Sulla lingua italiana. Discorsi sei/Discorso primo

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Discorso primo
Epoca prima

../Introduzione ../Discorso secondo IncludiIntestazione 18 settembre 2008 75% letteratura

Introduzione Discorso secondo

Nel precedente discorso ho giudicato opportuno di manifestare de’ principj generali, che guideranno i miei giudizj nel corso delle letture sulla Poesia Italiana; e così spero di aver dato a chi mi ascolta la ragione delle opinioni ch’io andrò manifestando. Il soggetto del discorso d’oggi ha lo stesso intento di somministrare una serie d’idee generali insieme e distinte, non già de’ miei proprj principj, come ho dovuto fare jer l’altro; ma della origine, del progresso, delle vicende e dello stato presente della lingua italiana. La poesia, e ogni parte di qualunque letteratura d’ogni popolo, è incorporata colla lingua; dipende in tutto assolutamente dalla lingua; nè senza lingua esisterebbe letteratura; cosicchè i caratteri distintivi e le forme e le vicissitudini della letteratura d’ogni nazione nascono, crescono, si alterano in mille modi e decadono, secondo la origine e le alterazioni della lingua. Oggi dunque mi proverò di tracciare una storia, per quanto mi sarà possibile, breve insieme e distinta della lingua italiana dalla prima sua introduzione in Europa come lingua letteraria fino a’ giorni nostri. E perchè è storia che abbraccia seicento e più anni, e lo spazio del tempo non mi consentirebbe d’illustrare con moltitudine di riflessioni la lunghissima serie de’ fatti, sopprimerò le riflessioni per lasciar luogo ai fatti, tanto più che le riflessioni essendomi proprie, possono essere vere, e false, e dubbie; - ma i fatti appartengono alla verità, ed hanno in sè stessi tale ingenito vigore da eccitare da sè soli le altrui menti a fare considerazioni migliori di quelle che io non potrei suggerire. Tuttavia, per render meno necessario l’accompagnamento di riflessioni co’ fatti ch’io vado esponendo, mi gioverà di far precedere sulla critica letteraria risguardante le lingue una osservazione generale, che poscia, senza essere ripetuta, si andrà applicando da sè medesima in tutto il processo della mia narrazione.

La distinzione che si è fatta sempre, e che si continua pur sempre in letteratura, di lingua e di idee è soggetta ad oscurità ed incertezza, e ad errori, come pure sono tutte quante le distinzioni di cose, le quali non si trovano mai disunite fra loro. Tale è nelle scienze fisiche la distinzione di forma e materia; - ma senza materia non vi sarebbe mai forma, e siccome la materia non può apparir mai a’ nostri sensi che sotto una forma qualunque, così ne viene di conseguenza che ogni ragionamento fatto da noi, ogni sistema coltivato mediante la distinzione di materia e forma crolla inevitabilmente da sè, perchè si fonda sopra nozioni astratte di cose che realmente non esistono se non sì strettamente connesse, che non si può separarle senza distruggerle; - e quindi ne devono risultare delle teorie ed applicazioni fallaci. Così pure nelle scienze politiche si distingue l’uomo in natura e in diritti naturali, e l’uomo in società e in diritti sociali. E dove cercheremo mai la nostra natura, e come potremo, almeno in parte, conoscerla, se non la guardiamo nello stato di società, in cui solo possiamo vivere, e da cui non potremmo dividerci senza rinunziare a tutti i piaceri, senza sopire tutti i bisogni, senza cangiar gli organi del nostro individuo, e perdere e dimenticare la facoltà del pensiero e della parola che unisce gli uomini più di tutte le altre specie d’animali che ci sieno note; senza riformare insomma la nostra essenza intrinseca ed immutabile, quella essenza che non è opera nostra, quell’ordine, quella necessità che sentiamo, ma che non sappiamo definire noi stessi? Come dunque distingueremo i liberi diritti dell’uomo in natura da’ legami dell’uomo in società? E quanto più s’è tentato di restituire all’uomo sociale i sognati suoi diritti naturali, tanto più gli scrittori ed i popoli, pascendosi di visioni, si trovarono avvolti nei mali che accompagnano i sogni di chiunque renunzia alla esperienza dei fatti. Così da questa distinzione di natura e di società, immaginata in tutti i tempi e paesi, ma celebrata in Francia più che altrove, e illustrata nel Contratto sociale di Rousseau, nacquero le teorie e le illusioni politiche, i sistemi e gli errori, i delitti e le sciagure che infamarono nel nostro secolo la Libertà, ed atterriscono anche i savi che più la bramano, e danno pretesto a’ governi d’imporre un sistema di perpetue catene all’Europa. - La filosofia, e quella specialmente che si chiama analitica perchè procede da divisioni e suddivisioni di parti, malgrado il suo metodo evidentissimo in apparenza ed esatto, s’inganna e conduce in inganno, appunto perchè guarda partitamente ciò che forma uno per sè stesso inseparabile, di modo che appena diviso nelle sue parti perde il suo tutto. Così nei ragionamenti morali de’ filosofi divide anima e corpo: ma chi vide mai anima quando non è unita al corpo? chi vide vivere il corpo senza l’anima? Divideteli per ipotesi: e come mai coglierete esattissimi i punti di tal divisione? e quali sono gli attributi di una metà che fugge all’analisi, e quelli dell’altra che disgiunta perde ogni vita? Quindi le tenebre metafisiche e le battaglie da ciechi, appunto perchè non consideriamo le cose in quell’unico stato in cui la natura le riproduce, perchè facciamo astrazioni che stanno nel nostro cervello, il quale, senza conoscere perchè e come pensi, crede ad ogni modo di pensar bene: così si perde anche la cognizione e l’uso di quelle poche verità che l’esperienza continua de’ fatti potrebbe sempre somministrare. Le stesse fallacie, errori, controversie e sistemi ideali che l’artificiale divisione di cose naturalmente indivisibili produce nelle speculazioni fisiche della politica. e nella morale, sono appunto le stesse fallacie, gli stessi errori, le medesime controversie e gli stessi sistemi riprodotti dalla divisione che sempre s’è fatta, e non dappertutto, ma certamente in Italia, di lingua e di pensieri: e la solenne sentenza che i nostri critici pronunciarono da più secoli su i libri divide sempre scrupolosamente il merito d’un autore, come pensatore e come scrittore; onde giornalmente si ode pronunziata gravemente da uomini dottissimi la contradizione: il libro è ottimo, ma è male scritto, - o: il libro è ottimamente scritto, ma è sì cattivo che non si può leggere. I fatti che ora anderò esponendo somministreranno le chiavi a conoscere le occulte cagioni e i tristissimi effetti di questa assurdità.

Una lingua comune comincia a essere letteraria quando incomincia ad essere scritta, e scritta in modo che sia intesa da tutta una nazione; e allora gli scritti si diffondono necessariamente sopra tutta la superficie di quel paese, e si conservano da’ contemporanei e da’ posteri. Però la lingua propriamente, chiamata Italiana non può considerarsi letteraria, se non se dal secolo XII, cento anni circa prima che Dante scrivesse. Infatti, quanto fu scritto un secolo innanzi Dante s’intendeva allora, e si intenderebbe anche oggi più o meno da tutti gli Italiani; - ma poichè la nazione, o per parlare più generalmente, le popolazioni delle differenti provincie d’Italia esistevano anche per le tenebre più fitte del medio evo, certo è che parlavano e s’intendevano fra di loro; e benchè non possedessero lingua letteraria, avevano ad ogni modo una lingua. Certo dunque dev’essere che da questa lingua parlata, fra il VI e il XII secolo in Italia, sia di necessità derivata la lingua che poi fu scritta e diventò letteraria.

Ma quale fosse quella siffatta lingua parlata fra’ sei secoli della barbarie fu ed è una quistione che occupò per i sei secoli seguenti tutti gli eruditi e gli antiquarj italiani, e che gli occuperà forse per altri sei secoli, e rimarrà pur sempre quistione. Rimane quistione, perchè gli eruditi vogliono fondare sistemi, e da un principio, forse giustissimo in sè, vogliono applicare le lor conclusioni a fatti che non possono conoscere, perchè quella barbarie ed il tempo gli han seppelliti per sempre; e gli antiquarj dall’altra parte, sdegnando non solamente i principj metafisici, ma anche gli assiomi generali incontrovertibili, perchè sono nella natura e nella storia del genere umano, vogliono decidere sì oscure quistioni su la testimonianza di monumenti ed autorità di documenti. Ma rari letterarj monumenti esistono del medio evo, mutilati in gran parte e spesso falsificati; onde la loro autorità è debolissima. E nondimeno sopra sì incerta testimonianza gli antiquarj si sono fondati in Italia su la quistione della prima formazione della lingua italiana, - come antiquarj d’altri paesi si fondano sopra poche medaglie, o alquante corrose iscrizioni, o vecchie pergamene per decidere materie che sono forse più rilevanti.

Quattro partiti letterarj, che se fossero armati sarebbero degenerati in fazioni, assordarono l’Italia con la disputa su l’origine della lingua. - I primi e più dotti volevano che la lingua italiana non fosse che il dialetto plateale che la plebe romana parlava fino nell’epoca più antica e più splendida di Roma; - e stabilirono le loro ragioni così.

È certo che i grandi oratori romani parlavano non romano ma latino, e gli autori scrivevano non romano ma latino; perchè il dialetto del popolo romano era volgare, pronunciato tronco, senza leggi esatte di grammatica, e come infatti ogni dialetto è parlato dal popolo in tutti i paesi. - Ma il popolo, soprattutto gli abitanti della campagna, conservarono sempre i loro usi antichi, le loro foggie di vestire ed il loro dialetto, di padre in figlio e di generazione in generazione: dunque la lingua del popolo italiano nel tempo della barbarie era la stessa che parlavasi a’ tempi di Augusto, e la stessa che discese a’ tempi di Dante.

Il fatto che la lingua latina fosse distinta da quella degli abitanti di Roma, e fosse una specie di lingua più letteraria che parlata, è attestato e illustrato assai volte da Cicerone, e soprattutto nella breve ed ammirabile storia critica che ei scrisse degli Oratori illustri di Roma. Ma l’altro fatto, che il popolo conservò per più di dodici secoli la sua lingua, è appoggiato più a congetture che alla storia. La storia al contrario e l’osservazione giornaliera ne accertano, che nulla cangia quanto il dialetto. In Italia dovea cangiare per il concorso d’infiniti diversi popoli settentrionali che la invasero, la spopolarono e la ripopolarono; ma dovea anche cangiare per la naturale tendenza che tutte le cose dell’universo hanno di alterarsi, e le lingue molto più, perchè la loro pronunzia si altera leggermente di secolo in secolo, di generazione in generazione, e forse anche di anno in anno, nella pronunzia; e l’alterazione della pronunzia fa mutamenti di suoni, e i mutamenti di suoni nelle parole vanno coll’andar del tempo ad accrescersi in guisa, che la lingua, se non si muta del tutto, si altera sì fattamente da parere diversa da quella che era pochi secoli addietro. - Il cangiamento di pronunzia essendo impercettibile a’ contemporanei, accade senza lasciarsi osservare; ma se si nota che in quasi tutte le lingue si scrivono più lettere che non si pronunziano in fatti, e che quelle lettere che ora si scrivono e non si pronunziano dovevano essere pronunziate, altrimenti non si sarebbero scritte, si ricaverà la conclusione che la pronunzia si altera insensibilmente in tutte le lingue. - E non vediamo che gli stessi caratteri della scrittura si alterano di secolo in secolo sì fattamente, che una mediocre esperienza basta a far distinguere i codici manoscritti di un secolo da quelli di un altro? Quanto più dunque non deve esser soggetta ad alterazione la pronunzia e la lingua, che è cosa vaga ed incerta di per sè, facile ad adottare espressioni straniere, parole nuove, per invenzione di arti forse, ed idee nuove? Anzi io credo che quante lingue si parlano sulla superficie della terra non siano originate che da un solo tronco, e che la loro diversità non sia prodotta che dalle diverse pronunzie, cagionate dalla diversità de’ climi, dalla mistura de’ popoli diversi fra loro, da nuovi costumi e dagli anni. Non ignoro che questa proposizione, che tutte le lingue derivino da una sola, può sembrare assai strana; ma o bisogna ammetterla, o adottare la congettura seguente: che il genere umano non sia a principio nato in una sola contrada, donde moltiplicandosi e diffondendosi sopra la terra, l’abbia popolata gradatamente; ma che sia nato in tutte le parti del mondo, e che abbia inventato lingue diverse. È congettura, al mio parere, più strana che il genere umano abbia pullulato tutto ad un tempo in diverse parti del globo; che le nazioni si sieno formate non da una origine unica e primitiva, ma da differenti origini, e che ciascuna nazione, così nata, per così dire, da sè, si sia formata una lingua tutta sua propria. Ma se invece si ammette che il genere umano originò a principio in una sola parte del globo; che moltiplicandosi e diffondendosi sulla terra gradatamente l’abbia popolata, come d’una sola famiglia si formarono prima tribù vaganti, e quindi città, e si distinsero nazioni, così di un solo scarsissimo dialetto primitivo si formarono lingue ed idiomi distinti. - Non venne dunque distrutta l’opinione, benchè acremente e lungamente sostenuta da uomini dotti, che la lingua italiana sia, con pochissima differenza, la lingua parlata della plebe romana.

Un secondo parere che la lingua italiana derivasse dagli Aramei popoli della Caldea era sostenuto specialmente da alcuni antiquarj fiorentini, i quali ammettevano che una gran parte di parole era di origine latina, ed un’altra era teutonica, per l’anteriore dominio de’ Romani, e poi de’ popoli settentrionali in Toscana; ma contendevano ad un tempo che il fondo primitivo della lingua era arameo. Essi si fondavano, parte sopra etimologie di un gran numero di parole siriache, che que’ dotti dicevano di trovare tuttavia viventi nella lingua toscana; e parte sopra erudizioni di autori, come Beroso e Sanconiatone, dei quali non sono mai esistiti che i nomi; i quali avevano lasciato scritto che una colonia di Caldei avea navigato il Mediterraneo, e s’era stabilita antichissimamente in Etruria, donde non era mai ritornata, e che vi fondò una nazione, e vi portò riti religiosi e l’arte degli augurj e delle divinazioni; riti ed arti che infatti i Toscani portarono poscia a Roma, e l’origine de’ quali era da’ Romani stessi assegnata a’ Caldei. Ed io credo la Toscana sia stata popolata un tempo da tribù d’avventurieri che navigarono sia dall’Egitto, sia dall’Arabia; e principalmente lo desumeva già da quella forte aspirazione peculiare a’ Toscani, segnatamente a’ Fiorentini, ed ignota a tutto il resto d’Italia ed anche dell’Europa, dagli Spagnoli in fuori, la quale chiamano gorgia; e ognuno sa che pronunziano hasa, haro, harrozza, invece di casa, caro, carrozza, come pur fanno tutti gli altri Italiani; e questa profondissima aspirazione gutturale è propria a molti, agli Egiziani ed a tutti gli Arabi, ed alle lingue che si propagarono dall’Arabia. Anzi, questa opinione era per me quasi certezza finchè venni in Inghilterra, dove trovai il teta greco pronunziato appunto come in Grecia, benchè scritto col th come scrivevasi da’ Latini, per indicare parole derivate dal greco, benchè essi non lo potessero mai ben pronunziare; nè io so che sia distintamente pronunziato se non dagli Inglesi; onde, se l’aspirazione gutturale de’ Fiorentini bastasse a indicare la loro origine arabica, l’aspirazione dentale del teta basterebbe a indicare l’origine greca de’ Britanni: così il primo assurdo mi trascinerebbe al secondo e a molti altri.

Ma anche supponendo i Fiorentini discendenti dagli Arabi, non ho mai creduto che la loro lingua fosse altro che una modificazione di quella che parlavano sotto a’ Romani; - senza però arrendermi ad alcuna delle altre due opinioni che, difese da due opposti eserciti di dotti di gran fama per i lor capitani, sostenevano, gli uni che la lingua italiana fosse derivata dal dialetto siciliano, e gli altri che fosse derivata dal dialetto provenzale. - La prima opinione era stata pronunziata da Dante, e la seconda dal Petrarca; e l’autorità di testimonj sì competenti, e di sì grandi nomi accresceva l’accanimento de’ due partiti.

Dante peraltro e Petrarca potevano errare anch’essi; nondimeno l’uno e l’altro avevano proposta la congettura la più ragionevole; e quando i letterati, specialmente italiani, non si compiacessero di tutte le occasioni per prolungare le loro battaglie e i loro trionfi di penna e di grida accademiche, e soprattutto di funeste e vilissime animosità provinciali, le due opinioni di Dante e Petrarca, benchè diverse, potevano, col ravvicinarle, condurre alla verità.

Il dialetto Siciliano e Provenzale, e il Catalano, e quel di Linguadoca, e quel di Toscana, e degli altri popoli d’Italia, e di molte parti dell’Europa meridionale, non derivarono l’uno dall’altro, nè prevalsero l’un dopo l’altro; ma erano tutti contemporanei, ed erano tutti nati quasi ad un tempo, e si modificarono l’uno per mezzo dell’altro al tempo del lungo dominio de’ Romani in Europa. Allora ogni popolo si chiamava romano, ed ogni dialetto d’ogni provincia si chiamava romanzo, o lingua romanza. - I Greci stessi che, per la traslazione dell’impero in Costantinopoli e per i primi padri della Chiesa scismatica, scrissero in greco, conservando fra bene e male la loro lingua e la loro letteratura, adottarono nondimeno tante parole da’ Romani, che la loro lingua fu allora, ed anch’oggi è nominata romeiki, e dagli Inglesi romaica. E chi analizzasse questa lingua romaica, vi troverebbe infinite parole della barbara latinità del medio evo; - come pure avviene nella lingua inglese, la quale, al dire d’autori che ne scrissero ex professo, e d’uomini dotti co’ quali ne ho tenuto discorso, quantunque composta di molte lingue diverse, il maggior numero delle sue parole l’ha dal latino. - Vero è che molte sono state introdotte dalla Francia, ma per qualunque via sianvi approdate, non sono meno latinismi; e per quanto altri sia di parere diverso, io fermamente credo che la più parte, e segnatamente i verbi, sieno state introdotte in Inghilterra nel medio evo dalle colonie militari romane. Così i nomi grace, elegance, che non hanno cambiato quasi ortografia e appena si sono alterati nella pronunzia, gratia, elegantia in latino; grazia, eleganza in italiano; grace, élégance in francese; grace, elegance in inglese, sono d’introduzione più tarda e appartengono al secolo di cui parliamo: - i verbi extraho, extractum, - strech’d, exert, to screw, ecc., sono di antichissima introduzione, e divenuti di suono sassone e settentrionale.

Questa lingua barbara derivata dalla romana e chiamata allora ed anch’oggi romanza, ed esistente vivissima in alcuni paesi, aveva sotto il lungo dominio de’ Romani, e le perpetue colonie militari, abolite, se non estinte, le diverse lingue nazionali de’ popoli, - come la lingua inglese d’oggi ha fatto e farà sempre più dimenticare i dialetti parlati dagli antenati nella Scozia, nell’Irlanda e nel paese di Galles: - e come avviene nell’inglese parlato oggi dagli Scozzesi e Irlandesi. Ma la lingua romana, adattandosi agli organi de’ popoli di differenti climi e d’abitudini e lingue diverse, la lingua romanza, quantunque in sostanza la stessa lingua, divenne modificazione apparentemente diversa in ogni provincia d’Europa.

Di questi dialetti rimangono documenti scarsissimi, perchè la lingua letteraria continuava ad essere pur sempre la latina, barbaramente scritta, e nella quale si pubblicavano le leggi, i decreti, gl’istrumenti legali; e quel poco che i maestri potevano insegnare lo dettavano in latino, - primamente perchè, fintanto che i Romani dominarono, vollero che nelle faccende pubbliche la loro lingua fosse anche intesa da tutti i loro sudditi; - in seguito perchè nell’invasione de’ barbari il clero rimase erede degli avanzi della giurisprudenza, della legislazione, e della lingua latina, e nessuno sapea scrivere fuorchè il clero; e finalmente perchè i popoli settentrionali generalmente doveano servirsi d’una lingua nella quale le leggi erano scritte, e che se non intesa dal popolo, era pure interpretata da’ legali e da’ maestri delle scuole, da’ preti, da’ monaci e da’ vescovi, che in quasi tutta l’Europa d’allora ottenevano una grande preponderanza.

Pur la quistione sarebbe rivolta in congettura, se in questi ultimi anni un letterato italiano, che da pochi mesi non vive più, non avesse con somma industria e con eguale imparzialità raccolti ed esaminati quanti avanzi scritti rimanevano della lingua romanza anteriori al secolo di Dante. Egli, paragonandoli l’uno all’altro, riescì a convincere sè medesimo ed i suoi lettori che quegli scritti, benchè di diversi paesi d’Italia, e talvolta anche di diversi popoli d’Europa, quantunque differissero nella terminazione delle parole, e in alcune varietà di sintassi, erano nondimeno composti degli stessi vocaboli, e con la stessa legge grammaticale; cosicchè tutti possono con pochissime alterazioni essere letteralmente tradotti nella lingua italiana d’oggi.

Gli Italiani, e soprattutto i Fiorentini, conservarono più gran numero di voci latine, sì perchè continuavano ad abitare il paese dove la lingua latina era stata la lingua nazionale, e dove era la sede de’ pontefici e della gerarchia ecclesiastica che continuavano a servirsi del latino, e a pronunziare i vocaboli della lingua romanza men corrotti che dagli altri Italiani; sì perchè la Toscana fu meno che altro paese d’Italia sotto il diretto governo de’ conquistatori settentrionali, e gli organi de’ suoi abitanti avvezzi a pronunziare le parole intere, lunghe e rotonde alla latina, erano stati preservati nella stessa abitudine, parte dalla bellezza del clima, e parte dal poco commercio co’ popoli del nord.

Molte parole nondimeno delle lingue teutoniche restarono alla lingua letteraria italiana; e v’è un criterio sicuro per distinguerle. Rare, se pur ve n’ha alcuna, riguardano la vita domestica e gli usi comuni della vita, che non sieno latine; ma le parole appartenenti a cose di guerra o titoli militari sono teutoniche, e sottentrarono a quelle de’ Romani. Così brando, elmo, invece di ensis o gladium, e galea; marciare, marescalco, invece di proficisci o procedere, e Dux; e, per lasciare altri esempj, invece del latino bellum dissero guerra da war, donde venne il nome de’ Germani di Warman. Lo stesso avvenne, benchè più tardi, per altri oggetti in Inghilterra, e fu al tempo delle conquiste normanne; perchè le voci esprimenti bue, vitello, porco, agnello, montone, ed altre necessità della vita somministrate dall’agricoltura, restarono sassoni nella campagna; ma i soldati andando a comprare queste cose al mercato, o forse anche il conquistatore avendo imposta una tariffa prevalendosi della propria nomenclatura, restavano alla cucina i nomi franco-romanzi di veal, beef, mutton.

Come la lingua italiana abbia troncate e modificate le terminazioni della latina, e sia ricorsa agli articoli, non è difficile a intendersi. Sino al secolo XII tutte le provincie italiane parlavano la lingua romanza più o meno modificata nella pronunzia, secondo il genere di organi loro naturali, e più o meno arricchita di parole forestiere, secondo che era stata generata da diverse nazioni forestiere, e il contatto e il commercio che aveva tenuto con esse. Così i Napoletani e Siciliani non hanno quasi parole di origine teutonica, e ne hanno di arabiche e di normanne; - i Genovesi, e più ancora i Veneziani, che navigavano in Grecia e sulle coste dell’Affrica, hanno molte voci di origine greca, ed alcune di origine arabica, che sono poi passate nella lingua Toscana, e in tutte le lingue d’Europa; come fra le altre: ammiraglio, in inglese admiral - arzanà, come Dante lo scrive, e darzena come lo pronunziano i Genovesi, ed arsenal, come oggi è proferito da’ Veneziani; e in italiano scrivesi arsenale, e arsenal in inglese. Onde il dottore Johnson a torto lo chiamò vocabolo d’origine italiana, quando è pretto affricano; se non che pare che il dottore Johnson non abbia giudicato le etimologie e derivazioni delle voci esser degne del suo studio: ma, se di tanto uomo è permesso di dire meno che lodi, egli avrebbe fatto da savio disprezzandole e tralasciandole affatto; pure avendole ammesse nel suo dizionario senza degnarle di esame, pare che egli disprezzasse anche i suoi lettori.

Nel duodecimo secolo, quando si cominciò più o meno a scrivere la lingua romanza, gli Italiani cominciarono a chiamarla volgare per distinguerla dalla latina, e il nome di romanza restò alla provenzale, che fu chiamata anche linguotta.

Ma la Provenza aveva avuto una corte e principi e gli uomini più distinti d’Europa, e alcuni negli ultimi tempi delle Crociate, molto innanzi che l’Italia si fosse affatto riscossa dal giogo teutonico: però quella lingua fu scritta innanzi della italiana, e diventò letteraria; cosicchè Brunetto Latini maestro di Dante, volendo scrivere più per la gente educata che pei letterati di professione, e non essendovi a’ tempi suoi nè molti scrittori, nè molti lettori di lingua italiana, s’appigliò a scrivere il suo trattato di Rettorica e Filosofia in lingua romanza, chiamata provenzale, perchè era intesa da tutti.

Ma la poesia che precede la prosa in tutti i paesi, e più in climi ed età dove regnano le immaginazioni e le passioni, era stata coltivata in lingua romanza, chiamata siciliana, cinquanta anni innanzi di Dante, secondo il suo proprio computo; e i poeti siciliani incominciarono a ridurre la lingua italiana al grado di letteraria. Quindi le due asserzioni di Dante e di Petrarca, asserzioni che divisero e divideranno per lungo tempo i grammatici antiquarj, si accordano mirabilmente; perchè molte lingue romanze italiane, senza essere formate dalla provenzale o dalla siciliana, esistevano contemporaneamente; e quando di queste differenti gli scrittori cominciarono a farne una sola generale ed intelligibile a tutta l’Italia, spogliandola de latinismi, de’ francesismi e de’ plebeismi, ritennero tutte le parole utili e le frasi eleganti che appartenevano tanto alle lingue romanze di Francia, quanto a quelle d’Italia e di Sicilia.

Nè Dante e Petrarca allegarono un’opinione differente su questo proposito con l’intenzione di decidere della origine della lingua: - questi due Poeti non alludevano che ai Trovatori, come allora si chiamavano gli scrittori di rime, che oggi si onorano col titolo di Poeti. Senza intendere di decidere un punto d’antichità, Dante affermava agli Italiani che dovevano coltivare la loro lingua materna, scriverla invece della latina, e non arricchire di opere la Francia, componendo in dialetto romanzo-provenzale, ma scegliere piuttosto il dialetto romanzo-siciliano, che era men aspro, più pieno di vocali e più vicino e conforme agli organi ed alla pronunzia degli Italiani, e in conseguenza più intelligibile; ma che per altro non bisognava adottare nessun dialetto romanzo particolare, ma combinare il meglio di tutti e formare una lingua universale a tutta l’Italia. E Dante diede i precetti e l’esempio; ed oltre il suo poema e le rime, scrisse in prosa italiana de’ trattati ammirabili per la lingua, e di tale stile stampandoli, che con pochissime alterazioni d’ortografia parrebbero scritti oggi. Il Petrarca al contrario non ha mai considerato la lingua italiana come capace di trattare soggetti in prosa: scrisse seriamente e gravemente per ambizione di fama opere in latino, nè mai scrisse in italiano se non in versi per descrivere la sua passione; e anche egli, come Dante, si formò una lingua tutta sua propria, scegliendo e combinando i più eleganti ed espressivi ed armoniosi vocaboli ed idiomi, da molti e varj dialetti romanzi sì Italiani che Francesi. - Ma tanto Dante che Petrarca, avendo succhiato il loro dialetto paterno col latte di madri e nudrici fiorentine, dovevano necessariamente avere il dialetto toscano per fondo della loro lingua italiana scritta; pure non ne ritennero, per così dire, che l’ossatura, perchè col potere del loro genio ciascuno de’ due si creò una lingua nuova. Quella di Dante è più originale e più italiana, sì perchè fu il primo, e sì perchè aveva ricavati i materiali del suo stile da varj dialetti d’Italia; e quella del Petrarca è più elegante e più raffinata di frasi, sì perchè egli, essendo venuto dopo, perfezionò molti modi di lingua introdotti da altri, ed essendo stato educato da giovinetto in Provenza dove abitò lungamente, ed amò, e scrisse le sue poesie amorose, si servì più che Dante d’idiomi del romanzo provenzale, e diede ai trovatori Provenzali il merito, forse vero forse non vero, di avere introdotto non la lingua, ma i metri delle poesie italiane; ed in questo particolare vedremo che si ingannò, perchè la forma del sonetto fu trovata in Sicilia, e la forma della canzone lunga è tutta d’invenzione Toscana. Questi due grandi uomini, e il Villani loro contemporaneo, ed altri storici, e poscia il Boccaccio contribuirono grandemente alla diffusione e popolarità del dialetto toscano in Italia, e al fondamento della lingua letteraria italiana. Ma, anche senza questi grandi scrittori, il dialetto toscano aveva acquistato da sè qualità che lo rendevano migliore di tutti gli altri dialetti italiani. Aveva, come si è detto, più numero di parole latine ed indigene, per così dire, all’Italia e più confacentisi a una lingua letteraria; aveva col numero dei vocaboli conservata più rotondità di pronunzia. Avevano i Toscani, e l’hanno tuttavia i Fiorentini, i Pistojesi e Sanesi fra gli altri, una corretta modulazione naturale di suoni nell’esprimere le parole. La repubblica di Firenze era democratica: il genere umano in tutti i paesi è destinato a essere strascinato per le sue lunghissime orecchie; ma ne’ paesi liberi e dove il popolo fa leggi, i suoi conduttori devono essere eloquenti. - E col parlare continuo in pubblico, gli uomini creati dalla natura per essere eloquenti diventano oratori, ed arricchiscono e perfezionano la loro lingua. Finalmente, per un singolare concorso di circostanze, ogni padre di famiglia in Firenze teneva un registro domestico di quanto accadeva nella sua casa: e siccome dal più ricco al più povero tutti si credevano membri non solo della foro famiglia, ma anche della repubblica, tutti ne’ loro diari mescevano le faccende pubbliche; cosicchè, esercitandosi a parlare in pubblico e scrivere di cose importanti, la lingua acquistava perfezione, esattezza, e colore. Molti di questi manoscritti furono pubblicati, e sono davvero tesori di lingua, di composizione, e di storia. Leggendoli, il grammatico si maraviglia della correzione della sintassi nell’elocuzione; - il critico non sa come spiegare quella spontanea, secreta e tanto più potente arte ed ordine di stile; - e lo storico vi trova particolarità e date e riflessioni politiche che sarebbero sfuggite anche al genio d’Erodoto e di Tacito. A questo esercizio di facoltà naturali aggiungevasi il profitto che ritraevano dal tradurre gli scrittori latini, e quasi sempre in prosa - spesso non intendendoli perfettamente; ma le traduzioni de’ classici serj, comunque siano fatte quanto alla fedeltà, servono mirabilmente a portare varietà, novità, abbondanza e nobiltà ad una lingua, soprattutto se la lingua è vivente e docilissima agli innesti. Tale è il carattere generale degli scrittori fiorentini, durante il secolo illustre per Dante, Petrarca e Boccaccio; nel qual tempo, per un fenomeno di cui io non ho mai udito, nè ho mai saputo trovare la spiegazione, in nessuno di quelli scrittori fiorentini, molti de’ quali artigiani, e le opere de’ quali si trovano tuttavia manoscritte a centinaia, non è una sola inesattezza grammaticale, mentre nelle rarissime lettere che Petrarca scriveva in fretta in italiano, alle volte non v’è grammatica.

Ma la lingua italiana non rimase in questo stato di prosperità più d’un secolo; poichè poco più di trenta anni dopo la morte del Boccaccio, non vi fu, per così dire, più nè scrittore, nè lingua. Tutti gli uomini si vergognavano di scrivere in altra lingua fuorchè in latino; e fra l’anno 1400 e l’anno 1480, in cui comincia l’epoca celebre di Lorenzo de’ Medici, appena troviamo tre o quattro scrittori che meritino d’essere studiati per la correzione. Fra l’altre ragioni che si paleseranno da sè, allorchè il corso di queste letture ci condurrà a quell’epoca, ve n’è una non osservata, ch’io mi sappia, da quanti trattarono la storia della letteratura italiana; ed è, che i padri e i maestri, per favorire lo studio del greco e del latino, proibivano non solo lo scrivere in italiano, ma lo studiare gli autori più celebri della loro patria. Il Varchi, che era giovinetto verso la fine dell’epoca di Lorenzo de’ Medici, scrive ciò ingenuamente di sè e del suo maestro nell’Ercolano; ed io citerò le sue parole: «Quando il Magnifico Giuliano fratello di papa Leone era vivo, che sono più di quaranta anni passati, [...] la lingua fiorentina, come che altrove non si stimasse molto, era in Firenze per la maggior parte in dispregio; e mi ricordo io, quando era giovanetto, che il primo e più severo comandamento che facevano generalmente i padri a’ figliuoli, e i maestri a’ discepoli, era che eglino nè per bene, nè per male non leggesseno cose volgare (per dirlo barbaramente, come loro); e maestro Guasparri Mariscotti da Marradi, che fu nella gramatica mio precettore, uomo di duri e rozzi ma di santissimi e buoni costumi, avendo una volta inteso, in non so che modo, che Schiatta di Bernardo Bagnesi e io leggevamo il Petrarca di nascoso, ce ne diede una buona grida, e poco mancò che non ci cacciasse della scuola.»