Un romanzo/V

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IV VI
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V.

Olimpio, uscendo dall’albergo Belle-vue, aveva fatti pochi passi a destra, quando la medesima figura di donna che gli era passata accanto sotto le Procuratie gli si parò davanti, e prendendo il suo braccio lo trascinò rapidamente verso la riva.

— Come diavolo sei tu a Venezia?

Questa domanda Olimpio la fece colla placidezza abituale, col solito tono di voce indifferente e dolce.

L’incognita gli si aggrappò vivamente al braccio mormorando:

— Olimpio, Olimpio, io sono una disgraziata!

Olimpio la squadrò dalla testa ai piedi con quell’occhiata rapida e così completa nella sua elissi colla quale un uomo di mondo sa valutare una donna.

Ella era vestita di velluto nero e portava con grazia infinita un ricco velo di merletti; a sinistra, fra le treccie scomposte, aveva una rosa. [p. 40 modifica]

— Non c’è male, fece Olimpio.

— Ti piaccio ancora?

— Sei diventata bella e grande: hai una figura di matrona — quasi quasi non ti conoscevo.

— Sono passati cinque anni, Olimpio. Tu eri allora studente ed io una povera villanella... oh! mi ricordo sai? Non ho ancora dimenticato i miei piccoli zoccoli rossi e il mio gonnellino di indiana! Così potessi riprenderli!

— La chiusa del tuo discorso è molto morale, ma io spero che avrai qualcos’altra a dirmi.

— Vuoi venire in gondola? Ciarleremo con maggior libertà.

Svegliarono un gondoliero che sonnecchiava.

— Prendi il largo verso Rialto.

La donna entrò nella gondola chiusa — e vi entrò con quella civetteria, con quella grazia seducente delle veneziane che sanno trasformare in vezzo il più semplice movimento.

Io non vi parlerò del piacere di andare in gondola, nè del piacere doppio di starvi in due, nè di tutti quegli altri accessorii, che vi può portare la notte, la luna, la brezza marina. Rifuggo naturalmente dalle descrizioni, da quelle sopratutto che rasentano il sentimentalismo — e credo che anche i miei due personaggi non si occupassero molto della limpida notte che li circondava. [p. 41 modifica]

Le ombre simpatiche di Foscolo, di Byron, di Musset, della Staël, della Sand, di tutti quelli che amarono Venezia nella voluttà della sua laguna, nel sorriso del suo cielo, nei foschi misteri de’ suoi ponti di marmo, nei silenzi delle brune arcate, ombre di poeti, ombre d’artisti, ombre d’amanti, poterono scivolare tranquille lungo i muri verdastri battuti dalla luna.

Olimpio non le vedeva.

La donna, col capo fra le mani pensosa, sembrava estranea a tutto quanto la circondava.

— Mia bella, tu non mi rendi molto allegra questa notte! .

Ella si scosse.

— Perdonami, Olimpio, sono tanto infelice!

— Si può sapere in che modo?

— Io t’amo, t’amo sempre come ti amavo sui colli del mio paese, quando, forosetta ardita, ti seguivo alla caccia bramosa d’un tuo sguardo, avida d’un tuo sorriso. Io t’amo come ti amavo il giorno in cui mi lasciasti, e ch’ebbi a morirne di dolore...

Si interruppe arrossendo.

— Qui subentra, m’immagino, il periodo delle consolazioni — saltiamolo pure se t’accomoda e veniamo al presente. Cosa fai qui?

— Sono maritata.

— Cospetto! è una bella posizione. [p. 42 modifica]

— Ma non amo mio marito. Egli ha sessant’anni: è ricchissimo e geloso. Oggi ho potuto sfuggirgli, è andato in villa, e con te, con te mio Olimpio, voglio dimenticare questa odiosa catena. Mi ami ancora, dillo?

— Ne puoi dubitare? rispose Olimpio accarezzandole una guancia.

— Oh! tu sei sempre così freddo — eppure così bello!

— Lascia ch’io ti veda bene, disse Olimpio rimovendole il velo del capo.

— Quanto tu sei bella te lo dica questo bacio, Maria.

Maria gli si buttò al collo.

Era in quel momento che Giulia riaprendo la finestra vide che la luna era scomparsa dal palazzo dei dogi.

La gondola guizzava silenziosa sotto il ponte di Rialto.

Giulia, al davanzale della malinconica finestra piangeva, e Maria pure piangeva sul petto di Olimpio, ma di gioja.

Rialto era passato e la gondola voluttuosamente cullata dalle onde ridiscendeva verso il Lido.

La bianca mano di Maria sollevava la frangia del felze e le teste dei due amanti si piegarono insieme a guardare l’onda. [p. 43 modifica]

— Non ti tenta? disse Maria.

— No, rispose Olimpio.

— Sei così felice?

— Non so, non ci penso; vivo e non mi curo d’altro. Perchè pensare alla morte quando ho una, bella fanciulla, quando il mistero mi istiga, quando una gondola mi protegge, quando la gioventù mi invita, e che una notte, una lunga notte mi sta davanti....

— Poche ore appena, sospirò Maria.

— Una eternità!

Il caso li aveva avvicinati, ma quale abisso fra loro due. Da una parte la passione viva, prorompente, sincera — la passione della donna che tutto affronta, tutto sopporta; dall’altra la scettica indifferenza, la voluttà sola, il cinismo.

Maria, la bella peccatrice, aveva il cuore gonfio, e mille emozioni lo facevano palpitare. La gioja, il timore, il diletto, la paura, il rimorso — anche il rimorso che non è mai soffocato interamente nel petto della donna la più colpevole; ma, strano contrasto, eppure vero, in quella alternativa violenta di giubilo e di ansia, in quella lotta del cielo coll’inferno, Maria, l’angelo caduto, beveva a larghi sorsi una sconfinata ebbrezza.

Le sue lunghe treccie bionde sciolte sul velluto nero, il capo rovesciato sui guanciali della gondola, [p. 44 modifica] una mano in quella di Olimpio, l’altra pendente a sfiorare l’onda — la rosa, sprigionata dai capelli, le giaceva ai piedi.

— Come sono beata! vorrei morire.

— Morire, morire, non mi piace questa parola, ripetè Olimpio. Parlami d’amore, parlami di gioja, ma no, non dir nulla, baciami solamente.

Raccolse la rosa e gliela pose in seno.

— Godi questo fiore, o fanciulla, perchè all’alba del domani sarà già appassito.

— E l’alba si avvicina!

Tacitamente la gondola aveva ripreso il canale — il gondoliere cantava:


«Vieni o bella, vien sul mar...»


— Mi fai ricordare, disse Olimpio, che ho preso moglie stamattina e certamente ella mi aspetta.

— Hai preso moglie? e me lo dici adesso?

— Che vuoi! l’avevo dimenticato.

All’annuncio che Olimpio aveva preso moglie, Maria sentì due fitte acute nel cuore: una di dolorosa gelosia, l’altra vaga, inconsapevole, indistinta, ma quasi giuliva, rasentava la consolazione. Maria presentiva che la sposa di Olimpio, come le sue amanti, non sarebbe felice.

Quell’uomo freddo e volubile poteva dare l’ebbrezza d’un momento, non la pace d’un affetto sicuro. [p. 45 modifica]

E perchè dunque lo si amava?

E perchè si pecca? Perchè si ubbriaca? Perchè a voler contemplare la luna in una fredda notte d’autunno ci acquistiamo una polmonite?

Eh! signora mia, se la ragione e il cervello umano fossero fratelli!

La gondola si avvicinava alla piazzetta.

Parole sommesse, interrotte; lunghi sospiri e baci; giuramenti, promesse si alternavano all’ombra del felze, e l’auretta del mattino li sperdeva sull’ampia, lucida superficie della laguna.

— Addio dunque! l’ora del doloroso addio è pur giunta, Olimpio!

— Doloroso, ma non ultimo.

Maria lo guardò fissamente e scuotendo il capo mormorò:

— Non ci vedremo più!

Olimpio non trovò la replica: la barchetta era alla riva. Maria colle lagrime agli occhi e i singhiozzi alla gola gli strinse rapidamente la mano, e saltando a terra disparve nei viottoli intricati di Merceria.

«Non ci vedremo più» furono le ultime parole pronunciate da quei due.

Quando Olimpio entrò nella sua camera all’albergo Belle-vue, Giulia, coricata nei letto, dormiva il il sonno dei quindici anni, ma il suo volto pallido, [p. 46 modifica] rigato di lagrime, i capelli scomposti, le palpebre infiammate parlavano per lei.

Era mezzo svestita; aveva i piedi nudi e nude le sue candide braccia ripiegate sotto il capo.

Olimpio la guardò un istante; prese una coperta dell’altro letto e la pose dolcemente sulla bella addormentata.

Le griglie erano chiuse, ma dagli spiragli filtrava la luce serena dell’alba. Olimpio chiuse le imposte e si coricò.