Torquato Tasso (Goldoni)/Atto III

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Atto III

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Atto II Atto IV

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Torquato, poi Targa.

Torquato. Sì, sì, vadasi pure dove miglior prepara

Stanza a me la fortuna. S’abbandoni Ferrara.
In questa illustre Corte finor fui sfortunato;
Spesso, cangiando cielo, si cangia anche lo stato.
A Napoli si vada; quella mia patria sia,
Che a me professa amore, che m’offre cortesia.
Fuggasi della Corte la noia ed il periglio:
Del Signor mio s’adempia il cenno ed il consiglio.
È ver, saran per questo contenti i miei nemici;
Ma io godrò lontano giorni assai più felici.

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Godrò giorni felici? Ah no; dolente ognora

Vivrò da te lontano, bellissima Eleonora.
È ver, ch’esser beato teco non posso appieno;
Ma veggoti, e in secreto posso adorarti almeno.
Oimè! partenza amara! Ahi, quai dubbi funesti!
Tu mi consiglia, o cuore. Vuoi tu ch’io parta, o resti?
Ho già risolto, Targa.
Targa.   Signor.
Torquato.   Tutto sia lesto
Per partire in domani.
Targa.   Il baul si fa presto.
Quando vi ho messo dentro i vostri scartafacci,
Tutto quello che resta, son libri e pochi stracci.
Torquato. Targa, si cambieranno gli astri per noi severi.
Targa. Lo voglia il ciel, ma temo.
Torquato.   L’hai da sperar.
Targa.   Si speri.
Ma...
Torquato.   Che ma? Questo ma che dir vuol?
Targa.   Niente, niente.
Torquato. Parla.
Targa.   Vi contentate?
Torquato.   Parla liberamente.
Targa. Tutto il mondo è paese, per tutto si sta bene,
Quando il cervello in cassa, come si dee, si tiene.
Voi foste fin ad ora per la virtù stimato;
Sareste con il tempo venuto in miglior stato;
Ma dopo che v’accese certo segreto amore...
Torquato. Basta così...
Targa.   (L’ho detto).
Torquato.   Non mi fare il dottore.
Se di ciò più mi parli, ah, giuro al ciel, t'ammazzo.
Vattene. Dove vai? Presto il baule.
Targa.   È pazzo, (parte)

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SCENA II.

Torquato solo.

Possibile che tutti con empia indiscretezza

Voglian rimproverarmi del cuor la debolezza?
Andrò da voi lontano, dolci pupille e vaghe:
Vedrò se lontananza vaglia a sanar le piaghe;
E se morir dovessi per un dolor più forte,
Una pena di meno proverò nella morte.
Io non avrò il tormento d’essere a voi vicino,
Soffrendo del mio cuore il barbaro destino;
E ’l curioso mondo, dopo mia morte ancora,
Vivrà incerto qual fosse la mia amata Eleonora...
Eccone due ad un tratto. Ahi, qual incontro è questo?

SCENA III.

La Marchesa Eleonora, donna Eleonora ed il suddetto.

Marchesa. Parte il Tasso? (a Torquato)

D. Eleonora.   Ci lascia? (a Torquato)
Torquato.   Se ’l comandate, io resto.
Marchesa. Di noi chi lo potrebbe voler con più ragione?
(a Torquato)
Torquato. Merito avete entrambe, odioso è il paragone.
Marchesa. (Scaltro risponde).
D. Eleonora.   (Il vero saper si spera invano).
Torquato. (Occhi miei, state in guardia; non scoprite l’arcano).
Marchesa. Posso, se a voi fia grato, parlare al signor nostro,
Che mal di voi contento promosse il partir vostro.
S’egli è con voi sdegnato, m’ingegnerò placarlo.
Siete di ciò contento?
Torquato.   Vi prego di non farlo.
Marchesa. Per uom che non gradisce, gettata è la fatica;
Più cari i buoni uffici saranvi dell’amica.

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S’ella restar v’impone, che sì, che dir io v’odo,

Resto per obbedirvi?
Torquato.   Partirò in ogni modo.
D. Eleonora. Sì, partirà Torquato più presto, e con più gioia,
Delle mie preci vane recandogli la noia.
Lo so che le mie cure da lui son disprezzate;
Lo so che non m’ascolta.
Torquato.   Signora, v’ingannate.
Marchesa. Sentite? Egli vi adora.
Torquato.   Nol dissi, e non lo dico.
D. Eleonora. Di lei sarete acceso.
Torquato.   Sono d’entrambe amico.
Marchesa. (Vediam chi di noi due la può sul di lui cuore).
In grazia mia restate, vel chiedo per favore;
A dama che vi prega, risponderete un no?
Ardirete partire? Dite.
Torquato.   Ci penserò.
D. Eleonora. A quei della Marchesa aggiungo i voti miei:
Se per me non vi piace, restate almen per lei.
Grata a me in ogni guisa sarà vostra dimora.
E ben, che rispondete?
Torquato.   Non ci ho pensato ancora.
D. Eleonora. (Che saper non si possa qual sia di noi distinta!)
Marchesa. (Se m’ami, o mi disprezzi, ancor non son convinta).
Torquato. (Vuol ragion ch’io mi celi; ma questo è un penar molto.
Son col mio ben, nè ardisco di rimirarlo in volto).
D. Eleonora. Un certo madrigale di voi ci fu mostrato.
Marchesa. Un madrigal vezzoso.
Torquato.   Non merta esser lodato.
Marchesa. Sentesi che l’autore donna felice adora.
D. Eleonora. Sentesi che la donna ha il nome di Eleonora.
Torquato. Nomi talor ne’ carmi avvezzo a finger sono:
Se m’abusai del vostro, domandovi perdono.
Marchesa. Dunque è falso che Tirsi Eleonora apprezzi?
D. Eleonora. Più non credo a’ poeti, se a mentir sono avvezzi.

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Torquato. Altro è mentire il nome, altro è mentir gli affetti.

Tirsi è pastor sognato, son veri i suoi concetti.
Marchesa. Vero è dunque ch’egli ama?
Torquato.   Verissimo.
D. Eleonora.   E chi mai?
Torquato. Nol so.
D. Eleonora.   Lo saprà Tirsi.
Torquato.   Non glielo domandai.
Marchesa. Nè chieder lo potete, s’egli è pastor sognato.
Quello che Tirsi tace, potrà svelar Torquato.
Torquato. Svelar gli altrui segreti, signora, a me non piace.
Se non si spiega Tirsi, anche Torquato tace.

SCENA IV.

Eleonora e detti.

Eleonora. Signore, permettete ch’io dica fra di noi

Una cosa che preme. Si mormora di voi;
Di voi geloso il Duca si mostra inviperito.
(alla Marchesa)
Pare che sia geloso ancor vostro marito.
(a donna Eleonora)
Smaniano tutti due per un istesso inganno.
(Ma quello che so io, non credono o non sanno), (da s’è)
Torquato. Deh, il vostro piè, signora, vada da me lontano:
Non crescano gli sdegni per voi del mio sovrano.
Di me pur troppo il veggo nemico e sospettoso...
D. Eleonora. Dunque ha ragione il Duca d’esser di voi geloso.
Torquato. Ragione io non gli diedi, non manco al mio rispetto,
Ma nasce in cuore amante facilmente il sospetto.
D. Eleonora. Ite, Marchesa, altrove; voi siete il suo periglio.
Torquato. Ite voi pur, madama, vi prego e vi consiglio.
Marchesa. Di temer don Gherardo avrà le ragion sue.
(a donna Eleonora)
Torquato. Per carità, vi prego, itene tutte due.

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D. Eleonora. (A me più caricato intimò la partenza).

Marchesa. (Nel dir ch’io me ne vada, m’usò dell’insolenza).

SCENA V.

Targa e detti.

Targa. Signore, è la giornata questa de’ forestieri.

Un altro vi domanda.
Torquato.   Venga pur volentieri.
Targa. Mandato ha l’imbasciata, ancora è un po’ lontano.
Torquato. Sai dirmi chi egli sia?
Targa.   È un signor veneziano.
Torquato. Lo vedrò volentieri; amo assai la nazione.
Anderò ad incontrarlo. Con vostra permissione.
Marchesa. Servitevi, signore. (sostenuta)
D. Eleonora.   Sì, servitevi, andate. (sostenuta)
Torquato. Che vuol dir quest’asprezza? Siete meco sdegnate?
D. Eleonora. Vuol dir che quasi quasi disciolta è la contesa.
Partirò per piacervi. Resterà la Marchesa. (parte)
Torquato. V’ingannate, signora.
Marchesa.   S’inganna, anch’io lo so.
Torni donna Eleonora, v’intendo: io partirò, (parte)
Eleonora. Rido di tutte due, ch’hanno i lor sdegni accesi.
Non sanno, poverine... Ehi, già ci siamo intesi, (parte)
Targa. Andiam, che il forestiere non tarderà a venire;
Se baderete a donne, vi faranno impazzire. (parte)
Torquato. È vero, e son vicino ad impazzir per una.
Dissi con due lo stesso, e non m’intese alcuna.

SCENA VI.

Il signor Tomio e don Gherardo.

Gherardo. Sì, signore, Torquato v’insegnerò dov è.

Tomio. La me farà ben grazia.
Gherardo.   Favorite con me.
Ma chi è vossignoria?

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Tomio.   Cossa voleu saver?

Gherardo. Faccio per dirlo a lui.
Tomio.   Seu el so camerier?
Gherardo. Vi corre un bel divario da me ad un cameriere.
Tomio. Chi xela, mio patron?
Gherardo.   Del Duca un cavaliere.
Tomio. Lustrissimo patron, con so bona licenza,
Dal Duca o dalla Corte mi no domando udienza.
Stalo qua sior Torquato?
Gherardo.   Abita qui.
Tomio.   Ghe xelo?
Gherardo. Vi sarà. Che volete?
Tomio.   Voggio parlar con elo.
Gherardo. Ed io, che son amico di tutti i forestieri,
Vi condurrò da lui.
Tomio.   Caro sior.
Gherardo.   Volentieri.
Venezian, non è vero?
Tomio.   Venezian, per servirla.
Gherardo. Se è lecito, il suo nome?
Tomio.   Tomio, per obbedirla.
Gherardo. Signor Tomio de’ quali?
Tomio.   Che vol dir?
Gherardo.   Il casato?
Tomio. A vu noi voggio dir.
Gherardo.   Lo direte a Torquato.
Tomio. Ma andemio, o non andemio?
Gherardo.   Andiam, se avete fretta.
Tomio. Ma se son vegnù a posta.
Gherardo.   Dite: il Tasso vi aspetta?
Tomio. Credo de sì.
Gherardo.   Gli è noto quel che da lui volete?
Tomio. Nol sa gnente gnancora.
Gherardo.   Confidar lo potete
A me con segretezza, finchè facciam la strada.

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Tomio. Sior cavalier mio caro, l’è una bella seccada.

Gherardo. Lo fo, perchè un amico all’altro può giovare.
Lo fo per comun bene.
Tomio.   No son gonzo, compare.
Gherardo. Gonzo perchè? Un amico dovrebbe esser lodabile.
Tomio. Vu no me tirè zoso, sier bombasina amabile.
Gherardo. Però se mal concetto di me avete formato,
Andate, ecco la porta che mena da Torquato.
Il signor Veneziano, se non dirà chi sia,
Qui resterà per poco, lo faremo andar via.
Tomio. (Lo vôi gòder sto matto). (da sè) La senta una parola.
Vorla saver chi son? Cosmo dalla carriola,1
Quello che in Marzaria fa le fazzende soe;
E son vegnù a Ferrara a comprar delle scoe.
Gherardo. Della scusa m’appago; per or basta così.
Tomio. Andemio, o non andemio?
Gherardo.   Torquato eccolo qui.

SCENA VII.

Torquato e detti.

Tomio. Amigo, finalmente ve vedo e v’ho trovà.

Torquato. Perchè non inoltrarvi?
Tomio.   Causa sto sior ch’è qua.
Torquato. Ma don Gherardo, eccede la sofferenza mia.
Gherardo. Che occor che vi scaldiate? Ecco qui, vado via.
(s’allontana)
Torquato. S’è lecito, signore, conoscervi desio.
Gherardo. (Saprò s’egli si chiama o Cosimo, o Tomio). (s’accosta)

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Tomio. Mi son... se poderia parlar con libertà? (a don Gherardo)

Torquato. Che impertinenza è questa? (come sopra)
Gherardo.   A me?
Tomio.   Che inciviltà!
Gherardo. A me? Mi renderete conto di tal parola,
Signor Torquato Tasso, signor Cosmo Carriola. (parte)

SCENA VIII.

Torquato e Tomio.

Torquato. Non so che dire intenda.

Tomio.   No ghe badè a colù.
Torquato. Vorrei che si spiegasse.
Tomio.   Mo via, tendemo a nu:
Son vegnù da Venezia apposta per trovarve.
Xe do ore che aspetto; me preme de parlarve.
Son Tomio Salmastrelli; son galantomo, e son
Uno che per i amici qualche volta xe bon.
Me piase i vertuosi, li tratto volentiera,
Conversazion con lori fazzo squasi ogni sera.
No son de quelle sponze, che suga qua e là
Tutti i pettegolezzi de tutta la città;
No son de quei che perde el tempo malamente
A criticar poeti, a dir mal della zente.
Amigo son de tutti; no vôi antegonista,
No disprezzo l’Ariosto, benchè mi sia tassista.2
No digo questo è el primo, quest’altro xe el segondo;
Del merito de tutti fazza giustizia el mondo.
La bella verità presto o tardi trionfa;
Rido de chi se scalda, rido de chi se sgionfa.

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No digo, questo è bon; digo, questo me piase.

Dei altri ha più giudizio chi gode, ascolta e tase.
Torquato. Signor, mi fate onore, spiegandovi parziale
Di me, che di virtute non vanto il capitale.
Il cielo, che pietoso assiste agi’infelici,
A me concede al mondo un numero d’amici.
Questi per onor mio si serbino costanti;
Compatiscano gli altri me pur fra gl’ignoranti.
Se sol del vero in grazia mi sprezzano, han ragione:
Basta che non sien mossi da invidia, o da passione.
In caso tal sarebbe il lor giudizio incerto,
La critica sospetta, l’impegno senza merto.
Chi parla per passione, perde del zelo i frutti,
E per far bene a un solo, fa pregiudizio a tutti.
Tomio. Basta, lassemo andar. Pur troppo semo avvezzi
A sentir tutto el zorno de sti pettegolezzi.
Saveu perchè a Ferrara son vegnù, sior Torquato?
Son vegnù, perchè spero de farve cambiar stato.
Torquato. Come, signor?
Tomio.   Dirò... Ma! Amigo, non usè
Dir gnanca ai galantomeni sentève, se podè?
Torquato. Compatite, signore... non son le stanze mie...
Andiam là, se v’aggrada...
Tomio.   Oibò, staremo in piè.
Torquato. Compatite, vi prego, la poca civiltà.
O andiamo, o qui sediamo.
Tomio.   Via, sentemose qua.
Torquato. Vi servo. (va per la sedia)
Tomio.   Lasse star.
Torquato.   Lasciate in cortesia, (prende la sedia)
Tomio. Vu porterè la vostra, mi porterò la mia.
Torquato. Favorite.
Tomio.   Sentève, che me sento anca mi.
A Venezia, compare, se pratica cussì.
Se sa le cerimonie, el galateo el savemo;

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Ma con i complimenti tra nu no se secchemo.

Cussì, come diseva, son vegnù qua per vu.
S’ha dito che a Ferrara no voggiè restar più;
Che in Corte no stè ben, che gh’è delle contese,
E che gh’avè intenzion de scambiar de paese.
Quando la sia cussì, son qua per invidarve
A una città più bella, che no fa che lodarve.
Venezia xe el paese de vostra maggior gloria,
Sa la Gerusalemme squasi tutti a memoria:
I omeni, le donne, i vecchi, i putti, i fioli,
Mercanti, botteghieri, e fina i barcarioli.
I versi del Goffredo saver tutti se vanta:
I lo leze, i lo impara, i lo spiega, i lo canta.
Ogni tanto se sente citar un vostro passo;
Spesso se sente a dir: dirò, co dise el Tasso.
Della moral più soda, del conversar più onesto
Fatto è el vostro poema regola, base e testo.
Donca quella città, che all’opere fa onor,
De posseder sospira el degnissimo autor;
E una partia de amici, che poi, che sa, che intende,
La ve invidia de cuor, là con el cuor v’attende.
Lassè, lassè la Corte, dove baldanza audace
Fa, come disè vu, perder del cuor la pace.
Compare, ho viazà el mondo, so qualcossa anca mi,
Ho praticà la Corte per mia desgrazia un dì.
Cariche non ho avudo, ma poder dir me vanto
Quello che dise el vecchio in tel settimo canto:
     «E benchè fossi guardian degli orti,
     «Vidi e conobbi pur le inique corti.
Torquato. Grazie, signore, io rendo al benefizio offerto;
Tanta bontate ammiro, tanto favor non merto.
Venezia è un bel soggiorno, amabile, felice,
Ma accogliere l’invito per ora a me non lice.
Da Napoli stamane giunto è un amico espresso:
M’invitò qual voi fate: promisi andar con esso;

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E la ragion per cui mi son seco impegnato,

Ell’è, perchè nel regno di Napoli son nato;
Onde a quel che ricevo non meritato onore,
S’aggiugne della patria gratitudine e amore.
Tomio. Compare, a sto discorso no posso più star saldo.
Sta rason, comparirne, m’ha fatto vegnir caldo.
Se se nassù in Sorriento, cossa conclude? gnente.
Se sa che là sè nato solo per accidente.
Vostra mare xe andada a trovar so sorella,
L’ha trattegnua i parenti, l'ha partorio con ella.
Sè nassuo là, e per questo? Se nato fussi in mar,
Concittadin dei pesci ve faressi chiamar?
Dirà chi ve pretende, chi ha invidia al Venezian:
L’è stà generà in Napoli, el xe napolitan.
Fermeve, a chi lo dise, fermeve, ghe respondo:
De un omo che va in ziro, xe patria tutto el mondo.
Quando Bernardo Tasso a Napoli xe andà,
A Bergamo so patria no aveva renonzià.
Xe nati bergamaschi tutti i parenti soi,
E sarà bergamaschi, come xe el pare, i fioi.
Là xe la casa vostra, de Bergamo ai confini
Un tempo comandevi, sè adesso cittadini.
Del Tasso la montagna dà alla fameggia el nome.
Napolitan Torquato? Chi è che lo prova, e come?
Suddito de Venezia ogni rason ve vol;
Co chiama la sovrana, no, mancar no se pol.
E una sovrana tal, che a tutti è madre pia,
Piena de carità, d’amor, de cortesia,3
No merita sti torti, no merita che ingrato
La lassa, l’abbandona, per Napoli Torquato.
Savè che i forestieri corre a Venezia tutti,
Co i gh’ha bisogno, e i trova delle fadighe i frutti;
E so per esperienza, e ho sentio a confermar,

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Che via da nu se stenta i omeni a impiegar.

Quel che mi ve offerisse, xe molto e xe seguro;
Quel che podè sperar a Napoli, xe scuro.
Concluderò coi versi che el messaggiero Alete
Dise al canto segondo, stanza sessantassete:
     «Ben gioco è di fortuna audace e stolto,
     «Por contra il poco, e incerto, il certo e il molto.
Torquato. Amo la patria antica; quella amo, ov’io son nato:
Ma in forestier paese finor mi volle il fato.
Parea che la fortuna fosse per me ridente,
Invitommi alla Corte almo signor clemente;
Venni a servir, compito il quarto lustro appena;
Tenero al piè mi posi dura servil catena,
Che sembra aver gli anelli d’oro massiccio e bello,
Ma ferro è la materia impaniata d’orpello.
Fui fortunato un tempo, assai più che or non sono.
Seco guidommi il Duca in Francia a Carlo nono,
E quel monarca istesso, dicolo a mio rossore,
Segni mi diè parecchi di clemenza e d’amore.
Or non son quel di prima: lungo servir m’acquista
D’odio ingrata mercede, miserabile e trista.
Ciò ad accettar mi sprona il ben che viemmi offerto;
Ma se l’offerta accetti, sono tuttora incerto.
E a chi ragion mi chiede, altra ragion non dico:
Qui mi tien, qui mi vuole, fiero destin nemico.
Tomio. Diseme, caro amigo, xe vero quel che i dise,
Che Torquato in Ferrara abbia le so raise?
Torquato. Signor, non vi capisco.
Tomio.   Ve la dirò più schietta.
Xe vero che gh’ave qua la vostra strazzetta?
Torquato. Il termine m’è ignoto.
Tomio.   La macchina, el genietto.
Gnancora? Che ve piase un babbio, un bel visetto.
Torquato. Basta così, v’intendo. Chi è quel, saper vorrei,
Ch’esaminar pretende sino gli affetti miei?

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Amo, non amo a un tempo, smanio, peno, sospiro.

Chi non e’entra, non parli. Oimè! quasi deliro.
Ci rivedremo, amico... per or chiedo perdono.
Mi si riscalda il capo, quando a lungo ragiono.
Risolverò, v’aspetto. Per carità, signore,
Parlatemi di tutto; non parlate d’amore. (parie)

SCENA IX.

Sior Tomio solo.

Cossa xe sto negozio? la testa ghe vacila?

Ho paura che l’abbia dà volta alla barila.
Prima el giera un sospetto ch’el fusse innamorà,
Adesso de seguro el se vede, el se sa.
Amor fa de ste cosse, amor xe un baroncello,
Che ai omeni più grandi fa perder el cervello;
Ma mi no gh’ho paura de dar in frenesia,
Tre zorni innamorà no son stà in vita mia.
Me piase devertirme; me piase el vezzo, el ghigno;
Ma quando le se tacca, le impianto, e me la sbigno.

SCENA IX.

Il Cavaliere del Fiocco e detto.

Cavaliere. Signor, vi riverisco.

Tomio.   Schiavo suo.
Cavaliere.   Favoritemi.
Vossignoria chi è?
Tomio.   Chi son mi?
Cavaliere.   Compatitemi.
Un forestiero in Corte non è cosa dicevole
Non renda del suo grado il prence consapevole;
Conciossiacosachè, se vi celate, io dubito
Battere la calcagna di qua dovrete subito.
Tomio. Del nome e della patria ve dirò ogni menuzzolo;

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Tutto quel che volè, caro compare sdruzzolo.

Mi me chiamo Tomio, son nato venezian,
Vivo d’intrada, e i dise che fazzo el cortesan.
No son vegnù a Ferrara per cabale o per truffe,
Non ho lassà Venezia per stocchi o per baruffe;
Son vegnù per el Tasso, la verità ve digo.
Ve basta? Voleu altro? Disè su, caro amigo.
Cavaliere. Veniste per il Tasso? Il Tasso, affè, non merita
Che muovasi per lui persona benemerita.
È un uomo effeminato, nel di cui petto domina
Amor per una donna, che Eleonora si nomina.
Un che stimato viene pochissimo in Etruria,
Che mostra ne’ suoi carmi di termini penuria,
Che sbaglia negli epiteti, che manca nei sinonimi,
Non merta che s’apprezzi, non merta che si nomini.
Nemico della crusca, degn’è di contumelia;
E voi gli siete amico? No, no, farete celia.
Tomio. Cossa vuol dir far celia?
Cavaliere.   I termini s’abbellano.
Fate celia si dice a quelli che corbellano.
Tomio. Come sarave a dir, in lingua veneziana,
Me piantè una carota, me contè una panchiana.
Cavaliere. Vari in ogni paese si sentono i riboboli:
Altro è il dir di Camandoli, altro è il parlar di Boboli.
Ciriffo e il Malmantile ad impararli aiutano,
Ma quelli per Torquato son termini che putano.
Tomio. E termini per mi xe questi, patron caro,
Che par che i me principia a mover el cataro.
Voleu altro da mi?
Cavaliere.   Vogliovi a iosa ostendere
Le imperfezion del Tasso, che non si pon difendere.
Tomio. Diseghene mo una.
Cavaliere.   Ecco ch’io ve la spiffero
La prima melonaggine suonata a suon di piffero:
     Sdegno guerrier della ragion feroce.

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In tali gaglioffaggini il babuasso impegnasi.

Ragion non è feroce, la ragion non isdegnasi.
Schicchera paradossi, squaderna falsi termini,
Che fan muovere i bachi.
Tomio.   Che voi mo dir?
Cavaliere.   I vermini.
Tomio. Seu fiorentin?
Cavaliere.   Nol sono, ma della lingua vantomi,
E cuopromi col vaglio, e col frullone ammantomi.
Son cavalier, son tale che ha veste, e può decidere;
E appresi la farina dalla crusca a dividere.
Tomio. Caro sior cavalier, sibben son venezian,
Mi me ne son incorto, che no gieri toscan.
Usa i Toscani, è vero, bone parole e pure,
Ma usar no i ho sentii le vostre cargadure.
Capaci elli no xe de dir dei barbarismi,
Ma gnanca no i se serve dei vostri latinismi.
La critica ho sentio del verso de Torquato;
Son qua, sior cavalier, son qua, sior letterato.
     «Risponderò, come da me si suole,
     «Liberi sensi in semplici parole.
Sdegno guerrier: distingue el sdegno del valor
Da quel che per la rabbia degenera in furor.
Sdegno della ragion: ogni moral insegna,
Che anca la virtù stessa colla rason se sdegna;
E la ragion feroce sona l’istessa cosa,
Che dir la ragion forte, la ragion valorosa.
Coi occhi della mente esaminò Rinaldo,
Un omo figureve che per amor sia caldo,
Che se ghe leva el velo dai occhi impetolai,
Che se ghe sciolga in petto i spiriti incantai;
Se sveglia la rason, e la rason se accende
De quel sdegno guerrier, che el so dover comprende;
E tanto poi el scudo, e tanto poi la voce
D’Ubaldo, che deventa sdegno guerrier feroce;

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Onde rason rendendo l’omo sdegnoso e forte,

Rinaldo abbandonando della maga le porte,
     «Squarciossi i vani fregi e quelle indegne
     «Pompe, di servitù misere insegne.
Cavaliere. Cotesta cantafera è badiale e ridicola,
Ma chi cinguetta a aria, zoppicando pericola.
Tasso par tutto il mondo, ma il parere, e non essere,
È come giustamente il filare e non tessere.
Vi proverò col testo, ch’ei non è autor dell’opera;
Che Omero, Dante, Ovidio e il buon Virgilio adopera;
Che veste l’altrui penne la garrula cornacchia,
Che cigno di palude non modula, ma gracchia.
Atto a condur dassezzo più che la penna il vomero,
Merta che si coroni di buccie di cocomero. (parte)

SCENA XI.

Sior Tomio solo.

Chiaccole senza sugo. Sto sior voggio sfidarlo,

E col Tasso alla man, in sacco voi cazzarlo.
Ghe spiegherò dell’opera tutta l’allegoria,
Ghe proverò i precetti dell’epica poesia,
La favola, l’istoria, l’intreccio, i episodi,
L’espression, i argomenti, e le figure, e i modi;
Con un bon Venezian sto sior che nol se meta,
El resterà in vergogna, ghe dirò col poeta:
     «Renditi vinto, e per tua gloria basti,
     «Che dir potrai che contro me pugnasti. (parte)

Fine dell’Atto Terzo.

  1. Ridicolo uomo del volgo, notissimo ai coetanei di Goldoni. Ricorda Piero Gradenigo nei Notatorj (14 genn. 1756) una canzonetta colla falsa morte di Cosmo Napoletano «che per tanti anni poliva le strade della città, ed era spacciato dal popolo uomo semplice; e fu quello che introdusse la redicola regata delle cariole sopra le strade». Di questa regata degli spazzini ci serbò un disegno il Grevembroch, nella raccolta ch’è al Museo Civico di Venezia: v. Molmenti, Storia di Ven. nella vita privata, vol. III, Bergamo, 1908, pp. 216 e 217.
  2. Mentre ricorda le vecchie contese tra i fanatici dell’Orlando e della Gerusalemme, che di recente avevano offerto argomento di commedia a G. C. Becelli di Verona (L’Ariostista ed il Tassista, Roveredo, 1748), allude l’autore alla cieca lotta dei goldonisti e dei chiaristi, vivissima in questa e nella precedente stagione comica.
  3. L’ed. Pitteri ha qui il punto fermo.