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Oh, l’organizzazione!

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Lettere dal mare - La sorpresa
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OH, L’ORGANIZZAZIONE!

Giugno.

È una vecchia storia. Vecchia di vari mesi. Risale all’epoca in cui i siluramenti di navi alleate nel Mediterraneo cominciarono a divenire di una frequenza sgradevole.

Dei sottomarini nemici, non molto numerosi ma di bandiera variabile, a volta a volta tedeschi o austriaci a seconda della nazionalità della vittima, infestavano il Tirreno meridionale, lo Jonio, l’Egeo, senza contar naturalmente l’Adriatico, e fu facile persuadersi che la loro attività era facilitata da una esemplare organizzazione di rifornimenti neutrali. Oh, l’organizzazione!

Fatte le debite indagini, si ebbero informazioni precise. Agenti nemici si erano stabiliti in certi porti greci, disimpegnando con zelo funzioni misteriose e varie. Confabulavano segretamente con armatori e capitani mercantili, mandavano e ricevevano fasci di telegrammi, e prendevano il caffè con le autorità del paese in virtù di quei cordiali rapporti che non mancano mai fra gente che si conosce e si stima. [p. 338 modifica]

Spesso gli agenti lasciavano la riva di notte, su agili motoscafi, forse per dare un riposo sentimentale alla loro alacrità. Uno di loro faceva anche delle gite di piacere sopra un piccolo yacht, con dame a bordo, e andava per acque solitarie, fornito di champagne genuino e di documenti falsi, per provare e la sincera innocenza dei suoi viaggi e la neutralità egualmente sincera della sua persona.

Si scoprì una relazione singolare e strettissima fra le occupazioni di questi personaggi e il rifornimento in alto mare dei sommergibili dalla bandiera variabile, operato da navi la cui bandiera non variava mai: la greca. Sarebbe stato molto utile per gli Alleati penetrare più addentro il segreto di una così perfetta organizzazione. Oh, l'organizzazione!

Un ufficiale appartenente ad una marina prodigiosamente desiderosa di istruirsi in materia si propose di scoprire il sistema scientifico della nutrizione dei sottomarini lontani dalle loro basi. Chiese ed ottenne una licenza, trovò una vecchia carcassa a vapore, vi fece fare dei lavori da un equipaggio che egli aveva arruolato, e, un bel giorno, lui, equipaggio e carcassa scomparvero insieme in alto mare.

Se un visitatore fosse salito a bordo di quella nave bizzarra, che salpava all'insaputa di ogni autorità costituita come una nave contrabbandiera, sarebbe passato di sorpresa in sorpresa. [p. 339 modifica]

L’equipaggio, vestito di stracci, sudicio, lercio, sinistro, parlava correntemente la lingua del Peloponneso. Il battello aveva esteriormente l’aspetto di quelle piccole e luride navi egee che fanno tutti i loschi mestieri del mare. Un gran nome greco a prora: Syra.

L’interno era sconcertante.

Prima di tutto il carico. Un carico inverosimile di cavalli zoppi, di asini piagati e di muli invalidi, un'adunanza di bestie rassegnate a tutto. Sul ponte, montagne di foraggi, davano al vapore un profilo inusitato, e parevano disposte come a formare dei parapetti di trincea. La illusione era completata dalla presenza di varii fucili e di alcune casse di munizioni, celati dietro ai parapetti.

Il ponte di comando poi aveva delle risorse da scenario. Era trasformabile a vista d’occhio. Bastava tirare una corda perchè le murate si abbattessero. Abbattendosi, esse scoprivano una coppia di mitragliatrici. Verso la prora, altre murate a rovesciamento mascheravano dei piccoli cannoni.

Il miserabile piroscafo mercantile appariva rudemente preparato a vendere assai cara proprio l'unica mercanzia che i suoi simili non vendono: la vita.

Si slanciava così nel più mirifico romanzo di avventure. Aveva ritrovato gli antichi trucchi corsari, le false murate di Jean Bart. Ma non aveva patenti da corsa. Non aveva carte [p. 340 modifica] di nessun genere che potessero salvarlo. Era abbandonato a sè stesso, come un poliziotto travestito, un gendarme in costume da ladro che si arrischiasse solo verso i covi della criminalità. Era un galantuomo fuori della legge. Il nemico catturandolo poteva, secondo le oneste e arcaiche tradizioni del mare, appendere legalmente l’equipaggio ai pennoni, od ormeggiarlo insieme all'àncora in fondo al mare.

E pure esso andava precisamente in cerca del nemico.

L’ufficiale che conduceva la spedizione aveva pensato che aggirandosi dove avvenivano i rifornimenti ai sommergibili, una nave così equivoca poteva essere scambiata benissimo per una della banda. Qualche sottomarino si sarebbe avvicinato per chiedere nafta o informazioni. Una volta vicino, poi, si tirava la corda delle trasformazioni e si scambiavano quattro chiacchiere cordiali, a tiro rapido. Si avvicinò invece lo Spahis, un cacciatorpediniere francese.

Lo Spahis, messo al corrente, approvò, si congratulò, applaudì e scomparve salutando. Ma i sommergibili che pure apparivano di tanto in tanto, si tenevano al largo. Intanto il piroscafo era costretto a frequentare certi piccoli porti, e non poteva evitare di farsi vedere. Bisognava che la sua assiduità non fosse notata. Come fare? Decise di cambiare fisonomia ogni giorno. Così fu visto sempre, rivisto mai. [p. 341 modifica]

L’equipaggio, venuta la notte, lavorava come una squadra di scenografi durante un intermezzo. Riverniciava lo scafo, trasportava da una parte all'altra del ponte il carico di foraggi, costruiva qua, demoliva là, issava, abbatteva, creava, e all'alba, invece di un piroscafo nero di nome Syra, c’era una nave mista, con vela di mezzana, con soprastruttura gialla e bordi verdi, chiamata Thaso. Il giorno dopo al posto del Thaso appariva magicamente l’Heraklia, un vapore con due ciminiere a fascia azzurra, che fumavano come quelle di un incrociatore, una a carbone e l’altra a fieno. Nessuno agli approdi sospettava che l’Anaphi, dal quale sbarcavano cinque manigoldi a comprar verdure e a far chiacchierare le donne del paese, fosse niente altro che il Kithera, il quale cinque giorni prima aveva mandato a terra a prendere acqua, mentre aspettava al largo profilando un bompresso di una lunghezza impressionante.

Non era più una nave, era una flotta effimera di navi pezzenti, così diversa l’una dall’altra che ogni tanto capitava lo Spahis a rifare la visita: Comment! Toujours vous?

Soltanto i sottomarini guardavano da lontano senza avvicinarsi. Le avventure più curiose si succedevano, ma mai la buona. In un piccolo ancoraggio il Naxos — quel giorno si chiamava Naxos — rischiò persino di vendere uno dei suoi cavalli, una bestia superba, [p. 342 modifica] pagata ottanta lire, il cui solo difetto consisteva nel non poter camminare.

Un battelliere albanese, venuto sotto bordo, aveva ammirato la testa melanconica e severa del corsiero affacciato a prua. «Lo vendete?» — domandò. «Sicuro». — «Allora salgo». — «Ah, no: i cavalli non si giudicano che a terra». Bisognò sbarcarlo, e la discesa dei cavalli di Fidia dalla facciata di San Marco deve essere costata molta minore fatica del trasbordo di quel quadrupede inerte, che l’albanese, esigente, rifiutò poi per deficienza di locomozione. Intanto il tempo passava e la spedizione, pur ricevendo da ogni parte le conferme dei rifornimenti di sottomarini, non arrivava a risultati concreti.

Era venuto a sapere che le navi fornitrici avevano orari fissati e inalberavano speciali segnali al riconoscimento. Impossibile quindi essere scambiati per una di loro. Era necessario mutar tattica, cercare il modo di conoscere il misterioso segnale di richiamo.

Il battello camaleonte andò a gettare l'àncora in una rada sospetta, e il capitano con alcuni uomini sbarcò in paese.

Il vero comandante, l’ufficiale, compariva nei porti come semplice marinaio, uno straccione al par degli altri, e si faceva avanti invece un falso capitano, in perfetto carattere, autoritario, che maltrattava i suoi uomini, che parlava sempre ad alta voce, irruento e volgare. [p. 343 modifica]

Costui andò diritto dal rappresentante locale del Governo greco, lo prese in disparte, gli insinuò nella mano fraterna un modesto e doveroso tributo, e gli sussurrò: «Sono mandato da Syra con un carico di benzina per i sottomarini austriaci, dovevo aspettare al largo e da tre giorni aspetto senza veder nessuno, non vorrei avere visite e formalità e mi raccomando a voi, anche per sapere cosa debbo fare.»

«Penso io a tutto — rispose l’autorità strizzando l’occhio — e quanto alla benzina ora mando a chiamare la persona incaricata di riceverla.»

Il mistero diventava di una trasparenza meravigliosa. Un filo della organizzazione era afferrato. Oh, l’organizzazione! Tutto stava a non perdere il bandolo della matassa.

Arrivò trafelato un individuo che chiese: «Quanta benzina avete? Verrò questa notte a sbarcarla». Imbarazzante premura. «Un momento — rispose il capitano — ma voi avete un documento, una carta di autorizzazione?» — «No, ma c’è chi mi garantisce». — «Va bene, ma abbiamo l’ordine di consegnare la benzina noi stessi ai sottomarini!» L’uomo alzò le spalle con l’aria di disinteressarsi della cosa.

Proviamo altrove! — pensarono gli audaci cercatori di verità. E partirono.

La loro speranza era di ricevere in qualche posto l’incarico di fornire direttamente la [p. 344 modifica] pretesa benzina, di conoscere così il segnale segreto che attirava i sottomarini, e di potere finalmente intavolare con loro la conversazione che sapete.

Approdarono in un’altra rada. La scena si ripetè con lievi varianti. L’autorità mostrò la stessa premura, la persona incaricata si offrì egualmente a sbarcare nottetempo il carico. Soltanto, essa aveva la carta, questa volta, un vago mandato di tenere in deposito certe «merci» per conto di un signore, dal nome teutonico, documento che venne severamente dichiarato insufficiente.

Un terzo tentativo fu meno fortunato. La persona incaricata si stupì di non aver avuto preavvisi telegrafici, dichiarò di aver ricevuto quel giorno stesso un carico in regola, insistè per essere condotto a bordo.... Diamine, la cosa s’imbrogliava.

Intanto l’agente centrale dei rifornimenti ai sottomarini, stabilito in una grande isola, era stupito e furioso. Da tre giorni gli segnalavano per telegrafo la presenza in luoghi diversi di navi a lui perfettamente ignote, estranee all'organizzazione (oh, l’organizzazione!) e che pretendevano ostinatamente di farne parte. Erano gli Itheva, gli Anaphi, gli Herakliadel battello trasformista.

Troppo pratico del mestiere per non capire di che si trattasse, l’agente, che era un ufficiale della marina da guerra austriaca, mise [p. 345 modifica] subito in moto tutte le sue influenze per far catturare il piroscafo multiforme.

E contro al perturbatore di onesti traffici si slanciò subito un cacciatorpediniere greco.

L’inseguimento fu lungo. Il vascello ricercato sfuggiva fra le isole, si nascondeva nei bassifondi, si rintanava in angoli impraticabili, ma un bel giorno si fermò: aveva un’avaria in macchina. L’avventura era finita. All’ultimo momento l’ufficiale indossò la sua uniforme, e issò la bandiera del suo paese. La nave, catturata, dovette seguire il cacciatorpediniere nel porto più vicino, da dove il greco domandò istruzioni. Ricevette l’ordine perentorio di arrestare tutti.

Però prima che l’ordine potesse essere eseguito, arrivarono nel porto due cacciatorpediniere della stessa nazionalità della spedizione avventurosa. Non potendo essi rimanere che ventiquattro ore, quali belligeranti, in porto neutro, il greco si rassegnò prudentemente ad aspettare che se ne andassero per procedere poi con più tranquillità all'arresto dei colpevoli.

Il giorno dopo le due navi da guerra infatti partirono. Ma proprio mentre si allontanavano, due nuovi cacciatorpediniere arrivarono. Pazienza, si disse il greco, ancora ventiquattro ore di attesa.

Allo scadere del termine, finalmente, anche questi due se ne vanno. Però, non sono ancora usciti dal porto che una terza coppia di [p. 346 modifica] cacciatorpediniere si presenta in sostituzione dei partenti. Pareva il cambio della guardia.

Di fronte a questa situazione il greco pensò ch’era opportuno e dignitoso procrastinare l’azione e andare a farsi confermare gli ordini a voce. Così fece, lasciando la nave catturata che non esitò a riprendere il largo verso il suo paese.

La spedizione aveva raccolto del resto una così larga messe di esperienza, che proprio non aveva più niente da sapere sulla questione dei sommergibili. E così fu possibile agli Alleati di insinuare un po’ di benefico disordine nei servizii del nemico. Il povero comandante greco fu punito per mancanza di energia. Non aveva protetto efficacemente il piccolo commercio della sacra Ellade e la sua grande politica.

La storia è vecchia, ma appunto perchè vecchia mostra la costanza ammirabile del sentimento greco. Ogni manifestazione della benevolenza greca per gli Imperi centrali è accolta quasi con sorpresa, perchè si ignorano — e si ignorano perchè se ne è fatto sempre un mistero — i servizi resi dai greci ai nostri nemici, e l’aperta, proclamata e cordiale antipatia dei greci verso di noi. Non si comprende bene perchè si debba ignorare quello che i greci fanno, pensano e gridano con la più bella franchezza.

Per i greci, che ignorano i nostri bollettini di guerra e leggono soltanto dei rapporti [p. 347 modifica] austriaci degni della penna del barone di Münchäusen, noi siamo stati sempre regolarmente messi in fuga disordinata da ogni pattuglia che il paterno imperatore e re si è degnato di mandarci. Tutto dunque si può osare contro di noi.

Su quei poveri carabinieri nostri a Corfù, che sollevarono tanta indignazione come se fossero sbarcati per arrestare qualcuno — nel qual caso ogni panico e ogni reazione sarebbero stati giustificati — su quei poveri carabinieri c’è già tutto un folklore aggressivo e fantasioso che circola in Grecia impunemente. Ecco l’ultima leggenda, lanciata da un giornale greco scritto in francese: un soldato greco, un prode stratega, udendo tre carabinieri italiani sparlare della Grecia in una taverna, si sarebbe avvicinato a loro dicendo: «Se foste dei nemici leali, sfodererei questo brando che la patria mi diede per sua difesa e vi ucciderei. Ma siccome siete una massa di (gli appellativi si immaginano) vi reputo indegni del sacro acciaro e vi punisco così.» E cavatasi una scarpa (poichè pare che ne avesse) egli avrebbe colpito con essa sul viso i tre carabinieri, che naturalmente non avrebbero osato di reagire....

Non si ha la più lontana idea di quanto si picchi in Grecia sul volto italiano con delle scarpe retoriche. Pazienza: ma vi sono delle cose che fanno più male. Il piccolo commercio, il contrabbando, i rifornimenti clandestini, [p. 348 modifica] possono in certi casi esercitarsi per una merce molto gelosa, che purtroppo da noi si può avere senza correre pericoli e che si vende altrove assai cara: l’informazione.

È un traffico così nascosto che non può essere paralizzato tanto dalla sorveglianza quanto dal rischio. Più la sorveglianza è difficile e più il rischio in caso di scoperta dovrebbe essere immediato, alto e certo per riuscire inibitorio. Invece.... Un esempio.

Un giorno un nostro trasporto militare nella rada di Vallona, passando sotto a Punta Linguetta, vide tre individui, albanesi all’apparenza, che dall’alto degli scogli sorvegliavano i nostri movimenti con un telescopio montato sopra un cavalletto. All’avvicinarsi della nave scomparvero. Ora, la Punta Linguetta, posizione dominante, era ed è territorio interdetto. Un radiotelegramma permise l’immediato invio di truppe che fecero una retata di pastori albanesi in rottura di bando. La colpa era delle capre, dissero i pastori, perchè pare che le capre albanesi, di razza guerriera, abbiano qualche volta una predilezione invincibile per l’erba che cresce sui punti strategici. Fra i pastori, appartenenti alle tribù vicine, si trovarono cinque individui che tutte le persone arrestate insieme a loro dichiararono, con premura, di non aver mai visto e di non conoscere affatto, dimostrando la più grande paura di compromettersi. [p. 349 modifica]

I cinque erano travestiti perfettamente da albanesi e armati di Mauser. Interrogati non si giustificarono. Si limitarono a dichiararsi greci e a chiedere il rimpatrio. Riconosciuto che realmente erano greci, travestiti da albanesi e muniti di armi per ragioni che sarebbe stato indelicato da parte nostra di penetrare, li rimpatriammo.

Ah, se l’esercito alla frontiera si è trovato, specialmente nei primi mesi della guerra, entro una rete sottile di abile spionaggio, la marina doveva accorgersi di aver intorno a sè la più vasta cospirazione della malavita dei mari che si potesse immaginare, con un’attiva collaborazione di malavita terrestre. I contrabbandieri, i trafficanti clandestini, gli armatori dai commerci inconfessabili, privati dalla guerra dei loro onesti guadagni, compensarono i lucri perduti mettendosi agli ordini degli agenti nemici che pullulavano ovunque ai primi tempi, sopra tutto nei piccoli centri sulla costa, persino presso certe nostre gelose stazioni radiotelegrafiche. Oh, l’organizzazione!

Le segnalazioni luminose al nemico erano non soltanto viste con frequenza, ma persino raccolte dalle nostre navi, che si trovavano così in possesso di interi messaggi indecifrabili: gruppi di lettere e gruppi di numeri. Si credeva nell’opinione pubblica un po’ all’ossessione dello spionaggio, perchè i particolari non arrivavano al pubblico. Una notte una nave [p. 350 modifica] nostra raccolse una delle tante segnalazioni destinate al nemico, e per fortuna la stessa segnalazione veniva raccolta da un sommergibile francese che passava sei miglia più lontano. La concomitanza dei due rapporti provò la realtà dell’avvenimento. Ordinariamente, le ricerche non riuscendo sempre conclusive, si propendeva a supporre l’inesistenza dei fatti e non se ne parlava più.

I segnali partivano da Viesti, sul Gargano, da dove per il tramite di isole si può comunicare otticamente con l’altra sponda. I rilevamenti operati dalle due navi permisero di agire a colpo sicuro. Si andò diritti alle sorgenti della luce, e si trovò che un reduce dalla prigione, condannato due volte per contrabbando con l’Austria, aveva nella sua miserabile casupola una finestra verso il mare munita di oscuratore e persiana, come un proiettore, e dietro alla finestra un gruppo di lampade elettriche della forza complessiva di quattrocentocinquanta candele. Credete che sia stato condannato? Mai più! Il processo dura da dieci mesi, e lo Stato ha speso migliaia di lire per far fare dei costosi rilievi del paese e della costa, larghi come una camera, al fine di controllare se veramente le navi hanno potuto vedere quello che esse asseriscono di avere visto.

La vigilanza della nostra marina ha ridotto enormemente i pericoli dello spionaggio, ma non [p. 351 modifica] sono del tutto eliminati. Pare che qualche luce si sia rivista recentemente.

È necessario mettere allo spionaggio, sulla terra e sul mare, un tale prezzo, certo e immediato, da eliminarlo dal commercio. I processi del genere di quello sul fatto di Viesti sono troppo numerosi. Quando anche si raggiunge la prova assoluta della colpa, il colpevole sa che ha la vita salva e l’amnistia gli sorride dal fondo dell’avvenire.

Nessuna condanna a morte è stata pronunziata in Italia per delitti il cui scopo, la cui ragione, la cui mira, la cui conseguenza, è precisamente la morte in massa di cittadini combattenti e traditi. La missione dei giudici militari non può isolarsi dalla guerra in una atmosfera di pura giustizia, nel qual caso essi non potrebbero vedere nella spia che un abietto individuo reo soltanto di aver cercato un lucro illecito, dato che questo lucro sia accertato irrefutabilmente. È al sangue dei soldati e dei marinai, è alla efficienza della difesa nazionale, che deve sentirsi unicamente legata la coscienza e la responsabilità dei giudici.

Essi dovrebbero ritenersi niente altro che un’arma che protegge le spalle del paese e che deve far paura. I loro scrupoli debbono mantenersi desti nei riguardi della nazione, nella considerazione degli effetti ai quali il tradimento tende (cioè alla catastrofe della patria) [p. 352 modifica] e dell’influenza che ogni incertezza, ogni debolezza, ogni clemenza hanno nel futuro, quando soltanto la severità inesorabile e rapida può costituire l’unica barriera ad un male che non lascia tracce.

La benignità longanime dei tribunali di guerra, anche nelle cause che interessano soltanto la disciplina e la compagine militare, può diventare incalcolabilmente pericolosa. Se essi non fulminano a morte la spia, il traditore, il disertore, ma li condannano soltanto al carcere, stabiliscono l’immorale principio di una vera assicurazione della vita concessa alla delinquenza, mentre l’onestà prodiga la sua gloriosamente. Le corti marziali esistono in questi tempi nei quali si muore per sacro dovere, appunto per esercitare una fiera ed eccezionale missione di difesa. A fare sfoggio di eterne procedure e di cavilli benevolenti, qualunque altro tribunale ordinario sarebbe bastato.

È ferma opinione di chi combatte che ad estirpare i mali dello spionaggio occorre una Giustizia che sappia guardarsi intorno, comprendere l’ora, ricordandosi che se ha una bilancia nella mano sinistra, ha anche una spada nella mano destra.

fine.