Trattato di architettura civile e militare I/Catalogo dei codici

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Catalogo dei codici

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Vita di Francesco di Giorgio Martini - Capo 7 Trattato
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CATALOGO ANALITICO


DE’ CODICI SCRITTI E FIGURATI


di


FRANCESCO DI GIORGIO MARTINI


disteso


da carlo promis.

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I frutti de’ suoi lunghi studi in tutti i rami dell’architettura, come allora prendevasi in latissimo senso, consegnolli Francesco di Giorgio in parecchie opere distinte, alcune delle quali egli poscia rifece e migliorò, per modo che riunite sommano ad otto differenti libri, di due de’ quali, scoperti non è guari nella biblioteca di Siena, non si ha ancora notizia a stampa, e tre, esistenti in Torino, furono sinora sconosciuti intieramente a quanti parlarono della vita e delle opere sue. Maravigliomi pure anche al vedere come il nome del nostro architetto, ed i titoli delle opere sue, intieramente siano sfuggiti alle laboriose indagini di tanti diligentissimi bibliografi, ad un Mabillon, ad un Naudeo, ad un Vossio: ma poi vedo che questo fu destino degli architetti, e che miglior sorte non ebbero gli scritti di Antonio Averlino (Filarete) e di Bramante, e dei meno antichi trattati di architettura di Marco da Pino, Baldassar Peruzzi, Oreste Vannocci, tre lumi della città di Siena, e di quello dell’urbinate Oliviero Olivieri, e d’altri ancora, de’ quali a fatica si trova un ricordo accennato appena ed a caso in qualche libro men letto. Degli anzidetti libri di Francesco, alcuni sono scritti e con disegni, altri figurati solamente e senza aggiunta di schiarimento alcuno, io stendendone la descrizione mi atterrò nella loro serie, non tanto alle materie in essi contenute, quanto all’ordine de’ tempi secondo i quali venivano dall’autore redatti e compiuti. [p. 90 modifica]

I. (A) Taccuino di Cecco di Giorgio. Codice cartaceo di grandezza di 150 per 206 millimetri: sono numerati 48 foglietti, essendovi però lacuna dal f.o 25 al 30 escluso. L’originale è nella pubblica libreria di Siena, ove fu scoperto quando le si diede miglior assetto nel 1833.

Nella vita del nostro Francesco, io fissai la sua dimora in Roma dal 1448 al 1467: ragion vuole adunque che non solo in tutto questo periodo egli riempiesse il suo taccuino ossia libretto, ma sì nel principio del suo soggiorno colà, siccome è dovere e bisogno de’ giovani architetti, quali tutti cominciano dal disegnare i minori fra i romani monumenti, voglio dire le parti degli ordini, per poi progredire alle piante ed alle elevazioni degli edifici. Comincia colla porta del Panteon, poi fra trentasei trabeazioni diverse si ravvisano quelle del Panteon stesso, e dei templi di Antonino e Faustina e di Giove Statore: fra quattordici basi, vi sono quelle del tempio della Concordia e del Battistero Lateranense: fra trentacinque capitelli (non pochi dei quali paiono di sua fantasia) si trova quello palatino di Apollo Aziaco, ed alcuni che ora sono al Vaticano. Seguono gli abbozzi di macchine ch’egli migliorò poi nei susseguenti suoi libri, e la figura da lui ripetuta quindi più volte e con miglior disposizione, colla quale vuol dimostrare che la cornice fu chavata dalla testa come puoi vedere per vera ragione. Noterò ancora che non avvi in tutto il libro indicazione di tempo o di luogo, e che la miglior parte delle sagome e degli ornamenti da lui disegnati non hanno segnate le misure, e nella presente condizione dei ruderi antichi più non vien fatto di vederli, onde convien crederli disfatti, o che l’autore molte cose abbia disegnate di sua invenzione. Il modo di segnare è come quello de’ suoi coetanei, i quali esageravano le parti ornate a discapito delle liscie, e ciò per maggior comodo di disegnarvi gli ornamenti: vedansene esempi presso il D’Agincourt.

(B) Copia in Torino nella biblioteca Saluzziana, estratta nel 1859.

II. (A) Documenti militari meccanici ed architettonici. Questo è il titolo moderno del codice anepigrafo esistente nella libreria Saluzziana di Torino: vi provenne da Pisa ove fu comprato nel 1831: è membranaceo, di grandezza di 266 per 380 millimetri, e scritto a due colonne in cento foglietti. I due primi fogli sono bianchi: dal f.o 2 recto al 68 [p. 91 modifica]recto è contenuto il trattato che io esamino in questo articolo: seguono due pagine vuote, poi il f.o 69 verso col 70 recto contengono il principio della traduzione in dialetto sanese del libretto de Ignibus di Marco Greco: segue il f.o 70 verso lasciato bianco, ed al 71 recto ha principio il codice de’ monumenti antichi, del quale parlerò nel seguente articolo III.

Codesto codice può ben dirsi originale, quantunque non sia tutto di mano dell’autore: fu egregiamente scritto da amanuense, e a tratto a tratto porta raschiature e correzioni di propria mano di Francesco di Giorgio, il quale disegnovvi pure le numerose figure che ne colmano i margini, dando loro giustezza d’effetto or co’ tratti, or coll’acquerello, e le piante riempiendole di tinta rossa o turchina. Le iniziali dei paragrafi sono dorate o turchine; quelle de’ capitoli dorate ed ornate, e con maggior eleganza ancora sono adorne le iniziali de’ libri.

Di questo codice, come pure delle sue copie, non trovo che altri ne abbia parlato fuorchè il Venturi e l’Omodei, i quali ciò fecero solo per incidenza e senza indagare chi ne fosse l’autore: che anzi pendeva l’Omodei a crederlo scritto da Leonardo da Vinci, contro la quale opinione molte prove e di tutta certezza si potrebbero addurre; io però per amor di brevità restringerommi a riunire per sommi capi quegli argomenti in forza de’ quali devesi credere essere questo il primo Trattato di architettura scritto dal nostro autore, primachè desse mano ai codici Sanese e Magliabechiano (1).

E prima di tutto dirò che trattandosi degli stessi oggetti, si discorre nel codice Saluzziano appunto come nel Sanese e nel Magliabechiano, e questa non è sola conformità di pensieri, ma assoluta identità di parole, per modo che trovansi a tratto a tratto gl’intieri paragrafi dall’autore trasportati dal primo codice al secondo, quindi dal secondo al terzo. Eguali affatto sono pure i disegni sì di architettura civile e militare, che di macchine, e se vi è differenza è nella quantità, poichè assai più numerosi sono i disegni nel codice I che non nei due seguenti: oltrecciò sono le dette figure pure anche eguali a quelle che vedonsi nelle più certe opere di Francesco, per modo che qui ha luogo [p. 92 modifica]l’argomento dei geometri, pel quale due cose che siano eguali ciascuna ad una terza, sono necessariamente eguali tra sè. Sanese è la lingua costantemente adoprata, e sanese per conseguenza l’autor del codice: inconcussa ragione se si riguardi a que’ tempi nei quali ogni uomo d’Italia, che gran letterato non fosse, adoperava scrivendo il dialetto suo municipale. Nei codici II e III ei cita le antichità di Roma e di Tivoli, coi teatri pure antichi di Gubbio e di Ferento, e tanto trovasi nel codice I, nel quale però tace dei monumenti in regno di Napoli perchè ancora non li aveva veduti: egli cita quivi Plinio, Vitruvio, Vegezio, Aristotile e Marco Greco, e questi autori (accresciuti di numero, ma nessuno di questi omesso) rinvengonsi negli altri codici. Finalmente la miglior ragione e la finale si è, che le tante correzioni sparse sono di sua mano, e che nella iniziale P a capo il trattato, è nel vano miniato il ritratto di Francesco come alla vita sua lo premise il Vasari: ha il capo scoperto con zazzera increspata di capel fulvo, ed è in abito civile, cioè col lucco alla fiorentina turchino, e sopravi indossato un mantello paonazzo: vestito in somma come anni dopo scriveva il Varchi (2).

Dispose egli però in questo codice la materia in altr’ordine che non sia nel codice sanese, come invertillo poi di nuovo nel Magliabechiano; v’inserì un trattato di geometria e prospettiva con un sunto dell’operetta di Marco Greco, cose tutte che furono da lui posteriormente omesse. La pulitezza del carattere cancelleresco, l’eleganza delle iniziali, la cura colla quale sono condotti i disegni, tutto prova che questo codice doveva essere presentato ad un qualche principe, e questi, s’io non erro, doveva essere Federigo d’Urbino di cui nel codice, che è unito di monumenti antichi, trovasi a f.o 92 verso la statua loricata ed imitata dall’antico: la calva testa del Duca è quale vedesi nel medaglione edito dal Reposati (3), il quale è forse anch’esso opera di Francesco, siccome accennai nella vita. Mancano al codice prefazione e dedica, per le quali sono riserbati i due primi fogli, onde è probabile che l’autore ne volesse già far dono, ma che poscia per motivo a noi ignoto non [p. 93 modifica]l’abbia fatto, o presentata ne abbia un’altra copia. A compiere la descrizione del codice aggiungerò come saggio di lingua quanto leggesi in principio all’opera: «Parmi che le fortezze cholle loro circhuitioni in tal modo adattate sieno che dalle macchine delle bombarde ho schalamenti ho altri stormenti bellici difendare si possino. In prima he dacchonsiderare el sito et qualità dellocho» ec.

Questo suo primo trattato d’architettura il nostro Cecco lo cominciò circa l’anno 1456, e certamente non prima: ne abbiamo prova nel parlar ch’ei fa (f.o 18 v.o) del tremuoto di Castel di Sanguino, vogliam dire Castel di Sangro nell’Abbruzzo ulteriore, quale sappiamo essere accaduto nel 1456 (4), seppur anche non vi pose mano tre anni dopo, ed anche più, poichè rammenta lo scoppio che fecero le polveri da guerra serbate nel palazzo de’ Signori in Ragusa (f.o 55 v.o), qual cosa ebbe luogo nel 1459 (5), o, secondo altri, nel 1463 (6). Egli vi lavorava attorno durante il pontificato di Paolo II, poichè di questo Pontefice che sedè dal 1464 al 1470, scrisse nel codice de’ monumenti antichi (f.o 82 r.o, parlando degli avanzi dell’antico Campidoglio) che il porthico rincontra a chasa Savelli a tempo di Pauolo la porta el porticho ruinato et dispogliato fu; ciò non ostante dandone la pianta qual era avanti la distruzione, indizio certo di averla misurata prima (7). Siccome poi in tutta [p. 94 modifica]l’opera nulla si dice di Federigo d’Urbino, nulla di questa città e del suo stato, così ne ricavo che Francesco l’avesse compiuta prima che fosse chiamato alla corte de’ Feltreschi, qual gita si è veduto nella vita sua non essere stata anteriore al 1476.

Ho detto che in questo codice I l’ordine tenuto dall’autore è diverso da quello che seguì poi nei codici II e III: ora eccone la distribuzione, avvertendo che distinguonsi i libri dalle loro iniziali ornatissime, e le singole parti di essi pure dalle iniziali, le quali sono meno fregiate.

(f.o 3 r.o) Libro I. Le fortezze: loro piante, alzati, parti e munizioni.

(f.o 7 r.o) Libro II, Parte I. Le città in piano, in monte, su fiume od a mare.

(f.o 8 r.o) Parte II. De’ fiumi: steccaie, rostatoie, ripari e ponti: dello edificare in acqua.

(f.o 10 v.o) Libro III, Parte I. I templi: loro formazione e specie.

(f.o 14 r.o) Parte II. I teatri.

(f.o 14 v.o) Parte III. Le varie ragioni degli ordini e delle parti loro.

(f.o 16 v.o) Parte IV. Delle proporzioni e misure prese dal corpo umano.

(f.o 17 r.o) Parte V. Edifici regi, signorili e privati: di nuovo i templi: modi vari di voltare, di far travature, camini e bagni: fabbriche rurali.

(f.o 24 r.o) Parte VI. Case private alla greca: materiali pel fabbricare: de’ barchi principeschi: de’ porti, delle cisterne e varie condotture d’acque.

(f.o 27 v.o) Libro IV. Trattato di geometria, e del misurare le distanze e profondità. (f.o 33 r.o) Libro V. Molini.

(f.o 40 v.o) Libro VI. Delle acque potabili, del trovarle e condurle.

(f.o 43 r.o) Libro VII. De’ metalli e delle miniere, delle maniche e fucine.

(f.o 45 r.o) Libro VIII. Del fare le fontane e le conche sui navigli: macchine varie idrauliche: altre macchine per alzare e trasportare pesi.

[p. 95 modifica](f.o 53 r.o) Libro IX. Delle qualità del capitano, e di molte astuzie militari: del modo di fare varie specie di fuoco greco: le mine con polvere: le bastie, i gabbioni, le trinciere e le vie coperte: i mantelletti per le bombarde col modo di piantarle sulle navi, le loro misure ed i cavalletti: le bertesche: gli onagri e le fundibale: ponti artificiali: le scale imbertescate, e le ritirate sulla breccia.

(f.o 65 r.o) Libro X. Conventi monastici: struttura dei pozzi comuni e dei trivellati: moduli delle campane e fondazione dei campanili.

Segue il trattatello de Ignibus di Marco Greco volgarizzato in parte.

Le copie di questo codice I venute a mia notizia sono le seguenti:

(B) Codice membranaceo con figure miniate, già esistente nella ducale biblioteca di Modena (8).

(C) Codice cartaceo in foglio piccolo di pag. 264, nella Marciana di Venezia al n.o 86, appena indicato dallo Zanetti che gli appose un titolo inconveniente affatto (9); è del secolo decimoquinto, e scritto in dialetto sanese, onde tratto dall’originale direttamente. Comincia, come nel codice membranaceo Saluzziano, colle parole «Parmi che le fortezze cholle loro circhuizioni in tal modo adattate sieno ec.»: termina: «Ancora sieno di cuorio coperti, qual sia crudo, di suvero et altre materie che alle botte alquanto resistare possiano si come la figura». Adunque è mutilo, poichè queste parole corrispondono solamente alla colonna prima, foglio 64 recto, del citato codice Saluzziano. Il copiatore divise la materia in 25 capi, che chiamò parti, apponendovi i rispettivi titoli: noto però che sono anch’essi in dialetto sanese. Ai debiti luoghi lasciò vacui per le figure, le quali vedonsi tratte da altro codice [p. 96 modifica]probabilmente più antico, e sono disegnate a penna, contornate colla forbice e poscia incollate a luogo ove bisognava. Una nota di mano assai posteriore mentova i nudi titoli di opere militari del Cicogna, Cataneo, Ferretti ed altri, tutte della seconda metà del decimosesto secolo. Le sole figure della parte XI sono disegnate sul foglio scritto: sino alla pag. 118 portano un numero, cominciando dal CXLIII che è nella pagina prima: dopo la pagina detta, ora sono numerate, ora no, ora segnate con lettere.

(D) Codice cartaceo in 4.o, acefalo e mutilo: trovato da me nell’Ambrosiana di Milano, segnato N. 191, col titolo messovi posteriormente di Trattato e vari disegni di Machine per assedi ed operazioni Militari, per mulini, agricoltura et con varie osservazioni. Comincia con sette figure di scale e trabocchi copiate dal codice Saluzziano: segue uno scorpione; vengono quindi alcune miscellanee già ab antico intruse nel codice e riguardanti la salute pubblica, il commercio, l’agricoltura, con alcune citazioni di Dione e di Columella. Seguono per intiero le figure ed il testo in dialetto sanese, circa i mulini, le macchine, i mantelletti e le scale murali, le quali figure sono mediocremente disegnate a penna e collocate senz’ordine: dove poi l’originale segnava il posto delle figure nel testo con una lettera di richiamo, e questa poi nel disegno non v’era, il copista notò manca il carratere, cioè la detta lettera. Il codice è scritto circa l’anno 1550, e da tre note dell’antico possessore pare che avesselo in dono in Padova il 2 febbraio 1576 un Hoffkirchen austriaco barone di Kolmunz dall’amico suo Domenico Franchi (10).

(E) Codice cartaceo in foglio, acefalo e mancante in fine: ha le figure disegnate a penna, e fu copiato nel principio del decimosesto secolo, quindi in età posteriore fu rifatta sovr’altra carta la scrittura a luogo a luogo ove il codice era più frusto. Fu del bibliografo fiorentino Can. Moreni, od ora è nella biblioteca privata del Re in Torino. [p. 97 modifica]

(F) Codice membranaceo del secolo decimoquinto, per carattere, quantità e qualità dei disegni similissimo al codice Saluzziano sopra notato (A), col quale fu comparato dal colonnello Omodei, che attribuiva l’uno e l’altro a Leonardo. Trovasi ora in Milano presso il libraio Tosi.

(G) Codice cartaceo in foglio, anepigrafo e con qualche mancanza: è scritto in colonna da amanuense, di carattere cancelleresco, circa il fine del decimosesto secolo, e numera 82 foglietti. I disegni sono a penna e seccamente copiati. La dizione è talora variata, e l’ortografia ridotta all’uso italiano del tempo, tolti gl’idiotismi sanesi. Appartenne al principale autore della difesa di Torino nel 1706, Antonio Bertola, il quale segnò sul primo foglio l’anno 1669 che era il vigesimosecondo dell’età sua; ora questo codice fa parte della biblioteca Saluzziana.

(H) Codice nella Magliabechiana di Firenze, segnato n.o 2, classe XVIII, palco V, anonimo, cartaceo, con titolo Disegni e macchine diverse, senza testo alcuno; contiene copia di pressochè tutti i disegni che Francesco di Giorgio consegnò nel codice membranaceo (A), concernenti mulini d’ogni specie e quasi tutte le macchine contenute nei libri V, VI ed VIII; vi sono frammisti altri disegni di macchine, quelli però tolti dall’autor nostro costituiscono quasi tre delle quattro parti di detta raccolta.

(K) Codice della biblioteca Saluzziana, copiato in Firenze nell’anno 1833 dal sopraddetto codice Magliabechiano (H), e quindi col titolo stesso.

(I) Codice n.o 590 nella libreria del convento di S. Emmerano in Ratisbona, contenente «Un trattato italiano assai vecchio d’architettura, nel quale si principia dalla militare, indi si viene al modo di fondar città e castella, e tempi, e case, e giardini» (11). Dubitò il Mazzuchelli che potesse essere una copia italiana del trattato di architettura di Antonio Averlino (Filarete) (12): ma l’inganno suo nacque dal non aver avuti a mano nè i costui codici, nè quelli di Francesco, giacchè l’essere un trattato antico, italiano, ed avere la partizione data dal Maffei, sono cose che non possono convenire che al trattato I del nostro autore.

Di codesto codice I aveva conoscenza Vannoccio Biringuccio (13). [p. 98 modifica]

III (A) Codice architettonico di monumenti antichi di Roma e d’altri luoghi, con appendice di ornamenti e fregi. Membranaceo in-folio, faciente sèguito e corpo col codice n.o II (A) ora descritto, dal f.o 71 recto al f.o 100 ed ultimo. I disegni riconosconsi di mano di Francesco di Giorgio, ed i loro titoli sono dello stesso amanuense che copiò il riunito trattato. L’epoca è quella già segnata pel sopraddetto codice: anzi dal titolo scritto sotto la elevazione di Santo Stefano Rotondo in Roma ricaviamo che questa raccolta è posteriore al pontificato di Nicolò V, che fu papa dal 1447 al 1455, e più strettamente la diremo posteriore all’anno del giubileo 1450, durante il quale furono da questo pontefice ristaurate le sette basiliche (14). Un altro indizio ancora se n’ha allo stesso foglio 84 dove è l’elevazione di un tempio monoptero periptero, col titolo: attrio Pompei per maggior parte ruinato. Achanto la casa di Monsignor di Siena (15); ora questo monsignore, ossia arcivescovo o cardinal di Siena, che è tutt’uno, non è altri che Francesco figlio di Laudemia Piccolomini sorella che era di papa Pio II, dal quale fu il nipote sollevato all’archiepiscopato in patria ed alla romana porpora l’anno 1460 (16) e fu legato di Roma, e perciò vi aveva abitazione fissa, quando lo zio morì in Ancona nel 1464 (17). Anche queste indagini vieppiù confermano quanto nella vita di Francesco si è detto, cioè ch’egli soggiornasse in Roma sino al 1467: e quanto già scritto aveva il Vasari, che l’autor nostro per darsi troppo all’investigazione degli antichi anfiteatri, mise poi manco studio nella scultura; e Cecco stesso nel suo trattato soventi [p. 99 modifica]mentova gli edifici di Roma, e nella prefazione dice che molto faticò nello studio di Vitruvio, indagandone il senso per via della comparazione del testo cogli antichi ruderi, e che ne’ libri suoi molte cose vi sono dalle fatiche degli antichi con non poca sollecitudine da me ridotte a luce. Colle quali parole chiaramente allude a questo codice.

Il codice è anepigrafo, ma a tal difetto supplisce la seguente breve prefazione: «Poichè l’antica cictà di roma per li continoui assedioni et ghuerre comminciò a mancare. E’ grandi hedifitii spogliando e dirubando et in più parti ruinate in modo che al prexente tucti manchati sonno. Unde mosso da huno aceso desiderio di volere quelle innouare. Il che hessendo presso al fine in poco tempo in tucto spente verranno sì per la vetustà loro edanco per li molti et continoui ghuastatorj et pertanto el meglio chedo possuto non con picola fatica inuestighando in Roma et fuore molti uari et degni hedifitii ho raccholto. Pur benchè molto ruinati sieno et la dengnità degli ornamenti loro poco se ne vede de’ quali edifitii qui di socto fondi facce circumferentie et ornamenti loro secondo il mio debile ingiengnio figurati saranno». Quindi dà i disegni del Colosseo. Io però per conciliare la brevità coll’utile che da questo bel codice si può trarre per la topografia comparata dell’antica Roma, noterò qui solo que’ monumenti dai quali emergono notizie importanti ed incognite, tralasciando gli altri di minor conto.

«Treato hornatissimo di mactoni arrotati schulto di bellissimi lauorj in Roma acchanto a sancta Croce in Gieruxalem con gradi et loggie drento sicchome degli altri (18)».

«Treato in roma doue connesso la casa Sauelli in luogho decto le macella de ripa. Tucto di pietre conce parte pulite et parte bozzate ricinto di cornici con teste schulte nel chiuder degli archi (19)». [p. 100 modifica]

«Hedifitio anticho vicino ad hughubio decto parlagio facto a ghuixa et forma di trehato hornato di ricinte cornici et pilastri. Tucto di pietracornia» (20).

«Treato anticho in una cictà disfacta dicta feranto vicina a viterbo a miglia cinque posta infra viterbo et montefiasconi hornato et schulto d’una pietra simile al pipiringnio. - Fondo et hordine de’ membri faccia porti et schale del trehato di feranto (21)».

«Hedifitio grandissimo adequato sopra a uolte chiamato le capocce (22)».

«Templum pacis (23)».

«Forma del drento di Sancta Maria Ritonda (24)».

«Hedifitio presso a Sancto Ghirighoro dicto secte solis (25)». [p. 101 modifica]

«Chasa di chatellina per maggior parte ruinata (26)».

«Hedifitii in Tiboli vecchio (27)».

Seguono quattro case del decimoquarto secolo in Roma, con alcune chiese che paiono di sua fantasia.

Il foglio 96 v.o sino a tutto il 98 sono ripieni di elmi, targhe ed attrezzi navali disegnati ed inventati da ornatista assai più che da pittore. Il f.o 99 ed il f.o 100 r.o contengono varie ornatissime basi corintie antiche. Finalmente non devo omettere che, al f.o 81 r.o, è disegnato quell’edificio di Perugia, quale il nostro Cecco ne’ seguenti trattati, dopo vistine altri due a Civitavecchia ed a Baia, chiamò Camino antico: ma all’età nella quale terminò il codice presente, tale idea non gli si era ancora affacciata alla mente, onde lasciò il disegno senza titolo, ed il foro della volta coprillo capricciosamente con una pigna, com’era tradizione a’ giorni suoi che la pigna di Belvedere fosse già stata sull’occhio del Panteon (28). Prova novella che nel 1491, nel qual anno Francesco andò a Napoli, già era il nostro codice da lunga mano compiuto affatto.

Di questo codice non conosco alcuna copia.

IV (A). Codice di macchine di Cecco di Giorgio. Codice autografo, anepigrafo, cartaceo, esistente nella libreria comunale di Siena, ove, sono pochi anni, fu rinvenuto: numera cento settantadue pagine di disegni, e termina con un trattatello delle misure d’ogni specie presso gli antichi in un capo solo intitolato Delle misure e del suo vocabolo. I disegni dimostrano varie maniere di ceppi e di carri per bombarde e passavolanti: il modo di far la mina con polvere: steccaie per fiumi, e spuntoni per ingombrare e chiudere le bocche de’ porti: macchine per tirare e per innalzare: briccole e mangani per lanciare giavellotti, sassi e brandoni di fuoco: ponti portatili, galleggianti ed estemporanei: [p. 102 modifica]varie sorta di scale murali: differenti sistemi di travature per tetti: barche munite di bombarde od altre macchine, e con mantelletti e mosse da ruote a palette (29): battipali: pontoni e cavafanghi per vuotar porti, per fondare in acqua, e per estrarre pesi da acque profonde (30) ponti per fabbricare: difizi ossien macine da olio: molini di varie guise meccanici ed idraulici. Termina coll’esposizione di più metodi di quell’arte che chiamavano del misurar colla vista, cioè col quadrante, coll’angolo di 45.°, e coll’ombra proiettata da una elevazione qualunque. All’ultimo foglio è il sopraddetto trattato delle misure antiche, che si riconosce estratto specialmente da Vitruvio, Columella ed Isidoro.

La massima parte di questi disegni già s’incontra nel trattato I, e si hanno ripetuti nel codice regio, del quale parlerò al numero V; perciò, quantunque in nessun luogo del codice indizio v’abbia dell’epoca in cui fu fatto, dalla sola osservazione de’ disegni si possono trarre argomenti bastanti per fissarne l’epoca. Osservo infatti che qualche benchè lieve cangiamento, qualche trasposizione d’ordigni che egli qua e là introdusse nelle sue macchine, danno a queste maggiore perfezione che non avessero nel trattato I, e soprattutto le artiglierie che hanno la coda già di molto accorciata, segnano un’epoca meno remota, la quale, dopo minutamente esaminati quei disegni, credo si possa fissare dal 1470 al 1480, osservando ancora che un novello miglioramento, [p. 103 modifica]consistente in maggior semplicità, trovasi nelle macchine del codice n.o V.

( B) Di questo codice non credo che esista altra copia che quella della biblioteca Saluzziana, fatta nel 1857.

V. (A) Francisci Georgii Sezwnsis Opusculum de architeclura. L’autografo, che era nella biblioteca d’Urbino, deve essere ora cogli altri codici urbinati nella Vaticana, ma io non avendone altra notizia, descriverò il libro giusta la bellissima copia che conservasi in Torino nella privata biblioteca del Re (31). È questo un bel codice membranaceo, avente nel verso dell’antiporta lo stemma dei Della Revere duchi d’Urbino con collana del tosone in un riquadro fregiato di ramoscelli di quercia, e dipinto a guazzo a modo de’ famosi codici Urbinati Vaticani. Leggesi nel frontispizio:

serenissimo
eman · filiberto
allobrogvm · duci
guidvs · vbaldvs
vrbini · dux
hvnc · machinar · libr ·
ex · bibliotheca · sua
d · d
ciɔ iɔlxiix

Al foglio 2 leggesi la dedica dell’autore, la quale serve ad un tempo di prefazione e di ragion dell’opera, ed è concepita in modo da far sospettare che in allora Francesco non fosse ancora al soldo del Duca di Urbino: Io, dic’egli a Federico, avendo col mio ingegno (e ciò sia detto senza arroganza) molte cose ritrovate degnissime di memoria e sconosciute agli altri, e di queste volendone far dono a qualche principe: Tu certo mi ti presentasti da anteporre di lunga mano ad ogni altro, [p. 104 modifica]cui degnissimo delle fatiche nostre io giudicassi. Lo loda quindi perchè nelle opere sue di palazzi e di fortezze impiegava di continuo l’opera degli architetti. Ora, non so s’io m’inganni, ma queste parole a me svelano l’uomo che vuol contrarre servitù col principe, anzichè colui che già ne gode gli stipendi: perciò io direi che Cecco presentasse questo libro circa il 1476, o nell’anno seguente, poco prima che Federico lo facesse suo ingegnere. Ad ogni modo avendo questi ottenuta da Sisto IV la dignità ducale nel 1474, ed essendo morto in settembre del 1482, in questo periodo d’anni s’aggira l’età del libro, il quale a Federico Duca è intitolato. Questa è la dedica, nè altro scritto vi è in tutto il codice:

Ad inclytum Principem Federicum Urbinatum Ducem Francisci Georgii Senensis in opusculum de architectura ab ipso pictum atque excogitatum praefatio:

Alexander ille macedo cuius ob res bellicas egregie mirificeque gestas memoriam nulla umquam tempora abolebunt, Illustrissime Princeps, tum ceteris summi ingenii artibus tum Architectura mirum in modum dicitur delectatus, cuius rei et alla comprobantia (32)..... unt et in primis Dinocrates architectus ea aetate praestantissimus qui cum eo Rege Asiam peragravit, Alexandriamque urbem aegypti praecipuam in Nili hostio ad formam macedonicae clamidis metatus est. Nec immerito vir ille natus Imperio hanc solertis ingenii partem adamavit, sine qua neque urbium oppugnationes nec munitiones castrorum nec plurima alla ad Imperii tutamen hostiumque impugnationem fieri possunt. Caesar quoque Julius Vetruvium architectum in castris aliquandiu habuit, magnaque benivolentia et familiaritate prosecutus est. Sed ne vetera commemorando sim longior, ades tu aetatis nostrae specimen verae antiquitatis exemplum, qui cum ceteras bonas artes tum hanc Architecturae solertiam situ interire non pateris. Ego vero cum complura memoratu dignissima incognitaque aliis meo ipsius ingenio (quod sine arrogantia dictum accipi [p. 105 modifica]velim) adinvenissem, cuperemque hoc munere Principem aliquem impartire, Tu profecto mihi longe caeteris anteferendus occurristi, quem nostris laboribus dignissimum judicarem. Quid enim convenientius fieri potuit quam tibi hoc opus dicare qui immortalibus tuis rebus gestis Italiam illustrasti, et in magnis artis militaris operibus praestantibusque Palatiis et arcibus condendis architectorum opera utaris assidue? Qui cum ipse ingenio plurimum floreas aliorum ingenia non amare nequeas. Itaque laeto animo hoc munusculum accipias imitatus Artaxersem illum Persiae nobilissimum regem qui etiam aquam cavis manibus haustam a porrigente Agricola benigne suscepit: quippe hominis studium animique fidem magis quam opus ipsum aestimandum censebat. Illud meo iure videor posse polliceri multa futura hic, quae D.ni tuae et conducant non modicum, eamque plurimum sint oblectatura. Sed advertendum non omnia quae in hoc codice continentur adamussim potuisse graphidis ratione declarari, complurima nam potius in ipsa mente et ingenio quam pictura et delineationibus valeant patefieri. Praeterea in opere ipso quaedam eveniunt quae numquam sunt ab artifice cogitata; quare longa rerum experientia et lectione diutina ac praecipue agili ingenio architectus praeditus esse oportet, ne ad ea quae impremeditata contingunt imparati offenduntur.

Conta il codice, oltre l’antiporta, ottanta fogli di disegni, seguiti da nove fogli in bianco: conserva la sua antica legatura di velluto verde, ed è dorato in fil di pagina. I disegni sono alla rinfusa, cioè non riuniti per materie speciali, colpa forse del legatore; la maggior parte di essi è tolta dal trattato I, e dal codice di macchine descritto all’articolo IV: vi sono però miglioramenti e semplificazioni. Vi sono macchine per alzar pesi, ed argani per muoverli orizzontalmente, con varii sistemi di complicate leve per allogar colonne: spuntoni per proibire l’entrata ne’ porti: cavalletti e ceppi di artiglierie: mantelletti piramidali e conici: briccole, trabocchi e mangani: arieti (33): burbere: molini mossi da [p. 106 modifica]acqua, da stanghe e da animali: ponti ambulatorii e scale murali: il modo di condurre ed innalzare le acque: il modo di scaricar le navi, di sconnetterle, di muoverle con ruote a palette, di forarle con puntoni ferrati: forconi, forbicioni, trapani ed ordigni a vite per rompere le inferriate: le difese morte di un campo, come triboli, carbonaie, tavole chiovate, cavalletti a forconi, e caviglie puntute di ferro: ponti di barche, tavoloni e botti, catene di ponti e cavafanghi, e barconi per estrarre pesi sprofondati: un castello d’orologio: alcuni scafandri: il modo di fare la mina con polvere: parecchie incavallature di tetti: cinque piante di fortezze circolari, due rombe, ed una che è un poligono di otto lati.

Ignoro se il codice autografo di Cecco sia ora nella Vaticana, o se si trovi tra i pochi rimasti in Urbino. La sin qui descritta è la copia che è nella biblioteca del Re in Torino.

(B) Un’altra copia avevala il conte Fernandez de Velasco governatore dello stato di Milano pel Re di Spagna nel penultimo lustro del decimosesto secolo: era fatta di mano di Gabriele Busca milanese uno dei più celebrati ingegneri militari de’ tempi suoi, ed allora agli stipendi del duca Carlo Emanuele I di Savoia, e fu comunicata nel Belgio a Giusto Lipsio perchè ne avesse lumi sulle macchine antiche (34), e questi dal codice estrasse i disegni di sei mangani, di una briccola ossia trabocco, e dì una balista, e l’inserì nel suo Poliorceticon con queste parole (35): Sequentes figuras, Gabriel Buschius delineavit effinxitque ex veteri libro, qui Urbinatium Ducis, nunc Allobrogum est. Curavit et benigne submisit incomparabilis heros Joannes Velascius, Comes Stab. P. P. Castellae, Gubernator ditionis Mediolanensis, idemque per Italiam regiae militiae supremus praefectus. Nel che si vede che per l’epigrafe in fronte al codice ingannossi quell’erudito, credendo originale la copia dei duchi di Savoia. Il disegno di uno di questi mangani (che è nel codice Regio al f.o 11, [p. 107 modifica]r.o) fu dalla stampa del Lipsio riprodotto dal Marin (36), e quello al f.o 10 v.o fu, pure dal Lipsio, dato recentemente dal sig. Dufour (37).

(C) Una terza copia se ne conserva in Torino nella biblioteca Saluzziana, ed è tratta dal codice Regio torinese.

VI. (A) Trattato di Architettura civile e militare. Codice cartaceo autografo anepigrafo esistente nella libreria comunale di Siena, e contenente il trattato II (come ho detto al n.o II) in settantatre fogli, de’ quali il 58 v.o, 71 v.o e 72 intiero sono bianchi. Che sia scritto di mano di Francesco di Giorgio è fatto sicuro dal paragone di altre scritture. Comprollo l’abate Ciaccheri per la libreria di Siena, ove tuttora si custodisce. A quali persone avesse prima appartenuto è ignoto, non essendovene lungo lo scritto indizio alcuno, se non che di quattro frasi in altrettanti luoghi, in lingua e caratteri rabbinici che sanno di nulla e nulla c’insegnano, come pure a case fuvvi inserita in principio una brevissima cronichetta di fatti accaduti in Toscana dal 1251 al 1363 tutti notissimi, e scritta da un uomo di Siena in suo dialetto. In fine al codice vi sono tre postille concernenti la persona del nostro autore, la prima delle quali segnata collo scritto Bibliothecae S. Salvatoris Bononiae riconoscesi del celebre abate Trombelli, la terza è del sanese bibliotecario Ciaccheri, ed amendue dicono essere questo libro opera di Cecco di Giorgio, mentrechè la postilla seconda che è di mano di monsignor Bottari il nega, come già avevalo altrove negato in istampa (38), partendo dalla premessa che essendo il nostro Francesco autore del palazzo d’Urbino, non avrebbe al certo tralasciato di farne menzione nel suo trattato; ma di ciò non essendovene anzi pur parola, conchiude essere argomento inconcusso per aggiudicare a tutt’altri che a Francesco la manoscritta opera: il qual sillogismo ed è difettoso in sè, ed insussistente dopo che nella vita dell’autore ho dimostrato che quel [p. 108 modifica]palazzo non solo non è suo, ma che anzi se ne conosce con certezza l’architetto. Ora però non v’ha più dubbio circa l’autore del manoscritto, tante ne sono le prove: della qual cosa principal lode si deve a Vincenzo Corazza, uomo quanto erudito altrettanto modesto, e che primo di tutti conferendo alcuni squarci di antichi autori col nostro codice, ed esaminando e comparando specialmente quanto vi si dice de’ camini degli antichi, ne mise in piena luce l’autore.

Paragonando il codice di Siena (che io chiamo trattato II), col codice Saluzziano, ossia trattato I, ne risultano le seguenti differenze. Nel trattato II, la lingua, sanese sempre, è migliorata, e più facile lo stile e più corrente: vi si vede il frutto dell’accurata lettura de’ libri che in molta copia capitavano all’autore per la ricca biblioteca d’Urbino, poichè in essi non solo trovò ed adottò parecchie idee circa la formazione della materia giusta la filosofia del tempo, cioè di Aristotile e suoi commentatori, ma dalle migliori opere attinse un più lucido ordine d’idee, una più serrata maniera d’esporle: accennò pur anche parecchie cose riguardanti la vita sua artistica; le materie tutte le riordinò in ben differente e miglior guisa che non fossero nel I trattato, togliendone le tante ripetizioni: fu più parco nel ragionare delle macchine, e di quelle tutte che aveva altrove a lungo esposte, qui ne fece una giusta scelta: tralasciò intieramente quanto aveva detto delle qualità e delle astuzie del capitano di guerra, de’ fuochi lavorati, delle acque soporifere e del fuoco greco (39), e pur anche la spiegazione delle antiche macchine militari, a ciò indotto, cred’io, dacchè per l’incremento delle artiglierie cessava ogni giorno l’utilità e per conseguenza anche l’uso di quelle. Spiacemi però (nè so perchè il facesse, se non fu per amor di brevità) che ne abbia tolti anche i varii modi di fare ripari e bastite, piantare e dirizzar le bombarde, e coprirle coi mantelletti e coi gabbioni: forse che questa parte dell’arte della guerra pel migliorarsi ed ingrandirsi che rapidamente faceva, già tale la vedeva egli da non [p. 109 modifica]poter rimanere costretta in un breve capitolo, e già voler da sè sola un volume intiero: forse anche qualche cosa ne scrisse che, latente in mani private, a mia notizia non è pervenuta. Avrei anche desiderato che non avesse tacciuto delle varie specie delle volte, assai bene figurate e descritte nel codice membranaceo al n.o II.

Mancano a questo codice sanese i disegni d’ogni cosa, che a ciò non suppliscono le poche figure segnatevi sparsamente: e poichè ad ogni dichiarazione o spiegazione va unito un richiamo, forza è supporre che i disegni ei li abbia fatti in un codice a parte: e pensando che Francesco visse in patria gli ultimi anni di vita sua, così i disegni suoi saranno capitati in mano ad un qualche suo concittadino, e forse particolarmente di codesto codice figurato intese Ignazio Danti (40), quando disse di avere avuti in dono alcuni stupendi disegni di Francesco di Giorgio da Oreste Vannocci sanese, architetto del duca di Mantova, giovinetto che era di bellissime speranze troppo presto da morte fallate.

Non mi tratterrò a stendere una minuta esamina di questo codice, potendosi già riscontrare presso il Della-Valle (41), e d’altronde non molte essendo le differenze che corrono fra questo trattato ed il III, che ora esce alla luce: ma per darne saggio e dimostrare ad un tempo quali sieno lo correzioni dall’autore in ultimo fatte, soprattutto in ciò che concerne la dizione, ne trascriverò qui intiera la prefazione che comprende anche la divisione dell’opera.

«Scrive Eupompo di Macedonia egregio mathematico nissuna arte perfectamente neli homini essare determinava senza aritmethica et geometria. Similmente non solo da lui ma da molti altri eccellenti non meno necessaria era stimata l’arte del disegno a qualunque operativa scientia che le prenominate. Questo medesimo giudicando Apelle et Melantio experti mathematici et solerti pictori et di grande autorità in Sicione et per tutta la Grecia instituirono che li padri di famiglia a li figlioli loro et posteri fessero imparare l’arte antigrafica: Et conosciuta doppo breve tempo la utilità sua et la nobilità di molte [p. 110 modifica]scientie do le quali presuppone la notitia fu in modo celebrata che sì come ne scrive Plinio nel primo grado de le liberali era reputata. nè permettevano che a servi fusse insegniata. Et benchè a’ dì nostri sia riputata vile et inferiore a molte altre mechaniche niente di meno chi considerasse quanto sia utile et necessaria in ogni cosa humana sì nella inventione sì in possere explicare li concepti sì nel’operare sì all’arte militare: dall’altra parte geometria aritmethica perspectiva a questa essare affine facilmente giudicarla essa essare uno mezzo necessario in ogni cognizione et opera dello cose factibili con dritta ragione. Onde per questo et non senza ragione ne le menti de li virtuosi insurge maraviglia quale sia la cagione che tanto tempo sia stata ascosa et totalmente persa et parimente ignota la forza de li vocabuli usati per li auctori che de la pictura et architectura parte de l’antigrafica hanno a noi lassati i libri: maxime essendo in questo tempo stati più homini da la natura dotati di subtilissimi ingiegni: Alcuni affermano essare stati li influxi celesti per li quali in alcuna età sonno al mondo li homini inclinati ad uno exercitio in alcuna altra in altro. Ma io lassando questa alta consideratione la quale è sopra a le forze mie cognosco di questo essare stata un altra concurrente a questo effecto non obstando a la prima. Et questa è che certamente non si può negare per tucto questo tempo overo almeno per la maggior parte la cura et sollicitudine et manifesta frenesia humana essersi data alla cupidità et avaritia et abandonato le virtù: et se alcuna scientia se è messa in uso questa solo a fine di ricchezze o di guadagnio è stata frequentata: in questo vitio maximamente sonno incorsi li principi et potentati a chui si aspecta retribuire almeno mediocremente quelli ingegni li quali occupano la vita loro in questo exercitio: la donde ne segue chome più volte ogni giorno ne le altre opere si vede la experientia che questi che a simili studii hanno dato opera benchè universali et di perspicace ingegno o per natura o per frequente meditazione non hanno possuto con auctorità loro possedere tanto che in fine la vita loro non sia stata miserrima: del quale effecto ne segue la disperatione di qualunque in simili exercitii volesse exercitarsi. Questa medesima ragione me lungo tempo [p. 111 modifica]ha tenuto dubio et pendulo: maxime cognoscendo essere conforme a la prima de li influxi celesti cioè particolarmente a le influentie di Mercurio signore di quelli che ne le arti prenominate sonno acti ad venire excellenti; perochè essendo chosì non mi determinavo a quello che la natura me inclinava: ma più volte mosso da la ragione fui per exercitarmi in qualche più vile et mechanica arte sperando per quella con minore peso di animo se non di corpo potere supplire alle necessità del victo mio: nè etiamdio sapevo detestare questi regenti perchè forse di questa exigua rectributione loro non ne era causa tanto la cupidità quanto la predicta influentia, bene certamente li haria laudato assai quando contro questa influentia per la debita ragione avesse facto resistentia. Così stando in questa ambiguità perchè è cosa difficillima resistare a le inclinactioni naturali, quelle deliberai seguire. Et desiderando in l’arte del disegnio et dell’architectura venire a qualche vera et fondata cognictione: feci fermo proposito di non perdonare a fatigha alcuna la quale io vedevo necessaria per pervenire a questo fine. Perocchè li auctori che in questa arte maxime de architectura hanno scritto da una parte hanno lassato le opere incomplete: overo solo hanno tractato d’una parte dell’arte non facendo mentione del residuo, dall’altra hanno usato vocabuli che per le ragioni antedicte sono totalmente ignoti: et apresso questo hanno dati exempii di molti edifizii li quali già molti anni sonno stati in ruina. Unde me è stato necessario per molte circumstantie et per considerare le opere de li antichi romani et greci scrittori: concordando el significato col segno retrovare quasi chome de novo la forza del parlare di più antichi auctori, maximamente di Vetruvio: la qual chosa per forza di gramaticha greca et latina non è stato mai possibile venir ad fine: benchè più peritissimi ingegni nell’una et nell’altra lingua in questo se sieno affatigati da me et dal Signore mio inducti (42). Et certamente a me pareva chosa imperfecta et inepta ad quietare le menti de li intelligenti seguire le opere senza ragione regulata et [p. 112 modifica]autenticha auctorità ; et in quella parte che per li antichi a noi è rimasa insegnata non mi parue possere seguire più valida auctorità che quella di Vetruvio: maxime avendo io guardato li dicti scripti con quelle poche di reliquie delli antiqui edificii et sculpture che per Italia sono rimase: de le quali io stimo havere visto et considerato la maggior parte.

Et perchè io cognosco che molto siamo tenuti et doviamo rendere gratie a quelli che nelle arti et scientie non solo ci hanno lassato per fatigha loro la verità discussa, ma etiamdio a quelli che ne hanno mosso le questioni di alcune subtilità et secreti perchè sonno stati principio per lo quale noi siamo venuti a la vera notitia, come afferma Aristotile nella sua Meta.ca et non meno debbono esser biasimati quelli che per le vigilie et fatighe de li altri desiderano acquistare fama e gloria: per questo non volendo cadere nel vitio de la ingratitudine nè ancora ornarmi de li vestimenti altrui chome molti già hanno usurpato le opere di altri et attribuitosi il nome del quale il vero compositore solo era degno: de li quali in una fabula Esopo fa mentione: dicendo che la cornacchia volatile astuto ornato di penne del pavone elevandosi in superbia infine rimase con gran vituperio: per questo dicho che nessuno si persuada che tutto quello che in questa mia operetta si contiene vogli sia reputato di mia invenzione, perchè molte cose io a mio proposito ho tracte di più autentici libri: et spetialmente da Vetruvio maxime nelle proportioni de le colonne base et capitelli cornici et altre proportioni di tempi et palazi: et brevemente del 5.o et 6.o tractato le regule le quali io porrò sonno delle fatighe de li antichi non con pocha sollicitudine da me riducte a luce: ma le forme varie et figure di tempi et chase insieme con tutti li altri tractati sonno del mio debile ingiegno inventioni: ne le quali se alcuna chosa sarà che a’ lettori non piacesse imputato sia a le mie picciole forze: et se alcuna parte vi fusse la quale porgiesse piacere o anche utilità quello solo veramente sia ringratiato dal quale sonno tutte le gratie et tutti li beni procedano: et da me solo sia acceptata questa buona dispositione di voluntà per la quale molte chose di assai diletto et utile seranno a ciascuno manifeste: le quali [p. 113 modifica]per molte età occulte: et al presente sonno: avvengha che a molti para da qualche breve tempo in qua si sia ritrovata la architectura: perochè senza arrogantia et suspitione di debita reprensione si può dire che tutti li edifitii moderni sieno pieni di errori et di parti senza la sua debita proportione et simetria: Non dubito punto che da molti ignoranti et presuntuosi sarò ripreso perchè non è possibile a ogni homo satisfare: essendo tante sententie diverse quanti homini: ma io non avendo di questo molestia solo questo merito de le fatighe mie aspetto che da qualche intelligente in alcuna parte mi sarà rendute grazie se non chome determinatore almeno chome motore de li altri ingegni più sublimi et virtuosi: et perchè è approvata sententia di tutti li platonici et peripatetici la divisione di qualunche tutto in le sue parti essare una de le principali vie per le quali a notitia de la chosa ignota si perviene. Onde non deviando da la predetta verità affermo l’arte et scientia della architectura (della quale secondo la forza del mio debile ingiegnio intendo tractare) sufficientemente dividersi in settee tractati principali. In lo primo si determinarà di alcune proprietà generali a ciascuno delli altri 6 particolari seguendo la sententia d’Aristotile nella sua phisica dove insegnia che dalle cose universali in le singulari nelle scientie bisogna procedere. In lo secondo delle aderenti parti delle città et castella: in lo terzo della edificatione et supplemento de li porti marittimi: in lo quarto di più ingegnose forme defensive et offensive delle roche et fortezze: in lo quinto delle convenienti et ornate parti delli Sacri tempi; in lo sesto delle congrue et commode abitationi de li palazi et case; in lo settimo et ultimo di alcuna ingegnosa macchina et instromento chosì offensivo per la arte militare, chome chommode per lo victo dell’omo si tractarà».

I primi quattro libri formano la prima parte che estendesi a tutto il f.o 42 r.o, ove comincia la parte seconda che tratta meramente dei templi sacri, comprende cioè il solo libro quinto, dal foglio 42 v.o al 56 r.o: al 36 v.o incomincia la terza parte ed ultima nella quale sono i libri sesto e settimo. Che questo codice sia di epoca posteriore al trattato I dissopra esaminato, chiaramente risulta dalla sola lettura (anche [p. 114 modifica]qualora mancassero i validissimi argomenti che pur vi sono), la quale ne fa vedere essere questo lavoro di un uomo che meglio pensa e meglio scrive, perchè più cose ha vedute e fatte: ma v’è di più, che in questo è frequente la menzione del suo patrono Federigo di Montefeltro e di tanti luoghi dello stato d’Urbino nel trattato I non mentovati, perchè egli allora poco o nulla ancor li conosceva; bensì vi sono le stesse indicazioni circa le antichità di Roma, di Tivoli, di Ferento, di Gubbio, poichè tali materiali da lui già erano stati riuniti da lunghi anni e consegnati nel codice architettonico de’ monumenti, e già sen’era valso nello scrivere il trattato I. Vi fu questione, se questi libri egli li scrivesse quando era al soldo di Federigo (intendo di questi che qui esaminansi, poichè la tela e la partizione dell’opera già disposte le aveva in gioventù), o dopo la morte sua, ma è chiaro che fu dopo, poichè egli in molti luoghi dice che Federigo fu eccellente sopra tutti li altri capitani dal tempo de’ Romani in qua, ed altrove che veramente signore si poteva appellare perocchè parimenti li animi come li loci dominava, insomma di lui sempre parlando come di persona che fu, non come di vivente, anzi codesto suo trattato ei lo scrisse, o a dir meglio il rifece, sicuramente dopo il 1491 che è l’anno della sua gita a Napoli, poichè vi fa menzione de’ ruderi di Baia e circa il lago d’Averno, e di avanzi veduti in una selva presso Aquino, mentre di tutte queste cose (siccome da lui non conosciute allora) non aveva parlato nel trattato I: e possiamo aggiungere che lo scrisse in patria, poichè dopo ritrattosi dagli stipendi d’Urbino, brevi furono le sue escursioni da Siena. Che poi questo sia l’autografo, lo manifesta il carattere che è il suo, e le frequenti cassature e correzioni, che d’altri non possono essere che dell’autore.

Poichè questo trattato fu dal nostro Cecco scritto quando era già salito in grande e bella fama, così ebbe maggior rinomo, e le copie trattene io le credo assai più numerose che non quelle del trattato I. Pure, molto discernimento ed acume ci vuole a distinguerle, non avendole io sott’occhio, da quelle ricavate dal codice Magliabechiano che è il trattato III, correndo tra questi due non grandi differenze, per tal modo che per una semplice indicazione od un appunto incerto, non si può chiarire di quale dei due trattati sia questione. [p. 115 modifica](B, C) Primi di tutti sono i due codici (antichi a quanto pare) dei quali scrive il P. Trombelli in lettera del 17 aprile 1764 al P. Nini suo correligioso in Siena, ed esistente inedita in quella biblioteca pubblica. «Mi dicono che ve ne sia due simili, uno nella libreria del fu doge Foscarini, l’altro in Firenze; ma se non ho inteso male, tutti e due sono mancanti, e credo anche di molto. Tale notizia l’ebbi da un tal signor Vincenzo Corazza intendentissimo di architettura». E questi due codici io qui li registro sulla fede del Corazza, quantunque non sia abbastanza chiara la provenienza loro, cioè se dal codice sanese o dal Magliabechiano, perchè quello che appartenne al Foscarini è probabile che già fosse dello Scamozzi, come di colui che viveva in Venezia, e quello di Firenze è forse il Magliabechiano del quale si parlerà dopo.

(D) Pietro Antonio Micheli, botanico e geologo rinomatissimo, avendo avuto l’autografo da Siena, ne fece copiare la prima parte (non la sesta, come per equivoco scrisse il Targioni (43)), quella cioè che tratta dei materiali delle fabbriche.

(E) Una copia ne fu estratta dal codice trombelliano, ora sanese, dall’abate Giuseppe Ciaccheri, e collazionata col manoscritto dallo stesso Corazza e dal dottore Leonardo De Vegni (44).

(F) Un’altra copia doveva pure trovarsi in Lesina di Dalmazia presso quel vescovo monsignor Stratico, risultando da lettera (edita dal professore Del Rosso) ch’ei scrisse agli amici di Toscana, come avesse in animo di fare questo trattato di pubblica ragione; e ciò verso la metà del secolo scorso.

(G) Nel 1798 il fiorentino prof. di architettura Giuseppe Del Rosso avendo avuto facilità del codice di Siena in casa propria, ne trasse copia giusta l’originale ortografia per mezzo d’un amico suo, e poi lo trascrisse nella ortografia moderna (45).

(H) L’ultima copia ch’io conosca è quella della biblioteca Saluzziana, scritta in Siena nel 1838. [p. 116 modifica]

Dell’autografo stesso nella vecchia sua ortografia si hanno lunghi estratti nelle lettere sanesi del Della Valle. Aggiungo, che appena il codice ritornò, a così dire, da mani straniere in patria, e ne fu certo l’autore, venne visitato da parecchi dotti uomini, fra i quali piacemi citare Ennio Quirino Visconti che ne trasse alcune note (46), l’abate Giovanni Andres (47) ed il colonnello Omodei (48), al quale molto avrebbe giovato per la storia che proponevasi di scrivere dell’artiglieria italiana, se il suo nobilissimo pensiero non fosse stato tronco da immatura morte.

VII. (A) Trattato di architettura civile e militare, codice cartaceo anepigrafo, esistente in Firenze nella Magliabechiana, classe XVII. 31, tra gli Strozziani n.o 1367. Fu rinvenuto dal bibliotecario abate Vincenzo Follini ripassando, or sono vent’anni, e classificando quella ricchissima raccolta. Il manoscritto essendo anepigrafo, poteva nascere esitazione circa l’autor suo; però il Del Rosso che già ben conosceva il codice di Siena (49) tosto lo ravvisò per l’ultimo e più compiuto trattato del nostro Francesco: e questo chiameremo trattato III.

Io non mi attento a decidere se codesto codice sia scritto di mano dell’autore: la rassomiglianza che corre tra i caratteri di questo e del codice sanese è grandissima per certo, ma non tale da darne certezza assoluta: correzioni non vi s’incontrano, non di rado però vi sono cassate parole ripetute: vi si vedono lasciate, in principio d’ogni capo e libro, quattro o cinque righe in ritirata per far luogo ad una iniziale grande ed ornata, indizio di copia pulita e per essere presentata; vero è però che se v’è lo spazio, l’iniziale non fu fatta mai. Il copista (e ciò dico, per chi lo tenesse copia) era certamente sanese (50). Sono inserite lungo il testo le opportune figure, e tutte senza alcun dubbio di mano dell’autore, troppo facile essendo il conoscere in tali cose la mano dell’inventore da quella del copista: i disegni sono tracciati dapprima [p. 117 modifica]con uno stile ovvero punta (come allora usava, invece del lapis), e poi esattamente ripassati con inchiostro, ora fatto rosseggiante per la vecchiezza: la prospettiva non vi è sempre esatta, ma hanno ciò non ostante una tale chiarezza tutta loro propria.

I fogli sono alti 0,436, larghi 0,292. Precedono quattro fogli bianchi, poi comincia al f.o 1 recto la numerazione: il formato è il solito dei codici di quella grandezza, cioè il foglio piegato in due. Segue il trattato sino al f.o 102.

Dal foglio 103 al 192 è inserita una italiana volgarizzazione di Vitruvio, la quale per essere contenuta tra il testo anzidetto ed il codice di disegni che vien dopo, ambedue opere certe di Francesco di Giorgio, e cucite nella stessa antica legatura in assicelle, parve al professore Del Rosso poter essere lavoro dello stesso autore. Io sono di differente opinione. Dello stile del traduttore (che chiunque sia non è nè più colto, nè più barbaro del Cesariano, del Durantino, del Caporali) può il lettore dar giudizio dal presente squarcio del capo I del libro I. «L’architetura consisthe in due chose in frabicha e razocinatio La frabicha è chontinuato pensiero circha aluso col quale pensiero e huopera a proposito della formatione fassi di materia diciaschuna generatione Ratiocinatio è demostrare e desprichare lechose inanzi che fabrichate sono chon propositione di sotilita e ragione. Per tanto agli architeti che senza letera chontendano di quele chose che chole mani fusero exercitati hotenere non posano fare che per la loro fatiga abino aultorità choloro che nella ragione e nelle letere si sono chonfidati hombra e non efetto auere seguitato paiano. Ma quelli che fusero per perdere luna di queste due meglio sarebe auere laultorità. Nientedimeno cholui che uole auere ordine desere chiamato architetto sapi due chose a lui esere grandemente necesarie ingienio e dotrina perchè lo ingienio senza dotrina holla dotrina senza ingienio lartefice perfetto far non può. E per tanto ec.» (51). La lingua dimostra che il volgarizzatore è [p. 118 modifica]toscano si, ma non sanese: io lo direi fiorentino. Il carattere poi, di pessima forma, e lontanissimo da quello di Francesco di Giorgio, benchè spiri l’epoca della seconda metà del decimoquinto secolo. Ciò mi porta a conchiudere che questa traduzione non sia sua. Pure, mi rimane un pensiero, ed è, che fosse posseduta da lui, e se ne valesse ne’ suoi scritti per le frequentissime citazioni di Vitruvio: e chi ne volesse prova, se l’abbia in queste righe che io traggo dal principio del libro I del primo suo trattato (codice Saluzziano membranaceo f.o 10 verso) «In prima he dassapere duo chose hessare grande mente neciessarie frabicha e raciocinatio. La frabicha eccircha all’uxo e pensiero dellopare. Raciocinatio he demostrare le chose innanzi che fabrichate sieno chon proportionata ragione.... All’architetto ingiengnio e dottrina allui bixongnia senza per che lo ingiengnio senza dottrina ho la dottrina senza ingiengnio l’artefice perfetto far non puo. E per tanto ec.». Ora, chi non vede che le vitruviane parole portate dal nostro Francesco le stesse sono che leggonsi nel codice Magliabechiano? Le stesse per certo: solo corre la differenza de’ dialetti, sanese nell’uno, fiorentino nell’altro. Ecco adunque una nuova versione di Vitruvio, fatta circa l’anno 1450, e quindi antichissima fra tutte, da aggiungersi ai cataloghi dell’eruditissimo Poleni e del Marini (52).

A ciò si aggiunga che la carta, sulla quale è scritta questa versione, e d’altra fabbrica di quella de’ due codici di Francesco formanti il volume Magliabechiano, essendo costantemente marchiata della foglia a tre pizzi, mentre i fogli degli altri due codici portano l’impronta della scala in un ovale sormontata dalla stella, salvo due soli che hanno la bilancia in un cerchio. Da tutto ciò io conchiudo che la versione vitruviana sia [p. 119 modifica]stata legata e numerata colla paginatura dei due codici del nostro autore, per ciò solo che da lui proveniva il quale l’aveva posseduta. Ma del codice Magliabechiano, siccome di quello che nella stampa sarà a luogo a luogo annotato, ciò basti, e passiamo alle sue copie.

Se il codice Magliabechiano non è autografo (poichè io non oso asserirlo, nè negarlo), ne ha però il valore, poichè di Francesco sono i disegni, quindi il testo, se non fu scritto di mano sua, fu però da lui rivisto: come ne sono prova alcune parole qua e là sparse concernenti l’autore e la patria sua, e mancanti al codice sanese, le quali per conseguenza da altri che da Francesco non potevano ossere introdotte; e questo codice è con ogni probabilità quello stesso del quale, in uno col corpo dei disegni che gli va unito, pare che accenni il Vasari colle parole: «disegnò anche alcuni libri tutti pieni di così fatti istrumenti (di guerra), il miglior de’ quali ha il signor duca Cosimo de’ Medici fra le sue cose più care (53)». Accennò il prof. Del Rosso nella lettera quarta Antellana, come probabile, che questo libro avesselo Cosimo portato nella sua biblioteca dallo spoglio di Siena, ed io aggiungo che la probabilità acquista maggior grado di certezza osservando che la presa di Siena pel Duca essendo accaduta nel 1557, il Vasari che de’ libri di disegni non aveva pur fatto parola nella edizione principe che è del 1550, ne scrisse poi il citato passo nella Giuntina del 1568, che è la seconda.

(B) Un’altra copia fu in potere, od almeno andò per le mani di monsignor Daniele Barbaro patriarca d’Aquileia, celebre letterato ed artista, il quale ne’ suoi comenti a Vitruvio dà del nostro codice la descrizione e le figure de’ camini di Perugia e Civitavecchia (54).

(C) Un terzo codice era presso Vincenzo Scamozzi, il quale, ragionando degli scrittori d’architettura posteriori a Vitruvio, scrive: «Antonio Filarete e Francesco Sanese ambi scultori et architetti.... l’opere dei quali habbiamo appresso di noi scritte a penna» (55). Ed altrove [p. 120 modifica]scrive il camino di Baia con «quattro colonne, che formavano un quadro con un architrave sopra a tutte le faccie che sosteneva una piramide molto bene ornata di stucchi» ec. Io so che i vari autori, i quali nelle lettere sanesi concorsero a scrivere di Francesco di Giorgio, dissero che i codici posseduti già dal Barbaro e dallo Scamozzi erano copie di quel di Siena: ma se essi si debbono scusare perchè allora altro codice autografo non si conosceva fuorchè il sanese, ora possiam dire che s’ingannarono, perchè nel sanese non vi sono che le sole piante dei camini, mentrechè nel Magliabechiano ve ne sono gli alzati, e di questi è la descrizione dello Scamozzi, e di questi sono le figure presso il Barbaro, prova incontrastabile che dal codice di Firenze provenivano le loro copie.

(D) L’ultimo de’ manoscritti ch’io conosca è quello della biblioteca Saluzziana copiato nel 1831, e comparato nel 1839 coll’autografo, nel qual anno per benigna degnazione di S. A. I. R. il Granduca di Toscana si ottenne di averlo per qualche tempo in Torino, e da questo codice studiosamente collazionato fu tratta la presente edizione.

VIII. (A) Codice di macchine e fortificazioni.

Autografo nella Magliabechiana, ove fa parte dello slesso volume del testo ora esaminato, e segue la stessa numerazione (dopo la versione di Vitruvio) dal f.o 193 recto al f.o 244 verso, incluso. E’ cartaceo, ed i fogli hanno lo stesso formato e lo stesso marchio della scala in ovale sormontata dalla stella, tolti i fogli 226, 27 e 228, 29 segnati colla bilancia nel cerchio. Al foglio 245 cominciano le piante di un edificio civile, e quel foglio col seguente sono marchiati coll’aquila coronata, con ali spiegate e sormontata dalla croce di S. Andrea: il terzo foglio (249,50) ha di nuovo la scala e la stella, e così pure il quarto. Seguono tre fogli lasciati in bianco. Quell’edificio civile è l’Università di Siena, per la quale fecersi progetti all’anno 1492, ed io ne parlai al capo VI della vita dell’autore; che poi questi disegni siano di sua mano, lo manifesta, oltre lo stile tutto suo, anche la circostanza di trovarsi in seguito ad altri disegni certamente suoi, e su fogli della stessa grandezza, qualità e marchio.

I disegni contenuti nel codice rappresentano modi di spezzar le [p. 121 modifica]ferriate: lanciar sassi e verrettoni con trabocchi ed altre macchine: lanciar fuochi (56): varie forme di bombarde coi loro cavalletti, ceppi e mantelletti: lo scafandro (57): vari modi per gettar ponti e tendere scale: alzar pesi: sette vari disegni di mine con polvere: altri di mantelletti o gatti per scalzare le mura di una fortezza: le maniere di difendere i fossi con una specie di petriera, e con variati sistemi di casematte: piante di fortezze di svariatissime forme, e difese da fianchi sporpgenti, o dal risalto di torrioni circolari e poligonali: nuove forme di parapetti merlati in varie guise, oppure perpendicolari e tondeggiati con aperte normali od inclinate, od anche senza aperte, e sostituite ad esse le troniere sopra il cordone: rivellini di varie figure e difesi in più modi: finalmente, ciò che più importa, vi sono soventi disegnati non più torroni all’antica, ma veri baluardi, la maggior parte de’ quali ha i fianchi coperti dall’orecchione circolare.

L’età del codice, quantunque da nessuno scritto sia indicata, è però svelata abbastanza dalla perfezione degli ultimi metodi di fortificare in esso contenuti, de’ quali non v’è traccia antecedentemente nè presso altro autore, nè in monumento alcuno, e nemmeno negli altri disegni di Francesco. Io lo stabilisco circa l’anno 1500, poichè l’autografo sanese parlando del camino a Baia significasi posteriore almeno all’anno 1491, nel quale fu il primo viaggio a Napoli dell’autore: e certamente di qualche anno ancora è più recente il codice Magliabcchiano ridotto a [p. 122 modifica]tanto maggior ordine, ristretto a luogo a luogo ed aumentato con quel giudicio che viene da lunghe considerazioni fatte sopra un’opera, sarebbe cioè codesto codice Magliabechiano stato scritto circa l’anno 1500 contemporaneamente ad un dipresso al codice de’ disegni: anzi dirò, che nelle ultime parole del libro V, assai chiaramente egli indicò il corpo dei disegni, scrivendo che pure alcuna semplice figura senza scrittura avrebbe dimostrato, a dilettazione ed utilità dei giusti principi e potentati, le quali parole nel codice sanese non esistono, ed accennano a questa ultima collezione, messa da me al numero VIII. Aggiungerò ancora che questi due ultimi codici non possono essere posteriori all’anno 1507, poichè già era in tal anno mancato l’autore di vita: non possono nemmeno essere posteriori all’anno 1503, poichè parlando egli al capo 6.o del libro l’con gran ritegno dell’uso delle mine, una tale cautela sarebbe stata inutile, anzi risibile, dopo che nel detto anno con tal mezzo erano stati espugnati i castelli Nuovo e dell’Uovo di Napoli.

(B) La sola copia che di questo codice io conosca è quella esistente in Torino nella biblioteca Saluzziana, estratta essa pure nel 1831 e comparata nel 1839.

  1. Chiamo codice I il Saluzziano, II il Sanese, III il Magliabechiano.
  2. Storie fiorentine, lib. IX, pag. 265.
  3. Della zecca di Gubbio, tom. I, pag. 256.
  4. Giornali del duca di Montelione (R. I. S., vol. XXI, col. 1132). Ecco le parole di Francesco: «E questo none molto tempo passato che al chaslel di Sanghuino interuenne in una hostaria. Essendo due merchanti alloggiati in quella notte loste sentendo le pechore strepito fare credendo che alchuno animale le molestasse ito per uedere luscio haperse chome chacciate fussero fuor saltaro. Et uenne tremuoto grandissimo che da merchanti in fuore che in cierto luogho si saluaro elloste che alle pechore hera huscito la chasa ruinando tutta sua famiglia ui mori». Questa scossa accadde anzi il giorno 4 dicembre, e rovinò in special modo le città d’Abbruzzo, della qual cosa ne abbiamo una minuta relazione mandata tre giorni dopo al marchese di Ferrara, tradotta in francese ed inserita ne’ suoi libri da Giovanni du Clercq cronista contemporaneo, ove leggesi: a esté mis en ruine par le dict terremote en une nuict le chasteau de Sanguine, le chastel de Presole etc. (Paris 1589 f.o 66).
  5. Appendini, Storia di Ragusa, tomo I, pag. 306.
  6. Razzi, Storia di Raugia 1595, libro II, pag. 63.
  7. Questa distruzione, o a dir meglio questo spoglio del Campidoglio antico fecelo Paolo per amore delle fabbriche sue a S. Marco, delle quali, seguendo il Vasari, si fa autore Giuliano da Maiano: di esso ben ponno essere la porta e la loggia interna, ma principale architetto ho già detto che fu Bernardo di Lorenzo fiorentino, e soprastante lo scrittore apostolico Francesco dal Borgo S. Sepolcro da Gasparo Veronese innalzato al grado di architetto (De gestis Pauli II apud R. I. S., vol. III, pars II, col. 1041 e 1046).
  8. Il codice modenese io non l’ho veduto, e non lo trovo indicato che dal Venturi (Fuochi militari degli antichi. Bibl. ital., vol. VI, 246): ma che sia una copia di questo I di Francesco di Giorgio, lo ricavo dallo squarcio ch’ei ne produce della mina a polvere. Si paragoni coll’originale che io riporto qui sotto nella Memoria V. Avvertì il colonnello Omodei (Origine della polvere da guerra, pag. 169) che nel 1821 non gli venne più fatto di rinvenire nella biblioteca di Modena questo codice, solo pochi anni prima citato dal Venturi.
  9. Raccolta di alcuni disegni di macchine diverse. (Lat. et ital. D. Marci bibliotheca, Codici italiani, n.o 86). Di questo prezioso ms. ne debbo la descrizione al cav. prof. P. A. Paravia, che gentilmente prestossi a secondare le mie ricerche.
  10. Ecco le tre note in ordine cronologico: Georgius Willhelmus ab Hoffkirchen liber baro haec scripsit, Domino Dominico Franci suo amico percharo iucundae recordationis gratia Patavii Venetor. Amo salutis nostrae MDLXXVI 2 die februarii. «1576 2 feb. in Vinetia Wuolfgango di Hofkirchen libero barone in Kolmunz Austriaco, per ricordo di se, di suo pugno scrisse». 1576 Virtus auro praestantior. Wolfgangus Willhelmus liber baro a Rogendorff scribebat Venetiis 3 februarii.
  11. Maffei, Osservazioni letterarie, vol. II, pag. 195.
  12. Scrittori d’Italia, vol. I, parte II. 1247.
  13. Vedasi l’ultima nota al capo 8 del libro IV di Francecso di Giorgio, ed un’altra nella Memoria V sulle Mine all’anno 1503.
  14. Al f.o 84 recto così è scritto: «Hedifitio ruinato. Le cholonne et circulatione dele volte di fore, el qual fu ornatissimo. Rafacionollo papa Nichola. Ma molto più lo guastò. Dicesi S.cto Stefano Ritondo». Giannozzo Manetti (Vita Nicolai V apud R. I. S. vol. III, pars II, col. 931) lo dice ristaurato da questo Pontefice, sotto la direzione (aggiungono le guide di Roma) di L. B. Alberti.
  15. Quest’atrio di Pompeo dovrebb’essere ciò che allora volgarmente dicevasi Satrio, quantunque oscuro edifizio ed incerto esso sia. Vedi Biondo, Roma instaurata, lib. II, f.o 31. Tornano a proposito ed a schiarimento le parole di Jacopo Volterrano scrittor di que’ tempi (R. I. S. vol. XXIII, col. 196). Habitat Cardinalis Senensis in magnificis aedibus a se constructis, inter pontificiam viam (via papale) et Pompeii theatrum, quod nunc Campum Florae vocamus. E lo stesso dice Gaspare Veronese nel libro II de gestis Pauli II.
  16. Ughelli in Episcopis Senensibus, col. 578.
  17. Ciacconius, Vitae Pontificum, vol. III, col. 210.
  18. È l’anfiteatro Castrense, il quale non aveva già due soli ordini, come pretese chi ne effigiò un ristauro, ma sibbene tre e tutti corintii: e Pirro Ligorio scrive (vol. R. f.o 151 MS. de’ RR. Archivi di Torino) che «a dì nostri era in piedi insino alli tre ordini di colonne di mezzo rilievo. ........ è stato tagliato a traverso e abbassato per fortificare alla moderna nella guerra nata nel pontificato di Paolo IV col Re cattolico». Camillo Orsino, capo allora delle cose militari in Roma, fu quegli che fece il guasto nel 1556.
  19. L’ordine inferiore è dorico, e con pilastri altissimi e bugnati: il superiore corintio, ed ha in ogni serraglia d’arco scolpita una testa, come all’anfiteatro di Capua; anche il Ligorio nella citata opera, alla voce POMPEIA, dice che sopra ciascun arco del teatro Pompeiano erano locati mascheroni di marmo con diverse effigie, le quali ora si vedono in Belvedere locate attorno al giardino ec. Cosa ignota a chi ne fece, pochi anni sono, il ristauro in stampa. Ora queste parti appartengono al teatro di Pompeo, mentre l’ubicazione della casa Savelli non può denotare che il teatro di Marcello, ed ancor più quella delle Macella di ripa che a questo teatro riferivasi sin dal decimo secolo, come da carta edita dal Mabillon. Dunque sarà forza concludere che agli avanzi del teatro pompeiano abbia inavvertentemente cambiato titolo l’autore, dicendolo di Marcello.
  20. Parlagio è nome che davasi in Toscana ne’ tempi bassi agli antichi teatri ed anfiteatri, come ampiamente dimostrò il Guazzesi (Degl’anfiteatri degl’antichi Toscani); quello di Gubbio è detto Pelagia da Guarnieri Berni nella Cronaca Eugubina (R. I. S., vol. XXI. Introduzione). Fu illustrato da Ranghiasci, Poleni e Colucci. Pietra cornia parmi errore per Pietra concia.
  21. La distruzione di Ferento è fissata dagli storici viterbesi circa l’anno 1169. Il suo teatro, disegnato anche dal Ligorio al vol. P. 159, e dato a stampa malamente al solito dal Serlio, può tenersi come cosa inedita.
  22. Le Capocce, questo nome davasi in quel secolo alle terme di Tito, come attesta anche il Filarete nel suo trattato d’architettura scritto nell’età stessa, al libro I. Il nostro Cecco poi (f.o 88) ci presenta un disegno intitolato: «Chonserua e hadequamento d’intrauersate uolte sotto le Capocce» e ciò è una piscina con 28 pilastri inclinati, con rara anomalia, a 45.° sulle pareti.
  23. In pianta già vi è verso il foro segnato il portico delle quattro colonne rinvenuto di nuovo negli ultimi scavi; nel gran nicchione rimpetto al più antico ingresso, è scritto: «In questo luogho sedeua un gighante di marmo che la testa sua è piei sei et mezzo». I costui frammenti sono in Campidoglio.
  24. Vi è lo scomparto delle decorazioni in fini marmi, tolti nel 1747, e vi sono disegnati parecchi di que’ bronzi che rivestivano le travi del pronao spogliato da Urbano VIII.
  25. È il Settizonio, come fu rappresentato nel 1583 dal Pittoni, e descritto dal Filandro.
  26. Pianta di porzione del Palatium, che da lungo tempo chiamavasi Casa di Catilina (Anonimo nel Diario del Montfaucon, pag. 294).
  27. Sono varie parti di villa Adriana, ora quasi tutte disfatte. Degli edifizi della città di Tivoli segnati nel codice, ora pochissimi ne rimangono.
  28. Anonimo cit. di Montfaucon, pag. 287. Pinea aenea quae fuit coopertorium in foramine Pantheon.
  29. I meccanici del decimoquinto secolo e del seguente molto s’affaticarono nel disegnar barche mosse da una o due o tre coppie di ruote a palette, alle quali s’imprimeva il movimento per mezzo d’ingranamento più o meno complicato. A noi avvezzi ai moderni bastimenti a vapore fa maraviglia questa analogia quasi perfetta ne’ fianchi esterni, ma quegli antichi l’idea loro la tolsero dall’odometro marittimo descritto da Vitruvio al cap. XIV del libro X. Così pure Vitruvio (lib. I, cap. VI) aveva fatta conoscere loro l’eolipila, il vapor della quale adattollo il Filarete (MS. architettura, lib. IX) come corrente d’aria a tenere acceso un camino. Conobbero adunque i quattrocentisti quanto v’è di sostanziale nei nostri battelli a vapore, ma non seppero riunirlo.
  30. Questa pratica per pescare od imbarcar pesi, consistente nel caricare una o due barche per abbassarle, e poi vuotarle per innalzarle di nuovo allorchè il peso è attaccato, fu inventata in tempi molto antichi, come riferisce Plinio (Hist. Nat. XXXVI, 14) autore letto e studiato assai nei secoli bassi. Con quella del nostro Cecco è comune quella disegnata dal Taccola e dal Santini: più tardi fecela sua anche il Tartaglia nella Travagliata Invenzione. Francesco la ritrasse anche in alcuni bassirilievi del palazzo d’Urbino. V. anche L. B. Alberti, lib X, cap. XII.
  31. Il titolo qui sotto riferito potrebbe far credere che fosse l’originale mandato in dono dal Duca d’Urbino: ma sarebbe errore, poichè è lo stemma dei Rovereschi, ed il carattere col quale è scritta la prefazione, e lo stile di due figure ignude nel secondo foglio, tutto accusa la seconda metà del decimosesto secolo. Al titolo di Libro di macchine preferisco quello di Opuscolo d’architettura datogli dall’autore.
  32. Parmi debbasi leggere intersunt. Il codice è fortemente avvampato ne’ capipagina e di qui nasce la lacuna; disgrazia comune ad altri codici che erano nella libreria del vecchio palazzo ducale di Torino guasti dall’incendio.
  33. L’ariete non fu così tosto abbandonato dopo l’uso delle artiglierie, come si dice. Usavasi come stromento di poca spesa, e contro le vecchie e deboli fortificazioni: usollo nel 1525 il marchese di Pescara per abbattere il recinto del parco di Pavia ove alloggiava il re Francesco I.o: ma ciò lo fece onde, non sentendo rumore, i Francesi non se ne addassero.
  34. Al n.o 267 del Musaeum Lipsianum (in calce alla Bibl. Petaviana et Mansartiana. La Haye 1722) è registrata tra le carte del Lipsio una lettera del Busca al signor G. B. Sacco: era questi segretario del Velasco, ed è probabile che per mezzo suo comunicasse il Busca al Lipsio le occorrenti notizie del codice.
  35. Anversa 1599, lib. III, pag. 139, 40, 41 e 42. Queste macchine sono nel codice regio ai f.i 54, 48, 57, 10, 72, 33, 33 e 11.
  36. Historia de la milicia Española. Madrid 1776, vol. I, cap. III.
  37. Mémoire sur l’artillerie des anciens et sur celle du moyen age, par G. H. Dufour. Ginevra 1840, pag. 92, fig. 16.
  38. Nella edizione del Vasari ch’egli procurò in Roma, in una nota ch’esser doveva in calce alla vita di Francesco di Giorgio, e trascorse per isbaglio in quella di Benozzo Gozzoli. Inavvertenza alla quale non sempre si è badato nelle posteriori edizioni.
  39. Quanto riguarda le astuzie di guerra, ed il modo di comporre fumi ed acque letali, Francesco lo aveva nel trattato I inserito, volgarizzandolo dal latino del Taccola o del Santini; ma sul cader del secolo avrà compreso essere quegli avvertimenti inopportuni per troppa semplicità.
  40. La Prospettiva di Vignola, coi commenti, pag. 72.
  41. Lettere Sanesi, vol. III, pag. 106-9.
  42. Queste parole non le conobbe il Poleni. Si paragoni questo prologo con quello stampato a capo al Trattato.
  43. Viaggi in Toscana. Seconda edizione, vol. IV, pag. 39.
  44. Lettere Sanesi, vol. III, pag. 95.
  45. Lettere Antellane sopra le opere e gli scritti di Francesco di Giorgio Martini. Roma 1822, lettera I.
  46. Presso Fea. Note alle lettere di Winckelmann (Opere. Roma, vol. III).
  47. Cartas familiares del viage que hizo a varias ciudades de Italia. Madrid 1791, vol. I.
  48. Dell’origine della polvere da guerra (Atti dell’accademia di Torino, vol. XXXIX).
  49. Lettera Antellana I. Il codice ha infatti scritto d’antica mano sul primo foglio Libro d’architettura con figure d’incerto autore.
  50. Lo dimostrano i soliti idiotismi di quel dialetto e della sua pronuncia, come Essare, Quociare, Vollare (Volgere), qale, qui, (quale, cui), possere, posseva, ed altri molti.
  51. Da qual codice sia ricavato questo volgarizzamento, io non saprei dire: ben doveva desso esser mutilo, poichè il traduttore non riporta nè la dedica ad Augusto, nè la perorazione in calce al libro decimo: mancanvi pure qua e là parecchi periodi, tra i quali il primo del riferito squarcio. Pochissime sono le figure, e di nessun conto.
  52. Il più antico tra i traduttori italiani di Vitruvio tiensi sinora Giovanni Norchiati fiorito circa il 1550. E poichè cade discorso dell’autor latino dirò di alcuni che scrissero circa esso comenti od altro, e non furono noti al Poleni, epperciò nemmeno ai commentatori che venner dopo. Sono, Benedetto Ala, che su Vitruvio scrisse annotazioni ed inviolle a M.or Daniello Barbaro: Galeazzo Alessi celebre architetto perugino: l’illustre ingegnere Francesco Paciotti da Urbino: Luca Contile, e fors’anche un Venceslao Boiani. Non parlo dei comenti de’ quali dallo Zanini Viola, scrittore non critico, è fatto autore Bramante. Un’italiana versione di Vitruvio e del secolo XVI, ignota al Poleni ed al Marini, è quella della biblioteca reale di Parigi (Marsand, MSS. italiani, vol. I, n.o 89).
  53. Vita di Francesco di Giorgio.
  54. I dieci libri dell’architettura di M. Vitruvio tradotti et commentati da M. Daniele Barbaro. Venezia 1556, libro VI, capo X, pag. 178.
  55. Idea della architettura universale. Venezia 1615, parte I, lib. I, cap. 6, e lib. III, cap. 21.
  56. Vanno distinti nelle prime tavole due disegni figuranti canne di schioppi legate ad aste di picche col ferro in punta. Primo uso, od almeno prima idea della baionetta.
  57. Molti popoli antichi usarono tragittar fiumi in barchette di cuoio: altri si legavano otri alle reni, e ne parlano molti autori, tra i quali Ammiano Marcellino, Cesare, Plinio, Frontino ed altri, come pure è frequente menzione nelle lapidi del COLLEGIVM o CORPVS VTRICVLARIORVM. Degli scafandri (barca-uomo) ne sono disegni presso Guido da Vigevano al 1335, Paolo Santini, Leonardo da Vinci, Francesco di Giorgio, ed una descrizione data da Pietro Monti (Exercitiorum collectanea. Milano 1509, lib. III, cap. 12). G. D. Bruno piemontese volle richiamarli in uso con una dissertazione stampata in Napoli nel 1784, e con un’altra i fratelli Gerli, stampata in Milano del 1785. Allora e dopo se ne videro esperimenti in Italia, ed ai giorni nostri in Parigi ed in Inghilterra. Questo ho voluto notare, perchè si sappia non essere questa una invenzione recente. Fu coltivata anche in Germania, e nella Cronica Sclavica parlasi di un pittore di Lubecca, che nel 1483, munito di un cuoio, nuotò su per un fiume (Presso Lindenbrogio, pag. 244).