Trionfi (Bortoli)/Trionfo dell'amore/Capitolo II

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DEL


TRIONFO D'AMORE


CAPITOLO SECONDO.


S
Tanco già di mirar, non sazio ancora,

     Or quinci or quindi mi volgea guardando
     Cose ch’a ricordarle è breve l’ora.
Giva ’l cor di pensier’ in pensier, quando
     5Tutto a sè ’l trasser duo, ch’a mano a mano
     Passavan dolcemente ragionando.
Mossemi ’l lor leggiadro abito strano
     E ’l parlar peregrin, che m’era oscuro;
     Ma l’interprete mio mel fece piano.
10Poi ch’io seppi chi eran, più sicuro
     M’accostaï lor, che l’un spirito amico
     Al nostro nome, l’altro era empio, e duro.
Fecimi al primo: O Massinissa antico,
     Per lo tuo Scipione, e per costei,
15Cominciai, non t’incresca quel ch’io dico. Mirommi, e disse: Volentier saprei
     Chi tu se’ innanzi, da poi che sì bene
     Hai spiato amboduo gli affetti miei.
L’esser mio, gli risposi, non sostene
     20Tanto conoscitor, che così lunge
     Di poca fiamma gran luce non vene.
Ma tua fama real per tutto aggiunge;
     E tal che mai non ti vedrà, nè vide,
     Col bel nodo d’amor teco congiunge.
25Or dimmi, se colu’ in pace vi guide;
     (E mostrai ’l duca lor) che coppia è questa,
     Che mi par delle cose rare, e fide?
La lingua tua al mio nome sì presta,
     Prova, diss’ei, che ’l sappi per te stesso;
     30Ma dirò per sfogar l’anima mesta.

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Avend’io in quel sommo uom tutto ’l cor messo,
     Tanto ch’a Lelio ne dò vanto a pena,
     Ovunque fur sue insegne, e fui lor presso.
A lui Fortuna fu sempre serena,
     35Ma non già quanto degno era il valore,
     Del qual più d’altro mai l’alma ebbe piena.
Poi che l’arme romane a grande onore
     Per l’estremo occidente furo sparse,
     Ivi n’aggiunse e ne congiunse Amore;
40Né mai più dolce fiamma in duo cori arse,
     Né farà, credo. Omè, ma poche notti
     Fur a tanti desir sì brevi e scarse,
Indarno a marital giogo condotti,
     Ché del nostro furor scuse non false,
     45E i legittimi nodi furon rotti.
Quel che sol più che tutto ’l mondo valse
     Ne dipartì con sue sante parole,
     Ché di nostri sospir nulla gli calse;
E benché fosse onde mi dolse e dole,
     50Pur vidi in lui chiara virtute accesa,
     Ché ’n tutto è orbo chi non vede il sole.
Gran giustizia agli amanti è grave offesa:
     Però di tanto amico un tal consiglio
     Fu quasi un scoglio a l’amorosa impresa.
55Padre m’era in onore, in amor figlio,
     Fratel negli anni; onde obedir convenne,
     Ma col cor tristo e con turbato ciglio.
Così questa mia cara a morte venne,
     Che vedendosi giunta in forza altrui,
     60Morir in prima che servir sostenne:
Et io del dolor mio ministro fui,
     Ché ’l pregator e i preghi eran sì ardenti
     Ch’offesi me per non offender lui,
E manda’ le ’l velen con sì dolenti
     65Pensier, com’io so bene, et ella il crede,
     E tu, se tanto o quanto d’amor senti.

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Pianto fu ’l mio di tanta sposa erede:
     In lei ogni mio ben’, ogni speranza
     Perder elessi, per non perder fede.
70Ma cerca omai, se trovi in questa danza
     Mirabil cosa; perchè ’l tempo è leve;
     E più dell’opra che del giorno avanza.
Pien di pietate er’ io pensando il breve
     Spazio al gran foco di duo tali amanti:
     75Pareami al Sol’ aver’ un cor di neve;
Quando udì dir su nel passar avanti,
     Costui certo per sè già non mi spiace;
     Ma ferma son d’odiarli tutti quanti.
Pon, dissi, ’l cor, o Sofonisba, in pace;
     80Che Cartagine tua per le man nostre
     Tre volte cadde, ed alla terza giace.
Ed ella: Altro vogl’io che tu mi mostre:
     S’Africa pianse, Italia non ne rise:
     Domandatene pur l’istorie vostre.
85Intanto il nostro, e suo amico si mise
     Sorridendo con lei nella gran calca;
     E fur da lor le mie luci divise.
Com’ uom che per terren dubbio cavalca,
     Che va restando ad ogni passo, e guarda;
     90E ’l pensier dell’andar molto diffalca;
Così l’andata mia dubbiosa e tarda
     Facean gli amanti: di che ancor m’aggrada
     Saper quanto ciascun’, e ’n qual foco arda.
I’ vidi in da man manca un fuor di strada;
     95A guisa di chi brami e trovi cosa
     Onde poi vergognoso, e lieto vada;
Donar altrui la sua diletta sposa:
     O sommo amor’, o nova cortesia!
     Tal, ch’ella stessa lieta, e vergognosa
100Parea del cambio; e givansi per via
     Parlando insieme de’ lor dolci affetti,
     E sospirando il regno di Soria.

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Trassimi a que’ tre spirti che ristretti
     Eran già per seguire altro cammino,
     105E dissi al primo: - I’ prego che t’aspetti. -
Et egli al suon del ragionar latino,
     Turbato in vista, si rattenne un poco;
     E poi, del mio voler quasi indivino,
Disse: - Io Seleuco son, questi è Antïoco
     110Mio figlio, che gran guerra ebbe con voi;
     Ma ragion contra forza non ha loco.
Questa, mia in prima, sua donna fu poi,
     Ché per scamparlo d’amorosa morte
     Gliel diedi, e ’l don fu lecito tra noi.
115Stratonica è ’l suo nome, e nostra sorte,
     Come vedi, indivisa; e per tal segno
     Si vede il nostro amor tenace e forte,
Ch’è contenta costei lasciarme il regno,
     Io il mio diletto, e questi la sua vita,
     120Per far, vie più che sé, l’un l’altro degno.
E se non fosse la discreta aita
     Del fisico gentil, che ben s’accorse,
     L’età sua in sul fiorir era finita.
Tacendo, amando, quasi a morte corse,
     125E l’amar forza, e ’l tacer fu virtute;
     La mia, vera pietà, ch’a lui soccorse. -
Così disse; e come uom che voler mute,
     Col fin de le parole i passi volse,
     Ch’a pena gli potei render salute.
130Poi che dagli occhi miei l’ombra si tolse,
     Rimasi grave e sospirando andai,
     Ché ’l mio cor dal suo dir non si disciolse
Infin che mi fu detto: - Troppo stai
     In un penser a le cose diverse;
     135E ’l tempo ch’è brevissimo ben sai. -
Non menò tanti armati in Grecia Serse
     Quant’ivi erano amanti ignudi e presi,
     Tal che l’occhio la vista non sofferse,

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Vari di lingue e vari di paesi,
     140Tanto che di mille un non seppi ’l nome,
     E fanno istoria que’ pochi ch’intesi.
Perseo era l’uno, e volsi saper come
     Andromeda gli piacque in Etiopia,
     Vergine bruna i begli occhi e le chiome;
145Ivi ’l vano amador che la sua propia
     Bellezza desiando fu distrutto,
     Povero sol per troppo averne copia,
Che divenne un bel fior senz’alcun frutto;
     E quella che, lui amando, ignuda voce
     150Fecesi e ’l corpo un duro sasso asciutto;
Ivi quell’altro al suo mal sì veloce,
     Ifi, ch’amando altrui in odio s’ebbe,
     Con più altri dannati a simil croce,
Gente cui per amar viver increbbe,
     155Ove raffigurai alcun moderni
     Ch’a nominar perduta opra sarebbe.
Que’ duo che fece Amor compagni eterni,
     Alcïone e Ceìce, in riva al mare
     Far i lor nidi a’ più soavi verni;
160Lungo costor pensoso Esaco stare
     Cercando Esperia, or sopra un sasso assiso,
     Et or sotto acqua, et or alto volare;
E vidi la crudel figlia di Niso
     Fuggir volando, e correr Atalanta,
     165Da tre palle d’or vinta e d’un bel viso;
E seco Ipomenès che fra cotanta
     Turba d’amanti miseri cursori
     Sol di vittoria si rallegra e vanta.
Fra questi fabulosi e vani amori
     170Vidi Aci e Galatea, che ’n grembo gli era,
     E Polifemo farne gran romori;
Glauco ondeggiar per entro quella schiera,
     Senza colei cui sola par che pregi,
     Nomando un’altr’amante acerba e fera;

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175Canente e Pico, un già de’ nostri regi,
     Or vago augello, e chi di stato il mosse
     Lasciògli ’l nome e ’l real manto e i fregi.
Vidi ’l pianto d’Egeria; invece d’osse
     Scilla indurarsi in petra aspra et alpestra,
     180Che del mar ciciliano infamia fosse;
E quella che la penna da man destra,
     Come dogliosa e desperata scriva,
     E ’l ferro ignudo tien da la sinestra;
Pigmalïon con la sua donna viva;
     185E mille che Castalia et Aganippe
     Udir cantar per la sua verde riva;
E d’un pomo beffata al fin Cidippe.