Sulle frontiere del Far-West/CAPITOLO XXI - L'hacienda di San Felipe

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CAPITOLO XXI - L'hacienda di San Felipe

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CAPITOLO XXI - L'hacienda di San Felipe
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CAPITOLO XXI.


L’«hacienda» di San Felipe.


I dugento Indiani, fra Sioux ed Arrapahoes, guidati da Nuvola Rossa, da Yalla e da Caldaia Nera, dopo aver perlustrato una trentina di terrazze scendenti verso il Lago Salato, senza aver trovate le tracce dei tre avventurieri, si erano risolutamente diretti là dove, fino alla sera innanzi, era stato improvvisato il piccolo accampamento.

Come tutti gl’Indiani, Nuvola Rossa sapeva perfettamente orientarsi senza bisogno della bussola, delle stelle e del sole, quindi non doveva ingannarsi, nè disperare di sorprendere, forse ancora immersi nel sonno, i tre avventurieri.

Con una rapidissima galoppata guidò la banda verso levante, e andò a fermarsi precisamente là dove avrebbero dovuto trovarsi almeno il cavallone pezzato dell’indian-agent ed i due mustani degli scorridori.

Ai tre avventurieri, sempre bene nascosti fra gli ultimi rami del cedro, nulla era sfuggito, quindi grande era stata la loro sorpresa nel riconoscere il gambusino alla testa dei formidabili guerrieri.

— Lui!... Ah, canaglia!... — esclamò John, afferrando il rifle. — Lo vedete, camerati! Non m’inganno io, è vero?

— No, amico, — risposero ad una voce Harry e Giorgio, i quali avevano subito riconosciuto il miserabile anche pel suo costume ben diverso da quello degl’Indiani.

— Non mi aspettavo di rivederlo fra quei vermi!...

— Che ci abbia traditi per salvare la sua capigliatura? — chiese Harry.

John scosse la testa.

— Caldaia Nera non è tale uomo da risparmiare un nemico della sua razza anche se gli promettesse mille capigliature, — rispose poi.

— Io avevo già avuto dei sospetti su quell’uomo per la sua pelle troppo bruna e troppo rossastra. Canaglia!... Ci ha giuocati per bene.

— Tu dunque credi che invece d’un meticcio sia un indiano nella pelle d’un falso gambusino.

— Sì, Harry. Disgraziatamente me ne sono accorto troppo tardi. Se avessi avuto prima qualche prova del suo vero essere, a quest’ora la sua carcassa giacerebbe nella prateria bene spolpata dalle coyotes.

[p. 206 modifica]— E quella che lo segue è Yalla?

— Sì, Harry. Quantunque non l’abbia veduta da tre anni, la riconosco perfettamente.

Guardatevi da lei, camerati: è peggiore di Caldaia Nera.

― Allora gli Sioux, gli Arrapahoes ed i Chayennes hanno compiuto il loro collegamento.

Che cosa sarà ora la grande prateria percorsa in tutti i sensi da quei demoni assetati di sangue di visi-pallidi?

— Ah!... Io non vorrei trovarmici in mezzo, Harry, ― rispose l’indian-agent.

— Ma che cosa fa dunque il Governo americano?

— Lascia tempo al tempo. Anche questa guerra finirà, come il solito, con stragi immense e sempre colla peggio della razza rossa.

Scommetterei che già delle forti colonne di volontari della frontiera accorrono dalla California, e che altrettante stanno varcando i fiumi giganteschi dell’est.

Tutti i massacri che questi vermi rossi avranno compiuti, non rimarranno impuniti.

Yalla qui!... Ah!... Non me l’aspettavo così presto!... Ha molta fretta d’impadronirsi dei figli di quel disgraziato colonnello.

— Che noi non potremo più salvare ormai, — disse Giorgio.

— Forse perchè siamo per ora immobilizzati su quest’albero? — osservò John. ― Anche noi lasciamo tempo al tempo ed aspettiamo.

Non perdete di vista nè gl’Indiani, nè i pecari, e vi raccomando di non farvi vedere.

Eccoli che giungono: attenti!... —

I dugento Indiani giungevano a corsa sfrenata e, come era loro consuetudine quando si preparavano a caricare, urlando ed agitando le armi, quantunque non scorgessero dinanzi a loro nessun avversario.

I pecari, allarmati da quelle grida, si erano prontamente radunati. Anche quelli che si erano dispersi sotto i giganteschi pini per rimpinzarsi di mandorle, si erano ripiegati verso il cedro, stringendo le file.

Aggressivi per natura, si preparavano animosamente alla battaglia, risoluti a farsi sterminare pur di mordere uomini e cavalli.

A causa delle erbe altissime, gl’Indiani non si erano ancora accorti della presenza di quei pericolosi animali, sicchè dopo d’aver fatto, commentando ad alta voce, il giro del piccolo accampamento segnalato solo dalle larghe impronte lasciate dai cavalli, poichè come sappiamo, gli avventurieri, per prudenza non avevano acceso il fuoco la sera prima, si spinsero più innanzi, onde allargare le loro ricerche.

— Attenti, camerati, — disse John, sottovoce ai compagni. — Ora assisteremo ad una bella battaglia.

Ecco che i pecari cominciano ad arruffare le setole ed a battere le loro zanne.

[p. 207 modifica]— Si direbbe che suonano le nacchere, — disse Giorgio.

— Non vorrei provarle sulle mie polpe, amico. Là!... Ecco la carica. —

Trenta o quaranta Indiani si erano avvicinati alla macchia d’artensie, stupiti forse di vederla mezza massacrata e perciò più desiderosi di perlustrarla, mentre i loro compagni continuavano ad allargare le loro linee.

Ad un tratto i pecari, dopo aver mandato una serie di grugniti feroci, si scagliarono all’impazzata fuori dalla macchia, caricando con furia irresistibile.

I cavalli, vedendo giungersi addosso quella valanga d’animali, si arrestarono di colpo nitrendo e fiutando l’aria, poi voltarono le groppe malgrado le urla e le strappate dei cavalieri.

Delle grida echeggiarono subito, propagandosi agli altri drappelli che stavano perlustrando un po’ più lungi.

— I pecari!... I pecari!... —

Alcune scariche rimbombarono atterrando non pochi assalitori, però non bastarono ad arrestarne la carica.

I cavalli, presi da un subitaneo panico, vedendo già i loro compagni dell’avanguardia in fuga, non tardarono ad imitarli, dirigendosi, a corsa sfrenata, verso le terrazze del Lago.

Più nessuno ormai era capace di padroneggiarli. Non servivano nè le strappate, nè i colpi di tallone, non adoperando le pelli-rosse gli speroni come i loro confratelli dell’America del Sud, nè le punzecchiature dei coltelli da scotennare.

In un battibaleno i dugento cavalieri, pur non cessando di sparare, si trovarono in completa rotta, perseguitati accanitamente dall’orda dei pecari i quali, resi più che mai furibondi per le grandi perdite subite, pareva che fossero ben decisi di farsi sterminare fino all’ultimo piuttosto di rinunciare a vendicare i loro compagni disseminati fra le erbe.

― Camerati, — disse John. — Ecco il buon momento per andarcene.

La fattoria non è lontana e spero di raggiungerla prima che gli Arrapahoes e gli Sioux tornino indietro.

Su, scendiamo.

— E questa monella? — chiese Harry, indicando Minnehaha. — La lasceremo qui?

— Oh no! — rispose l’indian-agent. — Se i pelli-rosse la trovano ci daranno una caccia senza tregua attraverso la penisola...

Giorgio, incaricati tu di questa piccola coyote, e bada che non ti fugga. —

Gl’Indiani erano ormai scomparsi dietro le terrazze del Lago e si udivano i loro fucili tuonare verso il settentrione, quindi non vi era, almeno pel momento, alcun timore di rivederli comparire.

[p. 208 modifica]I tre avventurieri slegarono e tolsero il bavaglio a Minnehaha e scesero frettolosamente a terra.

— Se potessimo avere i nostri cavalli, — disse Harry.

― Saranno fuggiti anche loro scorgendo i pecari, ― rispose l’indian-agent. ― Non contiamo che sulle nostre gambe per ora e cerchiamo di raggiungere al più presto le rive del Weber...

Dunque, al galoppo, piccola coyote!... ― gridò poscia a Minnehaha — e bada che se cerchi di fuggire le nostre palle ti raggiungeranno. —

La fanciulla si strinse addosso il mantello e si slanciò a gran corsa, come per dimostrare che non aveva alcun desiderio di provare i proiettili di quegli infallibili rifles.

La foresta non era che a pochi passi, composta quasi esclusivamente di pini giganteschi che potevano gareggiare per altezza e per grossezza con quelli famosi della Sierra Nevada della California.

In pochi minuti gli avventurieri vi si cacciarono sotto, trottando affannosamente ma rapidamente.

In lontananza si udivano ancora rimbombare delle fucilate, segno evidente che gl’Indiani si erano alfine decisi a far fronte agli ultimi pecari, per non allontanarsi troppo dai luoghi dove speravano di sorprendere i fuggiaschi.

Una mezz’ora dopo John, il quale sapeva orientarsi non meno degl’Indiani, anche senza bussola, avvertì un fragore che si ripercuoteva con una certa intensità attraverso i giganteschi vegetali.

— Il Weber!... — esclamò. — Possiamo considerarci come salvi poichè l’hacienda non deve essere lontana.

— Mentre gl’Indiani non si odono più, ― osservò Harry.

Sfondarono a colpi di navaja una massa di folti cespugli i quali impedivano la vista, e poco dopo giungevano sulla riva del fiume.

Era un bel corso d’acqua, alquanto rapido, il quale si apriva il passaggio fra due sponde bassissime, coperte di enormi ammassi di genziana, di betulle, di artensie eterne e di camel-thorn, somiglianti alle acace della giraffa dell’Africa.

Con un rapido sguardo l’indian-agent si persuase subito che nessun pericolo li minacciava.

Vi potevano essere bensì dei giaguari e dei coguari, animali che amano frequentare le rive dei corsi d’acqua per sorprendere i cervi od i daini e perfino i giganteschi bisonti che si recano ad abbeverarsi, ma non erano quelli tanto formidabili da spaventare quegli abilissimi cacciatori. Erano soli gl’Indiani che potevano dare loro dei grossi fastidî.

― Giacchè gli Arrapahoes non sono ancora giunti, riprendiamo la corsa, camerati, ― disse John. ― Quel maledetto gambusino sa ormai dove andiamo, e non tarderà a guidare Yalla e Caldaia Nera sulle nostre tracce.

[p. 211 modifica]Ah!... Se avessi sospettato prima di lui, quel furfante non avrebbe intorno alla sua carcassa una briciola di carne.

Chi se lo sarebbe immaginato?

— Tu dunque non credi che lo abbiano prima fatto prigioniero e che forse, in causa della sua pelle che lo faceva rassomigliare più ad un vero indiano che ad un meticcio, lo abbiano graziato a condizione di servire loro di guida? — chiese Harry.

— Era una spia che si era appiccicata ai nostri fianchi, — rispose John. — Spero però di ritrovare, presto o tardi, quel briccone e di saldargli il conto.

— Se non ti avranno scotennato.

— Allora se ne incaricherà qualcun altro... Orsù, gambe e sempre gambe finchè avremo fiato. —

Gli scorridori si erano riposati cinque minuti, non di più. Si misero in mezzo Minnehaha e ripresero la corsa, seguendo la riva, la quale, pur essendo ingombra di piante, lasciava molti passaggi.

A mezzodì fecero un’altra breve sosta per divorare dei lamponi e per dissetarsi, poi ripartirono spronati dalla paura di vedersi giungere addosso gl’Indiani.

Il fiume si allargava e le sue acque, prima rapidissime, cominciavano a diventare quasi stagnanti in causa dei numerosi banchi di sabbia, sui quali sonnecchiavano dei mostruosi caimani dai dorsi rugosi e coperti di piante acquatiche.

Anche la foresta di pini si diradava. Pareva che degli uomini avessero fatto qua e là dei larghi tagli, poichè numerosi tronchi giacevano al suolo.

— Ancora poche ore e noi giungeremo al posto, — disse l’indian-agent.

Ad un tratto si fermò e si mise in ascolto.

— Diavolo, — mormorò. — Da dove proviene questo rumore?

— Che cos’hai, John? — chiese Harry.

― Amici miei, — rispose l’indian-agent — se vi preme salvare le vostre capigliature, scendete subito nel fiume.

— Che ci siano anche qui degli Indiani?

— Ascolta un momento, Harry. —

Lo scorridore della prateria tese a sua volta gli orecchi, poi scosse la testa e strinse la pugna.

— Sì, vengono, — disse poi. — Si aprono il passo attraverso la boscaglia.

Che ci prendano proprio ora che siamo alle porte della fattoria?

— Nel fiume e subito, — rispose John, afferrando la piccola indiana e stringendosela fra le braccia.

I tre uomini deviarono prontamente verso la riviera, la quale in quel luogo scorreva fra due rive alquanto alte, formate da una successione di rocce.

[p. 212 modifica]Aiutandosi l’un l’altro scesero fino all’acqua, ma là si arrestarono.

― È più profonda di quello che credevo, ― disse l’indian-agent, con collera. ― È impossibile guadare questo fiume senza bagnare le nostre armi e le nostre munizioni.

― Gettiamoci a nuoto, ― suggerì Giorgio ― e mettiamoci le armi intorno al collo.

— Ce ne mancherebbe il tempo. Gl’Indiani ci sono addosso.... — osservò John. — Ah, la fortuna non si è ancora stancata di proteggerci! Là, guardate, quell’apertura a fior d’acqua.... Presto, amici, ci deve esser posto per tutti. —

Girando a caso gli sguardi, i suoi occhi si erano fermati su una spaccatura, la quale pareva mettesse in qualche piccola caverna, scavata forse dalla continua azione delle acque durante le frequenti piene. Si erano slanciati tutti, poichè avevano udito distintamente i nitriti di parecchi cavalli.

Lo speco era stretto all’apertura, mentre invece nell’interno si allargava in forma d’imbuto rovesciato.

Non era gran cosa, tuttavia, passata l’apertura poteva contenere abbastanza comodamente una mezza dozzina di persone.

— Ecco un rifugio che mi ricorda, quello del cañon, ― disse John a bassa voce. — Questo però è più sicuro dell’altro poichè, se gl’Indiani vorranno venire a scovarci, saranno costretti a passare ad uno ad uno, ciò che ci permetterà di fucilarli senza troppo incomodarci.

— Purchè non ci assedino, John, — disse Harry.

— Finora non ci hanno ancora scoperti.

— Ma tu sai che hanno un fiuto straordinario per sentire il passaggio dell’uomo bianco.

— Oh, non dico di no!

— Se poi....

— Taci, Harry: vengono. —

Al di fuori si udivano dei cavalli nitrire e delle voci umane.

Pareva che gl’Indiani scendessero verso il fiume.

— Che ci abbiano veduti saltare giù dalla riva? — chiese sottovoce Harry.

— Può darsi — rispose l’indian-agent. — Quando siamo scappati non dovevano essere lontani.

— Che ci scoprano?

— Non sono il Padre-Eterno per poterlo dire, nè uno stregone per poterlo indovinare....

State zitti, sorvegliate attentamente Minnehaha, perchè non le sfugga qualche grido e lasciate che vada a vedere che cosa fanno quelle canaglie. —

S’introdusse in quella specie di budello che formava la parte stretta dell’imbuto, spingendo innanzi a sè il fedele rifle, e raggiunse [p. 213 modifica]l’apertura la quale si trovava, come abbiamo detto, quasi a fior d’acqua.

Sei Indiani, armati di lance e di scuri, erano già scesi nel fiume ed avevano spinti i loro cavalli molto innanzi, quantunque la corrente fosse piuttosto impetuosa in quel luogo.

— Sei soli, — mormorò l’indian-agent. — Se non ve ne sono altri dietro di loro avremo buon giuoco, se vorranno attaccarci.

Cercano: trovateci, miei cari! —

I sei pelli-rosse scorrazzavano il fiume, sagrando e stringendo rabbiosamente le loro lunghissime lance.

Parevano impazienti d’inchiodare qualcuno contro le rocce che si accumulavano lungo la riva quasi senza passaggi.

Ad un tratto John vide uno dei sei uomini balzare a terra e curvarsi sul greto battuto dalla corrente.

Un urlo di trionfo era sfuggito al pelle-rossa, a cui aveva fatto subito eco una bestemmia lanciata dall’indian-agent.

— Bell’affare, — mormorò subito dopo il gigante. — Hanno scoperto le nostre tracce ed ora avremo addosso quelle sei mignatte.

Fossero solamente sei, meno male. Non saranno invece l’avanguardia o gli esploratori di qualche grossa colonna?

Ecco il mistero. —

Si ritrasse lentamente, appoggiandosi sui gomiti e raggiunse i compagni.

— Dunque? — chiese ansiosamente Harry.

— Vengono, — rispose John.

— Ci hanno scoperti?

— Non ancora, ma sono quasi certo che fra pochi minuti saranno dinanzi a questo imbuto.

Fortunatamente non hanno armi da fuoco.

— Allora ci spicceremo presto. Quanti sono?

— Sei soli.

— Due scariche ciascuno e l’acqua li porterà via.

— Adagio, Harry: io preferirei, per mio conto, non farne nemmeno una.

Non devono essere soli, te lo dico io.

— Allora offri loro la tua capigliatura.

— Ah no, amico! Comincia già ad incanutire, ma ci tengo che rimanga sul mio capo.

— Allora....

— Taci: eccoli! Preparatevi a fare una scarica. Succeda quello che vuole, noi non potremo farne a meno.

Non fate però fuoco se non ve l’ordino prima io. —

Si udivano i cavalli scalpitare sulle ghiaie del fiume e gl’Indiani parlare fra di loro.

[p. 214 modifica]Quella specie d’imbuto trasmetteva distintamente quei rumori, al pari della tromba d’un grammofono.

Ad un tratto la luce che si proiettava dentro la nicchia, che serviva di rifugio ai tre avventurieri ed alla piccola indiana, si spense quasi totalmente. Un corpo umano si era introdotto dentro l’imbuto, intercettando colla sua mole i raggi del sole.

— Non vi movete, — sussurrò prontamente John ai suoi compagni.

Sia che quel bisbiglio fosse giunto agli orecchi di quel curioso, od altro, il corpo umano invece di ritirarsi si spinse maggiormente innanzi puntando la lancia così violentemente che per poco John non fu infilzato.

Un colpo di rifle rintronò empiendo la nicchia di fumo.

Harry aveva fatto fuoco e la testa dell’indiano era scoppiata come una zucca.

— Fuori! Fuori! — gridò John. — Ormai non ci resta che di dare battaglia! —

Strisciò sul corpo del pelle-rossa, essendovi ancora posto sufficiente, raggiunse l’estremità dell’imbuto e fece subito fuoco sui cavalieri che stavano per porre piede a terra.

Un grido seguì subito la detonazione, ed un indiano precipitò nel fiume, mentre il suo cavallo scappava velocemente.

Gli altri quattro rimontarono prontamente in arcione e misero le lance in resta, ma vedendo sbucare dalla piccola caverna due uomini armati di rifle, volsero i cavalli e si slanciarono a gran galoppo lungo il greto, scomparendo ben presto dietro una svolta del fiume.

— Amici, — disse John, ricaricando prontamente il rifle. — Prendete Minnehaha e poi gambe in spalla.

Simili fortune non capitano due volte. —

Giorgio rientrò nell’imbuto per trarre fuori la piccola indiana, poi tutti insieme risalirono la riva e si misero a correre, guardandosi di quando in quando alle spalle, per paura di veder sbucare dal vicino bosco qualche altro drappello d’Indiani.

La fattoria del colonnello non doveva ormai essere lontana.

Infatti dopo un altro paio di ore di marcia accanita, i tre avventurieri cominciarono ad incontrare delle vaste praterie dove scorrazzavano, in piena libertà, cavalli di diverse razze, e dove ruminavano tranquillamente dei grossi bufali.

Al di là del fiume i campi coltivati a cotone apparivano di quando in quando attraverso gli squarci della boscaglia.

— Avanti!... Avanti!... — non cessava di dire l’indian-agent, il quale cominciava a riconoscere quei luoghi. — Gl’Indiani non ci prendono più!... —

Ad un tratto udirono delle grida alzarsi dietro delle siepi che circondavano un campo di maiz, poi scorsero parecchi negri [p. 215 modifica]seminudi, scappare colla velocità delle lepri, insieme ad alcuni meticci che portavano sul capo degli ampi sombreros messicani.

Indios bravos!... Indios! — urlavano a piena gola i fuggenti, precipitandosi all’impazzata attraverso le piantagioni che costeggiavano il fiume.

Amigos!... Amigos!... — si affrettarono a gridare i tre avventurieri.

Era fiato sprecato. Negri e meticci avevano continuata la loro corsa indiavolata continuando a spargere l’allarme e mettendo in fuga mandrie di buoi, truppe di cavalli e branchi di splendidi tacchini selvatici.

— Lasciamoli urlare, — disse John. — Così faranno accorrere l’intendente il quale non tarderà a riconoscermi. —

Ad una svolta del fiume era improvvisamente comparsa una bella casa, fiancheggiata da immense tettoie e difesa da un’alta e robusta palizzata la quale si appoggiava sul margine di un profondo fossato.

Era l’hacienda di San Felipe.

Dopo la guerra fortunata contro il Messico, il Governo americano, trovatosi improvvisamente proprietario d’immensi territorî, abitati solo da tribù indiane, per compensare i prodi ufficiali che avevano condotta così abilmente la campagna, non aveva trovato di meglio che regalare loro delle vaste tenute coll’obbligo di coltivarle.

Molti, che avevano già accumulate considerevoli ricchezze durante la guerra, avevano accettato quei doni che dovevano un giorno essere fonte di più cospicue fortune, e dato un addio alle città dell’est, avevano costruite qua e là delle haciende, scegliendo i terreni più fertili e più adatti specialmente alla coltura del cotone ed allevamento dei cavalli e dei buoi.

Il colonnello Devandel era stato uno dei primi a spingersi verso le frontiere del Far-West che ormai conosceva quasi passo per passo e forse intuendo che il Lago Salato, allora non popolato nè dai Mormoni, nè da altri pionieri, avrebbe acquistato in avvenire una grande importanza, aveva fatta costruire una vasta hacienda, non dimenticando di fortificarla, poichè soli i ferocissimi Arrapahoes vantavano il possesso di quelle rive.

La fattoria, innalzata quasi all’estremità d’una penisola, là dove il Weber sbocca nel Lago, non aveva tardato a prosperare, poichè fino allora gl’Indiani pareva che non si fossero nemmeno accorti della sua esistenza.

Il colonnello, già vedovo d’una ricchissima signora messicana, vi aveva condotti i suoi due figli, Mary e Giorgio, e forse mai l’avrebbe lasciata se non fosse stato prontamente chiamato dal Governo americano per fronteggiare i primi moti della sanguinosa insurrezione indiana del 1863, provocate dalle tre più numerose e famose tribù indiane dell’Utah, del Colorado e del Wyoming: gli Sioux, i [p. 216 modifica]Chayennes e gli Arrapahoes, stretti in una salda alleanza difensiva ed offensiva contro l’incessante invasione dei visi-pallidi.

L’hacienda consisteva in una casa di bell’aspetto, a due piani, tutta costruita in legno e, come abbiamo detto, circondata da salde palizzate e da un profondo fossato largo parecchi metri, onde i mustani dei pelli-rosse non potessero varcarlo con un salto.

Si trovava quindi in grado di poter opporre una tenace resistenza e di sostenere anche un lungo assedio, poichè le sue tettoie rigurgitavano di provviste, le praterie circostanti pullulavano di cavalli, di buoi, di bufali e di immensi stormi di tacchini deliziosissimi e poteva disporre d’una quindicina di fucili maneggiati da negri e da meticci.

Non mancava però di avere il suo lato debole. Costruita quasi tutta con legno resinoso tratto dalle vicine pinete, poteva correre il pericolo di venire facilmente incendiata e distrutta in pochi momenti insieme ai suoi difensori.

John che, come abbiamo detto, era già stato altre volte all’hacienda, senza preoccuparsi delle urla dei negri e dei latrati dei cani, guidò i suoi due compagni e Minnehaha attraverso le ultime piantagioni che circondavano l’hacienda e varcò risolutamente il ponte levatoio gettato attraverso il fossato, non cessando di gridare sempre, per non prendersi qualche fucilata:

Amigos!... Amigos!...

Stava per entrare nel cortile che s’apriva dinanzi al fabbricato principale, quando un meticcio che indossava un costume messicano e che era seguìto da una dozzina di negri, gli sbarrò il passo, puntandogli contro due pistole a due colpi.

— Ohè, Morales, non si conoscono più gli amici? — gridò John. ― Dove sono il signor Giorgio e miss Mary?

— To’!... — esclamò il messicano, facendo un salto ed abbassando le pistole. — L’indian-agent del padrone! —

Poi, mentre i negri disarmavano a loro volta, si slanciò verso l’abitazione, urlando a squarciagola:

— Signore!... Miss!... Accorrete!... Sono giunti dei messi del colonnello!... —

Un momento dopo dalla porta centrale della casa comparivano un bellissimo giovanotto d’una quindicina d’anni, bene sviluppato, bruno di carnagione, coi capelli e gli occhi nerissimi, ed una ragazza che gli rassomigliava straordinariamente, un poco più giovane, un po’ meno bruna, ma coi capelli e gli occhi pure nerissimi, e snella come una giovane palma.

Due grida erano echeggiate:

— John!... John!...

— Sì signorini, sono proprio io, — disse l’indian-agent, levandosi il cappellaccio.

[p. 217 modifica]— Venite!... Venite!... — disse Giorgio, il figlio del colonnello, dirigendosi rapidamente verso la casa, seguito dalla sorella e dai tre scorridori della prateria.

― Un momento, signor Devandel, — osservò John. — Fate alzare, prima di tutto, il ponte levatoio e radunare tutti i vostri uomini.

— Perchè? — chiese il giovanotto.

— Perchè gl’Indiani possono giungere da un momento all’altro.

— Quali? Gli Arrapahoes?

— Cogli Sioux, signor Devandel.

— Ne siete ben sicuro, John?

— Siamo sfuggiti loro per un vero miracolo. —

Il giovanotto impallidì leggermente, guardando con ansietà sua sorella.

Miss Mary era rimasta però assolutamente tranquilla, anzi aveva subito detto:

— Se verranno ci difenderemo. Siamo ben figli di nostro padre.

— Ah!... Se ci fosse lui!... — esclamò il giovanotto. — Dove si trova ora? Non ce l’avete ancora detto, John.

— È sempre sulle montagne del Laramie, — rispose l’indian-agent, facendo uno sforzo supremo per mostrarsi tranquillo.

— Coi suoi valorosi volontari? — chiese Mary.

— Sì, miss.

— E guerreggia sempre con fortuna contro gl’Indiani? — chiese il giovanotto.

— Ha già dato loro delle dure lezioni, signor Devandel.

— Ah, nostro padre si potrebbe ben chiamare il Leone del Far-West! ― esclamò Mary. — Mi aveva sempre detto di voler guadagnarsi il cappello piumato dei generali. —

John, per troncare quel discorso che poteva diventare imbarazzante, chiamò l’intendente perchè tutti i passaggi attraverso il fossato venissero tolti, poi seguì il giovanotto e la miss in una saletta a pianterreno, arredata con sobria eleganza e le cui pareti erano quasi interamente coperte di trofei d’armi e di corna di bufali, di bisonti e di cervi.

— Mi manda vostro padre, — cominciò John — per avvertirvi che gli Sioux hanno giurato di distruggere la fattoria e di catturarvi vivi.

Essi sono già d’accordo con Caldaia Nera, il gran capo degli Arrapahoes.

— Chi ha detto a quei maledetti e sanguinarii guerrieri, che noi ci trovavamo qui? — chiese il giovanotto.

— Non lo so.

— Forse quell’indiana che mio padre era stato costretto a sposare molti anni fa?

— Può darsi.... Di quanti uomini disponete?

[p. 218 modifica]— D’una ventina, fra negri e meticci.

— Tutti fedeli?

— Lo credo, — rispose il giovanotto. — D’altronde sarà loro interesse aiutarci nella difesa, poichè le pelli-rosse non li risparmieranno se riusciranno ad espugnare l’hacienda.

— To’!... — esclamò in quel momento miss Mary, volgendosi vivamente verso la porta. — Chi e quella fanciulla? Una indiana, è vero? Come si trova qui?

— È venuta con noi, miss, — disse John. — Ce l’aveva affidata vostro padre.

Non vi occupate di quella piccola vipera, della quale ci sbarazzeremo appena i suoi compatriotti si mostreranno. —

Minnehaha, che era entrata in quel momento, quasi di soppiatto, lanciò su John uno sguardo scintillante d’odio, poi senza profferir parola andò a rannicchiarsi su una poltrona a dondolo, coprendosi quasi interamente col suo mantello.

— Che strana creatura!... — esclamò Mary.

— Una vera selvaggia, miss: è una sioux e basta.... Signor Devandel, abbiamo parlato abbastanza e non dobbiamo perdere tempo, poichè gl’Indiani non devono essere molto lontani, avendoci data la caccia questa mattina.

Lasciate, prima di tutto, che vi presenti i fratelli Harry e Giorgio Limpton, due scorridori della prateria che daranno non poco da fare alle pelli-rosse coi loro rifles, e che vostro padre vi raccomanda.

Ed ora, alla difesa. Mi pare perfino di udire l’urlo di guerra dei guerrieri di Caldaia Nera.

— Una parola ancora, John, — disse il giovanotto, dopo di aver stesa la mano ai due scorridori. — Ed il bestiame che pascola sulle rive del fiume?

— Lasciatelo perdere, signor Devandel. Capisco che è una bella somma che se ne va, ma la pelle vostra e di vostra sorella vale molto di più. —

In quell’istesso momento si udirono rimbombare al di fuori alcuni colpi di carabina, seguiti dalle grida di:

— All’armi!... All’armi!... —