Tragedie (Euripide - Romagnoli)/Prefazione

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Prefazione

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Euripide - Tragedie (V secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1925-1930)
Prefazione
Tragedie (Euripide - Romagnoli)
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Questa introduzione non è un saggio di per sé stante; bensí, al pari di tutte le altre di questa collezione, vorrebbe compiere ufficio integrativo, offrendo ai lettori non specialisti tutti i sussidi necessari ad una piú sicura intelligenza dei drammi di Euripide.

E per Euripide è anche opportuna una limitazione ulteriore. Quasi ciascuno dei suoi drammi presenta infatti una impronta ed un conio speciali, che vogliono anche speciale caratterizzazione. Ed io tento di stabilirla nelle introduzioni ai singoli drammi; le quali hanno dunque assunto mole ed importanza un po’ maggiore che non avessero per gli altri due tragici. Cosí, molto di quanto poteva essere detto su Euripide è stato in esse già detto. E per evitare doppioni, ho contenuta questa introduzione generale nei limiti di un raccordo e di una sintesi delle singole, raccogliendo e completando le varie osservazioni sotto un’unica luce, nella quale si armonizzino e si illuminino a vicenda.

Un ordinamento cronologico dei drammi d’Euripide non riesce possibile se non in via approssimativa. E perciò, nella distribuzione per volumi, ne ho scelto un altro, fondato sul [p. IV modifica]contenuto mitico dei drammi, che ho disposti via via secondo la presunta successione temporale delle leggende che rappresentano. Spero cosí che ne risulti agevolata la lettura.

Ma una indagine critica non può fare astrazione dalle ragioni cronologiche. E perciò, vediamo prima brevemente in quale ordine si può supporre che Euripide componesse i drammi giunti sino a noi.

Di alcuni possediamo, tramandate dalla tradizione, le date sicure:

438 - Alcesti: appartiene al diciassettesimo anno d’attività del poeta, che s’era presentato la prima volta il 455, con le Pelíadi.

431 - Medea.

428 - Ippolito stefaneforo.

415 - Tròadi.

412 - Elena.

408 - Oreste.

406 - È l’anno di morte. E postume furono rappresentate l'Ifigenia in Aulide e Le Baccanti.

D’intorno a questo schema sicuro, possiamo aggruppare altri drammi, con date, se non assolutamente precise, certo bene approssimate (per le discussioni rimando alle rispettive introduzioni).

Indici di natura politica, assai significativi, permettono di fissar Le Supplici, con certezza quasi assoluta, nel 424.

Anche con discreta sicurezza si può stabilire la data dell’Ecuba. Aristofane ne ripete parodisticamente alcuni atteggiamenti ne Le Nuvole1. [p. V modifica]

Simili parodie, in genere, seguivano a breve distanza di tempo le opere parodiate. Le Nuvole furono rappresentate il 423: poco prima, e, dunque, intorno al 424, sarà stata rappresentata l’Ecuba.

Indizi storici di qualche valore indurrebbero a porre l’Ercole poco dopo il 424: alla stessa data, su per giú, de Le Supplici, che lo ricordano per qualche aspetto meno appariscente, sebbene in apparenza ne differiscano molto.

L’Andromaca si suol collocare al principio della guerra del Peloponneso; ma nella prefazione al dramma espongo le ragioni per cui mi sembra quasi certo che sia stata rappresentata dopo il 420.

Una parodia de Gli Uccelli c’induce a collocare lo Ione (vedi prefazione) intorno al 415; data con la quale si accordano anche altri particolari; e su per giú allo stesso periodo avrà appartenuto l’Ifigenia in Tauride: l’uno e l’altra precursori dell’Elena (412).

Indicazioni abbastanza sicure abbiamo per Le Fenicie. Lo scoliaste agli Uccelli d’Aristofane (al verso 348), dice che quando fu rappresentata questa commedia (414) Le Fenicie non erano apparse sulle scene. E lo scoliaste a Le Rane (al verso 53) dice che Le Fenicie precedettero di poco questa commedia (rappresentata il 405). Dunque, andiamo verso il 406, poco prima della morte del poeta.

Ecco dunque, completata, la tabella cronologica dei drammi superstiti:

438 - Alcesti.
431 - Medea.
428 - Ippolito.
424 - Supplici.
  Ecuba.
  Ercole.
415 - Tròadi.
Ifigenia in Tauride.
413 - Elettra.
412 - Elena.
408 - Oreste.
406 - Fenicie.
Dopo il 406: Ifigenia in Aulide,
Baccanti2.
Questo schema ci può servire, in maniera un po’ sommaria, per seguire lo svolgimento dell’opera euripidea. Ma non bisogna mai dimenticare che molte date sono derivate da ipotesi, e siano pure ben fondate; e che il materiale di studio che possediamo per Euripide, sebbene non cosí ristretto come per gli altri drammaturgi greci, è pur sempre scarso di fronte ai 92 drammi che costituivano il teatro d’Euripide.

Prima di accingerci alla valutazione dell’opera di Euripide, dobbiamo renderci conto della posizione singolare in cui egli si trovava di fronte alla materia dell’arte sua. Posizione assai diversa da quella dei suoi due grandi predecessori, e che implicava un cómpito diverso.

Per rendere piú evidente questa differenza, meglio conviene limitare il confronto al solo Eschilo. Eschilo aveva il compito, certo non agevole, ma preciso e ben definito, di dare veste drammatica a tutta la materia mitica secondo il contenuto e gli atteggiamenti tradizionali. Per suscitare l’interesse degli spettatori, non aveva bisogno di escogitare innovazioni. L’in[p. VII modifica]novazione consisteva nella pura e semplice forma drammatica. La materia mitica aveva già trovata una veste di parole melodizzate nell’epica; una seconda nei canti corali: ora poteva essere rievocata con evidenza veramente emula della realtà, mediante i personaggi vivi e favellanti, e mediante tutte le risorse di un’arte che, se già aveva fatti alcuni passi, si trovava ancora, essenzialmente, nel periodo dell’infanzia.

E non c’erano elementi di dubbio e di discussioni. Ufficialmente accettati erano tanto i fatti, quanto la filosofia dei fatti, imperniata sulla Anànke, sulla Mòira, e sulla mediata ma immensa potenza dei Numi.

Il suo cómpito consisteva dunque nel ripetere, con forma eletta, e con sintesi stilistica, ciò che tutti narravano, tutti credevano, tutti giudicavano a un modo.

E neanche trovava inciampi nei mezzi d’espressione. La lingua attica, pure essendo giunta ad altissima perfezione, non appariva ancora troppo sfruttata, e non aveva acquistata la rigidità lessicale e grammaticale che è pur sempre un impaccio alla libera creazione. Esente dall’obbligo di purificarla, il poeta aveva ancora la libertà di plasmarla.

E cosí, grande per innato genio, ebbe la ventura di nascere in un momento oltremodo propizio. E alle opportunità specifiche si aggiungevano le generiche, cioè le singolari felicissime condizioni economiche, civili e spirituali che si venivano formando in Atene dopo le guerre persiane, e alle quali si devono la copia e l’eccellenza della produzione in ogni campo dell’arte. Corrono al pensiero di tutti i nomi di Fidia, di Mirone e di Calàmide, di Polignoto, Zeusi e Parrasio, di Callícrate, Ictino e Mnèsicle. Intercedé allora, tra il genio degli artisti e la natura del compito che erano chiamati ad assolvere, un rapporto intimo e necessario come non mai piú, forse, nella universale storia delle arti. O forse nel momento in cui pittori scultori e architetti cristiani ebbero a rappresentare ed [p. VIII modifica]esaltare per un mondo di credenti, con le statue, coi quadri, coi monumenti, il divino poema di Cristo.

E quel che si dice di Eschilo, si può, presso a poco, ripetere per Sofocle. Buona parte della sua vita, è vero, si svolge parallela a quella di Euripide. Ma egli nasce artista tradizionale; e nella sicurezza del suo genio trova la forza di resistere al tramutar di condizioni che tanto influí sull’opera di Euripide.

Ché Euripide si trovò in condizioni differenti e quasi opposte a quelle in cui si trovò Eschilo. Quando egli scese nell’agone dell’arte (con Le Pelíadi, 455), Eschilo, che toccava oramai i settant’anni, aveva creata gran parte della sua opera titanica, certo tutta l’opera sopravvissuta (l’Orestea, che sembra l’opera più moderna, è del 458); ed anche Sofocle, già piú che quarantenne, aveva composti molti dei suoi drammi.

Cosí, il prato sacro alle Muse era stato in gran parte falciato. Un poeta di genio non poteva contentarsi dei rimasugli. Eschilo, come dice lo stesso Aristofane, e in un contesto in cui pure esalta lo spirito di tradizione, disdegnò muovere sulle orme di Frinico. Sofocle pose ogni studio a creare una drammaturgia in qualche modo opposita a quella di Eschilo. Non poteva Euripide, artista anch’egli di sommo genio, contentarsi di battere vie tanto aperte e consuete.

E un altro fatto, anche piú grave, lo spingeva a tentar cose nuove: ed era il mutamento rapido e profondo avvenuto negli spiriti degli Ateniesi. Non esporrò qui la millesima volta quel singolare fenomeno, che d’altronde si trova descritto in tutte le storie politiche, letterarie o filosofiche d’Atene. Basti che fra le sue principali conseguenze fu anche l’essenziale crollo della fede tradizionale. Sicché una esposizione del mito ortodossa ed obiettiva rischiava di non trovar piú troppo credito.

Ora, si ha un bel dire che un vero artista deve fare astrazione dalle condizioni dei suoi tempi. In realtà, un [p. IX modifica]atteggiamento di assoluta intransigenza è piú da fanatico che da artista. L’artista non può isolarsi dalla vita. La vita reale, coi suoi mille contatti, induce nell’artista e nell’opera sua, sia pure contro la sua consapevolezza, sia pure contro la sua volontà, preziose linfe di vitalità e di vivacità. E quest’opera deve essere dunque un compromesso fra il mondo ideale, che vuole essere concepito sotto specie d’eternità, pena la caducità, e le effettive contingenze del momento in cui egli vive, pena l’esilio e l’oblio.

E cosí Euripide, accingendosi alla bisogna drammatica, non si figurò di parlare ad un pubblico ipotetico, simile a quello che applaudiva i drammi del vecchio Eschilo; bensí volse ogni cura a destare l’interesse dei suoi contemporanei, che conoscevano e leggevano Anassagora, Diogene d’Apollonia, Protagora, e, via via, tanti altri filosofi e sofisti innovatori e distruttori del tradizionale pensiero etico ed estetico.

Oramai, la posizione generale degli spiriti piú illuminati, dinanzi alla religione, al mito, alle leggende, era scettica e critica. Da scettico e da critico esaminò Euripide la materia del mito. E sotto questo angolo, visuale essa gli apparve tutta profondamente mutata.

Mutati i Numi, che in tutto il suo teatro fanno davvero una magra figura.

Vediamone uno che pure è fra i piú simpatici, l’Apollo dell’Alcesti. Quanto non appare disceso dal livello della divinità! Dalle Parche non può ottenere per il re prediletto altro che un commutamento di vittima; e dinanzi a Tànato è impotente. E poco sarebbe, se Tànato non fosse poi vinto da un mortale, Ercole; sicché gli spettatori facilmente istituiscono un confronto che non torna a onore del Dio. E per giunta, [p. X modifica]il Dio sa in anticipo il trionfo del mortale; e lo prospetta a Tànato, per dispetto e vituperio, come i bambini quando minacciano ai nemici il castigo dei grandi. È, tutto sommato, un buon diavolo. Ma anche un povero diavolo.

E peggio nello Ione, dove ha un po’ del furfante, perché seduce Creusa, e poi l’abbandona. E alla fine del dramma, la furfanteria si colorisce di comicità, perché Atena giunge a parlare in suo nome, e asserisce che non è venuto egli stesso a sbrogliare la matassa, per paura che tornasse in ballo la storia dell’antico suo fallo.

Era, nell’Ercole, è figura come non si potrebbe immaginare più odiosa. Per sfogare contro l’eroe la gelosia concepita contro la madre di lui, lo dissenna e lo spinge alla strage dei figli. Non meno odioso di lei Giove, che l’asseconda, ma vuole che prima l’eroe compia le dure prove al servigio dell’inetto e crudele Euristeo. E, a momenti, li supera tutti e due Iride, che partecipa il loro odio senza nessuna giustificazione, per semplice malvagità.

E della medesima risma è l’Afrodite dell’Ippolito. Nel prologo confessa cinicamente d’essere indispettita perché Ippolito l’onora poco (potrebbe dire: meno d’Artemide). «Anche fra i Numi — dichiara — esiste questa debolezza». Come fra gli uomini, si sottintende. Ma davvero non avveniva tutti i giorni, neanche al tempo degli Atridi, che per una semplice mancanza di riguardo si facesse morire di morte straziante un giovane principe nel fiore dell’età.

Atena, nella Ifigenia in Tauride, si compiace dei riti di sangue che nella stessa tragedia son dichiarati disumani. E nelle Troadi, per l’offesa d’un solo, Aiace Oileo, che strappa dall’ara a lei sacra la supplice Cassandra, converte in odio l’amore per gli Elleni, e incita Posidone a scatenare su loro, a sterminio, tutte le sue tempeste.

E, discendendo a un livello minore, ecco, nell’Andromaca, [p. XI modifica]le tre Dee presentarsi al giudizio di Paride rissando, ed esaltando ciascuna le proprie qualità, con profluvi di parole vituperose, come lavandaie.

— Sono, su per giú — si potrà obiettare — i Numi tradizionali — . È vero. Ma i lati empî, volgari, grotteschi, ridicoli, delle loro azioni, non sono attenuati e velati, come avviene negli altri due tragediografi; bensí ostentati, messi in bella mostra, sottolineati, e dedottene le logiche conseguenze, con l’invenzione e la rappresentazione di particolari non esposti dal mito: sí che risulti ben chiara la loro vera essenza, antípoda ad ogni alto e sano concetto della divinità.

E la critica implicita in queste invenzioni e in queste esposizioni, diviene esplicita in molti luoghi nei quali si dichiara che questa e quella azione d’un Nume è una bricconata. Oppure, che attribuire a Numi azioni tanto vergognose, è futile arbitrio di poeti. Cosí nell’Ercole, la stessa Furia (Lyssa) riprende la condotta d’Era e d’Iride:

                                                       Adesso, voglio
                    Era esortare, e te, pria che cadiate
                    in qualche fallo.

E, rilevati gli altissimi meriti d’Ercole, tenta nuovamente distoglierle dalla trista opera:

                    Io t’avvio sul buon sentiero:
                    ché tu sei su mala traccia.

E lo stesso eroe stigmatizza l’opera della Dea nemica con roventi parole:

                    Ad una tale Dea, chi mai preghiere
                    rivolgere vorrà? Per una donna,

[p. XII modifica]

                    per gelosia del talamo di Giove,
                    essa l’uomo abbatté ch’era de l’Ellade
                    benefattore e immune era da colpe.

Ed ecco, nell’Ecuba, una delle tante dichiarazioni d’incredulità circa le malefatte dei Numi. La esprime la infelicissima madre d’Ettore:

                                   creder non posso io che i Numi
                    vaghi sian mai d’illeciti connubii,
                    né che le mani l’un dell’altro avvincano
                    credetti o crederò mai, né che siano
                    soverchiatori uno dell’altro. Un
                    se veramente è Dio, di nulla ha d’uopo.
                    Dei poeti son queste inani favole.

Fanno eccezione le Baccanti, dove le azioni di Diòniso, che sono, senza contrasto, vituperose, vengono invece giustificate e quasi esaltate. Ma sotto una luce speciale va considerata questa tragedia, che è una voluta e fervida palinodia, una abiura di quasi tutti i principii etici ed artistici esplicitamente e implicitamente propugnati nelle altre tragedie.

Diamo ora un’occhiata agli eroi. Ma per valutarne debitamente la numerosa schiera, bisogna anche qui stabilire prima quale fosse il concetto d’eroismo, quale il prototipo dell’eroe nei due grandi predecessori d’Euripide.

Consideriamo i principali personaggi di Eschilo e di Sofocle: Agamennone, Clitemnestra, Oreste, Etèocle, Polinice, Edipo, Aiace, Filottete, Ercole, Elettra.

Ora, è bensí vero che nelle piú correnti interpretazioni della [p. XIII modifica]tragedia greca si è data eccessiva importanza al «Fato», prospettandolo quasi come l’unico elemento caratteristico (credo d’essere stato il primo a dirlo; ma poi, chi sa?); ma è altresí vero che, tanto in Eschilo quanto in Euripide, gli eroi appaiono sempre avvinti nei lacci d’una legge fatale, che punisce via via nei discendenti i delitti dei padri. Dice Eteocle ne I Sette a Tebe:

                    Poi che gli eventi incalza un Dio, rapito
                    dai venti sia di Laio il seme tutto,
                    odio di Febo, sul fatal Cocíto.

Dice:

                    Sta senza pianto, con aridi sguardi,
                    del padre mio l’Erinni, a me davanti:
                    «Meglio — dice — morir presto, che tardi».

Cosí, la loro responsabilità morale riesce attenuata. E, d’altronde, quali che siano le loro vicende, essi non mostrano mai, né in pensieri, né in parole, né in opere, alcunché di basso, né di volgare, né di mediocre. Travolti in orride disumane vicende, spinti all’infamia, al delitto, all’incesto, mostrano sempre, e nel bene e nel male, un animo immune da debolezze, non pronunciano un motto che sembri indegno d’un re. La regalità è il loro principale attributo: quella che ispira le ultime parole di Antigone moritura:

                    Vedete, o Signori di Tebe,
                    che debbo soffrir, da quali uomini,
                    perché pïetosa volli essere,
                    io, sola superstite
                    del sangue dei re.

[p. XIV modifica]

Personaggi di tempra simile, se non proprio uguale, non mancano neppure nel teatro d’Euripide. Ippolito è puro eroe, di parole, di opere, di pensiero. Eroe è Teseo ne Le Supplici; e, in fondo, non discende da questa sua posizione neanche nell’Ippolito: erra, ma tratto in inganno, per colpa della bassa ira di Afrodite, e della stolta acquiescenza di Posídone. Artemide ha un bel caricarlo di rimproveri e d’oltraggi, ha un bel sentenziare che Posídone suo padre ha fatto bene ad esaudire il suo voto: noi sentiamo che la colpa è tutta quanta dalla parte dei Numi; e la gravità del presunto fallo d’Ippolito è tale e tanta, che anche un parricidio avrebbe trovate grandi attenuanti. E, ad ogni modo, mai non dice né opera alcunché di basso: sicché rimane nella linea dell’eroismo.

Su per giú, le stesse riflessioni si attagliano ad Ercole. L’orrendo scempio dei figli, che, se cosciente, non intaccherebbe l’eroismo nel senso piú stretto e preciso, ma pure gitterebbe su lui un’ombra cosí fitta da non trovar luce che potesse diradarla, in realtà non si può menomamente imputare al misero padre. La responsabilità ne ricade tutta su Era che l’ha voluto, su Iride che l’ha secondata, su Giove che ha lasciato fare. Del resto, prima dello scempio, Ercole appare qui purificato di tutti i tratti meno onorifici di cui lo gratificava la tradizione. Eroe puro.

E purissimo appare nell’Alcesti. E i colori umoristici di cui appare un po’ circonfuso, massime nella scena del servo, sono un’ombra luminosa, che meglio fa risaltare il suo fulgido eroismo. A questa concezione si rannodano anche, e le gravitano attorno, il Pelèo dell’Andromaca, e lo Iolào de Gli Eraclidi. Quel pizzico di fanfaronismo che accompagna [p. XV modifica]la loro effettiva bravura, non li sminuisce, anzi li circonda di un alone di simpatica umanità.

Ma di fronte a questo gruppo di veri eroi, eccone un altro, assai piú fitto, di personaggi scaduti dall’alta dignità a loro attribuita dal mito.

E se il mito accennava a loro difetti e manchevolezze, il poeta, invece di sorvolare o temperare, insiste. Di Andromaca si narrava che essa era andata sposa a Neottolemo, figlio dell’uomo che aveva ucciso il suo grande Ettore. Tutti, certo, glie ne facciamo appunto, in cuor nostro: essa avrebbe dovuto preferir la morte. Ma tutti esitiamo a pronunciar la condanna, tanto ci ammalia la sua bella figura.

Ed Euripide ama Andromaca, palesemente. Pure, fa sí che l’accusa venga a galla, e che le sia rivolta, nella maniera piú cruda, dalla rivale Ermione.

                    Ed a tal punto di stoltezza, povera
                    te, giunta sei, che presso al figlio ardisci
                    giacer d’un uomo che il tuo sposo uccise,
                    e figli procrear dall’assassino.

Ed anche dove il mito tace, egli scava, per trovare le molle segrete, il motivo basso e meno confessabile di qualche magnifico atto eroico: cerca la fodera dell’eroismo. Tipico è l’esempio di Achille nella Ifigenia in Aulide. Il suo contegno e le sue parole sono veramente da eroe. Ma poi distrugge tutto con una confessione che noi qualificheremmo cinica. Non difende Ifigenia — confessa — per pietà della sua misera sorte; bensí per ripicca: perché Agamennone, per far venire al campo le due donne, si è servito del suo nome senza prevenirlo. [p. XVI modifica]

Altri simili tratti potrà rilevare ogni lettore, quasi in ogni dramma. Ricordo che neanche Alcesti si salva. In punto di morte trova modo di rinfacciare al marito il suo beneficio; e i Francesi non dicono male, che chi rinfaccia il beneficio perde diritto alla gratitudine.

E assai piú numerosi i personaggi che, pur serbando il nome mitico, eroico, compiono azioni e pronunciano parole destituite di qualsiasi nobiltà, e spesso di qualsiasi dignità.

Il Giasone della Medea è un esecrabile ipocrita, freddo, calcolatore, cavillatore, disumano: né bastano a riscattarlo le lagrime che sparge infine sulla sorte dei figli, e che sembrano espresse da un vero dolore.

Admeto, nell’Alcesti, è un piagnucoloso egoista, pieno di belle parole, e a fatti codardo; e tanto incosciente, che non si pèrita di lanciar sul vecchio padre, e con profluvio di vituperii, la taccia di viltà e d’egoismo che tanto di piú, per ogni verso, conviene a lui stesso.

Agamennone, nella Ifigenia in Aulide, è un miscuglio d’irresolutezza e di codardia. E non meno antipatico appare nell’Ecuba, dove, da principio sembra che provi pietà per la misera regina, e quando questa comincia a supplicarlo, fa per allontanarsi. E dichiara che è pienamente convinto della sua ragione, ma che non farà nulla per aiutarla, se non ottiene prima il consenso dell’esercito. E, infine, si chiude in una inerte neutralità; e confessa cinicamente che indugia a partire solo perché non spira il vento; se no, non terrebbe in alcun conto le ragioni della misera.

Meschino e odioso, nella stessa tragedia, appare Menelao. Non il punto d’onore lo ha spinto a provocare la lunga guerra di Troia, bensí il desiderio di riavere la sua bella [p. XVII modifica]moglie. E infatti, ne Le Tròadi, vediamo che, quando la recupera, la minaccia, sí, ma, in conclusione, se la tiene.

E, per concludere, e tralasciando le figure di secondo piano (per esempio: Etèocle e Polinice ne Le Fenicie) il vero tipo dell’eroe decaduto lo troviamo in Oreste. Nella tragedia che da lui prende il nome, è proprio un bandito, che col suo contegno quasi riesce ad attenuare l’odiosità, non piccola, dei suoi nemici. E non troppo migliore lo troviamo nell’Andromaca: tristo, debole, vile, che, non potendo farsi giustizia con la forza e il coraggio, se la fa con l’astuzia e il tradimento; e se ne vanta, con vergognoso cinismo.

Piú che altro, finora abbiamo vedute figure maschili. Quasi parallela è la concezione delle eroine.

Anche qui, ne abbiamo una schiera di quasi immacolato eroismo. Basta ricordare Polissena, Ecuba e Andromaca ne Le Troadi; Macaria ne Gli Eraclidi; e, ascendendo, Megara nell’Ercole; la quale, messa a fianco del pur nobile Anfitrione, non gli rimane seconda, né per devozione all’eroe, né per affetto ai fanciulli; e dinanzi alla morte dimostra anche maggior forza d’animo.

E vediamo la vegliarda Etra ne Le Supplici; che alla magnanimità eroica unisce una viva e profonda umanità. Quando Teseo rifiuta il suo soccorso ad Adrasto, e le madri dei sette eroi caduti si trascinano implorando ai suoi piedi, ella piange, e si cuopre il volto per nascondere le lagrime. E piene di senno e addirittura di saggezza civile sono le sue esortazioni al figliuolo. La prontezza con cui questi accede ai suoi consigli, mostra chiaro in qual conto la tenga. E la venerazione onde le offre la mano per riaccompagnarla a casa, in ufficio quasi servile, pone la vegliarda a un’altezza piú che regale, [p. XVIII modifica]quasi sovrumana. Si pensa a qualche grande figura eschilea, al Dario de I Persiani, per esempio, quando appare alle reiterate preghiere dei suoi sudditi.

Ed ecco Evadne che si precipita sul rogo di Capanèo, proclamando la santità del vincolo coniugale; e Alcesti che sacrifica la giovine vita per salvare quella dello sposo; e, ultima e fulgidissima gemma di questa corona, Ifigenia, quasi immersa, tuttora, nel soave limbo della vita infantile, che vede con occhio limpido la viltà del padre che la manda al sacrificio, e che, tuttavia, per un’idea superiore di nobiltà, di dignità, di pudore, soverchiando l’animo di quanti la circondano, e il proprio destino, muove intrepida alla morte.

Ho già detto che il concetto d’eroismo non si identifica e non si esaurisce nel concetto del bene. Anche l’autore di gesta efferate, può attingere la sfera dell’eroismo, purché non siano meschini i suoi sensi. Eroina è pur sempre l’orrida Clitemnestra di Eschilo. Ed eroine sono, nel teatro d’Euripide, Medea e Fedra.

Fuori d’ogni umanità, la prima, quasi una fiera. Eppure, il suo carattere acquista una certa grandezza, nel confronto con Giasone. Mentre questi sottilizza, tergiversa, ricorre a cavilli e pretesti, cerca di dorare la sua perfidia e non ha neanche il coraggio del male che opera, lascia che i figli vadano a un esilio quasi peggiore della morte, e poi, morti, li piange: insomma, è un tristo, un debole e un irresoluto: Medea è tutta d’un pezzo, non mentisce a sé stessa, va diritto al suo scopo, infrenabile e fatale come una forza naturale. Ha le piene stimmate del carattere tragico, quale almeno appare nella concezione originaria della grande tragedia greca. Sua sorella è, in qualche modo, Fedra: massime come fu concepita dal poeta nel suo primo dramma sull’argomento, nell’Ippolito velato, ora perduto, ma di cui si può abbastanza sicuramente indovinare il contenuto (vedi prefazione al dramma). [p. XIX modifica]

Ma accanto a queste vere eroine, sia del bene, sia del male, ecco, non meno fitta, la schiera delle eroine decadute.

Ecco la Clitemnestra dell’Elettra. Bisogna raffrontarla alla tremenda viragine dell’Agamennone, per misurare l’abisso che intercede fra le due concezioni. L’eroina d’Eschilo non ha un momento d’esitazione: uccide lo sposo, e, dopo dieci anni, sarebbe pronta ad uccidere il figlio; e, perpetrato lo scempio del marito, affronta il popolo d’Argo, e discute con esso parola contro parola, facendo l’apologia del suo orrido misfatto.

La Clitemnestra d’Euripide, invece, si vergogna di mostrarsi in pubblico, e prova pietà per la miseria in cui è caduta la figlia, e nel contrasto con questa oppone dolcezza a durezza, e prova l’angoscia dei rimorsi. Infinitamente piú buona, e, senza dubbio, meno odiosa della eschilea; ma esce dalla sfera della tragicità, non è piú eroina.

E al suo stesso livello rimane, nella medesima tragedia, la figlia Elettra, che, terribile, in Eschilo, quanto la madre, e in Sofocle anche di piú, è qui convertita in borghesuccia abulica ed impulsiva (vedi prefazione).

E anche piú meschine l’Ermione dell’Andromaca, e la tenue sbiadita Teoclimeno dell’Elena e l’Elena quale ci appare ne Le Troadi, non direttamente portata su la scena, ma quasi piú viva nella pittura, ispirata dall’odio, che ne fa Ecuba. Ma in fronte ad una versione del teatro completo d’Euripide, è inutile moltiplicare gli esempi.

Ma nel complesso, e contro un’opinione tanto antica quanto falsa, le donne sono viste da Euripide con occhio assai piú benevolo che non gli uomini. [p. XX modifica]

Invano cercheremmo d’intrecciare coi suoi eroi una corona così fulgida come quella delle sue eroine del bene. E anche le tristi e le delinquenti, i mostri, sono assai meno odiose dei mostri mascolini.

Perché della delinquenza femminile Euripide ha una visione grande, tragica, apocalittica. Dietro i superficiali rabeschi di una misoginia di maniera, c’è il sentimento, assai profondo e moderno, di un eterno femminino che rispecchia, in modo assai diretto e palese, e quasi si identifica con la grande forza della natura. Che nell’impeto creativo sembra accoppiare il delirio della fecondazione col delirio della strage; e sembra produrre indifferentemente la rosa e la cicuta, la colomba e il viscido serpe. Indifferentemente, tragicamente, orridamente; ma non mai vilmente, non mai subdolamente. Questo sentiva Euripide: a questa intuizione profonda si deve il fatto che egli figurò sulle scene tante donne travolte dal delirio d’amore; e non già ad alcuno dei bassi impulsi che gl’imputavano i suoi nemici.

E la viltà, la menzogna, la frode al sentimento, sembrano piuttosto, nel suo teatro, retaggio degli uomini. E come la natura, nel suo apparente disordine, mira, palesemente, ad una elevazione perenne, dal fango alla quintessenza spirituale, così il mondo femminile d’Euripide si corona nelle figure di Ifigenia, di Macaria, d’Alcesti, nelle quali brilla in tutto il suo fulgore l’eterno femminino, con raggi di altezza etica che non troviamo in veruna figura maschile, e che a momenti fanno presentire l’idealità cristiana e cattolica, quale s’incarna in Maria.

Per chi conosca bene il teatro euripideo, e non si lasci illudere dalle apparenze, a ciò si riduce, in effetto, la famosa misoginia d’Euripide. [p. XXI modifica]

In complesso, il bilancio si conclude con una forte svalutazione degli eroi. Al contrario, è assai palese una certa tendenza ad esaltare gli umili.

Neanche tra questi mancano i bricconi. Fior di briccone è l’araldo Copreo de Gli Eraclidi, che, per servilismo, discende a qualsiasi infamia, a qualsiasi bassezza, senza riguardo né per donne, né per vecchi, né per bambini. Anche destituita d’ogni pietà, e piena di maligna asprezza, è, nell’Elena, la portinaia di Teoclimeno. La nutrice della Fedra è una volgarissima mezzana.

Ma troppo prevale il numero dei buoni, fedeli, dotati di sentimenti retti ed umani. Tali la nutrice della Medea, il servo d’Illo e quello di Iolao ne Gli Eraclidi, l’ancella dell’Andromaca, che serba fede alla padrona anche nella sventura; e, nell’Elettra, il vecchio servo salvatore d’Oreste pargolo, che giunge a recare provviste ad Elettra; e nella Ifigenia in Aulide il servo di Agamennone, fedele al suo padrone, coraggioso nel difenderne gl’interessi, anche contro il potentissimo Menelao, e sino alla morte:

Morir pel tuo signore, onore arreca.

E quanto umana e gentile, l’ancella che, nell’Alcesti, viene a narrare le ultime ore dell’adorata signora! E quanto simpatico e commovente, nello stesso dramma, il vecchio servo, che per l’affetto della defunta regina, non si pèrita di affrontar la collera del terribile Ercole!

Ma il prototipo di questi umili eroi è l’Auturgo della Elettra. Vero eroe, a fatti, e non a parole (vedi introduzione al dramma). Ed Euripide, non solo si astiene dal segnarlo con alcuna di quelle stimmate che non risparmiava nemmeno ad [p. XXII modifica]Alcesti; ma quando Oreste insinua che egli possa essersi condotto cosí nobilmente pei timore della sua vendetta, Elettra risponde che questo può essere, ma che il bovaro suo presunto sposo agisce per probità, perchè:

povero è sí, ma generoso e pio.

Come nella rappresentazione dei Numi, s’è voluto scorgere un segno d’irreligiosità e d’empietà, cosí da questo singolare trattamento delle figure di umili, piú d’uno ha derivata la conclusione che Euripide volesse far professione di democrazia a oltranza, quasi di demagogia.

Ma, in realtà, a guardar bene, in Euripide non c’è né l’una né l’altra di queste due tendenze. E la sua speciale maniera di rappresentare Numi eroi e personaggi umili non è che il risultato obiettivo della disanima che egli fa della materia del mito, prima di accingersi alla sua opera di drammaturgo.

Egli vede schierata dinanzi a sé una lunga serie di vicende, e di eroi che le hanno compiute. E accanto a ciascuna vicenda, la spiegazione e la valutazione. E le vicende, spesso incongrue, strane o grottesche; e le spiegazioni insoddisfacenti, e non di rado ridicole. E le valutazioni, quasi sempre contrastanti al piú elementare senso etico: sicché, le bricconate, le infamie, le ridicolaggini, erano giustificate, e, magari, esaltate, perché compiute da creature proclamate superiori alla umanità. E a chi protestasse, si rispondeva che quello era il volere dei Numi. I quali, poi, ad una fredda analisi, si dimostravano non meno rei degli eroi protetti o perseguitati.

Ma ad un occhio critico, la verità appariva presto ben chiara. Ne Le Troadi, Ecuba dice ad Elena: [p. XXIII modifica]

Per mantenere il vizio tuo, non fingere
stolte le Dee.

E ciò che Ecuba dice qui esplicitamente, ripetono, esplicitamente ed implicitamente, in mille modi, quasi tutti gli eroi d’Euripide. Il Fato, il Volere dei Numi, erano belle scuse. In realtà, ciascuno di quei famosi eroi aveva fatto quello che aveva fatto per questo o quell’impulso, piú o meno confessabile, del proprio animo. A vederli cosí, nella fase immatura della tradizione mitica, quegli eroi erano come crisalidi, tutte egualmente speciose, vivacemente versicolori, e lucide come il metallo. Ma si sa bene che dalla piú speciosa crisalide può sgusciare un insetto orrido infernale. Il teatro di Euripide è come una incubatrice che le conduca a maturazione. Al lume della psicologia umana, obiettivamente e spregiudicatamente applicata, tutto il mondo mitico si presenta con una nuova parvenza. Sotto le spiegazioni e le valutazioni tradizionali, insostenibili e ridicole, ecco, caso per caso, spuntarne altre, logiche e convincenti; e le vicende assurde nella luce mitica, viste sotto luce umana, diventano pienamente razionali. Bisognerà dunque concludere che in questa luce si svolsero, e che il corso dei secoli le cinse poi d’una luce artificiale e falsa.

Se non che, avveniva poi, che, portate in questa nuova luce, molte di quelle vicende, o quasi tutte, non sembravano piú eroismi, bensí misfatti. E gli eroi discendevano al grado di delinquenti; perché, indipendentemente da ogni apprezzamento di Euripide, noi sappiamo bene che la storia dei primi Achei fu tutta un tessuto di orridi delitti, di bassezze, di crudeltà mostruose.

E può ben essere che il contrasto fra questa loro essenza reale e il prestigio di cui li circondava la tradizione, spingesse qualche volta Euripide a gravar la mano sui presunti eroi, e, [p. XXIV modifica]per contrasto, a dipingere con colori piú simpatici gli umili, che pure avevano compiuti atti onesti, e spesso grandi, e che la leggenda, creata, in sostanza, ad uso dei potenti, aveva superbamente ignorati.

Comunque si voglia caratterizzare il primo impulso che spinse Euripide a questa revisione del mito, o generica passione critica, o passione per la ricerca psicologica, certo è che nella pratica artistica esso si convertí in continuo esercizio di analisi psicologica. E perciò, non esiste, si può dire, personaggio euripideo che non susciti il nostro interesse.

Se non che, il mito cosí interpretato e ricondotto sotto una luce puramente umana, diveniva materia meno adatta alla tragedia. I due grandi tragici predecessori d’Euripide, accettando integralmente la tradizione, avevano, per intuizione, proceduto in maniera da giustificarla, creando, specialmente Eschilo, un mondo in cui tutto fosse gigantesco, sovrumano, irreale; in guisa che sembrasse senz’altro impossibile applicare ad esso le leggi della morale umana. Sicché, dal lato storico, il loro dramma poteva essere criticato; ma dal lato artistico presentava un equilibrio, una omogeneità perfetta. E questo importava.

Ridotte, invece, alle proporzioni umane, quelle figure non avevano piú la capacità di sostenere il peso della tragedia. La loro anima, di tempra comune, non può reggere alla pressione di psicologie d’eccezione. Tra loro e l’essenza tragica esiste una incompatibilità che nessun espediente varrebbe a risolvere.

Ed è questo uno dei punti per cui dal lato artistico scàpita di fronte ai drammi di Eschilo e di Sofocle il dramma d’Euripide, che pure ci ammalia per tanti altri dei suoi molteplici aspetti. [p. XXV modifica]

E certo lo stesso Euripide ebbe coscienza di questa incompatibilità e delle sue pratiche conseguenze. E via via, durante una lunga fase, la sua opera tende a distaccare le figure del mito dalla compagine degli eventi nei quali le inquadrava la tradizione, per coinvolgerle in nuove reti di eventi, in intrecci inventati, nei quali la contraddizione fosse temperata o addirittura sparisse. Il processo appare pressoché compiuto in alcuni degli ultimi drammi, massime in quelli che si sogliono definire romantici (vedi introduzioni singole). Dove gli eroi sono uomini qualunque; ma anche gli eventi sono, su per giú, all’altezza della loro psicologia: tranelli, inganni, frodi: in fondo, sintetizzando, le mechanài che davano tanta noia ad Aristofane.

S’intende che tale contrasto non esisteva per le persone umili. Ed è questa la ragione per cui ci appaiono cosí vere, dal lato artistico, e cosí convincenti.

Questa riduzione della psicologia eroica tradizionale alla psicologia reale, è il processo fondamentale, che opera nella creazione delle figure euripidee, e che, a mano a mano, trasforma la tragedia in dramma borghese e, a momenti, in commedia.

Ma, accanto ad esso, altri se ne possono rilevare, minori, o accennati appena, o che si cominciano a svolgere, ma rimangono in abbozzo.

Tali, per esempio, la tendenza a dipingere figure ed eventi proprio al contrario di come li dipingeva la tradizione, senza che si riesca a vedere la ragione che spinge il poeta, salvo uno spirito di paradosso. Qualche cosa di simile si potè vedere una cinquantina d’anni fa, quando nella letteratura semi-storica imperversava la mania delle «riabilitazioni». [p. XXVI modifica]

Esempio tipico, Capanèo: che la tradizione concorde figurava empio, tracotante, superbo verso gli uomini e i Numi; e invece, ne Le Supplici, Adrasto lo dipinge modello di ogni umana perfezione.

E accanto a Capanèo, si può ricordare l’Elena protagonista del dramma che s’intitola dal suo nome. Vero che Stesicoro l’aveva già scagionata. Ma la sua palinodia era reputata pur sempre una bizzarria, e non aveva scalzata l’opinione tradizionale. E poi, Euripide passa ogni limite, facendo della bellissima adultera il prototipo di ogni virtú femminile.

E forse può venir terza Clitemnestra, che tanto nella Ifigenia in Aulide, quanto nell’Elettra, non è affatto il mostro di Eschilo e Sofocle, anzi nella Elettra appare piena d’umanità e di tolleranza, e riesce quasi piú simpatica della figliuola.

L’altro processo consiste nel riprendere piú volte lo stesso carattere, atteggiandolo in guisa da farlo divenire quasi un tipo.

Vengono alla mente, in primo luogo, certi personaggi che alla bassezza del sentimento, che esclude qualsiasi carattere eroico, accoppiano ferocia disumana, da iene: mostri che appena possiamo figurarci in forma umana.

Lico, per esempio, nell’Ercole. Deprezza malignamente e sofisticamente le imprese d’Alcide, e dichiara codardo e pronto alla fuga l’eroe incomparabile. Proclama prudenza la propria infame decisione d’ucciderne i figli bambini. Quando Anfitrione e la vecchia Megara rifiutano di allontanarsi dall’ara dove hanno cercato rifugio, ordina di circondarli con cataste di legna, e arderli vivi. E quando Anfitrione rifiuta di andare a prendere Megara e i fanciulli, per non rendersi complice, sia pure involontario, del loro martirio, proclama:

io stesso andrò, se nutri questi scrupoli:
io non l’ho, certe ubbíe.

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Parrebbe impossibile riuscire piú odioso. Pure, eccolo superato dal Menelao dell’Andromaca: crudele, perfettamente insensibile anche dinanzi alla tenera innocenza d’un bambino, scioccamente ligio alla sciocchissima figlia, millantatore e codardo sin di fronte al vecchio e invalido Pelèo.

E suo degno compagno è il Polimèstore dell’Ecuba, traditore fra i traditori, che assassina il giovinetto Polidoro affidato alle sue cure, per impadronirsi delle sue ricchezze, e, sempre per avidità, cade nella rete tesagli dalla vecchia Ecuba.

Altre figure simili troviamo, piú o meno definite, nel teatro d’Euripide.

E lo stesso eccesso dei colori adoperati a dipingerle, le fa uscire dai limiti dell’umanità, le riduce da persone a tipo, da tipo, quasi, a maschera. La maschera del tiranno: quella dipinta dal Cossa:

                    una figura che spaventa
con gli occhi, e lenta incede sopra l’alto
coturno, e fatti a suono di misura
tre passi, dice una parola, anch’essa
misurata e prescelta fra le truci
di nostra lingua.

Maschera tragica, ad ogni modo. Quasi maschera comica è invece quella che vediamo delinearsi nel Menelao dell’Elena (vedi introduzione), nella Teoclimeno dello stesso dramma, nel Toante della Ifigenia in Tauride, nello Xuto dello Ione. Mariti, tutti, o amanti, o gabbati o credenzoni, e che di fronte ad una svelta e vezzosa donnetta fanno la figura di babbei. Il tipo, insomma, del Minotauro, che da Menelao arriva, con innumerabili repliche, a Boubourouche: Xuto ne è incarnazione quasi perfetta.

Cosí pure, vediamo il medesimo processo, anche piú in[p. XXVIII modifica]forme ed iniziale, nei doppioni della vergine che va spontanea al sacrificio (Ifigenia, Macaria ne Gli Eraclidi; e con loro va anche, sebbene uomo, il Menecèo de Le Fenicie); o del vegliardo che fa una lunga lamentazione sul cadavere del nipote o del figlio: Ifi su Evadne, ne Le Fenicie, Cadmo su Pentèo, ne Le Baccanti e l’Ecuba de Le Troadi, gemente sul nipote Astianatte.

Ed anche un terzo processo contribuisce alla formazione dei personaggi d’Euripide. Movendo dal postulato, sottinteso, se anche non espresso, che l’animo umano sia sempre e dappertutto il medesimo, il poeta, per dipingere i suoi eroi, attinge a piene mani dalla vita contemporanea. E spesso e volentieri fa ragionare ed esprimersi gli eroi dall’antichità remotissima come i vivi e verdi suoi concittadini.

Ora, se questa riduzione a comun denominatore delle psicologie d’ogni tempo e d’ogni razza è, in linea generale, sempre assai discutibile, nel caso speciale difficilmente si potrebbe trovare un contrasto piú stridente di quello che intercedeva fra i lupi Achei e i sottili e cavillosi Ateniesi contemporanei di Euripide. Ma qui non importa tanto questo rilievo, quanto il fatto che questo travestimento psicologico accresce sempre piú il carattere ibrido, già rilevato, dei personaggi d’Euripide, e disorienta chi li esamini senza propedeutica critica.

Aggiungiamo l’altro fatto, tante volte rilevato, e che d’altronde salta agli occhi, che spessissimo Euripide entra nelle vesti dei suoi personaggi, per esprimere, senza riguardo ad anacronismi o a contraddizioni, proprii sentimenti e proprii concetti; e sempre piú si accrescerà in noi l’impressione che il suo teatro sia come un vasto campo di ricerche psicologiche applicate all’arte drammatica.

E in questo atteggiamento, di continua ricerca e di critica, è da ravvisare una delle debolezze del teatro d’Euripide, almeno riguardo alla creazione dei caratteri. [p. XXIX modifica]

I sommi creatori di caratteri — Eschilo, Sofocle, Shakespeare — non studiano troppo con lo strumento dell’analisi i loro personaggi, non anatomizzano, per intenderli, i dati della tradizione; ma i personaggi si impongono alla loro sensibilità artistica, quali, su per giú, li dipinge la leggenda, con tutte le loro caratteristiche, buone o cattive, angeliche o mostruose. La fantasia del poeta lavora su quei dati. E sul fulcro dei punti cogniti distende spontaneamente, inconsciamente, un panneggio, o, meglio, un tessuto connettivo, che porta la figura dallo schema della tradizione alla concreta espressione dell’arte, emula della integrità vitale. E la figura cosí nata nel segreto milluogo della fantasia, vive poi per suo conto, indipendentemente, e, spesso, in contrasto con la volontà del poeta. Non sono concetti nuovi, e ciascuno potrà agevolmente svolgerli, ed esemplificare.

Ora, non è che Euripide fosse destituito di tale facoltà di visione e di allucinazione: se no, non sarebbe stato poeta; ed era, e grandissimo. Ma accanto, c’era lo spirito critico. E, come i due cavalli del Fedro platonico, una delle due facoltà tirava di qua, una di là. E il poeta, quando rallentava di piú le briglie all’uno, quando all’altro. Piú spesso alla puledra Ragione, sicura divoratrice di piani, che all’alta Intuizione, usa a valicar le nubi. E cosí il carro, come appunto quello del Fedro, va un po’ a caso. Cosí, e usciamo dai miti e dalle immagini, alcuni dei suoi personaggi si muovono con libertà quasi assoluta, ed hanno la medesima libertà e indipendenza della vita: Medea, per esempi, Alcesti, Ifigenia. Altri devono muovere un po’ curvi sotto il pesante fardello del lavorio critico che il poeta ha prima compiuto per vederli, e del quale non s’è potuto sbarazzare durante la costruzione scenica. Altri, sotto questa grave mora, sembrano quasi soccombere. [p. XXX modifica]

Un indice di questa minor sicurezza creativa è poi da raccogliere in un fatto singolare; che alcuni personaggi d’Euripide, che appaiono in piú drammi, non mantengono inalterato, passando dall’uno all’altro, il loro carattere.

Un fatto simile non trova riscontro in veruno dei grandi drammaturghi e romanzieri. Per questi, lo abbiamo detto, i personaggi concepiti prendono sostanza di vita, con tutte le attribuzioni delle vive creature umane; fra le quali, principalissima, che il fondo psicologico non si àltera. Non troviamo mutato d’un’oncia Falstaff, se da Le allegre comari passiamo agli Enrichi: non troviamo mutato alcun personaggio di Balzac, nei suoi numerosi passaggi da romanzo a romanzo, anche se debba farvi una fuggevolissima comparsa. Rimangono sempre quello che sono perché «sono».

Guardiamo invece il Menelao di Euripide. Ne Le Troadi, è un marito melenso abulico e sensuale. Nella Ifigenia in Aulide è un po’ odioso da principio, quando insiste perché sia sacrificata l’innocente fanciulla; ma presto si ravvede, e diviene quasi simpatico. In fondo — dobbiamo concludere — non era poi tanto cattivo. Ma nell’Andromaca, eccolo diventato il piú odioso fra i personaggi odiosi di Euripide — e sono tanti. — Ma se poi leggiamo l’Elena, lo troviamo divenuto campione di virtú e d’eroismo.

E su per giú le stesse osservazioni dobbiamo ripetere, se esaminiamo Elena ne Le Troadi, nell’Elettro e nell’Elena. E analoghe contraddizioni, sebbene non cosí stridenti, possiamo trovare anche in altre figure d’Euripide.

Ora, tutto ciò significa che per Euripide i personaggi sono un po’ fantocci, che egli fa manovrare come piú gli conviene, fulcri di sue esperienze e riflessioni psicologiche ed etiche, pezzi mobili nella scacchiera d’un intreccio sce[p. XXXI modifica]nico. Non si lascia guidare da loro, ma tiene sempre, ben stretto in mano, il filo che serve a farli muovere. In una parola, non crede ai suoi personaggi.

Ed è impossibile che le conseguenze di tale scetticismo non si riflettano sullo spirito degli spettatori o dei lettori.

Un altro fattore che importa una profonda modificazione nel dramma euripideo, è il propagarsi della parte lirico-musicale, dalle sue sedi originarie alle sedi drammatiche. Per valutare bene questo fenomeno, bisogna partire da un esame del dramma dalle sue origini.

Il dramma greco, quale lo vediamo nei piú antichi lavori d’Eschilo, era costituito da una lunga pàrodos, o canto d’entrata nel coro, che, a sua volta, risultava di due parti: a) un brano in anapesti, ritmo di marcia, che il coro recitava, accompagnato dal flauto, entrando nell’orchestra, e compiendo qualche breve evoluzione per collocarsi dinanzi all’ara di Diòniso, nel centro dell’orchestra; b) da alcune coppie di canti strofici o epodici, strofe, antistrofe, epodo, che cantava compiendo evoluzioni danzate intorno all’ara.

Seguiva un episodio drammatico, recitato prima da un personaggio interloquente col coro, poi da due, poi da tre. Il metro di questo episodio pare fosse in origine il tetrametro trocaico; poi fu, in prevalenza, il trimetro giambico. L’episodio era recitato.

Alla fine dell’episodio, seguiva una nuova serie di canti danzati del coro intorno all’ara. Si diceva stàsimo. Qualche volta era anch’esso preceduto da una breve introduzione anapestica, che non aveva piú una reale funzione, ma era rimasto per inerzia. [p. XXXII modifica]

Allo stàsimo seguiva un nuovo episodio, e cosí via, alternandosi. Il numero degli stasimi rimase in genere di quattro.

Modello piú puro e perfetto di questo dramma arcaico sono Le Supplici di Eschilo.

Negli episodii, non tutto il coro interloquiva col personaggio o coi personaggi della scena; bensí il solo corifeo. E, secondo ogni verisimiglianza, passando cosí dall’ufficio lirico all’ufficio drammatico, adottava anch’egli la recitazione, non cantata, degli attori. Ciò appare anche dai metri. Nel primo episodio de Le Supplici, nel duetto con Danao, che poi, arrivato il re, diviene terzetto, il corifeo parla in trimetri. E nel primo episodio de I Persiani (il piú antico dramma pervenuto d’Eschilo dopo Le Supplici), nel duetto con Atossa, parla, come la regina, in tetrametri trocaici.

Ma il coro era pure sempre il «veicolo» — diciamolo alla tedesca — della parte lirica, cantata. E cosí, avvenne presto che in questi suoi dialoghi con gli attori della scena abbandonasse spesso i metri della recitazione, per passare ai metri lirici, al canto. Chiaramente lo vediamo nell’episodio già ricordato de Le Supplici.

Queste parti, mescolate cosí di recitazione e di canto, fra attori e coro, ebbero dagli antichi il nome di kommói (lamentazioni: forse perché in origine si verificarono nell’ultima parte della tragedia, quando, avvenuta la catastrofe, il coro innalzava i suoi lamenti).

Insinuatosi cosí il canto nelle sedi della recitazione, avvennero due fatti. Primo, che anche gli attori, per attrazione, qualche volta adottarono i metri lirici, cantarono: secondo che, capovolgendosi le parti, essi cantarono, e il coro recitò. Cosí avveniva, almeno a giudicar dai metri, nel kommós dell’Agamennone, dove Cassandra canta, e il coro insiste nei suoi trimetri per un lunghissimo tratto (1069-1119), per essere travolto solo in fine, anch’esso, nel vortice della melodia. [p. XXXIII modifica]

Il kommós è dunque il tramite pel quale il canto passa dalla sede corale, lirica, alla sede drammatica.

Questo dilagar della parte musicale sembra che ristagni in Sofocle. Sofocle appartenne a quella specie d’artisti — ce n’è di sommi — i quali, anziché cercare forme nuove, consacrano tutte le forze del loro genio a portare alla somma perfezione quelle tradizionali. Egli aveva un senso della forma meraviglioso, infallibile. Senza smuovere i cori dalle loro sedi tradizionali, li portò ad una complessità ed una perfezione insuperabili, curando soprattutto le parole, che qualche volta in Eschilo sono un po’ affrettate. E, d’altronde, sebbene la sua opera vada specialmente insigne per il perfetto equilibrio di tutti gli elementi, appare evidente che il suo primo interesse è rivolto alla parola. Certo, anche nei suoi drammi la pàrodos tende a prolungarsi in kommós (Aiace, Elettra, Filottete, Edipo a Colono); e nel kommós la parte cantata dai personaggi assume grande importanza. E certi brani cantati, pure appartenendo a sedi legittimamente destinate al canto, sono già vere monodie, del tipo che vedremo poi trionfare in Euripide (Antigone, 781-881, Trachinie, 994-1043); ma, nel complesso, con Sofocle rimane essenzialmente fissato un tipo di dramma in cui trionfano il contrasto drammatico e la pittura psicologica dei personaggi, trionfano l’eloquenza e la poesia nel suo senso piú perfetto e preciso, di espressione dei sentimenti e delle passioni per mezzo della parola.

E, pur se talvolta c’è un accenno della musica a strapotere, non bisogna dimenticare che, se Sofocle cominciò la sua carriera il 468 (col Trittolemo), Euripide entrava nell’agone dell’arte, con Le Peliadi, già nel 455: sicché per buona parte della sua produzione, e certo dall’Antigone (442, data quasi sicura), se pure non già dall’Aiace (antico, ma data incerta) potè avere sotto gli occhi i lavori del giovine ingegnosissimo rivale, che non rimasero senza influsso su la sua arte. [p. XXXIV modifica]

La grande invasione musicale ebbe luogo con Euripide.

Ma, anche in lui, non di colpo. Anche Euripide, sebbene tanto vago di novità quanto Sofocle era conservatore, appartiene alla famiglia dei grandi artisti greci, i quali effettuano i progressi nella loro arte molto lentamente e per gradi congiunti.

Il gruppo piú antico dei suoi lavori, Medea (431), Ippolito (428), e Supplici (424), non esce sostanzialmente dal tipo sofocleo, per quanto il coretto su la scena dell’Ippolito (58-72), e due brani, uno di Fedra (672-679), ed uno d’Ippolito (1348-1388), già accennino ad una orientazione verso lo straripare monòdico.

Tendenza confermata nella scena d’Evadne de Le Supplici, in cui l’eroina canta due vere monodie. Però, monodie strofiche. E il ricorso strofico introduce una esigenza di ripetizione, e, dunque, d’ornamentazione e di danza; e in questo senso già era monodia quella di Io nel Prometeo.

Una vera novità comincia ad affermarsi nell’Ecuba (dopo il 424). La pàrodos, iniziata come duetto anapestico fra Ecuba e il coro, finisce in duetto fra due personaggi, Ecuba e Polissena: il kommós, è divenuto vero e proprio duetto lirico.

Ma specialmente caratteristica è l’uscita di Polimèstore, che, acciecato da Ecuba, sfoga il suo dolore in una lunga monodia. E non piú strofica, bensí libera; e senza le battute del coro, che interpungono l’ultima uscita del protagonista nell’Edipo, che forse precede di qualche anno l’Ecuba, e, che, tutto sommato, tenevano impigliata la monodia nella rete del kommós. Qui abbiamo la monodia interamente libera, che può riflettere con piena docilità il vario tumultuare dei sentimenti e delle passioni che invadono l’animo d’un personaggio. Un simile canto è affidato ad Ercole, nelle Trachinie; ma Le Trachinie sembrano certo posteriori all’Ecuba.

Ma soprattutto è importante l’implicita affermazione, an[p. XXXV modifica]tipoda ai principi della drammaturgia di Sofocle, che quando questo tumultuare di sentimenti e di passioni sia giunto al suo apice, deve trovare la sua piena espressione nel canto. Principio che, naturalmente, non riesce affermato solamente nelle monodie, bensí anche nei duetti, nei terzetti, insomma, tutte le volte che la musica invade le sedi drammatiche, serbate in origine alla parola non accompagnata dal canto. E che trova una delle sue piú complete affermazioni ne Le Troadi. Qui la pàrodos è mutata in maniera che in essa, a sostituire la materia tradizionale, trova posto una monodia strofica d’Ecuba (122-152) e un duetto lirico fra lei e il coro (153-229). E duetto lirico è quello che segue, fra Ecuba e Taltibio (238-277), concluso da una breve monodia d’Ecuba (278-292). Segue una lunga monodia strofica di Cassandra (508-540), un duetto, prettamente lirico, fra Ecuba e Andromaca (577-603), un altro duetto lirico fra Ecuba e il coro (1287-1332).

Se a questi si aggiungono i due gruppi anapestici 99-121 o 777-793, che furono certo, cantati, si arriva alla cifra tonda di 300.

Ma ai versi cantati in sede drammatica, bisogna aggiungere quelli che, per essere cantati nelle lor sedi legittime, corali, non cessavano d’essere canto e musica. Questi versi salgono a 186. Sicché, in complesso, contro 864 versi semplicemente recitati, ce n’erano 468 cantati.

E se poi si pensa che i versi lirici quali ora noi li possediamo non sono che nudi schemi di una complessa melodia, nella quale molte sillabe venivano prolungate, e fra le varie frasi intercedevano pause, e il tutto era eseguito coi movimenti musicali, in genere piú prolungati di quelli della mèra recitazione, e fra i periodi spesso dovevano inserirsi echi melodici e ritornelli orchestrali (un esempio ne abbiamo già nel brevissimo frammento dell’Oreste), ne risulta che la parte affidata alla musica pareggiava quella affidata alla parola, se pur non [p. XXXVI modifica]la soverchiava; e il complesso riusciva ad avere una fisionomia piú d’opera musicale che d’opera poetica.

E non già del tipo eschileo antico, nel quale la musica pur soverchiava, ma solo nei lunghi e lunghissimi corali: sicché l’insieme poteva, su per giú, paragonarsi ad un moderno oratorio; bensí d’un tipo nuovo, nel quale la parte cantata era affidata in larga misura ai personaggi. E il coro, stremato nelle sue sedi legittime (la pàrodos essenzialmente sparita e gli stàsimi ridotti), intervenendo nelle sedi drammatiche, non era piú protagonista, ma personaggio di sfondo, ombra che serviva a mettere in luce la parte degli attori.

Il processo continua, su per giú, in tutti gli altri drammi. Inutile enumerarne qui una per una le varie tappe, perché sono registrate nelle singole prefazioni, e perché nella mia versione sono strettamente rispettati i passaggi ritmici, indici dei trapassi musicali, e dunque del passaggio delle parti recitate alle parti cantate. Basti che quasi interamente melodramma è anche lo Ione. La pàrodos (1-236) è tutta convertita in canto. Cantato è il terzetto fra Creusa il pedagogo e il coro (764-799): vera e lunga monodia il brano di Creusa 859-922; duetto lirico il brano 1445-1509. Ed anche qui, se si computano i canti corali delle sedi legittime, la parte della musica è grande. E si deve aggiungere che vi spesseggiano, come in tutti i drammi dell’ultima maniera, i tetrametri trocaici. Era un ritorno alle forme antiche, quando la tragedia era piú danzata (il tetrametro trocaico era metro di danza). Queste parti, dunque, erano un che di mezzo fra la parola parlata e la parola cantata: sicché venivano ad aumentare la parte musicale del dramma.

Ma tutto ciò riguarda la configurazione formale del dramma. In realtà, la invasione del canto nelle sedi drammatiche importava una modificazione assai piú sostanziale. Importava [p. XXXVII modifica]che l’espressione della stessa essenza drammatica non rimaneva piú affidata alla sola parola, bensí anche alla parola esaltata dal canto.

E questo era un errore. Il mezzo legittimo e piú efficace per la espressione dei sentimenti e delle passioni, quando esse si devono concretare, come avviene in sede drammatica, è la parola. Legittimo ed insostituibile. Inutile insistere in teorie. Prendete, per esempio, nell’Edipo re, il fiero contrasto di vita e di morte fra Edipo e Tiresia; o, nell’Antigone, l’ultimo saluto dell’eroina alla vita; o, in Shakespeare, la tremenda imprecazione di Re Lear a Goneril; o il monologo d’Amleto: rivestite queste scene di note, e siano pure ispirate; e sentirete che la profonda entità drammatica ne riesce diminuita, fatalmente; e in qualche caso — per esempio nell’ultimo — sarà ben difficile evitare il ridicolo.

E altrettanto dové avvenire in Euripide. Quel Polimèstore, che nell’Ecuba, appena accecato, esce cantando, non convince. Quando Ecuba, visto il cadavere del dilettissimo Polidoro, canta, fa quasi stizza. E quando Ifigenia, dopo il monologo recitato, che tocca d’un lancio le piú alte vette della poesia e della commozione, si mette ad intonare una monodia, con immagini piú adatte a sostenere un canto che ad esprimere uno strazio, noi sentiamo una fatale diminuzione dove il poeta, evidentemente, cercava una sublimazione. E cosí in tanti altri luoghi, che si trovano ricordati nelle singole prefazioni, o che il lettore facilmente scoprirà da sé, leggendo le tragedie.

E peggio fu in seguito. Perché, se il regno fu in principio diviso fra la parola e la nota, ben presto la nota divenne soverchiatrice; e, invece di limitarsi alla vagheggiata intensificazione della parola, si sviluppò secondo proprie leggi, e queste impose alla parola. [p. XXXVIII modifica]

E le impose in due maniere, una piú funesta dell’altra.

Prima, inducendo il poeta a comporre le parole, non come dettava il sentimento letterario, che avrebbe dovuto essere l’arbitro supremo; ma come esigevano leggi o magari capricci della melodia. Indice cospicuo, le frequentissime ripetizioni di parole, e talora di sillabe, che troviamo nel testo delle melodie. Aristofane ne fa una gustosissima parodia ne Le Rane:

                    Ed ei per l’ôra
                    lanciossi a volo a volo,
                    lasciommi al duolo al duolo,
                    e pianto perenne perenne
                    stillan, tapina, i miei cigli, i miei cigli.

Di queste ripetizioni abbondano tutte le monodie degli ultimi drammi d'Euripide. E dobbiamo dire che alcune volte sembra quasi di leggere parodie aristofanesche.

Seconda linea di sviamento: la musica, contando su la propria efficacia, induceva a dar l’ali delle note a brani che assolutamente non tolleravano musicazione.

Nella Ifigenia in Tauride, l’eroina propone un dilemma, e lo propone in musica:

                    La via di terra piú che il naviglio
                    conviene, o l’impeto, forse dei pié?

Ed anche in musica, Elena, nel dramma che da lei prende nome, rivolge alle donne del coro il seguente invito:

                    O amiche, persuasa
                    fui dal vostro consiglio.

[p. XXXIX modifica]

                    Entrate or nella casa,
                    entrate, affin ch’edotte
                    siate delle mie lotte.

Or tutti intendono quanto stiano a posto le note per un tale dilemma, per un tale invito. Insomma, comincia qui il controsenso artistico, tanto pernicioso al melodramma, per cui vengono sollevati nel cielo alto della musica brani incapaci di levarsi a quell’altezza. Paperi sollevati dalle grinfie dell’aquila, che empiono l’ètere azzurro di gracidii e starnazzii grotteschi e molesti.

E mentre la musica tenta da un lato questa impossibile esaltazione, dall’altra procede alla fatal depressione della poesia, espressione integrale dei sentimenti per mezzo della parola. Bandita dalle sedi musicate, tende a indebolirsi, per simpatia, anche nelle altre sedi. Lo vediamo assai chiaramente in molti degli ultimi drammi d’Euripide. Sinché il poeta, conscio, certo, di questa diminuzione, nell’ultima fase della sua opera, come il nuotatore già presso a sprofondare, con un vigoroso colpo di tallone torna ad emergere all’aria e alla luce.

Si domanderà qui, fra parentesi, come mai il pubblico di Atene, che tutti propendiamo a figurarci di gusto sicuro e squisito, non si accorgesse di questo palese declinare dell’arte.

Ma, anche lasciando stare che certe sentenze, come, per esempio, quella che condannò Le Nuvole, non sembrano adatte a comprovare tale sicurezza di giudizio; e che i drammaturghi del tempo non ci credettero mai: si risponde facilmente che il pubblico, per quanto fine e cosciente, è pur sempre pubblico, cioè proclive ad entusiasmarsi piú per la brillante superficialità che non per le profonde essenze. Quelle monodie che dal lato poetico sembrano scarse, erano certo rivestite di melodie affascinanti; e, soprattutto, nuove, perché, come sappiamo, Euripide era vago di novità, e seguace del famoso innovatore Ti[p. XL modifica]moteo. E che Euripide avesse il dono della melodia profondamente espressiva, risulta già dal frammentino dell’Oreste. E saranno certo state cantate con tutti i lenocinii dell’arte, da artisti prediletti. Come resistere a tanti fàscini riuniti? Come distinguere la speciosità dalla reale essenza?

Ma neanche mancava chi sapesse veder giusto. L’entusiasmo per le nuove forme non era davvero universale. C’erano assai dissidenti e nemici. E tutti li rappresenta ai nostri occhi Aristofane, con le sue parodie, e le sue critiche, che sotto la buccia scherzosa nascondono un fondo di verità serio e profondo.

E se badiamo alla palinodia artistica che si palesa, non solo nelle Baccanti, bensí anche, sebbene non cosí radicalmente, nella Ifigenia in Aulide e nelle Fenicie, dobbiamo concludere che fra quei dissidenti si schierò, nell’ultima fase della sua arte, perfino lo stesso Euripide.

Quando si parla di elementi integrali del dramma greco, vien subito in mente la parte lirica. Tramite del lirismo nella tragedia era il coro, primo nucleo e generatore della tragedia. Ma dalla sede corale trasmigrò via via nel kommós, nelle monodie, e un po’ in ogni parte del dramma, imprimendovi il suo sigillo.

Se esaminiamo il lirismo di Euripide, troviamo che esso è costituito, su per giú, degli stessi elementi che costituivano il lirismo di Eschilo e di Sofocle:

a) riflessioni e commenti etici sugli eventi del dramma;
c) effusioni propriamente liriche.
b) rievocazioni di antefatti mitici;

Se non che, il tòno fa la musica. In Euripide i commenti etici non presentano né la connessione stretta ed appassionata [p. XLI modifica]che troviamo in Eschilo, né la dipendenza da profondi principii etici e religiosi che li richiami ad unità, né la profonda e sentita originalità di conio che rampolla dalla coscienza profonda. Derivati dalla gnomica corrente, ed esposti senza neanche, parrebbe, aspirazione e personalità, appaiono un po’ sgranati, e, sfumando spesso nel troppo generico, sembrano perdere la connessione col contesto. Sicché, non riescono ad essere nel complesso del dramma vero elemento caratteristico.

E cosí, le rievocazioni mitiche, sono, sí, connesse con lo svolgimento del dramma. Però, mentre in Eschilo sono addotte come spiegazioni o giustificazioni delle vicende tragiche, hanno insomma, ufficio di mezzo, e non di fine: Euripide, piú che ad insistere sulle connessioni e sui rapporti fatali, bada a rendere evidente la rappresentazione. Una tendenza simile già si poteva rilevare in Sofocle. Ma in Euripide è assai piú sviluppata e significativa. E spesso queste rievocazioni, soverchiando ogni misura, divengono veri e proprii poemetti.

Cosí nell’Elettra, la favola del vello d’oro; ne Le Fenicie, la favola di Cadmo, piena di vita e di calore; nella Ifigenia in Tauride il mito di Febo, che s’impadronisce dell’oracolo di Pito, e poi, scacciatone da Gea, va in Olimpo a piatire presso Giove; nell’Elena il mirabile poemetto della passione di Demetra (vedi introduzione al dramma); nell’Ercole la narrazione delle imprese dell’eroe. Quest’ultimo è un vero e proprio poemetto, non solo quanto all’essenza, bensí anche a certi atteggiamenti formali.

C’è. per esempio, l’invocazione:

                    Dopo l’inno di gaudio,
                    del tristo elíno risuonar fa’ l’etra,
                    Apollo, fa’ con l’aureo
                    plettro vibrar l’armonïosa cetra.

[p. XLII modifica]

C’è la protasi:

                    Io dell’eroe — chi del Croníde vuole
                    chiamarlo, e chi d’Anfitrïone prole —
                    che fra gli estinti scese
                    nel buio Averno, vo’ cantar le imprese.

E poi la specificata narrazione.

Insomma, il poemetto, entrando nella compagine d’un’altra opera d’arte, d’altro carattere, non ha perduto certe caratteristiche che sembravano strettamente connesse con la sua esistenza indipendente.

Segno anche questo, se pur ce ne fosse bisogno, che l’evocazione è divenuta fine a sé stessa, e che la tendenza di queste rievocazioni, etica e religiosa in Eschilo, s’è mutata in tendenza puramente estetica: rappresentare.

Se saggiamo con l'analisi la parte piú propriamente lirica, riscontriamo una gran monotonia d’atteggiamenti.

Si possono, in fondo, ridurre a tre: invocazioni o preghiere, rievocazioni, voti.

Il voto era anche motivo lirico frequente in Eschilo. Ma quanto differente, quanto poco eschileo in Euripide! I coreuti dei suoi drammi, impigliati nell’orrore delle vicende tragiche, per lo piú si augurano di trovarsi altrove, in un luogo indeterminato (Ippolito 252):

                    Deh, fossi in antri eccelsi, inaccessibili!;

oppure determinato. E fra i determinati, naturalmente, Atene gode una indiscutibile preferenza.

[p. XLIII modifica]

Un altro voto frequentissimo è quello della metamorfosi, di tramutare in un’altra essenza, per lo piú aerea (Elena, 101):

                    Oh, divenute aligere,
                    trovarci dove i Libii
                    augelli a stormo volano!

E una volta addirittura in nuvola (è voto non del coro, ma di Elettra):

                    Deh, se potessi, come una nuvola
                    dal pie’ di vento, volar, con rapida
                    aerea traccia,
                    al mio fratello caro, del profugo
                    misero, dopo sí lungo transito
                    di tempo, al seno gittar le braccia!

Accanto al voto c’è, e spesso si confonde con esso, la rievocazione dei beni perduti, dei cari luoghi perduti.

Ma piú frequenti sono le invocazioni, le preghiere.

A preghiere ed invocazioni è anche consacrata gran parte del piú assoluto lirismo di Eschilo. Ma invocazioni e preghiere a Numi, espresse con la solennità e la fede profonda del credente.

In Euripide, è tutt’altra cosa. Non che non sia invocato qua e là qualche Nume. Ma, cosí, quasi per obbligo tradizionale. La preghiera non trova eco poetica nel cuore scettico del poeta, non gli suggerisce nulla, non lo ispira. Altre essenze, astratte e concrete, sono piú spesso invocate, e sembrano animare la sua fantasia.

Gli uccelli, per esempio. Egli li invoca, e dipinge la loro vita con visibile compiacenza. L’invocazione alla rosignoletta, nell’Elena, è fra i piú deliziosi spunti della lirica greca. Il [p. XLIV modifica]poeta li concepisce un po’ come creature sovrumane, li vede fra le nubi, o, addirittura, fra le stelle.

                    O collilunghe aligere,
                    compagne al corso delle aeree nuvole,
                    volate fra le Plèiadi,
                    sotto il notturno scintillar d’Oríone.

Non di rado queste invocazioni divengono strane e fatue. Ad un remo, per esempio (nell’Elena: vedi oltre); o ad una granata (nello Ione: vedi introduzione al dramma). E dimostrano quanto scarsa fosse la fede del poeta, che si serviva dell’atteggiamento, con libertà quasi irriverente: come se in un vaso sacro mescesse il liquore della frivola orgia.

Ma il liquore era squisito ed inebriante. Ché invocazioni, voti, erano in fondo, pretesti a dipingere immagini. Cómpito d’artista: cómpito palesemente prediletto da Euripide.

Cosí, l’invocazione al remo fenicio (Elena), dà opportunità a descrivere il

                                                     remeggio,
                    padre ai flutti che suscita, che il numero
                    segna alle danze che i delfini intrecciano,
                    quando, placate l’aure,
                    sta senza vento il pelago.

La rievocazione della caduta d’Ilio è pretesto, nell’Ecuba, ad una pittura di genere, assai graziosa, sebbene meno intonata alla solennità tragica:

                    Io componea fra i vincoli
                    delle bende i miei riccioli,

[p. XLV modifica]

                    e le luci, degli aurei
                    specchi figgevo nel fulgore intèrmine.

L’invocazione agli Erettídi, nella Medea, suscita una serie di balenanti immagini ariose, nelle quali sembra davvero miracolosamente imprigionato tutto il limpido azzurro ètere dell’Attica.

Il voto della metamorfosi vapora in una lieve musica di versi aerei e multicolori, come una fuga di nuvole a vespro:

                    Oh, divenute aligere,
                    trovarci dove i libici
                    augelli a stormo volano,
                    dall’invernale pioggia
                    fuggendo, e l’antichissima
                    sampogna del pastor, che sovra i fertili
                    piani, dall’umor pluvio
                    intatti, il grido lancia
                    alto volando, seguono.

E perfino l’invocazione alla granata, nello Ione, dà luogo a pitture di delicatezza e grazia squisita e suggestiva.

E anche qui, il poeta non compieva propriamente opera d’innovatore: d’immagini era intessuto in parte, non soltanto il lirismo dei due grandi predecessori, bensí tutto il lirismo greco.

Ma l’abbondanza di queste immagini, la predilezione, e, soprattutto, l’intenzione con cui Euripide le svolge, gli effetti a cui mira, e i mezzi con cui li raggiunge, fanno della parte [p. XLVI modifica]descrittiva o pittorica d’Euripide un elemento caratterizzante dei suoi drammi.

Le descrizioni appaiono specialmente in due uffici.

Primo, nel racconto del messo. Questo racconto manca in parecchi drammi di Eschilo e di Sofocle. Ma in Euripide non manca mai, tranne nell’Alcesti, che va però considerata sotto una luce speciale (vedi introduzione). Esso è divenuto parte canonica del dramma, come per Eschilo poteva essere la pàrodos; e lo integra, descrivendo fatti avvenuti lungi dagli occhi degli spettatori. E queste narrazioni hanno in Euripide uno stile speciale, che sarà piú oltre descritto, e che, rendendo la descrizione emula della rappresentazione, diviene importantissimo elemento d’integrazione e indice caratteristico.

Secondo, nelle descrizioni che servono alla integrazione scenica. Non sappiamo precisamente quale fosse la scena ai tempi d’Euripide; ma certo possiamo supporla non troppo ricca di particolari. Una quantità, invece, di particolari che non apparivano, e forse non erano esprimibili nella materiale scenografia, venivano suggeriti dalla parola del poeta, e cooperavano a rendere colorito ed evidente agli occhi degli spettatori il gran quadro del dramma. Il lettore li rileverà facilmente scorrendo le tragedie; e i piú significativi troverà via via specificati nelle rispettive introduzioni.

E, come ho accennato, non solo la quantità e la coscienza imprimono nelle descrizioni euripidee questo carattere d’integrazione drammatica; bensí anche, e, quasi, soprattutto, il loro speciale carattere.

Euripide, come tutti sanno, da giovine fu pittore. Questa sua antica ispirazione, e l’effetto dei suoi studii si sentono di continuo in tutte le sue descrizioni. [p. XLVII modifica]

Tamquam pictura poësis, è antico detto, e giustificatissimo; e appunto per questo occorre studiare un po’ la poesia come si studierebbe una delle arti plastiche che cadono sotto il senso della vista.

Ora, mentre Eschilo dipinge sinteticamente, in iscorcio, e a grandi masse, Euripide accarezza il disegno, e scende sino ai particolari, per metter sotto gli occhi degli spettatori tutto ciò che egli vede, senza lasciar margine alla fantasia.

Un paio d’esempii. Ne Le Baccanti, Dioniso che pone Pentèo sull’albero:

                    E, posato Pentèo fra i rami, il tronco,
                    pian piano, senza abbandonarlo a un tratto,
                    ché via non crolli il carico, rilascia.

E nella Medea, Creusa che prova il fatale peplo donatole dalla rivale:

                    Poscia dal trono surse, e traversò,
                    sul bianchissimo pie’ molle incedendo,
                    la stanza; e tutta gaudio era pei doni.
                    E spesso e a lungo si mirò, levandosi
                    sugli apici dei pié, sino al tallone.

Insuperato esempio di efficacia, nella precisione dei particolari, è il maroso descritto nell’Ippolito:

                    Un maroso infinito, insino al cielo,
                    scorgemmo, tal che agli occhi miei fu tolto
                    veder le spiagge di Scirone; e l’istmo
                    tutto nascose, e d’Esculapio il balzo.
                    Poi, sgonfiandosi, e tutto gorgogliando
                    di fitta spuma in giro, si lanciò,

[p. XLVIII modifica]

                    con marino estuar, contro la spiaggia,
                    ov’era la quadriga; e col medesimo
                    turbine, e con la furia orrida, al lido
                    scaraventò, fiero prodigio, un toro,
                    del cui muggito risuonò pervasa
                    la terra tutta.

Questa precisione di linea è talora spinta sino alla geometria. Cosí, per rimanere ne Le Baccanti, quando Diòniso curva l’albero su cui porrà Pentèo:

                                      ghermita d’un abete
                    la somma vetta che toccava il cielo,
                    la trasse giú giú giú, sino alla terra
                    negra, simile a un arco, o ad una curva
                    che volubil compasso in giro incida.

E nello Ione, alla geometria si aggiunge l’aritmetica. Il giovine ierodulo:

                                                       la misura
                    prese d’un plettro, a forma di rettangolo;
                    cosí che l’area, per usare il termine
                    degli architetti, era di cento piedi.

Fine è anche la sensibilità ai colori. Ecco, nell' Elena «il glauco estuar del mare, e i flutti candidi (dalla pelle) di ciano».

E nella Ifigenia in Tauríde, «il dragone color vino, dal dorso maculato, nell’ombra (pari ad una corazza bronzea) di un lauro dalle fitte foglie». Cerchiamo di realizzarne la visione; è un effetto portentoso. Nel testo c’è proprio la magia di certe opacissime ombre di Rembrandt, quasi monocrome a [p. XLIX modifica] prima vista, e che poi, fissate a lungo, scoprono mirabili armonie di colori nascosti.

E questa abilità, questo virtuosismo pittorico, gli servono poi ad ottenere taluni effetti che trascendono tanto la poesia quanto la pittura, in un connubio che, del resto, non potrebbe essere determinato con qualificazioni precise.

Tale è l’effetto di trasparenza cristallina, ottenuto, nella Medea, evocando il cielo dell’Attica. Inutile citare, qui siamo nella piena sfera della intraducibilità.

Tale la misteriosa pittura di Tantalo (Oreste):

                    Deh, potessi alla roccia
                    giunger, che in mezzo fra la terra e l’ètere,
                    dall’Olimpo, precipite
                    si libra, appesa ad auree
                    catene, e sempre la mulina un vortice!

Tale, e, forse piú significativa d’ogni altra, la pittura, ne Le Fenicie, di Capanèo, fulminato da Giove:

                                             il vertice
                    già varcava del muro, allor che il folgore
                    di Giove lo colpì: diede un rimbombo
                    la terra, tal, che tutti esterrefece.
                    E dalla scala le sue membra, lungi
                    l’una dall’altra, frombolate furono:
                    all’Olimpo le chiome, il sangue a terra,
                    le mani, e il resto delle membra, come
                    la ruota d’Issïóne, in giro andavano;
                    e al suolo, arso cadavere, piombò.

Qui si fondono, come solo si poteva nella materia della parola, un effetto quasi geometrico, e un effetto quasi trascendente. [p. L modifica]

Ora, come si vede anche da questi pochi esempii, qui tutto è molto voluto. Non c’è la spontanea intuizione del poeta, che parla, sí, per immagini, ma solo perché intuisce che queste sono il tramite piú adatto per far passare le creature della sua fantasia dal proprio spirito a quello degli uditori. Qui c’è l’artista riflessivo e cosciente, che ai fini della propria arte deduce, da un’arte affine, e pur conosciuta, tutti i possibili effetti.

E qualche volta, l’uso diviene abuso, il compiacimento sfoggio. «Abbi compassione di me — dice Ecuba ad Agamennone — , e, a guisa di pittore, mettiti da lontano, e considera quante sciagure mi premono». Tale ostentazione d’una conoscenza tecnica, del resto elementarissima, che, cioè, per ben giudicare l’insieme d’un quadro, bisogna guardarlo da una certa distanza, non aggiunge proprio nulla, e non cospira ai fini dell’arte. Cosí, poco aggiungono, salvo casi eccezionali (per esempio le descrizioni, nello Ione, delle sculture dei frontoni del tempio), le pitture d’opere d’arte di cui pure il poeta sovente si compiace, come, per esempio, quella nell’Elettra dello scudo d’Achille, che serve proprio da riempitivo. E meno, anche, i generici richiami a pitture, che anche ricorrono abbastanza frequenti. «Non so — dice Ippolito — che cosa sia amore, se non per sentita dire, e per averne viste le pitture». — «Atena — dice Ione — die’ alle figlie di Cècrope il pargoletto, come si vede nelle pitture». «Mai — dice Ecuba — non sono entrata in una nave; ma ne ho viste dipinte». (Dove, fra parentesi, pare strano che la regina d’un paese essenzialmente marinaio e ricco di una splendida flotta non avesse mai vedute navi).

Nulla, dicemmo, aggiungono queste allusioni a pitture o pitture di pitture. E in esse ravvisiamo un primo momento dell’infatuamento un po’ dilettantesco, che imperversò poi nel momento alessandrino, dove la fredda e accurata descrizione, con [p. LI modifica] pretesa di emular la pittura, sostituí le vive pitture dell’età classica, a cominciare da Omero; le quali, invece di dedurre effetti dall’arte della pittura, tentando trasporti, da materia a materia, non sempre possibili, e non sempre felici, cercavano di sfruttare tutte le possibilità della parola, per guadagnare con essa quanto la narrazione perde necessariamente di fronte alle arti plastiche, che parlano direttamente alla vista.

Ma nel complesso, queste pitture, con la loro perfezione, con la loro evidenza, compiono una mirabile opera d’integrazione, e, come dicemmo, divengono elemento altamente caratteristico dell’opera di Euripide. Nei racconti dei messi, integrano l’azione, figurando in un secondo piano, con evidenza quasi di realtà, i fatti non materialmente rappresentati ma a questi contemporanei. Nelle narrazioni mitiche compongono come degli sfondi su cui il primo ed il secondo piano vengono a proiettarsi, e ad inquadrarsi in un complesso prospettivo. Effuse un po’ in tutto il dramma, servono ad integrare la materiale scenografia, e a far circolare l’aria e la luce in tutta la complessa compagine del dramma.

Abbiamo determinati tre fattori e tre linee di evoluzione nel teatro d’Euripide.

1) il criticismo, che conduce al dramma borghese;
2) lo spirito musicale che conduce al melodramma;
3) lo spirito pittorico che introduce nella drammaturgia la tendenza al dramma narrato.

Ma questo processo è tutt’altro che costante ed uniforme. Durante il suo svolgimento ci son continui ricorsi.

E, soprattutto, appare visibile una continua irrequietudine del poeta; per la quale quasi in ogni dramma troviamo il tentativo d’una formula nuova. [p. LII modifica]

Ho cercato di rilevare nelle singole prefazioni, dramma per dramma, il carattere e la portata di questi tentativi. Ma giova, anzi mi sembra indispensabile un breve riassunto sintetico, ordinando i drammi secondo lo schema cronologico.

Nell’Alcesti troviamo una materia ricca e varia, disposta in tanti quadri, che si succedono con somma libertà, quasi sempre con effetto di contrasto: la rinuncia all’impiego della forza del Fato, anzi la ribellione: perché l’eroismo d’un mortale rende vano il decreto delle Parche. Allo svolgimento, ampio e libero, dei sentimenti e delle passioni, si accompagna un largo uso di elementi comici. Il coro, sottratto alla concezione arcaica, risoluto nei suoi elementi, ridotto a popolo, intercalato nell’azione con bella fusione quando è in ufficio drammatico, e quando è in funzione lirica sempre stretto all’azione e logicamente giustificato. Manca la narrazione dell’araldo, manca interamente il carattere sofistico. Insomma, la materia dell’arte viene elaborata con piena libertà, come detta l’estro, e, un po’, il capriccio. E c’è la rinuncia quasi assoluta alle risorse d’una tecnica tradizionale e sicura, per affidarsi interamente alla sensibilità, alla intuizione. Vien fatto di pensare a Shakespeare.

Questa concezione, che possiamo dire perfetta, e che forse fu piú agevolmente raggiunta perché l’Acesti occupava nella tetralogia una posizione speciale (vedi introduzione), non appare mantenuta nel séguito dell’opera euripidea. Troviamo invece una continua, oscillante ricerca. E, subito dopo l’Alcesti, come un ripiegamento sulle posizioni tradizionali.

Tradizionale appare, quanto alla forma, la Medea. Se non che, sotto la buccia antica, si chiude una polpa nuova. In questo dramma, Euripide ha rinunciato a tutte le mirabili possibilità del soggetto, e a tutte le risorse della sua drammaturgia: alla varietà d’episodii, allo sfoggio dialettico, al colore locale, alla luce della lirica corale, alla varietà ritmica, per [p. LIII modifica] concentrare tutte le forze creatrici nel dipingere la figura di Medea, sottratta al Fato, artefice libera della sua sorte. E arriva al barbaro scempio attraverso una lotta d’animo e a un perenne ricorso e fluttuare di decisioni, che formano il vero argomento del dramma. È il primo studio di carattere nel senso moderno.

Anche piú nella scia della tradizione è l’Ippolito (428). Il migliore omaggio, forse, d’Euripide, alla Musa tragica del passato. Vero modello d’equilibrio, con tre caratteri quasi ugualmente salienti e ben tratteggiati, con giusta proporzione della materia, e perfetta distribuzione di luci e d’ombre. Una piccola novità formale si trova nel coretto che ad Artemide intonano Ippolito e i suoi compagni. Era la prima volta, almeno per quanto sappiamo, di un coro su la scena e non già nell’orchestra.

Piú singolari sono Le Supplici (424). In questo dramma mancano alcune delle note caratteristiche della drammaturgia euripidea. Manca lo studio dei caratteri, manca l’intreccio; e l’azione, lineare, consta di due quadri. Nel complesso, è una grande composizione corale, protagonista il coro delle supplici; e gli altri elementi in sua funzione, e subordinati. Insomma, un dramma eschileo, ed eschileo della prima maniera.

Una concezione simile sembra che balenasse al poeta anche nell’Ecuba, che appartiene, su per giú, allo stesso periodo (poco dopo il 424). Se non che, la concezione originaria appare sviata; e il poeta inventa l’episodio di Polidoro e Polimestore, e lo svolge nelle forme d’un intreccio: la famosa mechané, che qui appare la prima volta, in forma ben definita, nei superstiti drammi d’Euripide.

Nell’Ercole (424), c’è il tentativo, nuovo e geniale, di riunire sotto il medesimo fuoco avvenimenti disparati e remoti. A questa novità di composizione non corrisponde la novità degli elementi di composizione, che sono anzi, in genere, vieti [p. LIV modifica] e frusti, e non sempre rilevati da felicità d’intima elaborazione. Ma la messa in opera, con lo sviluppo di un diagramma sentimentale su tre episodii, conferisce all’insieme un carattere di freschezza e di originalità efficace.

Ne Le Troadi (416) sembra s’incarni pienamente la forma balenata già, circa dieci anni prima, nell’Ecuba. È, come Le Supplici, un dramma a linea eschilea, ma che rappresenta anche un tipo nuovo, costituito da una serie d’episodii che, senza verun intreccio, sfilano dinanzi al personaggio di Ecuba, il cui dolore unico dinanzi a tanti varii cordogli, forma come un presame ed un elemento di unità. È un dramma che ora si direbbe «a quadri». La scenografia è di grandiosità impressionante.

In questo momento dell’attività del poeta credo si debba inserire l’Ifigenia in Tauride. Veramente, secondo lo schema cronologico, lo Ione precederebbe, sia pure d’un anno, l’Ifigenia in Tauride e l’Elettra. A me sembra, e nelle rispettive introduzioni ne discuto le ragioni, che non solo questi due drammi, bensí anche l’Oreste, sia da ritenere anteriore allo Ione. Comunque, anche se non ci fu materiale precedenza cronologica, certo ci fu precedenza nello schema di sviluppo ideale, che non sempre corrisponde a quello obiettivamente cronologico.

E nella Ifigenia in Tauride, mentre i personaggi sono a tipo classico, l’intreccio è completamente romantico; e all’intreccio si aggiunge anche, largamente usato, l’altro elemento, anche caratteristico, della suggestione di terra lontana. E l’intreccio è ben concepito, ma piú esposto che svolto. E questo potrebbe indicare che appartiene alla prima fase della concezione euripidea, che si suol chiamare romantica (vedi introduzione allo Ione). Del resto, sotto la buccia romantica, si nascondono una concezione e una realizzazione assai originali. Come nella Medea la tragedia era essenzialmente ridotta ad [p. LV modifica]un monologo della protagonista, cosí qui è ridotta ad un lungo terzetto, fiancheggiato da alcune scene, che servono a prepararlo e risolverlo.

Ultraclassico era il soggetto dell’Elettra (413); ma rielaborato da Euripide con piena libertà. E non solo quanto all’intreccio, bensí anche quanto alla fondamentale concezione dei personaggi, che hanno perduto ogni aspetto eroico, e son divenuti semplici borghesi. Per questo fatto, l’Elettra rappresenta ancora un passo avanti nella concezione romantica, affermata anche dalla ricchezza del paesaggio, che nella prima parte è trattato con intenzione e virtú suggestiva quali non avevamo finora trovate in verun dramma greco (l’Edipo a Colono fu rappresentato una dozzina d’anni dopo (401). Singolare è il taglio del dramma, che con le due uccisioni di Egisto e di Clitemnestra, l’una a metà del dramma, l’altra alla fine, viene a risultare come la sovrapposizione di due drammi.

Un passo avanti, nella concezione romantica, è ancora segnato dall’Oreste, per la magnifica condotta dell’intreccio. Ed anche originale è la concezione fondamentale, perché, con piena indipendenza da ogni postulato mitico, la condizione d’Oreste appare ridotta ad una crisi di coscienza. Purtroppo, però, questa concezione originaria si stempera, via via, nella mechané. Interessantissimo è il coro, per due aspetti. Primo perché, pur senza avere la solennità ieratica del coro eschileo, neanche presenta il carattere, indipendente dalla tradizione, e, in sostanza, esornativo, che veniva via via assumendo in altri drammi d’Euripide, ma è lo svolgimento danzato di motivi strettamente inerenti all’azione, e che nella danza trovavano il loro perfetto sviluppo. Secondo, perché, in contrasto con la borghesizzazione dei personaggi (tutta gente da poco, già li definiva l’antico scoliaste) è tutto pervaso da un alto spirito lirico, che fa pensare, sebbene differentissimo, al lirismo di Eschilo. [p. LVI modifica]

Lo Ione (414) è forse il modello piú perfetto di dramma romantico. Il mito è un pretesto, e l’azione è essenzialmente inventata dal poeta. E sviluppata a intreccio, e l’intreccio condotto con somma abilità. I personaggi, interamente liberati dalla solennità mitica, sono da dramma borghese, e, qua e là, da commedia. Mentre l’abbondanza della musica in sedi non tradizionali e non legittime, e il piú largo impiego di monodie, fanno, qui piú che in ogni altro dramma, pensare al melodramma.

Ed ecco un nuovo tipo nell’Elena (412). L’intreccio è quello medesimo della Ifigenia in Tauride, ma tanto svolto e curato quanto lí rimaneva in germe e sommario. Qui è in pieno trionfo; e dinanzi ad esso perdono valore i caratteri, ai quali il poeta sembra quasi rinunciare. La parodia che appare qua e là in molti drammi, qui, sia pure involontaria, dilaga. Seguendo un impulso già mosso nell’Oreste, insieme col decadere di altri elementi di dignità e altezza tragica, si unisce, quasi a contrasto, un ascendere della parte lirico-musicale, che nell’Elena è tra le piú aeree, colorite, ispirate. Sembra che l’interesse artistico vada sempre piú trasferendosi dalla poesia alla musica. Melodramma. E poiché nella singolare atmosfera creata dalla musica l’irreale sembra acquistar quasi maggiori diritti del verisimile, melodramma-fiaba. Che è forse piú legittimo del melodramma a soggetto piú o meno verista.

A questo punto, vediamo un singolare ritorno del poeta. Un ritorno, di cui erano già stati sintomi e antesignani Le Supplici e Le Troadi, al dramma tradizionale.

Ed anche questo ritorno è tutt’altro che lineare ed omogeneo. Ché anche gli ultimi tre drammi, pure accomunati da questa palese nostalgia, sono differentissimi l’uno dall’altro.

Nelle Fenicie (406), un addensamento, una pletora di episodii, come non ne abbiamo esempio, neanche approssimativo, in tutta la drammaturgia greca. Tutta la materia, rievocata, [p. LVII modifica] e perfino i morti resuscitati arbitrariamente dalla tomba, per farli muovere intorno al fatale reciproco fratricidio. Centro ideale, e presame, e fattore d’unità artistica, la passione di Giocasta. Le figure sono tornate alla antica tragicità, senza miscuglio, o quasi, di elementi ibridi o mortificatori. Anche qui la parte corale è tenuta a grande altezza, e circonfonde l’azione di suoni e di colori mirabili; e le monodie e la relativa ricchezza delle parti cantate affidate ai personaggi, congiunta con la classicità del contenuto, conferisce a questo dramma una singolarissima aria composita, per cui anche esso appare, in mezzo a tutti gli altri, unico, inconfondibile.

Il compromesso fra l’antica e la nuova concezione appare assai piú visibile e, a volte, stridente, nella Ifigenia in Aulide. La fedeltà al mito è piú apparente che reale; perché su ciascun momento e sulla loro concatenazione il poeta lavora di fantasia, massime col fine di creare ad ogni nuova scena una nuova situazione. I personaggi hanno la psicologia borghese, quale s’era venuta determinando nell’ultima fase euripidea. Ma poi, Achille appare, a tratti, puro eroe; ed Ifigenia sale ad altezze raramente raggiunte da altre figure femminili del teatro greco. La ricchezza del paesaggio, l’uso della musica nel contesto drammatico, la condotta dell’intreccio, ci richiamano alle conquiste romantiche. E un vero tentativo di compromesso fra la concezione classica e la romantica appare in questo dramma, a cominciare dalla figura della protagonista, che, se in fine diviene fulgida altissima eroina, si mostra da principio timida bambina. Ma somma è l’abilità con cui si effettua il trapasso dalla infantilità all’eroismo.

La conquista romantica è utilizzata, ma pienamente assorbita, ne Le Baccanti. Essa manifesta il suo influsso soprattutto nella miracolosa pittura del paesaggio alpestre, e nella musicalità profonda che investe tutta la parte corale, che anche qui, non ha la solennità eschilea, ma neppure è mera [p. LVIII modifica]ornamentazione, superflua, se pure non estranea, bensí obbligato sviluppo di germi poetici che solamente nella musica e nella danza potevano trovare la loro legittima e piena espressione. Del resto, questo dramma, come è una palese e forse ostentata palinodia etica, cosí è un pieno e cordiale ritorno alle forme piú antiche dell’arte. Non intreccio, non sofismi, non esitazioni. Il mito è accettato ed esposto nella sua integrità, e la sua santità sostenuta. Piú che ritorno all’antico, Le Baccanti sembrano ritorno agli incunaboli. In certo senso sembrano preeschilee. Sembrano uno degli antichi misteri da cui ebbe origine la tragedia.

Cosí, per quanto sia limitato il numero delle tragedie sopravvissute, ed ipotetico il nostro grafico cronologico, vediamo delinearsi abbastanza sicura una linea di svolgimento.

In un primo periodo, dalla Medea, su per giú, alle Troadi, Euripide rimane sulla posizione del dramma comune, per noi rappresentato piú che altro dall’attività centrale di Sofocle (Antigone 442, Edipo 430), ma già con qualche slancio verso la primitiva linearità eschilea.

Dal 414 al 408, circa, c’è il periodo della rivoluzione romantica, con la quale la tragedia diviene un po’ dramma borghese, un po’ melodramma.

Nell’ultimo periodo (406-404) v’ha un ritorno al vecchio tipo tradizionale, tentandosi ne Le Fenicie, e, piú nella Ifigenia in Tauride, una combinazione coi nuovi acquisti della drammaturgia romantica.

Nell’ultimo dramma, Le Baccanti, non c’è né combinazione né compromesso. C’è la vecchia tragedia che assorbe quanto di buono s’era acquistato attraverso i molti tentativi e, senza rinunciare alla sua semplicità, anzi esagerandola, [p. LIX modifica] acquista un colorito ed una freschezza incantevoli, una musicalità che per essere piú capziosa non pare meno profonda, e che, se esce dal carattere meditativo e filosofico del coro originario, acquista una compenetrazione piú profonda con le ragioni del dramma, ed una forza di suggestione anche maggiore.

E in questo diagramma generico, una quantità di tentativi, di slanci, di ricorsi, indici, chi sa, di pentimenti; e dalle linee generali ai minuti particolari di contenuto e di forma, sempre il nuovo, l’inatteso, il sorprendente. Sempre vario, irrequieto, tormentato. E l’ultimo lavoro è il capolavoro. E mentre è un punto d’arrivo, poteva divenire punto di partenza, perché contemperava in maniera mirabile l’antico tipo del dramma, e quante altre concezioni avevano tentato di migliorare e sostituire l’antica.

La morte, colpendo Euripide dopo la creazione di questo capolavoro, impedí che egli potesse trarre gli sviluppi di questa sua nuova concezione. Gli epigoni avrebbero potuto derivarne certo utili mòniti. Ma non ci risulta che abbiano saputo farlo.

È invece evidente che da tale concezione, e, in genere, da tutti gli acquisti dell’arte d’Euripide, trasse profitti un anziano, un maestro, Sofocle, nel suo Edipo a Colono, concepito e scritto dopo la morte del suo piú giovine emulo.

Abbiamo visto che Le Baccanti sono una palinodia etico-religiosa. E quanto alla religione, se osserviamo bene, possiamo piú precisamente parlare d’una affermazione di fede dionisiaca.

Ora, questa affermazione, certo assai meno esplicita, o [p. LX modifica] implicita, potevamo già trovarla in altri drammi di Euripide.

Ricordiamo, nell’Alcesti, la pittura d’Apelle che pastura le greggi d'Admeto. È sui tramiti delle alpi, guida gli armenti col sufolo. Ma, anche, tocca la cetra, e canta; e a quel suono accorrono le linci maculate, i fulvi leoni, il cerbiatto versicolore. Accorrono, e danzano, ebbri dei cantici. C'è il ricordo d’Orfeo; e c’è il presentimento dei misteri dionisiaci.

E le immagini della vita dionisiaca sempre aleggiano dinanzi alla fantasia del poeta, qualora il suo pensiero sia richiamato alle selve, ai monti, alle spelonche, ai misterii delle notti alpestri. Come un fuoco fatuo, questo spirito serpeggia un po’ dappertutto, ai vertici lirici dell’opera d’Euripide.

Sarà, nell’Ippolito, il ricordo

                    della madre di Bromio, a cui la folgore
                    cinta di fiamma fu nuzïal talamo;

saranno le visioni di caccia che affannano la febbre insonne di Fedra:

                    Conducetemi al monte: alla selva
                    voglio andar, sotto i pini, ove, in traccia
                    di fiere, le cagne si lanciano
                    a ghermir maculati cerbiatti;

saranno, nella pàrodos de Le Fenicie, la scintillante duplice vetta Fedríade, e la vigna che germina ogni dí dalla gemma il pingue grappolo, e le aeree specole dei Numi, bianche di nevi eterne; e la pittura, di mirabile evidenza, della nascita di Diòniso:

                    Lo diede a luce Sèmele;
                    e al Nume, ancora pargolo,

[p. LXI modifica]

                    serpe’ d’intorno l’ellera
                    coi tralci verdeggianti,
                    di mille ombre beandolo;
                    onde or lanciano donne ebbre Baccanti,
                    e tebane fanciulle a danza il pie’.

O, nella Ifigenia in Tauride, Latona che abbandona Delo e perviene ai vertici del Parnaso,

                    ov’è frastuono bacchico perenne;

o, nello Ione, la pittura della roccia parnasia,

                    dove Bacco che leva le scintillanti fiaccole,
                    lancia con le nottívaghe Baccanti a danza il piede.

Oppure, passando al dramma satiresco, la deliziosa pittura che fa il coro, nella pàrodos, della vita dionisiaca; che per immediata freschezza trova solo riscontro in certi brani di Caliban nella Tempesta.

Fuochi fatui, dissi, aleggianti su quasi tutti i drammi. O, forse, lampadoforia, che, con una vicenda di fiamme, via via piú brillanti, arriva ne Le Baccanti, ad una conflagrazione di ardore quasi eschileo.

Ne Le Baccanti, alle mirabili figurazioni si uniscono esplicite e ardenti dichiarazioni che dalla religione dionisiaca si estendono a tutta la religione. Ma in sostanza, come ho detto, è credo dionisiaco. E credo d’artista, pensatore, indipendente. Il quale, nel corso di una lunga vita, dedita alla meditazione filosofica e alla pratica artistica, impara via via a conoscere e valutar sempre meglio l’onnipossente virtú dell’istinto. Nume vero della religione e dei riti dionisiaci.

Ma è chiaro, innanzi tutto, che il fàscino principale dei riti dionisiaci derivava, per Euripide, dalla parte che in essi [p. LXII modifica]avevano le donne: derivava dal fàscino femminile, assunto come ispirazione, di fronte alla tendenza misogina, o per lo meno non troppo sensibile alla donna, che trova l’espressione nel mito d’Orfeo lacerato dalle donne di Tracia. Di fronte ad Orfeo, che, secondo l’espressione dell’elegiaco Fanocle, «non pregiò le donne», si leverà Diòniso, il γυναιχομανής, il «folle per le donne». Euripide è suo discepolo. E la palinodia religiosa rimane un po’ in margine.

Se torniamo ora a considerare i varii punti della nostra ricerca, li vediamo sboccare tutti in responsi negativi. Si aggiungano poi gli altri difetti, tante volte ricordati, della drammaturgia d’Euripide; e sempre piú ci sembrerà enigmatico il fatto che, in complesso, di fronte all’opera dei suoi due grandi predecessori, per tanti aspetti piú omogenea e perfetta, la sua non ci sembra minore, e, anzi, quasi ci affascina di piú.

E ciò non avviene solo per l’eccellenza assoluta che egli raggiunge in certi elementi — per esempio nel patetico — bensí anche, e, anche qui, con un apparente paradosso, per il suo carattere fortemente subiettivo.

Intendiamo bene. Non è che questo carattere subiettivo manchi nell’opera di Sofocle e di Eschilo. L’obiettivismo assoluto è anch’esso una bella favola: ogni vero poeta lascia in ogni sua parola tracce del suo spirito: tutto sta a saperle interpretare (vedi prefazione all’Odissea).

Ma tracce involontarie. Né Sofocle né Eschilo hanno inteso di intromettersi nello spirito dei loro personaggi. Anzi, divenuti loro succubi, confondono con la loro la propria personalità, la confondono, via via, con ciascuno di essi.

Euripide, invece, interviene largamente, violentemente, in ciascuna delle sue figure, addoppiando la propria anima alla [p. LXIII modifica]loro, e senza curarsi di saldare i lembi della fusione. Sicché, ciascuno dei suoi personaggi ha due anime, la propria e quella del poeta. E come le due anime di Faust, vivono separate, e spesso in contraddizione. E la seconda è spesso piú interessante della prima.

E cosí, disperse a brani a brani nelle cento figure, e in ogni altra parte dei drammi, le disjecta membra del poeta si ricongiungono spontaneamente, nella necessaria e inavvertita opera di sintesi che compie ogni lettore cosciente; e ne balza fuori, completa e imperiosa, la figura di Euripide, onnipresente in tutti i drammi, e che finisce per imporsi, e dominare la fantasia del lettore, dell’ascoltatore. Leggiamo i drammi di Eschilo e di Sofocle, e ci perdiamo tutti, anche noi, come il loro creatore, nelle loro figure. Leggiamo Euripide, e sentiamo sempre, magicamente, la sua presenza. Solleviamo gli occhi, egli è dinanzi a noi, che ci fissa coi suoi occhi affascinati e disillusi, umani e sovrumani.

A che giova raspare nei frammenti e nei ricordi dei filosofi che egli conobbe, per scoprire il segreto della sua anima? A che pesare quanti presunti atomi concorsero a formare il suo spirito, di Anassagora, di Prodico, di Protagora? Anche se c’entrarono, furono assorbiti e trasformati. E la sua vita spirituale, d’essenza indipendente, come quella d’ogni uomo di genio, da ogni influsso anteriore ed esterno, è tutta riflessa, linea per linea, luce per luce, nei versi dei suoi drammi.

È fanciullo: e volge su l’universo, in perenne contemplazione, le avide pupille, che s’inebriano e s’imbevono di tutte le sue bellezze. Contempla il mare e le sue innumerevoli parvenze, eternamente mobili e varie; contempla i monti, pieni di selve e di misterii; contempla i fiorenti piani dell'Attica, tutti verdi e aulenti d’ulivi, d’ellere, di rose, di giacinti, di narcisi: contempla l’ètere azzurro di Atene, dove Armonia [p. LXIV modifica]generò le Muse; e in questo ètere immacolato, vede gli Ateniesi muovere con morbido incesso, simili a Numi.

Ma, innanzi tutto, tocca il suo spirito e vi gitta i primi piú tenaci germi di creazione poetica, la visione della donna. Nella bellezza ermetica dei volti femminili egli, già, oltre che artista, pensatore, sente nascosto e adombrato in cifre arcane il segreto della vita, della sua origine, delle sue leggi, della sua mèta misteriosa. E in certi atteggiamenti dello spirito femminile, scorge adombrata la mèta della perenne aspirazione alla bontà, che, pur contrastata dalla ferinità degli istinti, vive perennemente nel cuore di tutti gli uomini.

Artista di nascita e d’elezione, non si arresta alla fase contemplativa; ma, ancor giovinetto, è vinto dal bisogno di riesprimere tutto il mondo di emozioni suscitato in lui dallo spettacolo dell’universo. E si avvia verso l’arte che sembra la piú diretta ed efficace a tale opera di riespressione, la pittura. Giovinetto, fu pittore. E suoi quadri si mostravano in Megara. Ma presto abbandonò quest’arte: o per minor disposizione, o perché i mezzi tecnici della pittura gli sembrarono impari ad esprimere il mondo di fantasmi che gli tumultuava nel seno. E si volse alla parola. La lingua attica, giunta a perfezione insuperabile, spiegava ai suoi occhi abbacinati una prodigiosa tavolozza, ricca di tutti i colori e di tutte le sfumature. Egli la studiò col medesimo spirito onde finora aveva tracciate linee, impastati colori. Ne divenne in breve maestro incomparabile. E i molti ed accaniti nemici che egli ebbe, come ogni artista di genio, a cominciar da Aristofane, dovettero subir l’onta, involontaria, e forse incosciente, di rimaner fatalmente, per questo riguardo, suoi imitatori.

Dalle bellezze sensibili dell’universo, dai suoi tentativi, o sulla tela o nei versi, di riprodurne le affascinanti parvenze, egli talora leva le pupille stanche, le fissa al cielo, all’ètere, [p. LXV modifica]all’infinito, raccoglie in sé i segreti dell’età morte, e chi sa?, delle venture.

E contempla il mondo degli eroi. E, attraverso il canto dei poeti, di Pindaro, di Stesicoro, d’Omero, gli sembra infinitamente piú grande e luminoso del mondo che lo circonda. E in un orizzonte anche piú lontano, e nella luce radiosa dell’Eliso, fulgevano gli Dei della patria, quelli che avevano presieduto alle origini della stirpe, quelli che l’avevano tutelata e resa gloriosa nell’ultimo fiero cimento di vita e di morte col secolare nemico, il persiano. Pallade Atèna, raggiando, dall’Acropoli, sembrava dalla sua fronte augusta illuminare il mondo.

E qui sembra naturalmente inquadrarsi l’altra notizia antica, a prima vista cosí strana, massime a chi ricordi l’antipatia del maturo poeta per la vita atletica: che cioè egli da giovine fu atleta. Poté ben essere, anche questa, una’spontanea e naturale manifestazione di un temperamento artistico, e, perché artistico, preso dalla illusione eroica, di trovare nei cimenti degli agoni quasi un equivalente agli eroismi non potuti compiere in effetto. In molti artisti moderni si è potuta vedere una passione simile, e forse, o certo, originata dalla stessa causa.

E giungono, dopo l’ebbra fanciullezza, gli anni dell’esperienza, della riflessione, degli amari disinganni. A poco a poco, arriva a conoscere l’immensa perfidia dell’animo umano. Maschile e femminile. Due abissi, pieni di mostri diversi, e ugualmente orridi.

E tornando alle figure del mito con occhio critico, scopre che i famosi eroi non valevano piú dei suoi contemporanei, e forse meno. E i Numi, inani favole dei poeti. Alla sua lucida ragione, il mondo apparve quale, a distanza di secoli, doveva apparire al Leopardi: una fantasmagoria perenne, dal nulla [p. LXVI modifica]al nulla, nella quale tutto è illusorio, tranne la miseria e il dolore.

Ma queste conclusioni, a cui, del resto, facilmente conduce il freddo raziocinio, non possono essere definitive per un grande spirito.

E, innanzi tutto, l’orrore, che sembra il fondamento della vita, non è fondamentale, come sembra. Sta alle radici della vita, sotto le apparenze; ma come il fango sta sotto le acque, che alla superficie sono limpide, e rispecchiano la luce dell’ètere. E dal grembo del fango emerge la ninfea che culla sul piano dell’onde la sua corolla immacolata. È forse piú fondamentale il fango della corolla?

Tutto il male del mondo non vale a distruggere gli esempii, che tuttavia esistono, di nobiltà, di eroismo, di virtú, di magnanimità. Essi rimangono pur sempre fonte di perenne ispirazione al poeta. Euripide potrà stigmatizzare — forse — la magalda Pasifae; ma si china adorando dinanzi alla figura della vergine eroica, della sposa sublime.

E poi, sopra il bene e sopra il male c’è sempre, nell’universo, il velo magico della bellezza, che sfolgora dagli occhi di Fedra come dagli occhi di Alcesti. Quando essa fulge, il poeta dimentica tutto, e la segue inebriato.

Questa adorazione della giustizia, della bontà, della bellezza, all’infuori d’ogni superstizione e d’ogni convenzione, diviene in lui lievito di creazione.

E l’opera cresce. Ma accanto al germe di fervida creazione artistica, anelante a effondersi in nuvole di freschissime fronde, a schiudere verso il cielo l’azzima pupilla delle luminose corolle, persiste l’altro, di fredda critica, infuso della morbida letale tenacia delle erbe parassite. Sbocciano entrambi, si levano, lussureggiano con egual forza, complicano in mille intrecci le loro propaggini. Accanto alla foglia fragrante è la bràttea viscosa: accanto al nettario rorido di pol[p. LXVII modifica]line, il ricettacolo amaro di tòssico: accanto al pomo ambrosio, la bacca gonfia di morte.

Ma il parassita non prevale. Pur così composita, l’opera cresce; e gareggia, per mole e per magnificenza, con quella dei due grandi predecessori.

E noi non facciamo troppe meraviglie per la fecondità di Eschilo e di Sofocle. Posti al cimento di rappresentare, nella materia dell’arte loro, tutto un mondo a cui credevano, essi e i loro ascoltatori, li vediamo, assidui e tranquilli, compiere, di giorno in giorno, la loro opera, dall’alba al vespro, come il «grande artiere» descritto dal Carducci, senza che il tarlo del dubbio venga a indebolire la loro energia di validi artieri.

Ma Euripide, no. Vediamo anche lui chino da mane a sera al suo duro travaglio. Con la stessa tenacia degli altri. Con la stessa assiduità. Con lo stesso scrupolo. Ma senza la fede che suole essere l’ineliminabile viatico di ogni opera di lungo respiro. Non crede ai miti che narra, non crede agli eroi in cui deve infondere un’anima, non crede ai Numi di cui deve esaltare la potenza, non crede ai suoi contemporanei, a cui deve offrir la sua opera. Non crede a nulla; ed opera come se credesse a tutto.

Questa è, alla fine del lungo periodo intellettuale ed artistico che va da Omero a Sofocle, la posizione d’Euripide. Tragica e moderna.

Spenti od estenuati son tutti gl’impulsi che già avevano alimentata l’arte: la religione, lo spirito etico, lo spirito civico. E adesso l’arte, come il cigno canoro d’un mito favoloso, immerge il rostro nel proprio seno, e si nutre del proprio sangue e del proprio ardore.

E il suo carattere muta profondamente. Non è più la serenatrice, che ricomponga in armonia le corde scomposte dell’anima umana. La fine d’una tragedia d’Euripide non [p. LXVIII modifica]riadduceva l’animo degli uditori, sconvolti dall’immane orrore di una tragica vicenda umana, alla calma sublime, sebbene indecifrabile, e talora assurda, d’una legge sovrannaturale; bensì li lasciava irretiti in mille trepidazioni, in mille dubbii, assillati da mille quesiti angosciosi. Non effettua più una catarsi, bensì una perturbazione. Gli abitanti d’Abdera, narra Luciano, dopo udita l’Andromeda, rimasero parecchi mesi in preda a follia collettiva.

Aristofane beffeggiava e imprecava. Ma l’arte, che non può rimanere su le posizioni conquistate, senza languire e morire, doveva abbandonare oramai tutto un passato, meraviglioso, ma prossimo all’occaso, ed irrevocabile, per lanciarsi verso un avvenire che prometteva non inferiori prodigi.

Euripide fu il magico araldo delle sue glorie e delle sue miserie.

Note

  1. Ecuba, 171: ὦ τέκνον, ὦ παῖ - δυστανοτάτας ματέρος ἔξελθ´ - ἔξελθ´ οἴκων, ἄιε ματέρος αὐδάν - Nuvole, 1165: ὦ τέκνον ὦ παῖ ἔξελθ´ οἴκων - ἄιε σοῦ πατρός. - Ecuba, 161: φροῦδος πρέσβυς, φροῦδοι παῖδες - Nuvole, 718: φροῦδα τὰ κρήματα, φρούδη χροιά - φρούδη ψυχή, φρούδη δ´ἐμβάς.
  2. Ometto Gli Eraclidi, il Reso, il Ciclope, e l’Andromaca, la cui determinazione cronologica, non agevole, poco o nulla servirebbe alle mie conclusioni.