Trionfi (Bortoli)/Trionfo della fama/Capitolo III

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Capitolo III

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Trionfo della fama - Capitolo II Trionfo del tempo
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DEL TRIONFO


DELLA FAMA


CAPITOLO TERZO.


Io non sapea da tal vista levarme,
     Quand’io udi’: - Pon mente a l’altro lato
     Ché s’acquista ben pregio altro che d’arme. -
Volsimi da man manca, e vidi Plato
     Che ’n quella schiera andò più presso al segno
     Al qual aggiunge cui dal Cielo è dato,
Aristotele poi, pien d’alto ingegno,
     Pitagora che primo umilemente
     Filosofia chiamò per nome degno,
Socrate e Senofonte, e quello ardente
     Vecchio a cui fur le Muse tanto amiche
     Ch’Argo e Micena e Troia se ne sente;
Questo cantò gli errori e le fatiche
     Del figliuol di Laerte e d’una diva,
     Primo pintor delle memorie antiche.
A man a man con lui cantando giva
     il Mantovan che di par seco giostra,
     Ed un al cui passar l’erba fioriva:
Questo è quel Marco Tullio in cui si mostra
     Chiaro quanti eloquenzia ha frutti e fiori;
     Questi son gli occhi de la lingua nostra.

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Dopo venia Demostene che fori
     È di speranza omai del primo loco,
     Non ben contento de’ secondi onori;
Un gran folgór parea tutto di foco:
     Eschine il dica che ’l poteo sentire
     Quando presso al suo tuon parve già fioco.
Io non posso per ordine ridire
     Questo o quel dove mi vedessi o quando,
     E qual andare inanzi e qual seguire;
Ché, cose innumerabili pensando
     E mirando la turba tale e tanta,
     1’occhio e ’l pensier m’andava disviando.
Vidi Solon, di cui fu l’util pianta
     Che, se mal colta è, mal frutto produce,
     Cogli altri sei di che Grecia si vanta.
Qui vid’io nostra gente aver per duce
     Varrone, il terzo gran lume romano,
     Che quando il miri più tanto più luce;
Crispo Sallustio, e seco a mano a mano
     Un che già l’ebbe a schifo e ’l vide torto,
     Cioè ’l gran Tito Livio padovano.
Mentr’io ’l mirava, subito ebbi scorto
     Quel Plinio veronese suo vicino,
     A scriver molto, a morir poco accorto.
Poi vidi il gran platonico Plotino,
     Che, credendosi in ozio viver salvo,
     Prevento fu dal suo fero destino,
Il qual seco venia dal materno alvo,
     E però providenzia ivi non valse;
     Poi Crasso, Antonio, Ortensio, Galba, e Calvo
Con Pollïon, che ’n tal superbia salse,
     Che contra quel d’Arpino armar le lingue
     Cercando ambeduo fame indegne e false.
Tucidide vid’io, che ben distingue
     I tempi e ’luoghi e l’opere leggiadre
     E di che sangue qual campo s’impingue;

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Erodoto di greca istoria padre
     Vidi, e dipinto il nobil geometra
     Di triangoli e tondi e forme quadre;
E quel che ’nver di noi divenne petra,
     Porfirio, che d’acuti silogismi
     Empié la dïalettica faretra
Facendo contra ’l vero arme i sofismi;
     E quel di Coo che fe’ vie miglior l’opra,
     Se bene intesi fusser gli aforismi.
Apollo et Esculapio gli son sopra,
     Chiusi ch’a pena il viso gli comprende,
     Sì par che i nomi il tempo limi e copra.
Un di Pergamo il segue, e in lui pende
     L’arte guasta fra noi, allor non vile,
     Ma breve e ’scura; e’ la dichiara e stende.
Vidi Anasarco intrepido e virile,
     E Senocrate più saldo ch’un sasso
     Che nulla forza volse ad atto vile;
Vidi Archimede star col viso basso
     E Democrito andar tutto pensoso
     Per suo voler di lume e d’oro casso;
Vidi Ippia, il vecchiarel che già fu oso
     Dir: - Io so tutto, - e poi di nulla certo
     Ma d’ogni cosa Archesilao dubbioso;
Vidi in suoi detti Eraclito coverto,
     E Dïogene cinico in suo’ fatti,
     Assai più che non vuol vergogna, aperto;
E quel che lieto i suoi campi disfatti
     Vide e deserti, d’altre merci carco,
     Credendo averne invidïosi patti.
Ivi era il curïoso Dicearco,
     Ed in suo’ magisteri assai dispari
     Quintilïano e Seneca e Plutarco.
Vidivi alquanti ch’han turbati i mari
     Con venti avversi e con ingegni vaghi,
     Non per saver ma per contender chiari,

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Urtar come leoni, e come draghi
     Colle code avvinghiarsi. Or che è questo,
     Ch’ognun del suo saver par che s’appaghi?
Carneade vidi in suo’ studi sì desto
     Che, parlando egli, il vero e ’l falso a pena
     Si discernea, così nel dir fu presto;
La lunga vita e la sua larga vena
     D’ingegno pose in accordar le parti
     Che ’l furor litterato a guerra mena;
Né ’l poteo far, ché come crebber l’arti
     Crebbe l’invidia, e col savere inseme
     Ne’ cori enfiati i suo’ veneni ha sparti.
Contra ’l buon Siro, che l’umana speme
     Alzò ponendo l’anima immortale,
     S’armò Epicuro, onde sua fama geme,
Ardito a dir ch’ella non fusse tale;
     Così al lume fu fumoso e lippo
     Co la brigata al suo maestro eguale:
Di Metrodoro parlo e d’Aristippo.
     Poi con gran subbio e con mirabil fuso
     Vidi tela sottil ordir Crisippo.
Degli Stoici ’l padre, alzato in suso
     Per far chiaro suo dir, vidi, Zenone,
     Mostrar la palma aperta e ’l pugno chiuso;
E per fermar sua bella intenzïone,
     [la sua tela gentil tesser Cleante,]
     Che tira al ver la vaga opinïone.
[Qui lascio, e più di lor non dico avante.]