Trionfo e Danza della Morte, o Danza Macabra a Clusone. Dogma della Morte a Pisogne, nella provincia di Bergamo, con osservazioni storiche ed artistiche/Dialogo del Secolo XIV tra l'anima e il corpo d'un morto

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Dialogo del Secolo XIV tra l’anima e il corpo d’un morto

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Illustrazione di un disegno d’Alberto Durero Codice inedito della Danza dei Morti di Basilea Città


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DIALOGO


del secolo xiv


TRA L’ANIMA E IL CORPO D’UN MORTO


Ne’ suoi studii sugli antichi Trovatori Provenzali, Fortoul fa cenno d’una traduzione Castigliana d’un dramma attribuito da Nostredamo ad Arnaud Daniel, ed intitolato: Le Vergel de Pensamiento, nel quale trovasi altresì una disputa fra l’anima ed un corpo, dramma ch’era a quel tempo molto in voga in Francia, dove fu rappresentato nel Cimitero degli Innocenti dopo il grandioso dramma della Danza Macabra. Sarebbe per avventura il dialogo in discorso?

Il dialogo che presentasi per la prima volta alla pubblica cognizione, come leggesi nel manoscritto presso di me esistente, fu da anni trovato sur una membrana dell’archivio del Regio Economato, scritto da mano francese nel secolo XIV, e da quel che sembra, così tradotto ed epilogato quale viene pubblicato.

In esso vengon poste nettamente a riscontro le due diverse forze, quali per la genesi costituiscono l’uomo; cioè il corpo-terra colle sue inclinazioni fisiche, e l’anima-spirito colle sue inclinazioni celesti, [p. 30 modifica]o sia di intelligenza e di moralità. Mi sembrò che simile dialogo quale parodia d’una Danza dei Morti, potesse aver posto in questo libro, eziandio per la ragione, che mentre nelle Danze Macabre o dei Morti, (altra delle specie di linguaggio figurato) la moralità della rappresentazione è sempre mistica e sotto interpretazione, qui invece è aperta e parlata, in guisa tale e con tale ingegno, che la mente si dismette dalla lettura tutta confortata da’ pensieri di speranza e di fede.

Ritengo quindi di far cosa gradita agli intelligenti, il togliere dal secreto e dalla oblivione uno scritto, che per diversi rapporti merita la luce.

Esordisce l’ignoto autore da un distico in ritmo latino, di quella specie di versi a rima che chiamansi Leonini. Deplorasi in essi la cecità del mondo che milita sotto lo stendardo della vanagloria, senza pensare alla vanità di tutte le cose di quaggiù, labili per loro natura e transitorie.

Fidati piuttosto, dice il poeta, delle lettere delineate sul ghiaccio che appanna i vetri, che non della vana fallacia del mondo fragile.

Plus crede litteris scriptis in glacie
Quam mundi fragilis vanæ fallaciæ.

Finito questo proemio salta di piè pari il poeta dal latino al francese, e narra in quattro versi che una volta ebbe il gran talento di dormire, e vide dormendo un morto puzzolentissimo, pieno di vermi e di schifezza, giacente nella sua bara piena di putridume.

Il teatro, come si vede, non è de’ più ameni.

Ripiglia il poeta la lingua latina, e narra come presso alla bara stava l’anima uscita da quel corpo medesimo, desolata, piangente e gittando urli disperati, lo chiamava e così gli diceva: O morto sucido e puzzolente, svegliali, levati, parlami: non fu un tempo, uomo [p. 31 modifica]più nobile o più potente di te; ora a quel che vedo, sei mangiato dai vermi.

Quest’appello, in cui l’anima non faceva prova di cortesia, fu fatto in francese; ma nel dialogo che segue, l’anima come più letterata parla sempre in latino: il corpo, umile argilla, risponde in volgare.

Il corpo, come se fosse vivo, alza il capo e domanda piangendo chi lo svegli: l’anima ripiglia, rivolgendogli una mezza dozzina d’epiteti poco parlamentarii, (i men tristi dei quali sono fetore, lue, massa di polvere, ecc.,) e gli chiede che ne sia della sua vita così splendida.

Il corpo, così morto com’è, si risente a tanti oltraggi e rammenta all’anima che quel parlare è troppo ardito.

Tu pues bien regarder que plus ne sus en vie
Et ne puis plus mener feste ne druerie

Tu puoi ben vedere che più non sono in vita, e che più non posso menar festa nè tripudio.

Ma l’anima è pettegola e ciarliera, e intende pure sfogarsi una buona volta, maltrattando con parole quel corpo che la condusse a mal fine; onde continua a dire: O corpo fetido, chi ti prostrò a questo modo? o corpo avido, chi ti disseccò, qual orrendo misfatto a tale ti ridusse, perchè la morte così presto ti deturpò?

Poteasi indovinar la risposta: Bellezza, bontade, nobiltà e forza la morte tutto mi tolse; somiglio una scorza svelta a forza da un albero e gittata a terra.

L’anima. A te jeri era soggetto il mondo, tutta la provincia ti temeva; dov’è ora il tuo seguito? Ecco la tua gloria dissipata.

Il corpo. Troppo onore ebbi veramente al secolo, e dovizia d’oro e d’argento, di mangiari e di famigli; ora sono in grande orrore in questo putrido ridotto, dove i vermi mi attanagliano come serpi.

L’anima. Non sei più fra le torri di pietre squadrate, nè in palazzo capace, ma in picciol feretro, e vicino ad esser collocato in piccola tomba. [p. 32 modifica]Il corpo. Lasso! so bene che non son più nelle mie grandi corti quadrate, ma sibbene fra quattro tavole colle mani bendate, non parate di rose o di timo, ma fetide del mio fetore.

L’anima. I castelli, i palazzi, le case che valgono? appena il tuo tumulo corre sette piedi; per te mi toccano le sedi infernali; ora mai non puoi più offendere nè Dio, nè il prossimo.

Qui il corpo da buon diplomatico discute ed ammette la prima parte; della seconda non parla. Segue l’anima a domandar dove sono i poderi acquistati, le torri e i palazzi costrutti, le collane e gli anelli, i tesori ammassati, i letti di grande pompa, le robe di vario colore appese alle pareti, i vini e le vettovaglie d’ottimo sapore, il vasellame d’argento: Ciò che per diverse vie hai congregato, per violenza, per frode, per usura, per severità, con lungo affanno, in lungo tempo, tutto rapì la forza d’un solo momento.

Quæ diu quæ vario congregasti more
Vi fraude fœenore dolo vel rigore
Per longa tempora cura magno dolore
Hæc a te rapuit vix (vis) unius horæ.

Il corpo ammette facilmente che tutto se n’è ito.

J’ai assez amassez avoir eri maintes guises
Tout mort my hors tolu honors et marchandises
Et mort ci mis tout nuz vestu d’une chamise
Bien ai mon temps perdu quand telle poigne y ay mise

Ho ammassato molti averi in molti modi; tutto morte adesso mi tolse, onori e beni; e morte mi ha qui gittato tutto nudo, coperto d’una sola camicia; ben perdetti il mio tempo quando tanta fatica vi consecrai.

Segue l’anima a rinfacciargli i beni perduti, e l’uccellare, e il cacciare, e il corteo d’amici. Rotto è, gli dice, il vincolo d’ogni amore e già le lagrime della vedova sono asciugate.

Avea toccato l’anima un tasto de’ più dilicati. Ma il corpo divenuto filosofo risponde:

Mai femme my enfans my parant my amis
Por quoy seront dolans por quoy vanront ilz ci?

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Ilz ont avoir argent et sont riches et compli
Ilz ne ler chal neant de moy gue ci porri.

Mia moglie, i miei figli, i miei parenti, i miei amici, perchè sarebbero dolenti, perchè verrebbero qui? Posseggono averi ed argenti, sono ricchi e compiti; a loro non cale niente di me che qui imputridisco.

Ma sviluppando in altri sedici versi lo stesso pensiero, l’anima dice che gli eredi non darebbero due giornate di prato per cavarlo di pena; il corpo afferma che non darebbero due denari. Ed ecco come i morti fanno l’orazione funebre ai vivi. E ben potea farla questo morto, poichè impariamo che vivendo esercitava la professione d’avvocato.

L’anima. Una volta fosti ottimo avvocato, sapevi le leggi, i decreti, il diritto; ma non ti sapesti difendere nè dalla morte, nè dalla corruzione, nè dai vermi.

Il corpo.

Bien sai gue drois et lois soloie bien entendre
Par devant dux et rois une cause entreprendre
Or m’a voli la mors de si gref plait enprandre
Que ci griefement ma mors gue ne me puis defendre.

Ben so che diritto e leggi io solea ben capire e innanzi a duchi e regi intraprender cause; ora la morte m’ha impigliato in una lite così dura, così gravemente m’ha morso, che non mi posso difendere.

L’anima. Perchè non appelli al re di Francia, perchè non chiedi la revisione al duca di Borgogna, principi di gran potenza, che riparino a tuo favore la sentenza della morte?

Questo amaro sarcasmo non meritava risposta, e la risposta che fece quel dabben’uomo del corpo non merita d’essere ricordata.

Ora veniamo al merito.

L’anima. Dunque perchè vivendo fosti così malvagio, che non temesti Dio nè la morte, perciò hai meritato la condanna e fosti più peccatore di me.

Il corpo. Non merito tanto disprezzo, malvagia anima, come tu; imperocchè Dio ti aveva invero dato e amore e virtù; ma tu non mi [p. 34 modifica]hai fatta riprensione che valesse un quattrino; se male ci è avvenuto, io non ne ho colpa, ma tu.

L’anima s’adira e dice che venga a sentire anch’esso le pene infernali; il corpo ricusa, e pretesta si disfarà prima tutto, poi risusciterà nel gran die, ed allora seguirà il destino dell’anima.

L’anima esclama: che s’egli avesse creduto ai dottori ed ai predicatori che mostravano la via della salute, ora non sarebbe dannato.

L’avvocato, epigrammatico fin nel sepolcro, risponde:

Ces clers tropt saiges sunt qui ce belz sermons crient
Mais pour deaux qui les font quatre les oblient
Je ai fai ceu qui font et nunt pais ceu qui dient.

Sono troppo savii questi chierici che declamano questi bei sermoni; ma per due che li fanno, quattro li dimenticano. Ho fatto ciò che fanno e non ciò che dicono.

Duolsi l’anima allora amaramente d’essere stata creata ad immagine di Dio, rigenerata col battesimo, e d’essersi nondimeno perduta; gareggiano l’anima e il corpo ad imputarsi l’un l’altro la causa principale della comune dannazione. Non mi lasciavi far il bene, dice l’anima. — Anzi tu mi abbandonasti il freno, dice il corpo, e tu facesti il peccato.

Li corps riens de part soi ne puet sans larme ouvrer
Se l’arme n’est en soi se puet ils remuer?

Il corpo da sè nulla può operar senza l’anima. Se l’anima non è con lui può egli muoversi?

Replica l’anima che quando lo voleva domare, le illecebre del mondo lo tiravano a sè in modo che non si poteva reggere. Concede il corpo che i falsi diletti lo hanno accecato per modo, che i consigli dell’anima non erano uditi; e poi mai non si sarebbe pensato di morire così presto.

L’anima. Felice condizione de’ bruti, cadono col corpo i loro spiriti, nè dopo morte li aspetta alcun tormento. Così pur fosse il fine dei peccatori!

Il corpo concorre in questo voto, e domanda se nell’inferno non rimanga alcuna speranza di perdono; se per doni, oro, argento, [p. 35 modifica]preghiere, intercessione di re, duchi, principi, conti e uomini d’armi, ricchi e poveri non si possa ottener mercede.

Questa domanda alquanto scempia, che prova come il corpo si fosse dimenticato del catechismo, riceve la risposta che si può immaginare, e conchiude l’anima con questi due versi che san di pagano.

Si lacrymæ vel opes animas revocare valerent
Cerberus et Piluto soli sua regna tenerent.

Se il pianto o l’oro avesser virtù di richiamare le anime, il reame di Pluto sarebbe vuoto.

Il corpo sconfortato dà commiato all’anima.

Arme vai tout bientost droit en ton repaire
Laise roure les vers mon corps en cest suaire

Anima, vattene subito, e per via dritta alla tua tana, e lascia che i vermi rodano il mio corpo in questo lenzuolo.

Racconta il poeta che allora due demonii più neri che pece, brutti sì che niun pittore potrebbe raffigurarli, con occhi di rame affocato, gittando fuoco di zolfo puzzolente dalla bocca, spandendo veleno dalle corna, ed avendo unghie simili ai denti del cignale, si gittarono addosso all’anima, la tuffarono in un gran vaso pieno di carboni accesi, per ogni guisa la straziarono senza carità, e la trascinarono con tormenti e con beffe all’inferno.

Allora io mi svegliai, dice il poeta, col cuore compreso dal dolore, e pregai Dio per sua grande misericordia che mi guardasse da tal giudizio e da tal luogo; allora ho condannato il mondo e le sue frivolezze, nulla mi parvero i tesori, rinunziai alle cose passaggiere e mi raccomandai tutto alle mani di Cristo. Amen.




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la prima colpa