Un romanzo/XII

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XII

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XII.

Olimpio, dato fondo alla cassa, dovette prendere anche lui la via del ritorno.

Capitò improvvisamente, e Giulia fu ancora tanto buona da fargli festa e sorridergli amorosa.

Olimpio, aveva una novità; disse che gli era stato proposto Paffuto di una vasta tenuta nel basso milanese come unica via da prendersi per poter fare economia, pagare i debiti, e rintegrare la sostanza dilapidata.

La dote di Giulia sussisteva ancora in gran parte, e si avrebbe potuto con essa far fronte alle spese di impianto.

Il signor Prospero approvò. Egli aveva perdute le sue trentamila lire, e si attaccava a questa fragile speranza di ricuperarle.

La prospettiva di ritirarsi in campagna non era [p. 96 modifica] seducente per Giulia, ma non mosse lagno; da un certo lato anzi si rallegrò pensando che suo marito non avrebbe avuto colà molte distrazioni, e... chi sa, forse stava per incominciare la sua luna di miele — una luna abbastanza in ritardo! — eppure Giulia se ne sarebbe accontentata.

Quanto a Olimpio non sembrava preoccuparsi gran fatto della solitudine e del lavoro che lo aspettavano.

Ho già detto che la sua natura fisica aveva pochissime esigenze; la libertà era il solo bisogno vero che egli provasse — la libertà di attraversare il bastione in un elegante tilbury, o di lanciare a corsa sfrenata un cavallo indomito sulle pianure deserte, per lui tornava lo stesso.

Si fecero dunque, lentamente, i preparativi della partenza.

L’affitto non incominciava che col S. Martino, e vi stavano di mezzo cinque mesi buoni.

Furono chiamati i creditori, ai quali si promise l'ottantacinque per cento; venduti alcuni oggetti di lusso superfluo — e Giulia vi unì sospirando il suo astuccio t da sposa — si pagarono i debiti più stringenti.

Olimpio era calmo e sorridente; Giulia rassegnata.

Fra i due sposi non ebbe luogo nessuna spiegazione, nessun diverbio.

Ella era troppo giovinetta e troppo nuova alla vita, [p. 97 modifica] timida, inesperta. Olimpio le faceva soggezione, non osava misurarsi con lui, eppoi ne subiva il fascino.

Quando egli la scorgeva preoccupata, quando capiva che un po’ di lievito fermentava in quel dolce cuore creato all’affetto, non aveva a far altro che rivolgerle una parola buona con quella sua voce penetrante — altro che uno sguardo de’ suoi profpndi occhi — o un sorriso.... divino sorriso che balenava come un raggio di sole sulle tenebre lievemente addensate in quell'anima ingenua.

Se Olimpio avesse potuto amare, non avrebbe amato Giulia.

I suoi istinti indomiti, quasi selvaggi nel loro potente sviluppo, violenti senza entusiasmo, e sensuali senza voluttà, non avrebbero mai compreso, nè ammirato, nè amato il candore di quella creatura semplice e affettuosa.

La bellezza di Giulia, bellezza molto modesta, angelica, più eterea che terrena, adombrata in linee caste e severe, era troppo debole, troppo vagamente indistinta per poter toccare la fibra segreta di quell’uomo.

Ed esisteva forse donna da tanto?

Oh! ella doveva avere la magia fulminea di Circe e d’Armida — doveva essere bella e terribile — figlia postuma degli amplessi d’Eva con Lucifero.

Ma esisteva? [p. 98 modifica]

In quale plagà del mondo Olimpio avrebbe incontrata l'anima gemella della sua triste anima?

Per ora viveva nella più assoluta indifferenza accanto a sua moglie.

Gli amici non lo vedevano più; fuggiva i teatri e le riunioni; diede la sua dimissione al club. Si alzava alla mattina per tempo, usciva alla caccia nei dintorni della città, poi si chiudeva nella sua camera.

Roberto solo era ammesso — Roberto, il fido amico.

Correva voce che il diavolo s’era fatto eremita.

Il signor Prospero tornava ad accarezzare con compiacenza le sue orecchie di cane; egli diceva a Giulietta:

— Vedrai, a poco a poco Olimpio diventa un marito eccezionale. Ha già migliorato molto, fa vita di casa, non spende, non si diverte, ha abbandonato le relazioni cattive. Presto andate in campagna, e là si compie la conversione. Le abitudini semplici, patriarcali, l'intimità domestica, la solitudine, il lavoro, faranno il resto.

Giulia sospirò, il signor Prospero soggiunse:

— Verrò a trovarvi — oh, sì! — mi farai preparare la panna fresca, e tu pure dovresti attaccarti alla panna, ti farebbe bene — ingrassa. Hai proprio bisogno di metterti in salute, e così fra un anno o due mi regali un nipotino — eh?

Giulia sospirò più profondamente ancora — ci aveva [p. 99 modifica] le sue ragioni — ma al signor Prospero non le disse e anch’io non ho potuto saperle.

L’estate fu molto caldo — a Milano si soffocava — ma com’è facile comprendere, nè Olimpio andò a Baden, nè Giulia a Levico.

Olimpio incominciò ad assentarsi tratto tratto per visitare il suo futuro podere. Una volta condusse anche Giulia.

Circa duemila pertiche di terreno, coltivato la maggior parte a riso e a grano turco, con immense praterie a sistema irrigatorio, formavano tutto l’insieme del podere.

Il paesaggio, ricco di acque e di alberi verdeggianti, non era brutto a vedersi, ma malinconico.

L’aria poi greve, umida e poco sana.

In quella parte del basso milanese (non ho intenzione di precisarvi il luogo, nè a voi, credo, importerà saperlo) le risaje occupano la più gran parte della campagna; queste pianticelle venute a noi dall’Asia orientale e coltivate poi còsi diffusamente, si alzano a pochi palmi da terra, sono smunte di colore e d’aspetto meschino; poco piacevoli all’occhio formano una vegetazione monotona.

Ma i molti ruscelli che, biforcati in tutti i sensi, portavano alimento a quelle risaje correndo tra due sponde di prati lussureggianti, consolavano la vista; e [p. 100 modifica] gli altissimi pioppi che sulle loro rive incurvandosi maritavano le superbe cime; e l’edera elegante che si allacciava ai tronchi in curve sinuose; e la pallida robina sfumata qua e là sul fondo cupo della verzura; più abbasso le margheritine simboliche e giù giù fino a toccar l’acqua i fiori dimenticati della ginestra avrebbero ispirato il pennello modesto di un allievo paesista.

Ne sarebbe poi uscito un quadro ammodo se il pittore avesse saputo cogliere l’imponente placidezza del cielo, grigio, uniforme, sospeso su quella natura tranquilla.

Lungo il margine dei fossatelli pascolavano numerose file d’armenti e mandre di bovi; la grassa giovenca seguiva i suoi vitellini guardandoli col suo nero occhio malinconico, mentre nei prati saltellavano le giovani cavalle mòrse dai puledri audaci.

Dietro gli alberi, a varie distanze, un gruppo di casolari indicava una cascina o un paesello; paesi e cascine abitati da poveri contadini, colle loro abitazioni basse, aperte sull’aja e framezzate da orti e da fienili, sulle cui mura sgretolate si arrampicava sovente un esile fusto a lunghissime foglie, che dopo essersi contorto in spire capricciose, deponeva sulla paglia, orgogliosa e gonfia, una zucca di proporzioni gigantesche. [p. 101 modifica]

Queste zucche enormi, tonde, lucide, gialle, insipide, che salgono salgono sempre sul loro magro fusticino, rappresentano coll’esattezza della natura, che è una critica perenne e una perenne lezione, rappresentano, dicevo, gli ignoranti boriosi che portano tutto il loro fumo nella testa.

Il contadino, così povero nei nostri paesi, contempla con amore la sua zucca casalinga, appariscente ed economica.

La vite serpeggiava tratto tratto su quelle campagne colle sue foglie frastagliate e i ceppi nodosi, contorti, rattratti quasi per la fatica di aver nutrito il più soave dei frutti.

In complesso, l’impressione che Giulia ricevette dalla sua gita fu abbastanza buona.

La casa era molto vasta; era antica e diroccata; cinta da enormi pioppi, le cui estreme foglie ondeggiavano al vento. I frati possedevano una volta quell’edifizio e serbava infatti qualche cosa di monastico e di grave.

Camere abitabili ve n’eran appena due o tre; le altre, immense, con delle volte che minacciavano rovina, tutte scrostate, coi vetri rotti, con reggimenti interi di topi vagolanti tra gli assiti, colle ragnatele sospese ai muri e il suolo avvallato — testimonio delle preci ardenti e delle crude discipline che i buoni padri, ginocchioni, vi facevano sopra. [p. 102 modifica]

Lo scalone era maestoso, ma mezzo distrutto dal tempo e dall’incuria. Sotterra si estendevano per tutta l’area del caseggiato belle e ampie cantine, asciutte, ventilate, e serbavano ancora gli avanzi di certe botti panciute che ripiene di malvasia e di Val Policella dovevano rendere meno gravi a quei frati la penitenza e il ritiro.

Nel bellissimo cortile del convento s’era cavato fuori l’aja — e vi so dire che era un’aja coi fiocchi, pulita, tersa, eguale come uno specchio; era la parte più pulita di tutta la casa e quella che aveva un aspetto più giovane e più lieto.

Giulia visitò tutto e si dichiarò contenta.

Gli appartamenti, a dir vero, lasciavano molto a desiderare, ma Giulia si persuase che ammobigliati farebbero un altro effetto.

Olimpio, dal canto suo, promise che avrebbe avuto cura delle riparazioni e delle migliorie possibili.

L’avvenire, se non ridente, presentavasi tollerabile e Giulia oramai si era rassegnata a non desiderare di più. Purché Olimpio l’amasse!