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Un po' per celia e un po' per non morir.../Londra

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Londra

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Dal baraccone alla Comédie Française Napoli cara, Napoli bella
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LONDRA

[p. 97 modifica]Immagine dal testo cartaceo

Naturalmente, per mezzo della stampa, l’eco del successo di Parigi arrivò a Londra. Mister Loovel, direttore di un’importante Agenzia Teatrale a Parigi, mi annunziò che l’impresario, Josè Levy del Little Theatre sarebbe venuto a Parigi per scritturarmi. Infatti M. Levy arrivò inatteso il giorno dopo l’ultima mia rappresentazione alla Potinière senza molto rammaricarsi di non potermi vedere lavorare; risoluto, audace, mi disse: — Quanto volete per dare una sola rappresentazione di prova perchè [p. 98 modifica]io possa giudicare se il vostro spettacolo è adatto per Londra? — Questo non me l’aspettavo ed ebbi il buon senso di rispondere: — Mi lasci pensare un momento — , ed infatti mi appartai con Barbetta, segretario della compagnia e stabilimmo seimila lire. Ma al momento di dare la risposta un barlume mi fece cambiare idea e pensai: se per caso il genere del mio spettacolo non lo trovasse di sua soddisfazione potrebbe dirmi: — Lei è un grande, è un meraviglioso artista, ma questo genere non va per Londra. — Pensai poi allo spettacolo da eseguire a teatro vuoto così, a freddo, dare questa specie di esame — gli esami sono sempre un po’ pericolosi — ed allora se lo spettacolo non andava avrei guadagnato le seimila lire, ma andavo incontro ad una protesta. I miei attori, per quanto buoni ed affezionati, avrebbero finito per dire, specialmente i non riconfermati — abbiamo dato uno spettacolo davanti a un impresario inglese ma non è piaciuto — senza contare che mi sarei guastato il successo di Parigi, ed allora affrontai l’impresario inglese, guardandolo bene in faccia e gli scaraventai sul viso la risposta: — Trecentomila lire. —

Figuratevi come rimase! Fece un passo indietro, spaventato; io spiegai: — Se io dò la rappresentazione davanti a lei e poi, o non piac[p. 99 modifica]cio io, o il mio genere di spettacolo, sono mezzo rovinato perchè, si direbbe, specialmente in Italia: ha fatto fiasco con un impresario di Londra; se invece lei mi dà trecentomila lire, facciamo anche duecento, guardi come sono generoso, anche centocinquanta, io con il suo denaro vengo a Londra ugualmente, prendo un teatro in affitto, pago i viaggi, pago la compagnia, e magari finisco il suo denaro; ma faccio tutto a spese sue, ci guadagno forse anche qualche migliaio di lire ed elimino la probabilità di una protesta. —

C’est fort, mais c’est juste! — esclamò Mister Levy da buon sornione.

Questo dialogo avveniva nella Avenue dell’Opéra davanti all’albergo, dove io alloggiavo. Erano le otto e mezza ed avevo un appuntamento in casa del pittore Brunelleschi che tanto affettuosamente offriva una festicciola in mio onore. Allora dissi: — Mister Levy, senta, sono dolente di doverla lasciare perchè sono atteso da cari amici: ma ad ogni modo lei può ripensare alla faccenda e non si preoccupi: se vuole può venire anche questa notte, perchè certamente faremo un po’ tardi dal mio amico Brunelleschi, Rue Boissonade, 23. —

In casa Brunelleschi, dove si era organiz[p. 100 modifica]zata la festicciola per me, intervennero molti critici francesi: il simpaticissimo Maurice Rostand che recitò meravigliosamente dei versi di Cirano di Bergerac, capolavoro del genio paterno; tra gli italiani c’erano Duliani, G. A. Traversi, Bonnard, Capozzi, Sepo, Traglia e tanti altri cari amici: verso le undici arrivò, anche qui inatteso, Mister Levy accompagnato dall’agente Loovel.

L’impresario londrino, meraviglioso fintotonto, si scusò dicendomi che era venuto perchè gli sembrava di aver frainteso che in questa festa io mi sarei esibito in qualche brano del mio repertorio.

Comunque la sua venuta venne a proposito, perchè non ebbi più bisogno di parlare. Traglia, Duliani e Rostand illustrarono così luminosamente e con chiarezza di dettagli e di elogi l’opera mia, che Mister Levy convinto mi disse che la mattina dopo sarebbe venuto in albergo a firmare il contratto.

La mattina seguente ci trovammo subito d’accordo, venne stipulato il contratto: il cinquanta per cento ciascuno con i viaggi bordereau; tutte le altre spese di palcoscenico e di réclame a conto del signor Levy: accettai senz’altro. A mezzogiorno andammo a colazione [p. 101 modifica]insieme al Restaurant des Capucines, anzi mi convinse a partire in anticipo senza la compagnia, così, in un paio di giorni, lui mi avrebbe messo a contatto con la stampa inglese e la colonia italiana residente a Londra.

Immagine dal testo cartaceo Il tratto, l’affabilità, la sicurezza dell’affare e l’enorme ottimismo del Levy mi tolsero ogni preoccupazione; sembravamo due vecchi amici. Non appena a Londra la prima sera mi volle ospite a casa sua, dove la buona signora Levy [p. 102 modifica]irlandese mi accolse festosamente. Parlavamo tutti francese, ma la signora Levy era sicura di parlare anche l’italiano perchè aveva imparato a dire: — Buon giorno signorino, come state? — Quella sera, me l’avrà ripetuto per lo meno trenta volte. Una casa inglese di un grande buon gusto, piena di libri e quadri, e fra i quadri un Favretto, un Fontanesi, e molti quadri antichi ed una battaglia scuola Salvator Rosa; Levy mi disse che erano ricordi del suo soggiorno a Roma, Venezia, Milano e Firenze.

Insomma per mia fortuna mister Josè Levy era un autentico entusiasta dell’Italia e grande fu la mia gioia quando nel suo studio, al posto d’onore, vidi la fotografia del nostro Duce.


L’attesa del debutto fu angustiata dallo spasimo di Mister Josè Levy perchè, alle tre, ancora non era arrivato il bagaglio. Figurarsi la disperazione dell’impresario e immaginate la mia tranquillità al pensiero che in Italia siamo abituati a prodigi di rapidità: arrivare il bagaglio alle sette e con tre o quattro buoni macchinisti avere i tre archi montati per le nove. Arrivò il bagaglio alle tre e distribuiti i bauli personali negli alloggi degli attori rimasero tre cesti sul palcoscenico. [p. 103 modifica]

Quando a Levy indicai il bagaglio sul palcoscenico, stralunò gli occhi; non si poteva persuadere che dentro tre ceste vi fosse tutto il necessario per montare uno spettacolo con prove generali, prova di luci, eccetera, Mister Levy non voleva persuadersi di tale prodigio, ed era certo che la rappresentazione non avrebbe avuto luogo. Non appena arrivarono il fascio delle cantinelle ed il mio macchinista cominciò a montare la scena di carta togliendo i fogli piegati dalle ceste, riunendo gli spezzati, laterali, fondali, fondini e combinando la scena a Josè Levy sembrava già quello uno spettacolo, vedeva in tutto ciò qualche cosa che sapeva di magia, di prestidigitazione.

Certo che con la flemma inglese, in Italia, una compagnia non potrebbe lavorare se non con la perdita di un paio di giorni di riposo ogni prima rappresentazione. Ma per fortuna Mister Levy si uniformò e cooperò al buon andamento dei nostri sistemi, anzi voglio dire che nell’entusiasmo di Mister Josè Levy io vedevo il probabile entusiasmo del pubblico.

Infatti la prima rappresentazione al Little Theatre fu un clamoroso successo per quanto la prima sera nella sala v’era quell’atmosfera che molte volte è fatale nell’imminenza degli avvenimenti teatrali. Io, nella mia pelle, avver[p. 104 modifica]tivo che italiani, inglesi ed i miei attori si era tutti tranquilli e che avrei ottenuto il pieno consenso degli inglesi come avevo ottenuto quello dei parigini.

Gli applausi sinceri, scroscianti, al finale del primo atto potevano essere la sincera testimonianza del pubblico che mi dimostrava in quel modo di essermi grato per la emozione procuratagli, pur non comprendendo tutti l’italiano, ma io, tenendo calcolo di ciò, adoperai tutti i ferri del mestiere: patetico, dolce e romantico quanto mai nel romantico atto del «Cortile». Immagine dal testo cartaceo“MUSTAFÀ„ Colore, movimento, parole in tutti i dialetti, in tutte le lingue, urle, imprecazioni, voci sommesse, sospiri, singhiozzi; insomma tutto quello che ci voleva per portare all’entusiasmo il pubblico inglese nel travolgente «Mustafà».

A questa prima erano presenti [p. 105 modifica]S. E. Dino Grandi, il Console Generale, il Segretario del Fascio, molte personalità dell’Ambasciata, del Consolato, e della Colonia, molti italiani venuti da tutte le parti di Londra. Dopo il secondo atto S. E. Grandi mi onorò della sua visita in camerino e si congratulò tanto affettuosamente per l’inaspettato esito della serata; il Console Generale Bossi, romano arcisimpatico, di prepotenza mi disse subito se dopo lo spettacolo avrei accettato un brindisetto al Savoy. Accettai d’urgenza, tanto più che s’ingrossarono le file degli amici e non so dirvi a chi dovevo di più la mia gratitudine.

Fra gli invitati c’era il Segretario del Fascio Carlo Camagna, il romanissimo Joe Nathan, direttore della Banca d’Italia a Londra, che il giorno dopo mi scrisse: — Ieri sera mi hai fatto l’effetto di un bagno ai Polverini trasferiti qui a Londra. Te ringrazio de core. — Giornalisti, personalità artistiche inglesi e tutti quegli altri che in queste occasioni si accodano, per portarmi l’eco delle simpatie raccolte nella sala durante la rappresentazione.

L’impresario Levy non mi abbandonava un momento.

La sera del debutto, durante lo spettacolo, faceva la spola tra il mio camerino e la platea e mi domandava col più soave sorriso: — Etes [p. 106 modifica]vous content?, — e io: Oui — , e lui: — Moi aussi — , e se ne tornava in sala a leggere l’impressione sulle facce degli spettatori.

La gioia sua più grande, me la confidò una domenica che volle offrirmi un pranzo al Restaurant Paris sul Tamigi, era quella di vedermi uscire al finale in frak e sentirmi cantare con un filetto di voce delle canzoni italiane che non erano le solite: «Santa Lucia col mare prospero...», «Funiculì-Funiculà», «O sole mio», «Fenesta ca lucive», e tante altre bellissime canzoni, ma che avrebbero indubbiamente volgarizzato, stremenzito, invecchiato il mio successo; poichè in Inghilterra molti persistono nel credere che in fondo ad ogni artista italiano c’è sempre l’animo di un grande canzonettista con un baule ben fornito di calzoni corti, giacca, fascia e berretto alla Masaniello e relativa chitarra e mandolino. Simpatiche e caratteristiche cose, di sapore squisitamente regionale, ma il secolare abuso, e molte volte la cattiva esecuzione di questo eterno folclore, hanno finito per rendere una specie di peronospera le tradizioni artistiche del nostro Paese. A tutto ciò hanno sopperito, senza economia, i famosi tzigani con le loro czarde che li trovi tanto in un caffè sulla piazza principale di Pescia, quanto in un tabarin di Addis Abeba. [p. 107 modifica]

Due giorni dopo cambiai programma con il «Medico per forza» di Molière. Il successo comico fu ancora più clamoroso, cominciai a prendere una maggiore dimestichezza con i «londrini» che in fondo si comportavano con me tanto cordialmente. Il pubblico inglese è buono ed infantile: perciò talvolta è crudele perchè infantile; però, una volta accettato, l’attore si può permettere quello che vuole.

Durante il mio numero di chiusura, che eseguo abitualmente, senza conoscere una parola d’inglese, ero arrivato a far delle chiacchierate con loro come quando sono sul palcoscenico del Quirino a Roma, o quello del Carignano a Torino.

Una sera di grande buon umore feci al pubblico londinese la seguente dichiarazione, naturalmente in italiano e con grande serietà: — Io qui non parlo inglese. Può darsi però che lo parli. Saper l’inglese e parlarlo è cosa facilissima. L’abilità è di saperlo e di non volerlo parlare. C’è dunque da sentirsi dire: «com’è modesto Petrolini, sa l’inglese e non lo parla». —

Tale dichiarazione lasciò il pubblico, in cui ben pochi conoscevano l’italiano, assai perplesso.

Allora continuai: — Persisto nel non voler parlare inglese, ma se ci fosse qualche italiano [p. 108 modifica]disposto a farmi da interprete lo pregherei di tradurre quanto ho detto. — Infatti vari italiani assolsero tale piacevole compito. Ci fu nello spettacolo un intervallo di circa un quarto d’ora tra risate ed applausi.

La mattina, tra i tanti quotidiani, voglio ricordare quello che disse la Morning Post (e che fu telegrafato ai grandi quotidiani italiani dall’amico Gino Gario):

«... Immaginate il romanzo e la poesia di tutte le qualità di vagabondo espresso da mani mobilissime e da occhi balenanti di luci; tocchi di tragedia che si concludono in un violento farsesco, una voce che può incatenare una sala con una serenata cantata come un sospiro, o esplodere in tutti i toni dal basso al tenore. Qui un tocco di Molière, là una sfumatura di Goldoni... L’arte di Petrolini è magica ed a essa devono guardare gli inglesi con meraviglia... gridando un potente «bravo» ed applaudendo con ambo le mani al di sopra del proprio саро...».

Gli inglesi, come i francesi, non sono stati avari di lodi. In seguito, su tutti i quotidiani di Londra, come per esempio sul News of the world che tira giornalmente tre milioni e trecentocinquantamila copie certificate (accidenti che tira[p. 109 modifica]tura!) ho letto su tre colonne titoli di questo genere:

Italian master of stage art — Triumph of Petrolini in his London season

sul Times:

A versatile italian actor Petrolini alight

with enthusiasm

sul Daily Dispatch:

Petrolini actor of genius

Italian star smashes the barrier of language

Una mattina al Savoy, venne a farmi visita Franzero, corrispondente del Giornale d’Italia, anche lui abbastanza meravigliato che in poche settimane fossi diventato così popolare a Londra, con un successo così trionfale...

Trionfale, sicuro, e di colpo, cioè subito dopo la prima sera, senza bisogno di pensarci sopra venticinque anni. Il merito probabilmente non era tutto mio e neanche dei critici inglesi, i quali non sono nè più nè meno intelligenti dei nostri. La ragione prima sta nel temperamento inglese. Perchè l’umanità nasce con una tendenza irresistibile al teatro comico. La vita quotidiana di tutti gli uomini, anche di coloro che noi invidiamo (ma abbiamo torto), è una così continua serie di tragedie e di spicciole [p. 110 modifica]malinconie che quando un attore offre uno spettacolo comico tutti noi ci abbandoniamo più facilmente a lui: e l’anima gode del comico con una sincerità fanciullesca, come di un frutto succoso che non sappiamo cogliere da noi; ecco quello che spiegavo all’amico Franzero nel salone del Savoy, anche perchè non si meravigliasse gran che del mio successo.

A queste mie dichiarazioni lui mi domandò: — Ma davvero lei crede che sia molto più efficace il comico che il drammatico, per conquistare un pubblico? —

— Ma si capisce. La drammaticità è molto più facile che nasca da sè stessa. Basta molte volte un semplice fatto di cronaca, la comicità è un’altra cosa. —

Soltanto chi è ricco di fantasia può creare la comicità, e la grandissima maggioranza degli uomini non ha ricevuto da natura il dono della fantasia.

Per molti anni la fantasia delle cose comiche era tenuta in così poco conto che se uno per caso domandava al primo attore di una compagnia drammatica di quei tempi se faceva la farsa, c’era da sentirsi rispondere:

— Ma non sono mica un pagliaccio, io! —

Anche il pubblico di quell’epoca prediligeva il drammatico dolciastro, piagnucoloso ed [p. 111 modifica]andava poi in visibilio per il tragico, il sublime, il solenne: l’entusiasmo era tale che faceva sentire una specie di disprezzo per tutto quello che era naturale. C’è voluta la guerra ed il Fascismo per liberarcene, e il giorno che siamo tornati agli amori sani del teatro e un po’ alla «Commedia dell’Arte», e qui il colpevole sono io, ci siamo accorti con molto ritardo, che con un attore delle mie tendenze e questo genere di teatro, si potrebbe girare tranquillamente tutto il mondo. —

Ho detto alla critica inglese senza arrossirne che provengo dal «varietà» ed il Times ha scritto:

«Il pubblico non ha bisogno di sapere che Petrolini viene dal varietà. Questa sua origine è testimoniata istantaneamente da quel senso di contatto immediato che egli crea con l’uditorio, dalla sua versatilità e dalla stupenda aria di spontanea improvvisazione che mai lo abbandona. A queste virtù Petrolini aggiunge una delicatezza sottile e sua propria, e per di più egli penetra più profondo nei suoi soggetti di quanto vediamo fare dai nostri attori comici inglesi; e questo è notevole in particolar modo nei suoi atti e nelle sue parole che sono stupendamente realistiche sotto il fantastico... Nel «Médecin malgré lui», egli interpreta la sua parte come se [p. 112 modifica]la improvvisasse; rinnova cioè in pieno la tradizione della Commedia dell’Arte. Tutto dipende da questa sua persistente improvvisazione e dalla sua mimica... La sua arte comica è quel raro genere di spettacolo, che si chiama popolare, ma che abbisogna di tutta la nostra agilità mentale per apprezzarla (perchè, come si diceva, la nostra mente è viziata, che la comicità delle cose semplici ci sembra difficilissima) e le sue buffonerie hanno tante involuzioni e allusioni sottili che è una ginnastica gioiosa l’ascoltarla».

E di identico parere è stato anche il Daily Telegraph:

«... Petrolini ha un mimetismo mesmerico, sviluppato nel music-hall, e il suo fascino sul pubblico è diretto quanto quello del nostro George Robey... L’interpretazione del levantino Mustafà è gioiosamente esuberante, anche per me che non posso seguire tutto il discorso; e le sue satire e caricature sono così piene di arte che non mi attento a commentarlo».

E il critico drammatico della rivista letteraria «Everyman», anch’egli dolendosi di non conoscere sufficientemente la lingua nostra per apprezzare a pieno l’arte del grande attore italiano ha scritto: «... non pertanto l’espressività di Petrolini, e le sue infinite sfumature dal comico al patetico hanno una comunicatività uni[p. 113 modifica]versale; ed è sempre un piacere poter dare il benvenuto in Inghilterra a un artista forestiero di grande talento, specialmente quando il suo arrivo, come nel caso di Petrolini, non è stato preceduto dagli uggiosi sfanfaramenti degli agenti di pubblicità. Infatti Petrolini è arrivato a Londra quasi d’improvviso, e neanche gli italiani della Metropoli lo sapevano; e per questo il suo trionfo è stato più sincero e più spontaneo, perchè egli ha compiuto il miracolo di strappare un applauso a tutta la critica inglese, anche alla stampa popolare che per sciovinismo stronca ogni artista forestiero». Così ha scritto il Manchester Guardian, ... «Lo spirito di Petrolini, le sue maschere tragiche, le sue canzoni e le sue risa hanno portato a Londra una ondata di nostalgia per la vecchia Roma che tutti amiamo».

Questi articoli erano già stati telegrafati dall’amico Pellegrini del Corriere della Sera, da Franzero e da altri, ma sempre un po’ attenuati. Ma non vi nego che io in un mio opuscolo li ho fatti pubblicare tutti.

Il successo di Londra per me è stato uno dei più significativi, specialmente per il concorso sincero ed affettuoso di tutta la colonia italiana, a cominciare dalle più alte autorità. [p. 114 modifica]

Quante cose dovrei qui enumerare: il sontuoso pranzo offertomi al Ritz dal simpatico e generosissimo comm. Aletto. Nè dimenticherò le fraterne attenzioni che mi prodigarono Franzero e Carlo Camagna, segretario del Fascio a Londra, che mi offrì un banchetto ispirato ad italiana familiarità alla Casa del Fascio; e ricordo con commozione quel cittadino, che non avendo altro da offrirmi, volle cedermi la sua chiave di casa perchè era d’oro. Le divertenti serate passate col Console Bossi e col caro Nathan, al Chit Chet, e all’aristocratico ristorante italiano Gualino e anche qualche buon pranzetto da Gennaro l’unico ristorante che è rimasto ancora un po’ funiculì-funiculà, addobbato come un tiro al flobert, con il direttore che si prodiga con gli inglesi con certe smancerie di gusto zimbellesco, ma dove si può mangiare ancora — per chi non ne può fare a meno — una buona pastasciutta alla napoletana.

In questo restaurant, una volta, mi trovai di fronte al solito entusiasta italiano che le inventava tutte per attaccar discorso ed io quel giorno non mi sentivo proprio in vena ed allora me la squagliai. Il bravo connazionale mi si affila appresso, ma io lo vigilavo sempre con la coda dell’occhio, avevo un desiderio matto di osservare la città da solo, guardare in tutte le [p. 115 modifica]vetrine, ma l’amico che mi seguiva non mi permetteva di fermarmi davanti a nessun posto chè arrivava lui, e io via. Giunsi così a Piccadilly, dove c’è una fantasmagoria di belle vetrine, di librai, antiquari. Me ne stavo davanti a una vetrina assorto ad osservare delle maioliche inglesi antiche, mi volto e mi trovo a faccia a faccia con lo scocciatore che mi apostrofa con queste parole:

— Petrolini, io scommetto che lei non mi riconosce. —

— Ha vinto la scommessa! —