Trattato di architettura civile e militare I/Trattato/Libro 1/Prologo

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Trattato - Libro 1 - Prologo

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Trattato Trattato - Capo 1
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RAGIONE DELL’OPERA


e


PROLOGO AL LIBRO PRIMO.





Eupompo di Macedonia, egregio matematico, nissuna arte perfettamente negli uomini essere determinava senza aritmetica e geometria. Similmente non solo da lui, ma da molti altri periti non meno necessaria era esistimata l’arte del disegno in qualunque operativa scienza, che le prenominate1. Questo medesimo giudicando Apelle e Melanzio esperti matematici, solerti pittori e di grande autorità per tutta la Grecia e massime in Sicione, costituirono che i padri di famiglia ai figliuoli loro e posteri fessero imparare l’arte antigrafica: e conosciuta dopo breve tempo l’utilità sua e la nobiltà di molte scienze delle quali presuppone la notizia, fu in modo celebrata, che, siccome ne scrive Plinio, nel primo grado delle liberali era riputata, nè permettevano che a’ servi insegnata fosse2. Onde benchè ai dì nostri sia riputata vile e inferiore [p. 126 modifica]a molte altre arti meccaniche3, nientedimeno chi considerasse quanto sia utile e necessaria in ogni opera umana, sì nell’invenzione, sì nell’esplicare li concetti, sì nell’operare e all’arte militare; e oltre a questo aritmetica, geometria, prespettiva a questa essere affini, senza errore giudicheria essa essere un mezzo necessario in ogni cognizione, e opera delle cose fattibili con diritta ragione.

Per questo non senza cagione nelle menti dei virtuosi insorge maraviglia d’onde sia processo che tanto tempo sia stata occulta e totalmente persa, e parimente le forze dei vocaboli usati per gli autori di quest’arte ignota, massimamente essendo in questo spazio stati più uomini dalla natura dottati di sottilissimi ingegni. Alcuni l’attribuiscono agl’influssi celesti per i quali al mondo gli uomini sono in un’età ad un esercizio inclinati, in altra ad altro. Ma io lasciando quest’alta considerazione che è sopra le forze mie, conosco a quest’effetto un’altra cagione essere concorsa, e questa è che in questo tempo, come è manifesto, la cura e sollecitudine e manifesta frenesia umana alla cupidità e avarizia si è data, le virtù abbandonando: e se pure alcuna scienza si è messa in uso, quella solo affine di ricchezze o guadagno è stata frequentata. E, oltre agli altri, in questo vizio i principi e potentati sono incorsi a cui si aspetta retribuire mediocremente quegl’ingegni che la vita loro occupane in questi esercizi: donde ne segue che quelli che a simili studi hanno dato opera benchè eccellenti, non hanno posseduto tanto, che la vita loro in fine non sia stata miserrima: dal quale effetto ne segue la disperazione di qualunque in simili esercizi volesse versarsi4.

Questa medesima cagione me lungo tempo già tenne pendulo e dubbio, [p. 127 modifica]massime conoscendo essere conforme alla prima, cioè all’influenza di Mercurio signore di quelli, che nelle prenominate arti sono atti a divenire eccellenti (5); e così a quello che la natura m’inclinava, non mi determinava; ma più volte mosso dalla ragione non sottoposta alle inclinazioni corporee, in qualche più vile e meccanica arte fui per esercitarmi, sperando in questa con minor peso di animo, se non di corpo, alle necessità del vitto mio possere supplire, non sapendo detestare alcun principe o potente della esigua retribuzione loro per l’influenza predetta. Ma bene di gran laude riputeria degno chi per ragione la detta inclinazione dominasse. Così stando in questa ambiguità, perchè è cosa difficilissima alle impulsioni naturali resistere, quelle che liberali seguire (sic), e desiderando nell’arte del disegno e architettura parte dell’antigrafica venire a qualche perfezione, feci fermo proposito di non perdonare a fatica alcuna, la quale io vedea necessaria per conseguire questo fine. Perocchè gli autori che in architettura hanno scritto, non ci hanno lasciato i libri con l’arte compita, ed i vocaboli loro per le cagioni assegnate sono stati fatti ignoti, e gli esempi gran tempo stati in ruina (6); onde per molte circostanze considerando le antiche opere de’ Romani e de’ Greci (7) ottimi scultori e architettori, è stato necessario ritrovare quasi come di nuovo la forza del parlare degli autori, e il segno col significato concordando, massime di Vitruvio degli altri più autentico riputato: la qual cosa per forza di grammatica greca e latina mai si è possuto perducere a fine, benchè più peritissimi ingegni nell’una e nell’altra lingua si siano affaticati, come da me e dal mio Signore [p. 128 modifica]indutti (8); e questa mia fatica tanto meno grave parea quanto io trovava le proporzioni dell’opere corrispondere alle autorità e scritture di Vitruvio, e perchè io conosco che non solo dobbiamo render grazie a quelli che nelle arti a noi hanno lasciato la verità elucidata, ma a quelli ancora che ci hanno mosso le quistioni di alcuni secreti, perchè per loro mezzo siamo alla vera notizia pervenuti, come dice Aristotile nella Metafisica sua (9), e non meno biasimare quelli che con le vigilie e fatiche d’altri acquistar fama desiderano, non volendo cadere in questo vizio d’ingratitudine, nè ancora ornarmi di vestimenti alieni, come molti che le opere d’altri hanno usurpato, e vendicatosi il nome del quale il vero compositore solamente era degno; per questo non sia alcuno che si persuada tutto quello che in questa mia operetta si contiene, voglia reputato sia di mia invenzione: perchè molte conclusioni ho di più libri e massime di Vitruvio estratte et excerte nelle regole delle proporzioni di colonne, basi, capitelli e cornici, e così alcuni esempi e regole del primo, secondo e del quarto libro sono delle fatiche degli antichi, non con poca sollecitudine da me a luce ridotte. Ma le varie forme delle cose che nei detti libri si contengono, insieme con gli altri, sono del mio debile ingegno invenzioni, ove se alcuna cosa sarà che ai lettori non piacesse, imputato sia alle mie brevi forze, e se in alcuna parte rendessero utile o dilettazione, quello solo sia ringraziato il quale e fonte d’ogni bene, e da cui tutte le grazie sono, e da me solo questa disposizione di volontà sia accettata, per la quale molte cose utili e dilettabili saranno a ciascuno manifeste che per molte età sono state occulte. Benchè a me non sia ignoto alcuni moderni in quest’arte avere comentato e scritto (10), perocchè infine negli utili e difficili passi leggermente quelli [p. 129 modifica]trovo esser passati. Onde benchè ad alcuni paia quest’arte d’architettura essere ai dì nostri ritrovata, intesi i fondamenti, regole e conclusioni d’essa, si potrà facilmente conoscere la moltitudine degli errori e mancamenti che in tutti i moderni edifizi sono.

Non dubito da molti sarò in alcune parti ripreso, perchè non è possibile ad ogni uomo satisfare per la varietà degli appetiti, ma non avendo di questo molestia, questo merito solo delle fatiche mie aspetto, che da qualche intelligente in alcuna parte mi saranno rendute grazie, se non come determinatore, almeno come motore degli altri più sublimi e virtuosi ingegni. E perchè approvata sentenza è di tutti i platonici e peripatetici filosofi, la divisione di qualunque tutto nelle parti sue essere una delle principali vie per le quali a notizia della cosa ignota si perviene (11), non deviando da questa opinione, affermo l’arte e scienza dell’architettura, della quale secondo le forze del mio debole ingegno intendo trattare sufficientemente, in sette principali trattati doversi dividere (12), dei quali questo debba essere l’ordine preso dalle materie e principali soggetti d’essi.

Il primo debba determinare di tutti i principii e norme necessarie e comuni a ciascheduno degli altri, seguendo la sentenza d’Aristotile nel principio della Fisica, dove insegna che dalle cose universali nelle singolari nelle scienze bisogna procedere (13); dopo questo, perchè il primo edifizio che all’uomo sia bisogno di fare è la casa, ovvero l’abitazione sua.

Il secondo libro debba dichiarare le parti che alle comode e convenienti abitazioni delle case e palazzi si ricerca; essendo l’uomo animale sociabile, nè potendo separato comodamente vivere.

Il terzo debba dimostrare li concedenti (sic) ornamenti dei castelli e città: e perchè l’uomo naturalmente e per rivelazione si conosce fattura della prima cagione agente e ultimo fine, e con lui avere similitudine, a gloria sua, poi alla congregazione debba edificare un tempio [p. 130 modifica]a lui dedicandolo. Delle parti del quale debba il quarto libro considerare.

E bisognando per mantenere le signorie e dominii fare fortezze per le quali i pochi possano resistere agli assai, e quelli offendere, nel quinto libro è da descrivere più forme di rocche di nuove invenzioni.

Oltre alle predette cose essendo necessario all’uomo più mercanzia e frutti transportare per mare da luogo a luogo dove sono i porti necessarii, nel sesto libro è da insegnare le parti e forme di quelli.

Ultimatamente perchè edificando, molti pesi grandissimi bisogna muovere, che senza ingegno la forza umana è insufficiente, nel settimo ed ultimo libro è a dimostrare più modi per i quali facilmente il detto effetto si consegua (14).

E per questi sette libri pare che tutta la materia di quest’arte sia perfettamente compresa.

  1. Non ad Eupompo, ma a Panfilo macedone suo scolaro attribuisce Plinio questi dettati (Hist. Nat., XXXV 36).
  2. Fu per autorità di Panfilo (non di Apelle e Melanzio che erangli scolari) che si sparse tal uso in Grecia. Quest’arte antigrafica la quale sarebbe un’appellazione affatto nuova, parmi abbia avuto sorgente da un errore di un codice di Plinio, non notato da nessuno editore, poichè tutti leggono: Huius (Pamphili) auctoritate effectum est Sicyone primum, deinde et in tota Græcia, ut pueri ingenui ante omnia graphicen, hoc est, picturam in buxo docerentur etc. Dov’è chiaro che quel codice doveva leggere per disteso antegraphicen. Gli errori stessi circa Eupompo e l’arte antigrafica sono presso Raffaele Volterrano contemporaneo (Comment. Urb., lib. XVI). Della scienza antigrafica parla anche Cesare Ciserano o Cesariano ne’ Commenti al cap. I, lib. I di Vitruvio (Como 1521 f.°).
  3. Giovanni Sanzio padre del gran Raffaello, il quale viveva col nostro autore in corte d’Urbino, nel suo poema inedito della vita di Federigo II, parlando della prospettiva e di Eupompo, dice:

    «Il qual voleva che di eccellenza fuora
    Ogni arte fosse al mondo senza lei
    E il secol nostro tanto la divora».

    (Giorn. arcadico, vol. X, pag. 107). Pare adunque che anche questo poeta pittore abbia avuto per mano un simil codice di Plinio, e che andasse d’accordo col nostro Cecco nel lagnarsi della temporanea infelice condizione dell’arte.

  4. Errore de’ tempi. I letterati essi pure bandivano essere cadute le romane lettere, dacchè cessato avevano gl’imperatori d’impinguare chi le coltivava.
  5. Chiamavano perciò queste arti belle, arti mercuriali, e ne trovavano ne’ bambini la predisposizione per astrologia e chiromanzia. Vedi il Vasari nella Vita di Pierino da Vinci.
  6. Questi autori d’architettura, i vocaboli usati dai quali eransi resi inintelligibili, sono Vitruvio col suo compendiatore de’ tempi bassi, Palladio, Rutilio, Plinio, e quindi i lessicografi Isidoro e Festo. Poco giovano gli Auctores finium regundorum. Non conto quanto ne dicono Filone il militare e Polluce, come neppure gli antichi meccanici, greci tutti, e sconosciuti al nostro Cecco.
  7. Nel codice Sanase manca la parola architettori che è pure indispensabile. Le opere de’ Romani sono i monumenti di Roma e campagna, e quelle de’ Greci, sono, cred’io, quelli delle vicinanze di Napoli, giacchè l’autore non ebbe campo di veder la Grecia. Forse però egli ebbe comodità di qualche codice di Ciriaco d’Ancona, le di cui raccolte assai giovarono agli architetti quattrocentisti. (Marini, Atti de’ fratelli Arvali, vol. II, pag. 721).
  8. Cioè da Federigo II duca d’Urbino, e questa sua lode è tacciuta sì dai numerosi suoi biografi, che dal Poleni nelle sue elaborate esercitazioni vitruviane. Più capace senza paragone di quant’altri fossero in corte di Federigo ne era L. B. Alberti, che esso pure vi fu, ed è probabile lo richiedesse il Duca di tal fatica: ma non ne sono prove.
  9. Libro III. È noto quanto siano tra se varianti gl’infiniti volgarizzamenti latini fatti ne’ tempi bassi dai testi arabi o greci di Aristotile. Io non so qual traduzione avesse a mano l’autor nostro, so bensì che meglio d’una volta, precetti e pareri ch’ei va citando di Aristotile, i0 nelle edizioni non li ho trovati: epperciò mi tolsi dall’appuntarli.
  10. Vedasi la nota 1.a al prologo del lib. VII.
  11. Aristotelis, Politia, I, 1.
  12. Sta scritto in margine: Divisione del libro in sette trattati. Adattandomi all’uso dei tempi nostri, terrò in vece che il trattato sia diviso in sette libri.
  13. Physicae auscultationis, II, 1.
  14. Si conferisca questa divisione del trattato con quella che è nel codice sanese (Catalogo analitico de’ codici al n.o VI). In questo settimo libro, quantunque prometta l’autore di trattare della meccanica, propriamente detta, non parla però quasi d’altro, che dell’arte di fare i mulini: perciò fu in questa edizione stimato bene di tralasciarlo.