Sull'Atlante/21. Il salvataggio

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21. Il salvataggio

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21.

IL SALVATAGGIO


— Mascalzone!

— A me del mascalzone!

— Beduino lurido!

— È troppo!

— Hai tradita la proverbiale ospitalità dei figli del deserto, figlio d'una cagna idrofoba!

— Se non la finisci, frangi, io ti farò fumare la pelle. Ho trenta uomini sotto di me, sempre pronti ad obbedirmi.

— Ne avessi tu anche cento, lurido turco, me ne riderei.

— Turco, hai detto!

— Testa di turco!

— Kafir! Basta!

— No, mangiaporci!

— Come! Tu osi dire questo ad un mussulmano! Quando mi hai veduto mangiare del maiale? Quella bestia schifosa è buona solamente per gl'infedeli!

— Lo mangi di nascosto.

— Chi te l'ha detto?

— Si sa che tutti i beduini, pur vantandosi purissimi mussulmani, mangiano i porci!

— È troppo!

— Anche i serpenti!

— Basta!

— Anche le lucertole ed i vermi.

Un grande scoppio di risa coprì le ultime parole.

La truppa di El-Madar si era raccolta intorno ad una vasta tenda ai cui pali, saldamente infissi nel suolo, si trovavano legati strettamente Enrico, il conte ed Afza, e si divertiva un mondo a udire le invettive atroci che il toscano scaraventava sul muso del traditore.

Se il magnate ed il Raggio dell'Atlante apparentemente si mostravano calmi, quasi rassegnati alla loro trista sorte, non così invece l'irascibile avvocato bocciato.

Furioso di trovarsi legato ed impotente, esauriva tutto il vocabolario delle insolenze, tentando d'irritare il beduino.

Il conte invano lo aveva consigliato alla calma essendoci poco da fidarsi di quelle canaglie: Enrico aveva continuato a rincarare la dose.

— È finita, dunque? — aveva gridato El-Madar. — È ora di andarcene a dormire, e quand'io riposo non amo di esser disturbato da chicchessia.

— Ah! Tu speri di russare tranquillo stanotte, sotto la tua tenda, mollemente sdraiato su un mucchio di tappeti, mentre noi siamo legati! — aveva risposto subito Enrico. — Non ti lascerò chiudere gli occhi un solo momento.

— Finirai per farmi perdere la pazienza, frangi!

— Io l'ho già perduta.

— E tu non sai di che cosa può essere capace un beduino spinto agli estremi dalla collera.

— E che! Vorresti tu, pezzo di pan bigio ammuffito, alzare le mani su un pezzo di pane bianco? Sei troppo lurido, mio caro!

Il beduino lanciò verso Enrico uno sguardo feroce, e mise una mano sull'impugnatura del yatagan, urlando:

— Ti taglierò la lingua se non la smetti, frangi!

— E dopo? — chiese il toscano ironicamente. — Dove andrà a nascondersi il grande e terribile El-Madar? Non fra gli uomini bianchi, perché ti farebbero pagar caro questo atto di crudeltà, anche se commesso su un fuggiasco dei bleds; non fra i Senussi dei quali godiamo la potente protezione; non fra i Cabili dell'Atlante perché sono nostri amici. Tu sei un vero asino, o grande figlio dell'ardente deserto.

El-Madar masticò un paio di bestemmie, poi volse le spalle dicendo:

— Anche se urlerai come una belva feroce, dormirò egualmente.

Ciò detto, si ritrasse sotto la tenda, imitato subito dalla maggior parte dei suoi uomini. Quattro beduini armati fino ai denti erano rimasti seduti a breve distanza dai prigionieri per impedire qualunque tentativo di fuga.

Per un poco il cocciuto toscano continuò a strepitare, poi vedendo che nessuno gli dava più retta, cessò di vomitare torrenti d'ingiurie.

— Era tempo che tu la finissi — gli disse il conte. — Hai una lingua che taglia come un yatagan.

— Che però non è riuscita ad intaccare la pelle di quel coccodrillo — rispose Enrico ridendo. — Avanzo di galera! Tradirci così! E Hassi? Ed il marabuto? Che cosa sarà successo di loro?

— Se fossero stati presi sarebbero qui a tenerci compagnia — rispose il conte. — Hanno avuto maggior fortuna di noi, e sono riusciti a salvarsi.

— Che non ritornino?

— Se Hassi è libero non ci abbandonerà e non sarà così sciocco da venire a gettarsi fra le braccia di El-Madar. L'Atlante è vicino; ha con sé il marabuto che conta fra i Cabili della montagna salde amicizie e possiede per di più l'appoggio dei Senussi: e quei due uomini non perderanno il loro tempo. Io non dispero di vederli giungere domani o posdomani alla testa di una colonna di Cabili. Per questo io non sono troppo impressionato. La nostra prigionia non sarà lunga, te lo dico io.

— Se non giungono prima gli spahis!

— Qui sta il guaio — disse il conte. — Se Ribot riesce a tenerli lontani un paio di giorni ancora, tutte le nostre disgrazie saranno finite, perché l'Atlante l'abbiamo a portata di mano.

— Allora possiamo anche noi prendere un po' di riposo colla speranza di risvegliarci domani fra trenta teste tagliate, tutte di beduini.

Pregarono gli uomini di guardia di allentare loro le corde per potersi coricare, ciò che fu subito concesso, anzi uno di quei malandrini offrì ad Afza il suo tappeto sdrucito.

La notte trascorse più tranquilla che non avessero sperato. Nessun spahis giunse al campo, ma non giunse neppure un Cabilo salvatore.

Non aveva potuto dunque Hassi, durante la notte, salire la montagna e raggiungere i villaggi cabili? Questa era la domanda che si rivolgevano, con profonda angoscia, i tre disgraziati prigionieri.

Che una disgrazia gli fosse toccata, non lo sospettavano nemmeno, mentre purtroppo il moro ed il marabuto si trovavano sempre immobilizzati nella palude, circondati dalle sabbie mobili pronte ad inghiottirli se avessero abbandonato i due cofani salvatori ed il cammello.

Il sole era spuntato da qualche ora soltanto, quando Enrico, il quale osservava attentamente tuttociò che succedeva nell'accampamento, notò fra i beduini una improvvisa agitazione.

Delle grida di allarme erano echeggiate verso l'estremità occidentale del campo e gruppi di uomini si erano slanciati in quella direzione, mentre altri sellavano frettolosamente i mahari che la carovana possedeva, e che erano ancora in buon numero.

— Senti — disse Enrico. — Vi è qualche novità.

Un rapido fremito era passato sul viso del magiaro, poi i suoi occhi si erano fissati con estrema angoscia su Afza, la quale ostentava sempre una calma ammirabile.

— Hai capito, conte? — chiese Enrico.

— Sì, ti ho capito e non ho osato di risponderti subito. Non verranno da quella parte i nostri salvatori, ma caleranno giù dalla montagna.

— Allora sono gli spahis.

— Aspetta un po': non precipitiamo delle supposizioni.

Il conte si volse verso i quattro beduini di guardia che si erano alzati ed interrogavano attentamente l'orizzonte con gli occhi, riparandoli con le mani aperte contro i raggi del sole.

— Chi si avvicina dunque? — chiese loro. — Qualche drappello di frangi!

— No — rispose uno dei quattro. — Si scorgono due grossi punti bruni che devono essere certamente due mahari. Saranno amici che tornano al campo.

— Da dove?

— Solo il capo potrebbe dirtelo ed io non sono El-Madar.

— Non caverai nulla dalla bocca di questi malandrini — disse il toscano. — Fortunatamente abbiamo anche noi un paio d'occhi per vedere.

Il beduino di guardia non si era ingannato, poiché venti minuti dopo due mahari grondanti di sudore ed ansanti, giungevano all'accampamento. Erano montati dai due corrieri mandati in cerca degli spahis, e che nel ritorno si erano incontrati.

El-Madar li aveva subito ricevuti sotto la sua tenda premendogli aver notizie dei francesi, sui quali contava per avere il premio senza tornare al bled.

— Li avete dunque raggiunti? — chiese.

— Sì, — rispose quello che aveva intascato le monete d'oro date da Ribot — e posso aggiungere che sono anche in marcia, poiché io ho potuto vederli, tenendomi nascosto in mezzo a dei cespugli mentre levavano il campo. Ho osservato però una cosa che mi dà un po' da pensare.

— Spiegati meglio e taglia corto.

— Quando io li ho lasciati, tutti avevano il loro cavallo; quando invece li ho veduti sfilare dinanzi a me mancavano loro tre animali.

— Saranno crepati di fatica.

— No, capo, perché dopo averli lasciati passare sono tornato verso il loro campo ed ho trovato i tre cavalli mancanti in un lago di sangue. Qualcuno doveva averli scannati.

— Che cosa vuoi concludere insomma! — chiese El-Madar facendo un gesto d'impazienza.

— Che se tu non mandi loro incontro dei mahari ti toccherà aspettare troppo a vederli qui.

— Quanti sono?

— Quattordici.

— Abbiamo abbastanza corridori per montarli tutti. Ho fretta di andarmene anch'io sull'Atlante e sbarazzarmi di queste persone.

Chiamò il suo sottocapo e diede a lui parecchi ordini.

Dieci minuti dopo, due beduini lasciavano il campo guidando sedici cammelli corridori perfettamente bardati e si allontanavano velocemente verso ponente.

Quella partenza, come si può ben immaginare, non era sfuggita agli sguardi dei prigionieri.

— Vanno incontro agli spahis ne sono sicuro! — aveva esclamato il toscano il quale aveva provato una terribile stretta al cuore. — E babbo Hassi ed il marabuto non si mostrano. Se fra dodici ore non sono qui, noi saremo in marcia pel bled e allora non vi saranno né Senussi, né Cabili capaci di salvarci. Camminiamo verso la fine, non è vero, conte?

L'ungherese si era accostato ad Afza finché glielo permettevano le corde che erano rimaste allentate. L'aveva guardata fissa negli occhi.

— Il mio Raggio dell'Atlante non avrà paura della morte? — le chiese con voce commossa.

— No, mio signore — rispose Afza col suo solito tono tranquillo. — Purché mi lascino morire con te, io guarderò, senza tremare, i fucili dei soldati che dovranno far fuoco su di noi. Mi rincresce solamente di lasciare la terra senza aver riveduto un'ultima volta mio padre.

— Tu sei una donna meravigliosa, Afza.

— La mia vita appartiene a te: ecco tutto. Se devono ucciderti, voglio cadere anch'io al tuo fianco.

— Triste sorte — sospirò il conte. — Avevo sperato per un momento di rivedere la putza verdeggiante del mio paese, ma il sogno era troppo bello. L'Africa avrà purtroppo le ossa dell'ultimo dei Cernazé.

La giornata trascorse angosciosissima pei tre disgraziati, anche perché erano stati legati sotto la tenda per preservarli da qualche colpo di sole e insieme per impedir loro di vedere ciò che succedeva nell'accampamento.

Enrico di quando in quando aveva ripresi i suoi sagrati contro il beduino, però senza nessun risultato, poiché il figlio del deserto aveva avuto il buon senso di non farsi vedere nemmeno un istante.

Ormai era sicuro del fatto suo, e non aveva alcun desiderio di guastarsi il sangue.

La notte già s'avanzava, e nessun avvenimento aveva rotto la calma che regnava nel campo, quando fra le nove e le dieci, nel momento in cui la luna si alzava rosseggiante e più grossa del solito sulle vette dell'Atlante, i prigionieri udirono in lontananza squillare una tromba loro ben nota.

Enrico, quantunque fosse strettamente legato, con uno sforzo supremo aveva spezzata qualche giro di corda, mettendosi a sedere.

— Gli spahis! — aveva gridato, impallidendo.

Alcuni colpi di fuoco avevano seguito lo squillo, salutati dai beduini del campo con urla selvagge.

Il conte, livido come uno spettro, era pure riuscito a sollevarsi.

— Ecco la fine! — aveva esclamato. — Mia povera Afza, il mio amore ti è stato fatale. Sarebbe stato meglio che tu fossi diventata la moglie di qualche giovane della tua razza.

Il Raggio dell'Atlante aveva scossa con una mossa leonina la sua bella testa di mora, poi aveva risposto colla sua stessa calma:

— Io non potevo amare che il mio signore a cui dovevo la vita e cadrò là dove cadrà il mio signore, felice di morire al suo fianco. Noi donne algerine non sappiamo amare diversamente.

Tutto il campo era a rumore. I beduini correvano ad armarsi come se dovessero dare battaglia agli spahis e coi colli di mercanzia improvvisarono qua e là delle piccole trincee, sufficienti a ripararli da una carica di cavalleria.

El-Madar si era portato verso l'estremità dell'accampamento che guardava verso ponente, accompagnato soltanto da una dozzina di uomini, ossia quanti ne contavano gli spahis.

Un quarto d'ora dopo, Ribot e Bassot giungevano dinanzi al capo beduino montati sui mahari che erano stati mandati incontro a loro.

Gli spahis, secondo la regola, si erano fermati a due o tre cento passi ed avevano subito alzate le loro piccole tende da campo.

Coi mahari avevano condotti anche i cavalli, colla differenza che questi erano giunti, eccetto l'arabo puro sangue di Ribot, in uno stato miserando.

— Salute ai frangi! — aveva gridato El-Madar facendo qualche passo verso i due sergenti. — Il beduino è ospitale e se desidereranno riposarsi nel mio campo non avranno che a dirlo.

— Stiamo benissimo anche sotto le nostre tende, quantunque siano meno spaziose delle tue, e poi preferiamo trattare sul terreno neutrale. È vero dunque che hai presi i due fuggiaschi del bled?

— E anche la figlia di quell'Hassi-el-Biac allevatore di cammelli — rispose El-Madar con un certo orgoglio. — Io so trattare bene i miei affari, quando vi sono degli zecchini da guadagnare.

Ribot udendo quelle parole era diventato livido ed aveva fatto uno sforzo supremo per non tradirsi.

— Trattiamo questo affare — disse bruscamente.

Alcuni beduini portarono dei tappeti sui quali i due francesi si sedettero di fronte a El-Madar, mentre altri si affrettavano a servire il caffè.

Ribot, come voleva l'uso, sorseggiò prima la profumata bevanda poi disse al capo dell'orda:

— Tu mi assicuri che sono in tua mano?

— Sì, frangi.

— Erano però sei e non tre.

— Gli altri mi sono scappati e non so dove si siano rifugiati. D'altronde non m'interessano affatto, poiché su di loro non pesa alcuna taglia.

— Possiamo vedere i prigionieri?

— Adagio, frangi — rispose El-Madar. — Prima dobbiamo intenderci meglio.

— Che vuoi dire? — chiese Ribot.

— Che il maresciallo del bled aveva promesso al mio sottocapo trecento zecchini se io riuscivo a catturare i fuggiaschi e la donna. Se li possedete, io sono pronto a cedervi tutt'e tre i prigionieri. Se non li avete, recatevi al bled e fateveli consegnare.

— Tu sei pazzo! — gridò Bassot. — Credi tu che i frangi siano capaci di mancare alla parola data? Leva il campo, vieni al bled e tu sarai pagato. Noi, soldati, non viaggiamo con delle grosse somme in tasca.

— Io ritornare laggiù colla mia carovana! — esclamò El-Madar. — Non pensarlo nemmeno, frangi. Io sono diretto sull'Atlante avendo molte merci da spacciare ai Cabili, e non desidero perdere un paio di settimane, anche per non trovarmi più tardi in gravi imbarazzi sulla montagna.

— Che cosa puoi temere tu, da parte dei Cabili dei quali tu sei un fornitore? — chiese Bassot.

— Il padre della ragazza è riuscito a fuggire col marabuto; e siccome so che godono la protezione dei Senussi, potrebbero farmi passare un cattivo quarto d'ora per punirmi del tradimento che ho commesso.

— Chi ti ha dato ad intendere che i Senussi li proteggono?

— Loro stessi.

— Tu non sei furbo, mio caro, essi hanno voluto semplicemente spaventarti. I Senussi non si sono mai occupati dei disciplinari che fuggono dai bleds.

— Tu puoi dire quello che vuoi, ma io ti dico che non mi muoverò di qui. L'Atlante è troppo vicino perché io me ne allontani. Portami il denaro ed io ti consegnerò i prigionieri: se non l'avrò andrò a venderli ai Tuareg del deserto, e quella ragazza, o donna che sia, me la pagheranno cara.

— E dove vuoi, testardo, che noi cerchiamo una sì grossa somma? — ribattè Bassot, il quale cominciava a perdere la pazienza. — Vuotando tutte le nostre tasche non ne metteremmo insieme dieci o dodici.

— Io non so nulla — rispose il beduino. — O il premio promessomi, o attraverso l'Atlante.

— Per le centomila code del diavolo zoppo! — urlò Bassot. — Quest'uomo è più cocciuto di un mulo dei Pirenei.

Guardò Ribot, che fino allora era rimasto muto ed indifferente come se quel dialogo non lo interessasse. Il bravo sergente pensava a tutt'altro.

— Che cosa facciamo, camerata — gli chiese. — Se tentassimo?

— Sono troppi — rispose il provenzale sottovoce. — Non impegnamoci con questa canaglia.

— Allora bisogna che qualcuno di noi parta subito pel bled e vada ad avvertire il maresciallo. Gli altri rimarranno accampati qui per impedire a questo cane di beduino di sfuggirci di mano coi prigionieri.

— E chi andrà?

— Io — rispose Bassot. — Fra una settimana sarò di ritorno col maresciallo e con un rinforzo di spahis.

— Fa' come vuoi — rispose distrattamente Ribot.

Quella conversazione era tenuta a voce bassa, ed in francese, lingua che i beduini conoscevano appena, perciò El-Madar, quantunque avesse tese le sue orecchie da asino, non aveva potuto capire una sola parola.

— Ti facciamo una proposta — disse Bassot, rivolgendosi verso di lui. — Tu rimarrai qui sorvegliato dai nostri uomini, ed io mi recherò al bled a prendere la somma promessati dal maresciallo. Dammi due mahari corridori, i migliori che possiedi, ed io parto all'istante. Sui nostri cavalli noi non possiamo ormai più contare.

— E sia, — disse il beduino dopo aver riflettuto qualche istante — nel frattempo manderò qualche piccola partita dei miei uomini a visitare i villaggi cabili e sbarazzarmi di una parte delle mie merci.

— Nessuno te lo impedisce. Fa' condurre i mahari.

Bassot e Ribot si erano alzati, dirigendosi verso l'accampamento degli spahis. Vi erano appena giunti, che già un cammelliere conduceva loro due splendidi mahari, i più belli ed i più vigorosi della carovana.

— Che furia ha quel malandrino d'intascare il premio — disse Bassot. — Meno male che li ha provveduti di sacchetti che devono contenere dei viveri, così farò i miei pranzi senza scendere di sella.

— Vuoi uno spahis in tua compagnia? — chiese Ribot.

— Preferisco di andarmene solo, così giungerò più presto, potendo cambiare cavalcatura. Spingerò queste bestie in una corsa indiavolata, per essere di ritorno prima della fine della settimana. Bada al beduino tu, intanto e non lasciarti giuocare. Questi malandrini sono capaci di tutto.

— Li conosco forse meglio di te.

Bassot visitò le cinghie, si fece portare il suo moschetto e le sue pistole, ed aiutato da uno spahis si arrampicò sino alla sella d'uno dei mahari.

— Addio, camerata! — gridò.

— Guardati dai leoni — gli rispose Ribot un po' ironicamente.

— Bassot non ha mai avuto paura delle teste grosse.

Lanciò il grido, ed i due mahari corridori partirono di volata l'uno accanto all'altro, scomparendo ben presto dietro gli altissimi cespugli.

Ribot lo aveva accompagnato fuori dal campo per qualche centinaio di metri, mentre gli spahis ritornavano sotto le tende, per prepararsi la cena, avendo il beduino mandato loro dei viveri. Aveva seguito attentamente, con gli sguardi cupi, il sergente.

— Tu non tornerai in Francia — disse, quando non lo vide più. — L'aiutante dell'infame Steiner lascerà qui le sue ossa, lo giuro. Se non sarà il conte, sarò io che m'incaricherò di vendicare i disgraziati disciplinari del bled. Ed ora che cosa fare? Sette giorni sono lunghi ed anche corti. Se Hassi è morto, tutto è finito e non so quello che succederà.

Stava per ritornare verso l'accampamento, in preda a tristi pensieri, quando vide un'ombra umana levarglisi improvvisamente dinanzi.

Istintivamente il sergente aveva tratto una pistola e l'aveva puntata verso lo sconosciuto chiedendo:

— Chi va là?

— Non mi conosci più, frangi! — chiese una voce che aveva udita già altre volte.

— Chi sei? — chiese Ribot. — Rispondi o faccio fuoco.

— Ani.

Un grido era sfuggito al sergente.

— Tu! Il fedele servo di Hassi-el-Biac! — aveva esclamato poi.

— Sì, frangi.

— Che cosa fai qui?

— Io credo che mi abbia mandato il Profeta per salvare il mio padrone — rispose il negro.

— E dov'è Hassi? Sull'Atlante?

— No, frangi: si trova affondato, da ventiquattr'ore, in una palude di sabbie mobili dalle quali non potrà mai trarsi senza degli aiuti.

— Spiegati meglio — disse Ribot traendolo più lontano dall'accampamento.

— Il mio padrone era riuscito, insieme al marabuto Muley-Hari a forzare le linee dei beduini e fuggire verso l'Atlante. Imperversava allora l'uragano, ed i mahari li trassero in mezzo ad una palude di sabbie mobili, dove si trovano ancora.

— E tu, come hai potuto attraversare le terribili sabbie?

— Io ero caduto molto prima che giungessero nella palude ed ero stato preso da El-Madar, che non mi aveva creduto degno di valere un misero zecchino. Da ieri sera io ho seguito attentamente, a passo a passo, la via tenuta dai due mahari, e sono riuscito a trovare il mio padrone ed il marabuto.

— E non hai potuto ritrarli dal mal passo?

— È impossibile, frangi: Io non avevo né un cammello, né un cavallo, né delle corde.

— Credi che il tuo padrone sia ancora vivo? — chiese Ribot con una certa angoscia.

— Sì, perché i cofani che contengono la ricchissima dote di sua figlia impediscono al suo mahari di affondare. Però, se tardiamo a soccorrerli, correranno il pericolo di morire di fame o fulminati da qualche colpo di sole — rispose Ani.

— È lontana quella palude?

— Appena tre ore di marcia affrettata.

— Basteranno due cavalli per trarli dalle sabbie?

— Ne avremo a sufficienza, frangi.

— Aspettami qui, e non ti far vedere da chicchessia. Dalla salvezza del tuo padrone dipende la salvezza di tutti i prigionieri.

Ribot aveva preso rapidamente il suo partito.

Tornò all'accampamento, illuminato da grandi fasci di legna ben secca, mangiò qualche boccone coi suoi uomini, poi trasse da parte il caporale del drappello.

— Amico, — gli disse — qui succedono certe cose che m'inquietano non poco. Già si sa che il beduino è nato malandrino, e che deve morire brigante.

— I beduini tenterebbero qualche colpo di mano contro di noi, sergente? — chiese il caporale un po' spaventato dal tono misterioso di Ribot.

— Forse no, — rispose il provenzale — tuttavia, io voglio essere perfettamente sicuro dalla mia parte. Ho veduto dei beduini lasciare il campo e dirigersi verso l'Atlante. Voglio andare a vedere che cosa succede alla base della grande montagna. Hai due cavalli ancora in ottime condizioni?

— Il vostro e quello di Bassot.

— Fammeli subito insellare.

— Chi vi accompagna?

— Nessuno.

— E perché due cavalli, allora?

— Lascia fare a me. Se ne voglio due, vuol dire che io ho i miei buoni motivi.

— Avete ragione, sergente: sono una bestia con otto zampe.

— Spicciati e lascia stare le zampe.

Bastarono due minuti a bardare i due destrieri, i quali erano ancora i soli che se la fossero cavata abbastanza bene con tutte quelle furibonde trottate attraverso alle immense pianure del sud algerino.

— Fa' buona guardia, caporale — disse Ribot balzando in sella ed afferrando le briglie del cavallo di Bassot. — Se io tardo a ritornare, non preoccupartene. Non sono uomo tale da lasciarmi sorprendere in un'imboscata.

— E come debbo contenermi col capo dei beduini?

— Rimani al nostro campo e null'altro. Se ti domanda di me, rispondigli sempre che dormo.

Ciò detto, Ribot allentò le briglie e si allontanò, dirigendosi verso il luogo dove sapeva di poter trovare Ani.

La luna era tramontata e le tenebre si erano stese sulla pianura assai fitte, essendovi ancora in alto dei vapori. Su l'Atlante di quando in quando balenava un lampo, senza essere però seguito da alcun tuono.

Il sergente, temendo di essere spiato, fece fare ai due cavalli un giro abbastanza lungo, poi tornò verso i cespugli in mezzo ai quali si nascondeva il negro.

Questi, già avvertito dallo scalpitìo, era balzato prontamente fuori.

— Monta e guidami — gli disse brevemente Ribot.

— Sì, frangi! — rispose Ani, balzando in sella del secondo cavallo, senza far uso delle staffe.

— Conduci la corsa più rapidamente che puoi.

— Purché i cavalli resistano, io li farò ben galoppare.

— Sono ancora abbastanza freschi: via!

I due arabi girarono molto al largo del campo dei beduini e si diressero velocemente verso il sud, dove giganteggiava la imponente catena algerina.

Ribot, temendo una qualche sorpresa, aveva staccato dall'arcione il suo moschetto e lo teneva dinanzi alla sella, pronto a fulminare senza misericordia chi avesse tentato d'impedirgli il passo.

Ani dal canto suo aveva armato le sue pistole che il capo dei beduini non gli aveva tolte, per una strana generosità.

I fuochi accesi intorno ai due accampamenti a poco a poco diventavano sempre meno visibili; le tende erano ormai scomparse.

L'Atlante lanciava sulle pianure le sue vigorose raffiche sollevando, da parte degli sciacalli imboscati fra i fitti cespugli, degli ululati di protesta, i quali risuonavano sinistramente nella notte. Di tratto in tratto qualche jena si levava quasi sotto le zampe dei due cavalli e scappava via facendo udire il suo riso da negro in delirio.

Ribot ed Ani cavalcavano da un paio d'ore, quando udirono in lontananza echeggiare uno sparo piuttosto debole.

— Colpo di pistola — disse il sergente.

— È il mio padrone — rispose Ani. — Lo avevo consigliato di far fuoco per guidarmi meglio.

— Allora siamo vicini.

— Sì, frangi. Riconosco questi luoghi che ho percorsi ieri mattina.

— Se il tuo padrone è ancora vivo, non dispero ancora di poter salvare i miei camerati ed il Raggio dell'Atlante. Tocca il tuo cavallo: anche se si rovina, non me ne importa nulla.

— No, frangi, bisognerà anzi conservarli pel mio padrone se vuoi che salga presto l'Atlante. I due mahari sono perduti e Hassi non abbandonerà mai la dote di Afza.

— Della quale il conte avrà bisogno, se vorrà tornarsene in Ungheria — mormorò Ribot. — Se tutto va bene, quel gentiluomo ha trovato qui una vera fortuna per indorare nuovamente il suo irrugginito blasone.

In quel momento un altro colpo di pistola rimbombò, e questa volta molto più vicino. Ribot rispose con un colpo di moschetto e spronò il suo arabo il quale, d'altronde, mostrava, al pari di quello di Bassot, una resistenza incredibile.

Il terreno diventava pessimo di passo in passo che avanzavano.

Ai cespugli si succedevano alti massi di canne e di erbacce palustri, ed i cavalli affondavano di frequente fino al garretto, dando segni d'inquietudine.

Sentivano certamente la vicinanza delle sabbie mobili, e non si avanzavano ormai che con estrema prudenza.

Ad un tratto un lampo balenò a cinquanta passi da Ribot, seguito da una detonazione e da una voce che chiedeva angosciosamente:

— Sei tu, Ani?

— Il mio padrone! — aveva esclamato il vecchio negro. — Ferma il cavallo, frangi, e scendi. Il pericolo non è lontano.

Poi alzando la voce gridò:

— Coraggio, padrone: ecco la salvezza!

Entrambi erano balzati a terra e si avanzavano tenendo i cavalli per le briglie.

Il terreno cedeva sempre sotto i loro piedi, però non avevano ancora raggiunto lo strato delle sabbie traditrici.

— Ferma, frangi — disse Ani dopo qualche minuto. — Più innanzi v'è la morte.

— La sento — rispose Ribot che aveva provato un brivido.

Erano giunti sul margine della palude.

Trenta passi più avanti, Hassi-el-Biac ed il marabuto, accovacciati sopra i due preziosi cofani, ai quali dovevano pure la loro vita, tentavano di tenere alta la testa del mahari; sperando ancora di poterlo salvare.

— E dunque, compare? — chiese il sergente.

— È Allah od il Profeta che ti hanno mandato? — chiese il moro.

— Questo te lo potrà dire il marabuto — rispose Ribot. — Lasciamo però in pace quei signori ed occupiamoci di te. Possiedi delle corde?

— Sì — rispose Hassi. — Ho tutte quelle della bardatura, dei cofani e dei sacchi delle provviste.

— Ed io ho quelle delle tende da campo, che saranno pure sufficienti. Ani, facciamo presto.