiettore passando sfiorava le [p. 118 modifica] loro teste illuminando a istanti i caschi di acciaio calzati sul passamontagna.

Alle undici l’assalto ha ripreso. Ad un altro razzo di segnale il formicaio umano ha ricominciato ad ascendere. Lasciava sangue sulla neve, si assottigliava, ma andava avanti, andava su. In certi punti è arrivato a sei o sette metri. La necessità di avanzare per passi determinati, la ristrettezza dei varchi accessibili, facilitava terribilmente il còmpito alla formidabile difesa, impediva a noi ogni collegamento, spezzava la linea di attacco.

Sui più vicini è cominciato il lancio delle granate a mano. Fra le esplosioni, nel fumo denso, i superstiti lavoravano penosamente a rafforzarsi, a crearsi ripari. La situazione era critica. Ancora una volta l’assalto era fermato. Impossibile fare un passo di più. Le perdite fra gli ufficiali avevano lasciato la truppa quasi senza comando. I soldati resistevano per la loro fiera volontà, ma non si sapeva più come guidarli.


Gli austriaci hanno supposto l’assalto definitivamente rotto, hanno creduto spento il nostro spirito offensivo, depresso il nostro morale e sono scesi al contrattacco. Verso mezzanotte, passando fra i nostri nuclei, infiltrandosi chi sa come per quel caos di nevi e di macigni, hanno spinto dei piccoli reparti alle spalle della linea di attacco, e poco dopo un grido [p. 119 modifica] si è levato dal ricovero del Castello Rosso: «Attenti! il nemico è sul tetto!».

Una pattuglia austriaca in ricognizione, senza accorgersene, marciando con le racchette sulla enorme coltre di neve, era arrivata sul tetto del baraccamento. Si è svolta confusamente una scaramuccia bizzarra fra alcuni soldati nostri, affacciatisi per i camminamenti al bordo delle grondaie, e gli austriaci sopra al tetto, mentre i feriti più leggeri, che avevano sentito scricchiolare il soffitto del rifugio sotto al calpestìo pesante dei nemici, uscivano fuori armati gridando: «Addosso! Addosso!» Pochi colpi di fucile a bruciapelo, e gli austriaci sgombravano la singolare posizione lasciandovi qualche cadavere.

Ma la grande azione pareva, in quell’ora angosciosa, senza speranza. Per due notti ed un giorno le nostre truppe si erano battute nell’orrore artico delle vette, e si trovavano arrestate dall’impossibile, inchiodate sotto ad un declivio di ghiaccio, imbucate nel ghiaccio, dominate, decimate, in formazioni sconvolte dalle perdite. Avevano però la forza di una decisione sublime.

E le aspettava il trionfo in condizioni che hanno del meraviglioso. Le aspettava un’ora di esultanza così grande, che coloro che sono morti nel momento della vittoria hanno conservato sul volto di cera una espressione ineffabile di gioia grave. Portano nella tomba un [p. 120 modifica] sorriso misterioso e solenne, pieno di non so quale raccoglimento, strano sorriso di cadavere che pare saluti perennemente la estrema visione gloriosa, rimasta forse in fondo agli occhi opachi che guardano lontano, lontano.