Sulla origine delle specie per elezione naturale, ovvero conservazione delle razze perfezionate nella lotta per l'esistenza/Capo VIII/Istinti speciali

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Capo VIII

Istinti speciali

../Cambiamenti ereditati di abitudini o di istinti negli animali domestici ../Obbiezioni contro la teoria dell'elezione naturale IncludiIntestazione 1 giugno 2008 75% paleontologia

Capo VIII - Cambiamenti ereditati di abitudini o di istinti negli animali domestici Capo VIII - Obbiezioni contro la teoria dell'elezione naturale

Forse comprenderemo meglio in qual modo gli istinti furono modificati nello stato di natura dall’elezione, se consideriamo alcuni fatti particolari. Ne sceglierò tre soli fra quelli che avrò a discutere nel futuro mio lavoro; cioè l’istinto che determina il cuculo ad abbandonare le sue uova nei nidi d’altri uccelli, l’istinto di certe formiche di fare schiavi, e finalmente la facoltà di costruire celle nell’ape domestica. Questi ultimi due istinti si sono generalmente, ed a ragione; considerati dai naturalisti come i più portentosi fra tutti gli istinti conosciuti.

Istinto del cuculo. - Alcuni naturalisti ammettono che la causa più immediata e finale dell’istinto del cuculo sia che la femmina depone le sue uova ad intervalli di due o tre giorni, anzichè giornalmente; per cui se essa fabbricasse il proprio nido e si posasse sulle sue uova, dovrebbe lasciar le prime deposte per qualche tempo senza incubazione, altrimenti si troverebbero nel medesimo nido le uova ed i piccoli uccelletti di differenti età. Se così fosse, il processo della covatura e dello schiudimento della uova sarebbe sconvenientemente lungo, ed in ispecie pel riflesso che la madre deve emigrare assai per tempo; e i primi uccellini, sbucciati dall’uovo, dovrebbero probabilmente essere nutriti dal solo maschio. Ma la femmina del cuculo americano è appunto in queste condizioni; perchè essa forma il proprio nido e depone uova, e i piccoli sbucciano dall’uovo nello stesso tempo. Si è sostenuto e poi negato che anche il merlo d’America deponga talvolta le sue uova nei nidi di altri uccelli; ma io seppi di recente dal dott. Merrel di Jowa che egli una volta nell’Illinois trovò un giovane cuculo insieme con una giovane gazza nel nido del Garrulus cristatus, e siccome ambedue avevano le loro penne, non può ammettersi un errore di classificazione. Potrei dare parecchi esempi di uccelli differenti, che depongono le loro uova nei nidi d’altri uccelli. Ora suppongasi che l’antico progenitore del nostro cuculo d’Europa avesse le abitudini del cuculo americano; ma che occasionalmente deponesse un uovo nel nido di altro uccello. Se il vecchio cuculo da questa abitudine accidentale avesse tratto profitto per migrare più presto, od in altro modo; oppure se il cuculo giovane, in seguito al traviato istinto materno di un’altra specie fosse divenuto più robusto che non sotto le cure della propria madre, la quale era sopraccaricata dalla cura contemporanea per le uova e pei figli giovani di diversa età, ne sarebbe derivato un vantaggio, o pei genitori o per i giovani nutriti a spese di altri uccelli. L’analogia mi indurrebbe a credere che gli uccelletti, così allevati, sarebbero atti a seguire per eredità l’accidentale ed aberrante abitudine della loro madre; e alla loro volta diverrebbero capaci di depositare le uova nei nidi degli altri uccelli e riescirebbero in questo modo al allevare una prole più robusta. Per un continuo processo di tal fatta, credo che il singolare istinto del nostro cuculo possa essersi formato. È stato anche recentemente e per sufficienti ragioni sostenuto da Adolfo Müller, che il cuculo depone occasionalmente le sue uova sul nudo terreno, le cova, e nutre i pulcini; questo raro ed interessante fenomeno è probabilmente una riversione all’istinto originario di nidificazione da lungo tempo perduto.

Mi fu obbiettato di non avere menzionato altri analoghi istinti e adattamenti del cuculo che furono detti necessariamenti coordinati. Ma in tutti i casi la speculazione intorno ad un istinto unico e conosciuto in un’unica specie è inutile, perchè non abbiamo fatti che ci servano di guida. Fino a questi ultimi tempi non si conosceva che gli istinti del cuculo europeo e dell’americano non parassitico; ma le osservazioni di E. Ramsay ci hanno fatto ora conoscere le tre specie australesi che mettono le loro uova in nidi stranieri. Tre punti principali devono qui considerarsi: in primo luogo il cuculo comune, con rare eccezioni, mette un solo uovo in un nido, per cui il pulcino grande e vorace riceve un ricco nutrimento. In secondo luogo l’uovo è così piccolo, che non è maggiore di quello di un’allodola, di un uccello ben quattro volte minore del cuculo. Che le piccole dimensioni dell’uovo siano un caso di adattamento, possiamo dedurre dal fatto che il cuculo americano non parassitico depone uova corrispondenti alla sua grandezza. Finalmente il giovane cuculo mostra subito dopo la nascita l’istinto, la forza ed un rostro adatto per gettare dal nido i suoi fratelli di nutrimento che muoiono poi di freddo e di fame. Ma si è sostenuto arditamente che questa sia una misura benevola, affinchè il giovane cuculo riceva sufficiente cibo, ed i suoi fratelli di nutrimento periscano prima di acquistare molto sentimento!

Rivolgiamoci ora alle specie australesi. Sebbene questi uccelli mettano un solo uovo in un nido, si trovano tuttavia non raramente nello stesso nido due ed anche tre uova. Nel cuculo bronzino le uova variano notevolmente nella grandezza, misurando da otto a dieci linee in lunghezza. Se fosse stato di qualche vantaggio per questa specie di generare uova ancora più piccole di quelle che depone al presente, sia per ingannare più facilmente i genitori nutritizi, oppure, ciò che mi sembra più probabile, perchè più facilmente si schiudano (essendosi asserito che sussiste un determinato rapporto fra la grandezza delle uova e la durata della incubazione); allora non sarebbe difficile l’ammettere che sia formata una razza o specie che generasse uova sempre più piccole, le quali sarebbero state covate ed allevate con maggiore facilità. Il Ramsay osserva che due cuculi australesi, quando mettono le loro uova in un nido aperto, manifestano una decisa preferenza per quei nidi, i quali contengono delle uova simili nel colore alle proprie. La specie europea ha certamente una tendenza a tale istinto, ma non raramente se ne diparte, come si vede quando mette il suo uovo fioco e chiaro nel nido della grisetta (Accentor) che ha uova chiare di colore azzurro verdastro. Se il nostro cuculo mostrasse invariabilmente il suddetto istinto, questo dovrebbe annoverarsi fra quelli che furono acquistati d’un sol tratto. Le uova del cuculo bronzino australese, secondo il Ramsay, variano straordinariamente nel colore, così che a questo riguardo ed a riguardo della grandezza l’elezione naturale avrebbe potuto assicurare e fissare una variazione vantaggiosa.

Relativamente al cuculo europeo, i giovani figli dei genitori nutritizi vengono dal cuculo gettati dal nido al solito tre giorni dopo che questo ha abbandonato l’uovo, e siccome in quest’età egli è assai debole, così il Gould fu dapprima del parere che l’atto della espulsione fosse compiuto dagli stessi genitori nutritizi. Ma egli ebbe ora una fedele descrizione, da cui risulta che fu osservato un giovane cuculo, ancora cieco ed incapace a portare la sua testa, nel momento stesso, in cui espelleva dal nido i suoi fratelli di nutrimento. Uno di questi fu dall’osservatore riportato nel nido, e venne di nuovo espulso. Siccome pel giovane cuculo fu probabilmente di grande importanza di ricevere nei primi giorni dopo la nascita la maggior possibile quantità di nutrimento, non saprei trovare, in riguardo ai mezzi co’ quali quello strano ed odioso istinto potesse essere raggiunto, alcuna difficoltà nell’ammettere che il cuculo acquistasse durante molte successive generazioni lentamente la cieca tendenza, la forza sufficiente e la struttura adattata per gettare dal nido i suoi fratelli di nutrimento; imperocchè quelli fra i giovani cuculi, i quali aveano meglio sviluppata quell’abitudine e quella struttura, saranno stati i meglio nutriti ed i più sicuramente allevati. Il primo passo a raggiungere il vero istinto poteva essere una inconscia irrequietezza per parte del giovane uccello, alquanto progredito nell’età e nella forza; l’abitudine sarà stata più tardi migliorata e trasmessa ad un’età più precoce. Non saprei qui vedere una difficoltà maggiore di quella che s’incontra nello spiegare come i giovani non ancora nati di altri uccelli ricevano l’istinto di rompere il guscio del proprio uovo, o come, al dire dell’Owen, i giovani serpenti acquistino nella mascella superiore un acuto dente transitorio per tagliare il tenace guscio dell’uovo. Siccome ogni parte ed in tutte le età è soggetta a variazioni individuali che tendono poi ad essere trasmesse per eredità in epoca corrispondente - proposizione che non può essere contestata; - così l’istinto e la struttura nei giovani potranno essere soggetti a lente modificazioni non meno che negli adulti, ed ambedue i casi devono sussistere o cadere con tutta la teoria dell’elezione naturale.

Alcune specie di Molothrus, un genere affatto diverso di uccelli americani, affine ai nostri storni, hanno abitudini parassitiche come il cuculo. Secondo le notizie dell’Hudson, esimio osservatore, i due sessi del Molothrus badius vivono a stormi promiscuamente, e talvolta si accoppiano. Talvolta si costruiscono un proprio nido, altre volte ne scelgono uno che appartiene ad un altro uccello, ed espellono la nidiata. Questi uccelli depongono le loro uova ora nel nido così appropriatosi, ora, cosa molto strana, se ne costruiscono uno proprio che sovrappongono a quello. Inoltre covano generalmente da sè le uova, ed alimentano i propri giovani. Ma l’Hudson crede probabile che occasionalmente vivano parassitici, avendo osservato i pulcini di questa specie mentre seguivano uccelli vecchi di un’altra specie ed invocavano da essi il nutrimento. Le abitudini parassitiche di un’altra specie, del Molothrus bonariensis, sono assai più sviluppate che quelle del primo; ma sono ancora lontane dall’essere perfette. A quanto si sa, questo uccello mette le sue uova invariabilmente nel nido altrui; ma è rimarchevole che parecchi di essi incominciano talvolta a costruirne uno proprio, irregolare, fuori di tempo, in luogo singolarmente poco adattato, per esempio sulle foglie di un grande cardo. Essi però, come Hudson ha potuto rilevare, non finiscono mai da sè il nido. Spesso mettono molte uova (da 15 a 20) nello stesso nido; di cui solo poche o nessuna vengono covate. Oltre ciò hanno la straordinaria abitudine di praticare col becco dei fori nelle uova, siano queste della propria specie, a quelle de’ loro genitori nutritizi che trovano ne’ nidi appropriatisi. Lasciano anche cadere molte uova sul nudo terreno, che per conseguenza vengono distrutte. Una terza specie, il Molothrus pecoris dell’America settentrionale, ha acquistato perfettamente gli istinti del cuculo, giacchè non depone mai più che un uovo in un nido straniero, cosicchè il pulcino viene certamente allevato. L’Hudson è un deciso avversario della teoria delle evoluzioni; ma gli istinti imperfetti del Molothrus bonariensis lo hanno talmente sorpreso, che, citando le mie parole, si domanda: "Anzi che considerare queste abitudini come dotazioni speciali o come istinti creati, non dobbiamo noi ritenerle come leggere conseguenze di una legge generale, ossia di transizione?".

Nei gallinacei non è insolita l’abitudine occasionale degli uccelli di abbandonare le loro uova nei nidi d’altri uccelli; e ciò spiega per avventura l’origine di un istinto speciale nel gruppo degli struzzi. Alcune femmine dello struzzo si associano per deporre alcune poche uova in un nido comune, indi in un altro; e queste sono poi covate dai maschi. Questo istinto può probabilmente avere la sua ragione nel fatto, che le femmine covano un gran numero di uova; ma come nel caso del cuculo, ad intervalli di due o tre giorni. Però quest’istinto dello struzzo americano e del Molothrus bonariensis non fu ancora abbastanza perfezionato, perchè uno sterminato numero di uova rimane sparso sulle pianure; per modo che in un solo giorno di caccia ne raccolsi non meno di venti abbandonate e guaste.

Molte api sono parassite, e lasciano sempre le loro uova nei nidi delle api di altri razze. Questo fatto è più notevole di quello del cuculo, perchè queste api non hanno modificati solamente i loro istinti, ma anche la loro struttura, in relazione alle loro abitudini parassitiche; perchè inoltre esse non posseggono l’apparato raccoglitore del polline, che sarebbe necessario quando esse dovessero accumulare il nutrimento per la loro prole. Alcune specie di sfegidi (insetti simili alle vespe) sono parimenti parassite di altre specie; e il Fabre ha recentemente esposto buone ragioni per stabilire che, quantunque la Tachytes nigra costruisca generalmente la propria tana, e vi raccolga le sue prede paralizzate pel nutrimento delle proprie larve; tuttavia, allorchè questo insetto trova una tana già fatta ed approvvigionata da un’altra specie, ne prende possesso e diviene parassita per l’occasione. In tal caso, come avemmo da rilevare per il cuculo e pel Molothrus, io non saprei trovare alcuna difficoltà che l’elezione naturale convertisse un’abitudine occasionale in permanente, se ciò fosse utile alla specie, e quando l’insetto, del quale i nidi e le provviste alimentari sono così proditoriamente usurpati, non venisse perciò esterminato.

Istinto della schiavitù. - Questo istinto rimarchevole per la prima volta scoperto nella Formica (Polyerges) rufescens da Pietro Huber, più esimio osservatore del celebre suo padre. Questa formica dipende assolutamente dal servizio delle sue schiave, al punto che, senza il loro aiuto, la specie in un anno solo rimarrebbe estinta. I maschi e le femmine non fanno lavoro di sorta alcuna, e le operaie, o femmine sterili, benchè siano le più energiche e coraggiose nell’impadronirsi delle schiave, non stanno altrimenti occupate. Esse sono incapaci di formare i propri nidi, e di alimentare le loro larve. Quando la vecchia abitazione è trovata incomoda e debbono emigrare, le sole schiave decidono della partenza e trasportano effettivamente le loro padrone colle mascelle. Le padrone sono poi affatto incapaci di provvedere ai propri bisogni, cosicchè Huber ne separò una trentina, senza alcuna schiava, e loro fornì in copia il nutrimento che sogliono preferire, lasciando in mezzo ad esse le larve e le crisalidi, affinchè servissero alle medesime di stimolo al lavoro; eppure esse rimasero oziose, nè si cibarono, per cui molte perirono per la fame. Huber introdusse allora una sola schiava (Formica fusca), la quale si mise tosto all’opera, diede nutrimento alle superstiti e le salvò; costruì alcune cellette, allevò le giovani larve e mise tutto in ordine. Che cosa può darsi di più straordinario di questi fatti bene accertati? Se noi non conoscessimo altre specie di formiche con schiave, sarebbe stato inutile speculare come possa essere stato perfezionato codesto istinto meraviglioso.

Ma P. Huber fu anche il primo a segnalare un’altra specie di formiche, che si valgono dell’opera delle schiave, ed è la Formica sanguinea. Questa specie fu trovata nelle parti meridionali dell’Inghilterra, e le sue abitudini furono studiate da J. Smith del Museo Britannico, al quale io mi tengo obbligato per le informazioni fornitemi sopra questo e sopra altri argomenti. Benchè io prestassi piena fede alle osservazioni di Huber e di Smith, volli studiare questo soggetto con qualche scettica apprensione dello spirito, e tutti vorranno scusarmi di avere dubitato della verità di questo istinto odioso e straordinario di ridurre in schiavitù tali insetti. Io produrrò quindi le osservazioni da me fatte, con qualche dettaglio. Ho aperto quattordici nidi della Formica sanguinea e ho trovato in tutti alcune schiave. I maschi e le femmine feconde della specie schiava (Formica fusca) si trovano solamente nelle loro proprie società e non furono mai veduti nei nidi della Formica sanguinea. Le schiave sono nere ed hanno circa la metà delle dimensioni delle loro padrone rosse, talchè il contrasto nella loro apparenza è grandissimo. Se il nido è leggermente disturbato, le schiave escono di quando in quando, e, come le loro padrone, sono molto agitate e cercano difendere la loro abitazione: ove poi il nido fosse molto guasto e le larve insieme alle crisalidi fossero esposte, le schiave lavorano indefessamente colle loro padrone per trasportarle fuori in luogo sicuro. Da ciò risulta evidentemente che le schiave si conducono come appartenenti alla casa. Nei mesi di giugno e luglio di tre anni successivi, osservai per molte ore parecchi nidi nel Surrey e nel Sussex, nè ho mai veduto una sola schiava uscire o entrare nel nido. Siccome in questi mesi le schiave sono molto poche, io pensavo che ciò per avventura non sarebbe avvenuto quando esse fossero più numerose; ma lo Smith mi accertava che egli esaminò i nidi delle formiche per diverse ore, nei mesi di maggio, giugno e agosto nel Surrey e nello Hampshire, e non ha mai osservato che le schiave entrassero od uscissero dal nido, benchè nel mese d’agosto fossero accumulate in gran numero. Quindi egli le considera quali schiave esclusivamente domestiche. Le padrone, d’altra parte, si veggono costantemente in moto, per trasportare materia nel nido e sostanze alimentari d’ogni sorta. Nell’anno 1860 però, nel mese di luglio, trovai una società di formiche le quali avevano un numero straordinario di schiave, e vidi che alcune di queste, in compagnia delle loro padrone, uscirono dal nido e si incamminarono per la stessa via verso un grande pino di Scozia, distante 25 metri, sul quale ascesero insieme, forse per cercarvi gli afidi o le cocciniglie. Secondo Huber, che aveva ampi mezzi d’investigazione, nella Svizzera le schiave lavorano abitualmente colle loro padrone nel costruire i loro nidi, e le prime da sole aprono e chiudono le entrate al mattino e alla sera; ma la loro principale occupazione, come Huber stabilisce espressamente, è quella di andare in cerca di afidi. Questa differenza nelle ordinarie abitudini delle padrone e delle schiave nei due paesi, dipende forse semplicemente da ciò, che le schiave sono catturate in maggior numero nella Svizzera che in Inghilterra.

Un giorno assistetti fortunatamente alla migrazione della Formica sanguinea da un nido ad un altro, ed era uno spettacolo dei più interessanti il vedere le padrone trasportare accuratamente le loro schiave colle mascelle, invece di essere trasportate da esse come nel caso della Formica rufescens. Un altro giorno la mia attenzione fu attirata da una ventina circa di quelle formiche che fanno schiavi, le quali frequentavano il medesimo luogo ed evidentemente non erano in cerca di nutrimento; esse si avvicinarono ad una comunità indipendente di una specie con schiave (Formica fusta) e ne furono vigorosamente respinte; talvolta fino a tre di queste si attaccavano alle zampe della Formica sanguinea. Queste uccidevano allora spietatamente i loro piccoli avversari e portavano i loro corpi come nutrimento nel loro nido, che distava 29 metri circa; ma esse non poterono prendere le ninfe per allevarle come schiave. Allora io dissotterrai una piccola quantità di ninfe della Formica fusca da un altro nido e le seminai sopra un terreno nudo, presso al luogo del combattimento; esse furono tosto prese e trasportate via dalle tiranne, che forse si immaginarono, dopo tutto, di essere state vittoriose nella loro ultima battaglia.

Nello stesso tempo io collocai nel medesimo luogo una piccola quantità di crisalidi di un’altra specie (Formica flava), essendovi anche attaccate ai frammenti del nido alcune poche di queste formiche gialle. Questa specie viene talvolta ridotta in servitù, benchè di rado, e ciò fu descritto dallo Smith. Quantunque questa specie sia tanto piccola, è molto coraggiosa; ed io la vidi attaccare ferocemente le altre formiche. Una volta, per esempio, trovai con mia sorpresa una società indipendente di Formica flava sotto una pietra, inferiormente al nido della tiranna Formica sanguinea; e appena io disturbai accidentalmente i due nidi, le piccole formiche assalirono le loro grosse vicine con sorprendente coraggio. Ora io ero curioso di accertare se la Formica sanguinea possa distinguere le crisalidi della Formica fusca, che essa rende schiava, da quelle della piccola e furiosa Formica flava, che di rado essa può catturare: e dovetti convincermi che a prima vista essa le distingue. Infatti io osservai che essa si impadroniva, avidamente ed istantaneamente, delle crisalidi di Formica fusca, mentre al contrario rimaneva molto spaventata, quando incontrava le crisalidi, od anche la sola terra levata dal nido della Formica flava e fuggiva frettolosamente; ma in un quarto d’ora circa e poco dopo che le piccole formiche gialle erano partite, le prime tornavano indietro e rapivano le crisalidi.

Una sera io visitai un’altra società della specie Formica sanguinea e trovai molte di queste formiche che ritornavano a casa ed entravano nei loro nidi, trasportando dei corpi di Formica fusca e molte crisalidi, locchè prova che quella non era una migrazione. Seguii le traccie di una lunga fila di formiche cariche di bottino, per una lunghezza di 40 metri circa, fino ad un folto cespuglio, dal quale vidi uscire l’ultimo individuo che trasportava una crisalide; ma non fui capace di trovare il nido devastato nella folta macchia. Il nido però non doveva essere molto lontano, perchè due o tre individui della specie della Formica fusca correvano qua e là grandemente agitati, ed uno stava immobile alla estremità di un ramoscello del cespuglio, tenendo colle mascelle la sua crisalide e in atteggiamento di desolazione, sopra la sua abitazione saccheggiata.

Questi sono i fatti riguardanti il portentoso istinto delle formiche che hanno schiave. Mi sia permesso di osservare quale contrasto presentano le abitudini istintive della Formica sanguinea con quelle della Formica rufescens del continente. L’ultima non fabbrica la propria abitazione, non dirige le proprie migrazioni, non raccoglie nutrimento per sè o per le giovani, e persino è incapace di alimentarsi: essa dipende assolutamente dall’opera delle sue molte schiave. La Formica sanguinea, invece, possiede pochissime schiave, e al principio dell’estate un numero insignificante; le padrone decidono quando e in che luogo debbano farsi i nuovi nidi, stabiliscono il momento delle migrazioni, e sono esse che portano le schiave. In Isvizzera, come in Inghilterra, sembra che le schiave soltanto si occupino delle larve, e le padrone si aggirino per il solo scopo di catturare nuove schiave. Nella Svizzera le schiave e le padrone lavorano insieme, apprestando materiali per la costruzione del nido; entrambe, ma specialmente le schiave, hanno cura e mungono per così dire i loro afidi; ed inoltre entrambe raccolgono le sostanze alimentari per l’intera società. In Inghilterra, invece, le sole padrone ordinariamente escono dal nido, per cercare i materiali per le loro costruzioni e il nutrimento per sè, per le loro schiave e per le larve. Quindi le padrone nel nostro paese ricevono dalle loro schiave molto minori servigi, di quelli che prestano le formiche schiave nella Svizzera.

Non pretendo di fare alcuna congettura con quali gradazioni si sia formato l’istinto della Formica sanguinea. Però, siccome ho trovato certe formiche, che non catturano schiave, appropriarsi le crisalidi di altre specie, allorchè si avvicinano ai loro nidi, può darsi che queste crisaidi, ammassate come nutrimento, si siano sviluppate; e le formiche forestiere, così allevate accidentalmente, avranno seguito i loro istinti e compiuto quel lavoro di cui erano capaci. Se la loro presenza divenne utile alle specie che di esse si impadronirono, se fu più vantaggioso a queste specie il catturare le operaie, anzichè il procrearle - l’abitudine di raccogliere in origine crisalidi pel loro nutrimento può per mezzo della elezione naturale essersi consolidata e resa permanente, per lo scopo affatto diverso di allevare delle schiave. Quando l’istinto fu acquistato, per quanto debole fosse dapprima e poco pronunciato, anche nelle nostre formiche sanguigne d’Inghilterra, che ricevono, come abbiamo veduto, meno servigi dalle loro schiave di quelle della stessa specie in Isvizzera, l’elezione naturale potè accrescere e modificare tale istinto - sempre nel supposto che ogni modificazione sia utile alla specie - finchè si fosse formata una formica dipendente dalle sue schiave con tanta abbiezione, come la Formica rufescens.

Istinto dell’ape domestica di costruire celle. - Non voglio discendere ai minuti ragguagli su questo soggetto; ma darò solamente un cenno delle conclusioni a cui sono arrivato. Sarebbe uno stolto colui che esaminasse la squisita conformazione di un favo, così stupendamente adatta al suo scopo, senza risentirne un’ammirazione entusiastica. Sappiamo dai matematici che le api hanno risolto praticamente un problema difficile, ed hanno costruito le loro celle di una forma tale da contenere la maggiore quantità possibile di miele, col minor possibile consumo della cera preziosa. Si è notato che un abile operaio, fornito di strumenti precisi e di misure esatte, incontrerebbe molta difficoltà ad eseguire delle celle di cera della forma identica a quelle che vengono perfettamente fabbricate da uno sciame di api che lavorano in un oscuro alveare. Sia pur grande l’istinto che loro si attribuisce, parrà sulle prime affatto inconcepibile come possano riuscire a formare gli angoli e i piani necessari, od anche come possano accorgersi che il loro lavoro fu compiuto correttamente. Ma la difficoltà non è poi tanto insuperabile come sulle prime si giudica; tutto questo mirabile lavoro può spiegarsi, a mio avviso, come una conseguenza di alcuni istinti semplici.

Fui spinto dal Waterhouse ad investigare questo soggetto. Egli ha dimostrato che la forma della cella sta in stretta relazione colla presenza delle celle adiacenti, e le seguenti considerazioni possono forse prendersi soltanto come una modificazione della sua teoria. Ricorriamo al grande principio delle gradazioni e vediamo se la Natura non ci riveli il suo metodo di operare. Ad un estremo di una breve serie noi abbiamo i pecchioni, che impiegano i loro vecchi bozzoli, deponendo in essi il miele e aggiungendovi talora dei tubi corti di cera e formando altresì delle cellette di cera separate ed irregolarmente arrotondate. All’altro estremo della serie abbiamo le celle dell’ape domestica in uno strato doppio: ogni cella, come sappiamo, è costituita di un prisma esagono coi vertici alla base negli estremi dei suoi spigoli tagliati di sbieco, in modo da formare una piramide composta di tre rombi. Questi rombi hanno certi angoli determinati, e i tre rombi, che formano la base piramidale di ogni cella da una parte del favo, entrano nella composizione delle basi di tre celle adiacenti della parte opposta. Nella serie che passa fra la estrema perfezione delle celle dell’ape domestica e la semplicità di quelle del pecchione, noi troviamo le celle della Melipona domestica del Messico, descritta ampiamente e disegnata da Pietro Huber. La Melipona stessa ha una struttura intermedia fra quella dell’ape domestica e del pecchione, ma più vicina a quest’ultimo: essa forma un favo quasi regolare di cera, con celle cilindriche, nelle quali si allevano le larve e vi aggiunge diverse celle di cera più grandi, per conservarvi il miele. Queste ultime celle sono quasi sferiche, hanno i loro lati press’a poco uguali e sono aggruppate in una massa irregolare. Ma il fatto più importante da notarsi è che queste celle sono talmente fra loro ravvicinate, che se le sfere fossero complete, sarebbero intersecate, o interrotte l’una dall’altra; ma ciò non potrebbe mai avvenire, perchè le api costruiscono delle parti di cera perfettamente piane, fra le sfere che tenderebbero ad intersecarsi. Ogni cella, quindi, si compone di una porzione sferica esterna e di due, tre, o più altre celle. Quando una cella viene in contatto di tre altre celle (locchè avviene frequentemente e necessariamente), perchè le sfere sono quasi della stessa grandezza, le tre superfici piane si intersecano, formando una piramide. Questa piramide, come osservò Huber, è manifestamente una grossolana imitazione della base piramidale a tre faccie della cella dell’ape domestica, le tre superfici piane entrando necessariamente nella costruzione delle tre celle adiacenti. È evidente che la Melipona risparmia della cera col metodo delle sue costruzioni; perchè le pareti piane fra le celle adiacenti non sono doppie, ma hanno una grossezza uguale a quella delle porzioni sferiche esterne, e ogni porzione piana fa parte di due celle.

Riflettendo a questi fatti pensai che se la Melipona avesse fabbricato le sue sfere a una data distanza fra loro e le avesse formate di uguale grandezza e con disposizione simmetrica sopra un doppio strato, la struttura risultante sarebbe stata probabilmente perfetta quanto quella del favo dell’ape domestica. Coerentemente scrissi ai prof. Miller di Cambridge, e questo geometra, appoggiandosi alle mie informazioni, giunse al seguente risultato, che cortesemente mi comunicò e del quale mi dichiarò la rigorosa esattezza.

Se un numero qualunque di sfere uguali siano descritte poste coi loro centri in due piani paralleli e in modo che il centro di ogni sfera non sia distante dalle sei sfere contigue, poste nello stesso strato, più del prodotto che si ottiene moltiplicando il raggio per (2, vale a dire per 1,41421; e che inoltre ogni sfera sia alla medesima distanza dai centri delle altre sfere vicine poste nell’altro strato parallelo; se si conducono i piani di intersezioni delle sfere di ambi gli strati, ne risulterà un doppio strato di prismi esagoni congiunti fra loro per mezzo di basi piramidali formate da tre rombi; e i rombi non meno che le faccie dei prismi esagoni avranno i loro angoli identici a quelli che ci sono dati dalle più esatte misure prese sulle celle dell’ape domestica. Mi viene però fatto conoscere dal professore Wyman, il quale ha eseguito numerose e diligenti misurazioni, che la esattezza del lavoro delle api fu notevolmente esagerata, al punto che egli sostiene che la forma tipica della cellula, se pur viene realizzata, lo è al certo raramente.

Noi possiamo dunque conchiudere con sicurezza che se potessimo modificare gli attuali istinti della Melipona, i quali in se stessi non sono poi tanto straordinari, quest’ape potrebbe raggiungere una struttura non meno perfetta di quella dell’ape domestica. Supponiamo che la Melipona fabbricasse celle esattamente sferiche e di uguale grandezza: nè ciò sarebbe a reputarsi sorprendente, mentre queste celle sono quasi uguali e sferiche, e conosciamo molti insetti che forano nel legno dei buchi perfettamente cilindrici, e come sembra col girare intorno ad un punto fisso. Supponiamo inoltre che la Melipona disponesse le sue celle su piani livellati, come essa lo fa nel costruire le sue celle cilindriche; ammettiamo poi, e ciò è assai più difficile a credersi, che la medesima sappia in qualche modo apprezzare giustamente la distanza che la separa dalle altre lavoratrici, quando molte stanno formando le loro sfere. Ma sembra che questo insetto sia già capace di valutare tale distanza, perchè egli descrive le sue sfere in modo che si intersecano ampiamente, e congiunge i punti di intersezione con superfici perfettamente piane. Noi dobbiamo di più fare un’altra ipotesi più ammissibile, cioè che avendo formati i prismi esagoni coi piani di intersezione delle sfere adiacenti situate nel medesimo strato, esso possa prolungare il prisma esagono fino alla lunghezza voluta, affinchè contenga una certa quantità di miele; in quella guisa che il rozzo pecchione aggiunge dei cilindri di cera alle aperture circolari dei suoi bozzoli vecchi. Con queste modificazioni di istinti che in se stessi non sono tanto meravigliosi, e certo non sono più stupendi di quello che conduce un uccello a fabbricarsi il nido, credo che l’ape domestica abbia acquistato, mediante la elezione naturale, la sua inimitabile facoltà architettonica.

Ma questa teoria può convalidarsi con una esperienza. Dietro lo esempio del Tegetmeier, ho separato due favi ed ho collocato fra essi una striscia di cera lunga, grossa e rettangolare: le api cominciarono immediatamente a forarvi dei piccoli incavi circolari, e quanto più esse progredivano nel lavoro fino a ridurli a foggia di bacini profondi, questi apparivano all’occhio come perfetti segmenti di sfera e di un diametro quasi eguale a quello cella. Era del più grande interesse per me l’osservare che in tutti i punti, nei quali parecchie api avevano cominciato ad escavare questi bacini gli uni presso gli altri, essi erano disposti precisamente ad una tale distanza fra loro, che quando erano giunti alla larghezza assegnata (cioè quella di una cella ordinaria) e ad una profondità corrispondente ad un sesto circa del diametro della sfera di cui essi formavano una parte, i bordi dei bacini si intersecavano e si interrompevano. Appena ciò si verificava le api si arrestavano e si davano a costruire delle pareti piane di cera sulle linee d’intersezione dei bacini, così che ogni prisma esagono fu eretto sul margine ondulato del bacino appianato invece degli spigoli retti della piramide a tre faccie che si trova nelle cellette ordinarie.

Io posi allora nell’alveare in luogo della grossa striscia rettangolare un’altra striscia di cera sottile e stretta come la costa di un coltello e colorata colla cocciniglia. Le api cominciarono subito ad escavare da ambe le parti i piccoli bacini a poca distanza fra loro, come prima avevano fatto; ma la striscia di cera era tanto sottile, che se i fondi dei bacini fossero stati approfondati come nella esperienza precedente, avrebbero traversato la cera da una parte all’altra. Le api però seppero prevenire questo risultato e arrestarono in tempo debito le loro escavazioni; e appena i bacini furono leggermente abbozzati, esse resero piani i loro fondi, i quali, così formati di un sottilissimo strato di cera colorata che non era stata intaccata, erano situati (per quanto l’occhio poteva giudicare) esattamente lungo i piani della intersezione che poteva immaginarsi prodotta fra i bacini sugli opposti lati della striscia di cera. In alcune parti avevano lasciato soltanto piccoli frammenti dei piani romboidali, in altre parti invece si osservavano grandi porzioni di questi piani, ma l’opera non era stata compiuta a dovere per le condizioni anormali in cui si trovavano. Convien dire che le api lavorarono contemporaneamente da ambi i lati della striscia di cera colorata ed escavarono circolarmente ad uguali profondità i bacini dalle due parti, per riuscire così a formare gli strati piani esistenti fra i bacini stessi, prima di sospendere il lavoro, non appena erano giunte ai piani intermedi o piani di intersezione.

Considerando quanto è pieghevole la cera sottile, non saprei trovare in questo caso alcuna difficoltà ad intendere come le api, nel lavorare ai due lati della lamina di cera, si accorgessero quando la cera fosse incavata fino ad una grossezza conveniente e allora sospendessero il lavoro. Nei favi ordinari mi parve che le api non giungessero sempre a formare esattamente nello stesso tempo le loro celle nelle direzioni opposte; perchè osservai dei rombi non compiuti alla base di una cella appena incominciata, che era leggermente concava da una parte, da quella cioè in cui io1 supponevo che le api avessero scavato più sollecitamente, e convessa dall’altra parte, ove le medesime avevano scavato con maggiore lentezza. In uno di questi casi posi il favo nuovamente nell’alveare e lasciai che le api vi lavorassero intorno per breve tempo: indi lo ripresi ed esaminai la cella, e vidi che lo strato romboidale era stato compiuto ed era divenuto in ambi i lati perfettamente piano: era assolutamente impossibile che esse avessero potuto renderlo tale col corrodere il lato convesso, per l’estrema sottigliezza del piccolo strato: quindi sospetto che le api in questi casi, stando nelle celle opposte, spingano e pieghino la cera duttile e calda (come io stesso potei facilmente provare) nel proprio strato intermedio e così la spianino.

Dal fatto della striscia di cera colorata possiamo rilevare chiaramente che, se le api avessero a costruire per sè una sottile parete di cera, formerebbero le loro celle della grandezza consueta, collocandole alla distanza determinata fra loro ed escavandole contemporaneamente e studiandosi di fare le loro vaschette esattamente sferiche; ma non le prolungherebbero approfondandole al punto di intersecarle scambievolmente. Ora le api fanno una parete rozza e periferica, una specie di bordo intorno al favo; e vi scolpiscono poi dai lati opposti le loro celle, che incavano sempre più lavorando circolarmente, come può vedersi chiaramente se si guardi il lembo del favo che stanno costruendo. Così esse non formano nello stesso tempo l’intera base piramidale a tre faccie, ma soltanto quello strato romboidale che si trova sull’estremo margine del favo od anche due faccie, come può osservarsi; ed esse non compiono mai gli spigoli superiori delle faccie romboidali, finchè le pareti esagone non sono cominciate. Alcune di queste osservazioni differiscono da quelle fatte dal giustamente celebrato Huber il vecchio, ma sono convinto dell’accuratezza delle medesime; e se avessi spazio potrei dimostrare che sono in accordo colla mia teoria.

L’opinione di Huber, che la prima cellula sia scavata in una piccola parete di cera a lati paralleli, non è pienamente fondata, per quanto mi fu dato di osservare; poichè il primo lavoro è sempre stato un piccolo cappuccio di cera; ma non mi diffonderò qui in ulteriori dettagli. Noi vediamo quanto sia importante l’atto della escavazione, nella costruzione delle celle; ma sarebbe un grande errore il supporre che le api non possano formare un rozzo strato di cera nella conveniente posizione, cioè, secondo il piano d’intersezione delle due sfere adiacenti. Io conosco parecchi fatti che dimostrano evidentemente la realtà di quanto affermo. Anche nel bordo informe e periferico di cera, o in quel piano che si trova in costruzione, possono osservarsi talvolta delle curvature le quali, per la loro situazione, corrispondono appunto agli strati delle faccie romboidali delle basi delle future cellette. Ma questa grossolana parete di cera deve in ogni caso essere lavorata e ridotta a perfezione dalle api, che la incavano profondamente da ambe le parti. È molto curioso il modo tenuto dalle api nel costruire le loro celle; esse formano sempre il primo rozzo strato dieci o venti volte più grosso della parete eccessivamente delicata della cella, parete che infine deve rimanere. Noi possiamo comprendere come esse lavorano, supponendo che dei muratori formino dapprima un grande ammasso di cemento, e quindi comincino da ambi i lati a levare ugualmente fino al livello del suolo tutto l’eccedente del muro sottile che deve restare nel mezzo, rimettendo sempre sopra l’ammasso il cemento sottratto ai fianchi e mescolandolo con cemento fresco. Si avrebbe in tal modo un muro sottile, che si alzerebbe costantemente e porterebbe alla sommità una gigantesca cornice. Tutte le celle, siano appena cominciate, siano compiute, rimangono così coronate di un forte bordo di cera e permettono quindi alle api di riunirsi ed appoggiarsi sul favo, senza danneggiare le delicate pareti esagone. Queste pareti sono molto variabili in grossezza, come gentilmente mi fu accertato dal prof. Miller: però una media di dodici misure prese sui margini diede 1,353 di pollice inglese di grossezza; mentre sopra ventun misure prese, le faccie delle basi romboidali si trovarono di 1,229 di pollice, cioè più grosse, incirca secondo la proporzione di tre a due. Per questa singolare maniera di fabbricare, il favo rimane continuamente solido, trovandosi infine risparmiata una grande quantità di cera.

Sembra sulle prime che si renda maggiore la difficoltà di comprendere la costruzione delle celle, dal vedere che una moltitudine di api vi è applicata al lavoro: e che un’ape, dopo di avere atteso per breve tempo ad una cella, passa ad un’altra; per cui una ventina di individui partecipano sino dal principio alla costruzione della prima cella, come constatò Huber. Io giunsi ad osservare praticamente questo fatto, coprendo gli spigoli delle pareti esagone di una cella, oppure l’estremo lembo del bordo periferico di un favo incipiente, con uno strato estremamente sottile di cera fusa colorata di rosso; e trovai sempre che il colore veniva più uniformemente steso dalle api, come potrebbe ottenerlo un pittore col suo pennello, quando esse prendevano degli atomi di codesta cera colorata dal punto in cui io l’avevo posta, e la impiegavano sulle pareti di tutte le celle vicine. L’opera di costruzione sembra una specie di bilancia che si stabilisca fra molte api, le quali tengonsi tutte alla medesima distanza relativa fra loro, e con uguale tendenza di scavare delle sfere identiche, di costruirvi sopra i loro prismi e di arrestarsi dall’incavare i piani di intersezione esistenti fra queste sfere. Era in verità cosa curiosissima il notare nei casi difficili, come quando due pezzi di favo si incontrano ad angolo, quanto spesso le api rovesciavano e ricostruivano la medesima cellula, talvolta adottando di nuovo una forma da esse reietta.

Quando le api si trovano in un luogo in cui possano stare nelle posizioni convenienti per le loro costruzioni, per esempio, sopra un tavolato che sia collocato direttamente sotto il punto centrale di un favo in costruzione all’ingiù, per modo che il favo debba costruirsi sopra una faccia del tavolato, in tal caso le api possono mettere le fondazioni della parete di un nuovo esagono nella situazione rigorosamente voluta, proiettandolo verso le altre celle finite. Basta che le api sappiano tenersi alle convenienti distanze relative fra loro e dalle pareti delle celle ultimamente compiute, perchè allora, descrivendo delle sfere immaginarie, possano elevare una parete intermedia a due sfere contigue. Ma, per quanto io mi abbia osservato, esse non si arrestano dal corrodere e non terminano gli angoli di una cellula, finchè non sia stata costrutta una gran parte di questa o delle celle vicine. Questa capacità delle api di formare, in certe circostanze, una parete grossolana nel suo posto preciso, fra due celle appena cominciate, è importante, quando si rifletta che si fonda sopra un fatto che a primo aspetto sembra sovversivo per la mia teoria; cioè che le celle sul margine estremo dei favi delle vespe sono talvolta perfettamente esagone; ma, per difetto di spazio, non posso entrare in questo argomento. Non mi pare gran fatto difficile che un singolo insetto faccia delle celle esagone (come nel caso della vespa-regina) quando lavori alternativamente all’interno ed all’esterno di due o tre celle cominciate contemporaneamente, stando sempre ad una distanza relativa conveniente dalle parti delle celle cominciate, per descrivere le sfere o i cilindri e costruire i piani intermedi. Può anche concepirsi come un insetto possa fissarsi sopra un punto, dal quale incominci una cella e, muovendo da quello, si volga prima verso un punto, poi verso cinque altri punti, alle proprie relative distanze dal punto centrale e fra loro; descriva i piani di intersezione e così formi un esagono isolato; ma io non credo che un simile processo sia stato osservato. Nè deve essersi prodotto qualche vantaggio dalla costruzione di un esagono, quando nella sua costruzione si impieghino maggiori materiali che nella formazione di un cilindro.

Come l’elezione naturale agisce solamente per l’accumulazione di piccole modificazioni nella struttura o nell’istinto, quando ognuna di esse sia vantaggiosa all’individuo nelle sue condizioni vitali, così potrebbe ragionevolmente chiedersi in che modo una lunga e graduale successione di istinti architettonici modificati, tutti tendenti al presente piano perfetto di costruzione, abbia potuto giovare ai progenitori dell’ape domestica. La risposta non è difficile; infatti noi sappiamo che le api sono spesso duramente stimolate a produrre del nèttare a sufficienza. Il Tegetmeier mi ha informato che si trovò sperimentalmente non consumarsi meno di dodici a quindici libbre di zucchero secco da uno sciame di api, per la secrezione di ogni libbra di cera. Deve dunque raccogliersi e consumarsi una prodigiosa quantità di nèttare liquido dalle api di un alveare, per la secrezione della cera necessaria alla costruzione dei loro favi. Inoltre molte api debbono rimanere oziose per molti giorni, durante il processo di secrezione. È poi necessaria una grande provvista di miele per mantenere una grande quantità di api nell’inverno; e la sicurezza dell’arnia dipende principalmente, come sappiamo, dal numero delle api che vi possono soggiornare. Quindi in ogni famiglia di api il risparmio della cera, servendo ad accrescere la provvigione del miele, deve essere il più importante elemento di successo. Naturalmente, il successo di ogni specie di api deve anche dipendere dal numero dei loro parassiti, o di altri loro nemici, od anche da cause affatto distinte: e per conseguenza può essere affatto indipendente dalla quantità del miele che esse possono raccogliere. Ma supponiamo per un momento che quest’ultima circostanza determini, come probabilmente deve spesso determinare, il numero dei pecchioni che possono esistere in un paese; e supponiamo inoltre (al contrario di quanto realmente avviene), che lo sciame viva per tutto l’inverno e quindi vada in traccia di una provvista di miele; in questo caso non potrebbe dubitarsi che sarebbe profittevole ai nostri pecchioni che il loro istinto, modificandosi leggermente, li determinasse a fabbricare le loro celle di cera tanto vicine fra loro da intersecarsi un poco; perchè una parete, comune a due celle adiacenti, risparmierebbe una piccola quantità di cera. Sarebbe dunque profittevole ai pecchioni il formare le loro celle sempre più regolari, più vicine l’una all’altra ed agglomerate in una sola massa, come quelle della Melipona; perchè allora una gran parte della superficie che limita ciascuna cella, servirebbe a contenerne altre e si avrebbe una maggiore economia di cera. Per la stessa ragione sarebbe anche utile alla Melipona il fare le sue celle più vicine fra loro e più regolari, in qualsiasi modo, che oggi non siano; perchè allora, come abbiamo veduto, le superfici sferiche scomparirebbero affatto e sarebbero surrogate da superfici piane; e la Melipona costruirebbe un favo perfetto, come quello dell’ape domestica. L’elezione naturale non potrebbe condurre al di là di questo stadio di perfezione architettonica, perchè il favo dell’ape domestica è, siccome abbiamo notato, assolutamente perfetto, in ordine all’economia della cera.

In questo modo può spiegarsi, a mio credere, il più portentoso di tutti gli istinti conosciuti, quello dell’ape domestica: cioè, coll’ammettere che la elezione naturale abbia saputo approfittare delle modificazioni piccole, numerose e successive di istinti più semplici. L’elezione naturale può dunque avere spinto le api, per gradi lenti e con crescente perfezione, a costruire delle sfere uguali, ad una data distanza fra loro in uno strato doppio; e a fabbricare ed escavare la cera, seguendo i piani di intersezione. Le api in verità non sanno di scolpire le loro sfere ad una determinata distanza fra esse, più di quello che conoscano i vari angoli dei prismi esagoni e delle faccie piane dei rombi delle basi. La causa impellente del processo di elezione naturale fu quella di ottenere risparmio di cera, conservando insieme alle celle la dovuta solidità, e la grandezza e forma adatte per le larve, e perciò quello sciame particolare che formò le migliori celle, e consumò meno miele nella secrezione della cera, riuscì meglio degli altri, e trasmise per eredità i suoi istinti economici acquistati ai nuovi sciami, i quali, alla loro volta, avranno goduto di una maggiore probabilità di trionfare nella lotta per l’esistenza.


Note

  1. Nell’originale "lo".