Una discesa nel Maelstrom
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UNA
DISCESA NEL MAELSTROM
Le vie di Dio, tanto nella Natura quanto nell’ordine della Provvidenza, non sono le nostre vie; e i tipi che noi concepiamo non hanno veruna misura comune con la vastità, la profondità e l’incomprensibilità delle Sue opere, che contengono in sè stesse un abisso più profondo del pozzo di Democrito. |
Noi avevamo raggiunto l’altissimo picco della più alta montagna.
Ivi il mio vecchio compagno soprastette alquanto, così per ripigliare fiato e rinfrancare gli spiriti a parlare. Alla fine disse: —
Non è ancor molto tempo ch’io vi avrei guidato costassù con altrettanta agevolezza quanta ne avrebbe dimostro il più giovane de’ miei figli. Ma, or fan tre anni, incolsi in una sì strana avventura quale non è certo toccato mai a verun mortale, tale almeno che nessun uomo giammai sopravvisse a raccontarla; — tale, dico, che le sei ore di morte da me in quella passate mi hanno rotto il corpo e l’anima.
Me ne accorgo; voi mi credete vecchissimo; e pur io non sono sì tarmato di anni. Valse appena un quarto di giornata per mutare in bianchissimi questi miei già sì lucidi e neri capelli, per indebolire le membra mie e tanto fiaccarne i nervi da tremare ad ogni menomo sforzo, e da essere agghiadato di paura alla vista d’una semplice ombra. Volete crederlo? è gran che, se oso appena da questo piccolo promontorio spingere lo sguardo a basso, senz’essere preso da vertigine. Ma!...
Il piccolo promontorio sulla cui sponda il vecchio erasi trascuratamente sdraiato per riposarsi (in modo che la parte più pesante del suo corpo era fuor di equilibrio, e che non restava preservato da una caduta che dal punto d’appoggio del suo gomito sulla estrema e sdrucciolevole proda della roccia), quel piccolo promontorio, dico, si alzava un mille cinquecento o mille seicento piedi circa sur un caotico immane ammasso di roccie site al di sotto di noi: immenso precipizio di granito nereggiante e lucente! Per nulla al mondo io mi sarei voluto rischiare a soli sei piedi da quella spaventosa ripa. E per vero io mi sentiva sì profondamente agitato dalla positura pericolosissima del mio compagno, che mi lasciai andare lungo disteso al suolo aggrappandomi agli alcuni vicini cespugli, senza nemmeno aver forza di levare gli occhi al cielo. E invan mi sforzava di scacciar la importuna idea che qualche furia di vento facesse pericolare in sua base la stessa montagna. Ci volle proprio del tempo per ragionare e trovare il debito coraggio a rimettermi a sedere e spingere lo sguardo nell’immenso spazio.
Bah, amico — disse qui la guida — bah! bisogna che non vi lasciate prendere da sì puerili ubbie: che, che! anzi vi ho qui condotto per farvi a tutto vostr’agio contemplare il teatro dell’avvenimento, di cui teste vi diceva, e per narrarvi la mia storia proprio con la stessa scena svolgentevisi sotto gli occhi.
Noi siamo ora — soggiunse con quel far minuzioso, ch’era lo spicco del suo carattere — noi siamo ora sulla stessa costa di Norvegia, al 68.° grado di latitudine, nella grande provincia del Nordland e nel lugubre distretto di Lofoden. E la montagna, di cui stiamo in cima, nomasi Helseggen, la Nebbiosa. Ed ora fatevi un po’ in qua, qui, accostatevi a quest’erbosa sponda, se vi sentite pigliar di vertigine. Bravo; così. Adesso spingete un po’ lo sguardo al di là di quella cerchia di vapori, che ci nasconde il mare fremente ai nostri piedi. Ecco; osservate.
Io mi posi a mirare vertiginosamente, e scorsi una distesa di mare il cui colore d’inchiostro mi richiamò a tutta prima in mente il quadro del geografo Nubiano e il suo Mare delle Tenebre.
Era un panorama il più spaventosamente desolato che immaginazione d’uomo abbiasi mai potuto creare. A destra ed a manca, lontano tanto che l’occhio infin vi si perdeva, allungavansi, simili a’ bastioni del mondo sconfinati, le linee di un’altissima scogliera, orribilmente nera e minacciante rovina, il cui orrido e cupo carattere era potentemente accresciuto dalla vorticosa rabbia del fiotto, che saliva sino sopra la bianca e lugubre sua cresta, urlando e muggendo eternamente. E, proprio di rimpetto il promontorio, sulla cui vetta noi stavamo assisi, alla distanza di cinque o sei mila miglia, a mezzo il mare, scorgevasi un’isola dall’ammosfera inospitale, come almeno era lecito inferirlo dagli ammontamenti enormi dei marosi che, frangentisi continuo, la cignean d’ogni intorno. A due miglia circa più vicino alla terra, si drizzava un altro isolotto più piccolo, orribilmente pietroso e sterile, tutto qua e là cinto di gruppi di roccie nere, acute e taglienti come vetri infranti.
L’aspetto dell’Oceano, nella sua distesa limitata tra la spiaggia e la più lontana isola, l’offriva un non so che di straordinario e solenne. Soffiava in quest’istante dalla costa un vento sì forte, che un brigantino, quantunque al largo, stava alla cappa con due mani di terzarolo alle gabbie, e talora lo scafo dispariva totalmente; e nondimeno nulla vi era che rassomigliasse a vero fortunale, ma soltanto, e a dispetto del vento, una mareggiata viva, presta, volvente per ogni verso; — e schiuma, tranne che in prossimità delle roccie, pochissima.
E il vecchio riprese:
— L’isola, che voi vedete laggiù, è detta dai Norvegi Vurrgh, e quella a mezzo cammino, Moskoe; Ambaaren, l’altra giacente un miglio a nord-est. Trovatisi quivi Islesen e Hotholm, e Keildhelm, Suarven e Buckolm. Più lontano — tra Moskoe e Vurrgh — Otterholm, Flimen, Sandflesen e Stockholm. Questi, i veri nomi di quei dintorni: ma, e perchè ho io creduto necessario di darvi tutte queste indicazioni e nomi? Per verità nè io lo so, nè saprei, forse men di voi, comprenderlo. — Ne comprendereste per avventura qualche cosa? Che! Vi accorgereste voi forse ora di qualche cangiamento sulle acque!
Da circa dieci minuti ci trovavamo alla sommità di Helseggen, dove eravam pervenuti partendoci dall’interno di Lofoden, per modo che non ci era stato possibile vedere il mare, se non allora che tutto d’un tratto ci era apparso da quell’altissimo picco. In quella che il vecchio parlava, io ebbi come la percezione d’un romore fortissimo, che andava crescendo, simile al muggito d’un’innumerevole mandra di bufali nelle praterie dell’America; e, nel momento stesso, scôrsi che ciò che i marinai usano dire carattere di fortunale, rapidamente mutavasi in corrente, la quale muoveva di verso levante: e in quella che l’osservava, prese una rapidità prodigiosa. D’istante in istante la velocità sua raddoppiavasi, la sregolata sua impetuosità, crescendo, si distendeva. E in cinque minuti tutta la distesa del mare sino a Vurrgh venne flagellata da una furia indomabile; ma, propriamente, quel romore d’inferno più tempestava terribile tra Moskoe e la costa. Chè, là, l’ampio letto delle acque solcato e infranto da mille contrarie correnti, rompeva d’improvviso in frenetiche convulsioni, ansante, bollente, fischiante; contorto in giganteschi, sterminati, vorticosi giri, ruotandosi e piegandosi per intiero verso levante con quella rapidità solenne che solo è dato vedere nelle più alte e grosse cascate di acque.
In co’ d’alcuni istanti quella scena assunse un aspetto affatto differente. Tutta quell’immane superficie apparve più unita, i vortici un dopo l’altro scomparvero, mentre qua e là allungavansi prodigiose zone di schiuma sin’allora non viste. Le quali dappoi si distesero ad una grande distanza e, mischiate con altre, esse pure passavano in que’ celeri e vorticosi giri dileguantisi, formando così come il centro d’un vortice più vasto, più forte. Il quale, d’un tratto, quasi con fulminea rapidità rilevossi, e prese una forma distinta e definita, in una periferia d’oltre un miglio di diametro. Levavasi sul margine del turbine una larghissima fascia di schiuma tutta fosforescente, luminosa, senza tuttavia che un solo bioccolo se ne spiccasse nella voragine del terribile imbuto, il cui interno, per quanto spingervisi potesse l’occhio, rassomigliava ad una muraglia liquida, tersissima, brillantissima e nereggiante, che con l’orizzonte faceva un angolo di 45 gradi all’incirca, volvente sopra sè stessa per l’influsso d’un movimento ruotatorio assordante, il quale ripercuotevasi nei cieli a mo’ di eco dolente di moltitudine d’anime infinita, spaventosissima, lì tra il clamore e il ruggito, tale, che la stessa potentissima cateratta del Niagara nelle sue convulsioni non ne lanciò mai di simili contro il cielo.
E il monte in su l’ampia sua base tremava, e il masso si sommuoveva e d’ogn’intorno stranamente l’aria fischiava; ed io mi lasciai andar bocconi, e, in un eccesso di agitazione nervosa, mi aggrappai alle intristite erbette.
— Ecco, sclamò infine il vegliardo, come scosso di súbita invincibil forza, ecco! ciò non può essere altro che il gran turbine di Maelslrom, come usano taluni chiamarlo: ma noi, noi Norvegi lo diciamo il Moskoe-Strom, dall’isola di Moskoe, sita a mezzo cammino.
Per vero, le ordinarie descrizioni di simile turbine non mi aveano onninamente preparato alla scena che mi s’offriva d’innanzi. Per esempio, quella di Giona Ramus, ch’è forse la più particolareggiata di tutte, non vale a darci la più lieve idea della magnificenza e dell’orrore del quadro, nè della strana, profonda e stupenda sensazione della novità ond’è come annichilito lo spettatore. Invero io ignoro il punto preciso e l’ora in cui ebbelo contemplato quello scrittore; ma certo e’ non fu nè dalla vetta di Helseggen, nè durante una tempesta. Hanvi tuttavia in quella sua descrizione certi passi che, ne’ particolari loro, meritano d’essere conosciuti, sebbene assai lontani dal dare un’impressione degna di tanto spettacolo. Eccoli.
«La profondità delle acque tra Lofoden e Moskoe giugne dalle 36 alle 40 braccia; ma dall’altra parte, dalla parte del Verme (vuol significare Vurrgh), tale profondità scema tanto, che una nave non potrebbe trovarvi il passo senza correr pericolo di fracassarsi tra le vive roccie, accidente possibilissimo anco nella più solenne calma. E quando la marea sale, la corrente gettasi nello spazio compreso tra Lofoden e Moskoe con una tumultuosa rapidità; e allora il terribile ruggito del suo riflusso viene a mala pena uguagliato dal ruggito delle più alle e più orribili cateratte, e il romor si distende a più leghe, lontan lontano, e i vortici o gorghi cavernosi sono di tale distesa e di tanta profondità che se per caso una nave o bastimento entrasse nel raggio della loro attrazione, ne verrebbe inevitabilmente scosso, aggirato, inghiottito e tratto al fondo, ed ivi mandato in mille frantumi tra le taglienti infinite punte delle roccie; poi, con la calma della corrente, rivomitati gli infelici resti alla superficie. Ma cotesti intervalli di calma non avvengono che tra il flusso e il riflusso, in tempo quietissimo, e non durano oltre il quarto d’ora; e dappoi la violenza della corrente grado a grado ritorna.
«E quando maggiormente freme, si gonfia e bolle e che la sua forza s’accresce per la forza della tempesta, riesce pericoloso avvicinarsegli anco ad un miglio norvego di distanza. Tartane, brigantini, navi, barche d’ogni sorta galleggianti sonovisi vedute attratte per non aver usato le precauzioni debite, in prossimità del raggio di quell’azione trapotente. Accade pure di spesso che qualche balena inaccortamente accostandosi alla corrente, avvinta tosto dalla violenza, vada stranissimamente scempiata: e allora è impossibile il descrivere i muggiti assordanti, gli urli feroci de’ suoi vani ed estremi sforzi.
«Una volta, un orso, in quella che passava a nuoto lo stretto tra Leofoden e Mosckoe, fu sorpeso dalla corrente e tratto al fondo, e tanto orribilmente acuti furono i suoi urli e fremiti, che udivansi persino dalle lontane rive. Tronchi immani di pini e abeti, avvolti ed inghiottiti dalla corrente, riappariscon qua e là rotti e sminuzzati, quasi cespiti, virgulti o fili d’erba sospintivi. Lo che chiaramente significa che il fondo è tutto armato di acute punte contro cui percuotonsi e ripercuotonsi, infrangonsi e sminuzzansi que’ corpi: e questa corrente è regolata dal flusso e riflusso del mare, che costantemente avviene di sei in sei ore. Nel 1645, la domenica di Sessagesima, di primissimo mattino, precipitossi con tal impeto e fracasso, che se ne smossero e staccarono persino pietre dalle abitazioni della costa.»
Quanto poi alla profondità delle acque, io non comprendo invero in qual modo se ne abbia potuto far giusto calcolo nelle vicinanze immediate del vortice. Le quaranta braccia dovrebbero solamente riferirsi alle parti del canale che sono prossime alle rive di Moskoe, o a quelle di Lofoden. Al centro di Moskoe-Strom la profondità dovrebb’essere immensamente più grande; e, per averne certezza, basta spingere un’obbliqua occhiata nell’abisso del voraginoso gorgo di su la più alta vetta di Helseggen. Dall’alto di quel picco spingendo il mio sguardo in quel mugghiarne Flegetonte, non poteva restarmi dal sorridere alla grande semplicità con cui il buon Giona Ramus racconta come cose difficili a credersi i suoi aneddoti degli orsi e delle balene; avvegnachè mi paresse cosa di per sè tanto evidente, che il più grande vascello di linea, toccando il raggio di quell’attrazione infernale, dovesse necessariamente perdere ogni resistenza, o almeno tanta ritenerne quanto è quella di lievissima penna in balía del vento, e così sparire ingolfato d’un tratto nel profondo baratro.
Le spiegazioni date di questo fenomeno (di cui alcune bastevolmente plausibili alla lettura), mostravano adesso un aspetto molto diverso ed assai poco soddisfacente. E la spiegazione accolta in generale è che, a guisa dei piccoli vortici delle isole Feroë, «cotesto tragga la sua vera origine dalle ondate ascendenti e discendenti, dal flusso e riflusso, lungo un banco di roccie che urta ed addensa le acque, e le sospinge violento in cateratta; in modo che, quanto più la marea s’innalza, e tanto più la caduta è profonda, e che ne viene naturalmente a risultare una tromba immane, un vortice straordinariamente disteso, la cui prodigiosa potenza d’attrazione o assorbimento è bastantemente chiarita dai più comuni esempi». Tali le parole dell’Enciclopedia britannica.
Ma Kirker ed altri pensano che a mezzo del canale di Maelstrom siavi un abisso il quale, attraversando il globo, riesca in qualche plaga incognita, lontanissima; — sì che una volta fu persino designato con molta leggerezza il golfo di Botnia. La quale opinione, certo assai puerile, era tuttavia quella cui, nel mentre io osservava dall’altissimo picco lo spettacolo, la mia immaginazione desse molto più volentieri il suo assenso. E, avendola manifestata alla mia guida, restai molto meravigliato udendola dirmi che, sebben tale fosse appunto l’opinione dei Norvegi su quest’argomento, e’ nullameno la pensava diversamente. A proposito poi di tale idea, francamente confessò, essere incapace di comprenderla, ed io finii per restare d’accordo con lui; che, per quanto essa possa parere concluderne sulla carta, in fin fine diviene assolutamente inintelligibile ed assurda di fronte al fulmine dell’abisso.
— Ed ora, — mi disse qui il buon vecchio — ora che avete ben contemplato il vorticoso gorgo, se credete con precauzione lasciarvi scorrere dietro cotesta roccia, sottovento, tanto per mitigare il frastuono delle acque, io vi narrerò una storia per cui rimarrete convinto ch’io ne so pur qualche cosa, io, del Moskoe-Strom!
Mi postai come gli parve, ed ei prese a dire:
— Una volta, i miei fratelli ed io possedevamo una goletta della portata di settanta circa tonnellate, con cui ordinariamente andavamo a pescare tra le isole al di là di Moskoe, presso Vurrgh. Purchè colgasi il tempo opportuno, e che non difetti il coraggio all’impresa, ogni violenta agitazion di mare suole arrecare buona pesca: però, tra tutti gli abitatori della costa di Lofoden, noi tre soli facevamo l’ordinario mestiere di navigare, come vi dissi, alle isole. Ma le pescagioni ordinarie fannosi assai più a basso, verso mezzodì. Vi si piglia pesce, in ogni tempo, senza molto correre pericoli, e naturalmente quei paraggi ottengono la preferenza: se non che, da questa parte, tra le roccie, i siti della scelta non solo dan pesce di miglior qualità, ma ed anco in quantità maggiore; e tanto che, di spesso, noi, arditi, ne pescavamo in un sol giorno quanto i timidi dei mestiere riuscissero a prenderne tutt’assieme in una settimana. Insomma, era quella per noi una specie di speculazione audace, disperata, dove il rischio della vita compensava la fatica, e il coraggio era a luogo del capitale.
Ricoveravamo la nostra barchetta in una cala a cinque miglia più in alto di questa; e, nel bel tempo, usavasi trar profitto del respiro di quindici minuti per ispingerci a traverso il canale principale del Moskoe-Strom, molto al di sotto del vortice, recandoci a gittar l’àncora in qualche sito delle vicinanze d’Otterholm, o di Sandflesen, dove i sobbollimenti manifestano minor violenza che altrove. E là, d’ordinario, ci posavamo in attesa di levar l’àncora e far ritorno alle nostre case, su per giù sino all’ora della quiescenza delle acque. Tuttavia ci commettevamo sempre a così fatta spedizione con un buon vento a mezza nave per l’andata e pel ritorno (un vento su cui potevamo contare per rifar la via), al quale proposito rare, ben rare volte non cogliemmo il giusto punto. In sei anni, due volte solo ci fu mestieri passar la notte all’àncora in séguito di perfetta bonaccia, caso per vero rarissimo in quelle spiaggie: altra volta poi restammo a terra quasi un’intiera settimana quasi morti di fame, in causa di una folata di vento che misesi poco dopo il nostro arrivo, rendendo il canale troppo agitato perchè noi potessimo avventurarci alla traversata. Nella quale circostanza, non ostante ogni sforzo, noi saremmo stati spinti ben al largo, avvegnachè le ondate ci balzasser qua e là con tanta violenza che noi avremmo dovuto in fine arar sull’àncora rotta, se non fossimo capitati in una delle innumeri correnti che si formano oggi qui e domani altrove, la quale ci trasse a sottovento di Flimen, dove, per fortuna, potemmo dar fondo.
Nè vi narrerò la millesima parte dei pericoli da noi corsi in quelle pescagioni (una brutta spiaggia in mia fede anche col tempo più bello); ma invero avevamo sempre moda di sfidare senz’accidenti il Moskoe-Strom famoso: eppure, molte volte sentii arrestarmisi i battiti del cuore, quando m’accorgeva d’essere d’un minuto innanzi o indietro della temporanea bonaccia. Talvolta poi il vento non era sì vivo come lo speravamo nel porci alla vela; ed allora avanzavamo men lesti che non l’avremmo voluto, mentre la nostra barca riusciva difficilissima ad essere governata per la corrente.
Il mio maggior fratello aveva un figlio dell’età di diciotto anni; ed io, per conto mio, due giovinotti molto valenti; i quali, in simili casi, ci sarebbero proprio stati di grande aiuto, sia per dar bene nei remi, sia per la pesca di poppa. Però, se noi di nostra piena volontà commettevamo le nostre vite alla sorte, non ci reggeva il cuore di lasciar affrontare cotanto pericolo da quelle giovani esistenze; poichè infine, considerato il tutto, quello era un gran brutto pericolo: e per verità, ve lo affermo, lo era!
Udite.
Saranno omai tre anni, o forse qualche giorno, meno, che avvenne quanto or ora sono per dirvi.
— Era il 10 di luglio 18.., giorno che gli abitatori della contrada non iscorderanno mai; poichè in esso rovinò una sì terribil tempesta, quale giammai ne versarono le cataratte del cielo. Nondimeno tutto il mattino, ed anzi molto tempo dopo ancora il mezzodì, noi avevamo avuto bello e assai propizio vento di sud-ovest, con un sole davvero superbo, tanto che il più vecchio lupo di mare, nonchè prevedere, non avrebbe neanco sognato la scena di cui dovevamo essere attori ad una e spettatori.
Tutti e tre, i miei due fratelli ed io, avevamo attraversato le isole in su le due ore circa dopo il meriggio; e in breve la nostra barca fu onusta di bellissimo pesce, in tale quantità (e l’avevamo anzi notato tutti e tre) che mai la maggiore. Erano le sette in punto al mio orologio, quando levammo l’àncora per fare ritorno, calcolando, giusta la pratica, di fare il più pericoloso della traversata dello Strom appunto nel tempo della massima bonaccia, che noi sapevamo essere in su le otto ore.
Partimmo con buon vento largo sulla destra e per qualche tempo camminammo velocemente, e senza un’idea al mondo di pericolo; chè, per vero nulla vi era che ci apparisse tale da metterci in apprensione. D’un tratto fummo colpiti da rabida raffica di vento di prora che veniva da Helseggen. Accidente davvero straordinario, cosa che non ci era mai e mai accaduta; ond’io cominciai a sentirne un po’ d’irrequietezza, senza per vero rendermene esattamente ragione. Noi agguantavamo al vento ma non riuscimmo a spingerci innanzi, ed io stava per proporre di ritornare alla cala, quando, osservato dietro di noi, vedemmo tutto l’orizzonte avvolto d’una nebbia singolare, color di rame, che con velocità meravigliosa saliva.
Nello stesso tempo il vento che ci avea còlto di prora, cessò e, sorpresi allora da pienissima bonaccia, restammo in balía di tutte le correnti; il quale stato di cose non perdurò tanto da poterci neanco rifletter sopra. In men d’un minuto il cielo s’era intieramente mutato, — e d’un tratto venne poi sì nero, sì nero che tra le nebbie che s’addensavan su noi, non ci era più possibil distinguere le stesse nostre persone.
Volervi descrivere un sì fatto colpo di vento, sarebbe vera follia. Nessun marinajo di Norvegia, per quanto esperto e vecchio nell’arte, non ebbene mai a toccare di simili. Prima però che ci cogliesse quell’émpito, noi avevamo serrato ogni vela; e nullameno sin dalla prima raffica i nostri due alberi, come se d’improvviso segati a’ piedi, rovinando caddero al mare, de’ quali il maggiore trasse seco di peso il mio più giovane fratello, che con vana prudenza eravisi a tutta prima aggrappato.
Francamente, posso affermarvi che non vi fu mai nessun battello più agile nè più perfetto del nostro a solcare la infida superficie del mare. A livello del ponte eravi nel dinanzi un piccol boccaporto che per vecchia e costante nostr’abitudine nell’attraversare lo Strom, soleva sempre esser chiuso, — precauzione eccellente in un mar tanto incerto.
Nella quale circostanza tuttavia saremmo andati di primo colpo sommersi, poichè in un attimo restammo letteralmente sepolti nelle acque: in qual modo poi sia sfuggito alla morte il mio maggior fratello, non lo saprei dire, sì come giammai non me lo seppi spiegare. Quanto a me, non sì tosto ebbi lasciato l’albero di trinchetto, mi era buttato, boccone sul ponte co’ piedi appuntati alla murata di prua, le mani aggrappate ad una chiavarda, prossima al piè dell’albero di trinchetto.
Lo che aveva fatto per solo semplice istinto (ed era stato senza dubbio il meglio che potessi fare), poichè troppo mi trovava stupidito per avere idee.
Come dissi, duranti alcuni minuti restammo innondati completamente, nel qual tempo tenni affatto il respiro e mi aggrappai per disperazione all’anello. E quando sentii ch’io proprio, non poteva più durarla senz’esserne soffocato, mi rizzai sulle ginocchia, sempre però tenendomi assicurato con le mani; e scaricai la mia testa.
Allora il nostro piccolo battello si scosse vivamente come di per sè, proprio a guisa d’un cane ch’esca fuor d’acqua, e levisi in gran parte sul livello delle acque. Ed io feci uno sforzo per iscuotere da me il fitto stupore ond’era avvolto, e per riacquistare bastevolmente i miei spiriti, per vedere insomma ciò che potevasi fare, allorchè sentii come una man di ferro agguantarmi nel braccio. Era il mio maggiore fratello: il cuore mi balzò di gioia, poich’io credeva ch’egli fosse scivolato di sopra il ponte: ma, un momento dopo, quella gioia intensa mutossi in un orror di dannato, quando, cioè, e’ stesso accostando la sua bocca al mio orecchio vi susurrò questa parola: Il Moskoe-Strom!
È impossibile che uomo arrivi mai a concepire i pensieri passatisi in me in quell’istante; impossibile, dico! Tremai da capo a’ pie’ come se tôcco ripetutamente di forza misteriosa, o come se preso di violentissimo accesso di febbre. Aveva compreso quanto bastasse la significanza di quella parola il Moskoe-Strom! Io sapeva pur troppo quanto mi volesse significare! Dal vento ch’ora ci spingeva, noi eravamo spinti nel vortice terribilissimo: nulla e nessuno ci poteva più salvare! Vi ho ben detto che, quando traversavamo il canale di Strom, noi tenevamo una linea assai discosta dal vortice, anche nel tempo della più perfetta calma, e che, oltre ciò, stavamo attentissimi e nell’attendere e nello spiare la quiete della marea: ma in allora eravamo spinti dritti dritti nella gola della tromba fatale, e con una tempesta così fatta! — E noi, pensava, per certo vi perverremo al momento della bonaccia momentanea; evvi, là, ancora un filo di speranza: — ma un momento dopo intimamente disprezzava me stesso, d’essere stato sì folle d’avere ancor sognato qualche speranza. Scorgeva, e n’era perfettamente convinto, che il nostro fine era segnato, fossimo pure stati sul più grande vascello della prima nazione del mondo.
In questo momento il furor primo della tempesta era cessato, o forse noi non lo sentivamo più tanto così, spinti com’eravamo rapidissimamente: ma il mare, domo in breve dal vento, piano e schiumeggiante rizzavasi su su in vere montagne. E un cangiamento singolarissimo era avvenuto nel cielo.
Per ogni verso, d’intorno a noi continuava sempre, ma su alto alto, una grande zona nera nera, nera come pece fitta; e sopra le nostre teste, appariva un’apertura circolare, un cielo chiaro, limpido come non l’ebbi mai visto in mia vita, d’un azzurro brillante, carico; e a traverso quel buco meraviglioso magnificamente splendeva la luna piena, con fulgore insolito, non mai apparso. La quale rischiarava ogni oggetto a noi circostante con purità tersissima, con cristallina trasparenza, mirabilissima. Oh, mio Dio, mio Dio, quale scena a’ nostri occhi!
Per ben due volte disperatamente mi sforzai di parlare al fratello: ma — senza che potessi darmene ragione — il frastuono era tale, che non riuscii a fargli capire una mezza sillaba, quantunque io gridassi nel suo orecchio con tutta la forza de’ miei polmoni. D’un tratto e’ scosse la testa, si fe’ pallido come la morte, e spiegò su un dito come per dirmi: Ascolta!
Lì subito, non ben compresi ciò ch’e’ mi volesse dire; ma tosto, d’un tratto, un orribil pensiero mi balenò in capo. Trassi, di tasca il mio orologio, ed osservai. Era fermo. Io fissava il quadrante al chiaro della luna, è poco dopo amaramente singhiozzando il lanciai da me lontano nell’oceano. L’orologio si era fermato su le sette ore! Noi avevamo lasciato passare il riposo della marea, e il turbine di Strom trovatasi nella piena sua furia!
Allor che un bastimento è ben costrutto, provvisto del necessario, nè troppo carico, le ondate, sotto un gran vento, e s’ei trovasi al largo, paion sempre voler prorompere di sotto la chiglia — fatto molto strano a’ non pratici del mare — lo che in lingua di bordo suol dirsi andar di bolina1. Il che andava bene sin tanto che noi correvam sull’ondata, ma attualmente un gigantesco mare ci coglieva alle spalle, sollevando i suoi flutti, alto, alto, alto, quasi per lanciarci su ’n cielo. Nè io avrei mai creduto che un’ondata potesse salire tant’alto. E dappoi scendevamo descrivendo una curva, uno sdrucciolo, un tuffo, che mi dava la nausea e le vertigini, come quando in sogno cadesi dall’altezza sterminata di una montagna. Ma dalla cresta sublime di quei marosi, rapido qual lampo, io aveva discorso d’ogn’intorno lo sguardo, e quell’occhiata istantanea erami bastata; bastò quell’attimo a disvelare tutta l’orribil nostra posizione. Il vortice del Moskoe-Strom trovavasi, in dirittura, d’innanzi a noi un quarto di miglia circa, ma e’ tanto poco s’assomigliava al Moskoe-Strom di tutti i giorni, quanto il turbine che voi vedete ora si assomiglia a’ rivolgimenti d’un molino. Se io non avessi saputo dove eravamo, e ciò che era da aspettarci, confesso che non avrei riconosciuto il sito. E tale mi apparve, che issofatto gli occhi si chiusero involontariamente per orrore, e le mie palpebre rimasero come incollate di spasimo.
In men di due minuti ci accorgemmo che il fiotto erasi calmato, e allora fummo tutti avvolti in biancicante schiuma. Il battello prese bruscamente un’orzata a sinistra, e guizzò da questa nuova direzione come fulmine. Contemporaneamente, il ruggito delle acque si perdette in una specie di clamore acuto, un suono tale che potrebbesi soltanto concepire figurandosi più e più migliaia di vaporiere, aperte nel medesimo istante, dar libero sfogo agli addensati vapori. Ci trovavamo allora nella rigonfia zona che accerchia costantemente il baratro; e naturalmente io temeva che tra un secondo saremmo spariti nell’abisso, il cui fondo scorgevasi in confuso, tanto cioè quanto ci concedeva di vedere la prodigiosa velocità ond’eravamo tratti. Nè il battello sembrava, solcasse le acque, ma appena appena rasentassele, simile a bolla d’acqua volteggiante sulla superficie dell’onda. La bufera ci soffiava da destra, e a sinistra rizzavasi l’immenso oceano da noi trascorso, il quale sembrava una muraglia immane contorcentesi tra noi e l’orizzonte.
Può sembrarvi strano, eppure, quando ci trovammo nella stessa gola dell’abisso, sentii rimettermisi un po’ più di sangue freddo, più di quanto ne avessi avuto man mano che mi vi appressava. Morto affatto alla speranza, mi trovai come sciolto d’una gran parte di quel terrore ond’era stato da principio fulminato. Anzi io penso che la disperazione stessa irrigidisse i miei nervi.
Probabilmente voi prenderete queste cose come una millanteria; ma, in affè di cristiano, vi narro la verità pretta pretta: ed io cominciava a immaginare qual veramente stupenda cosa si fosse il finire in consimile modo, e quanto fosse stolto, nè per me dicevole occuparmi d’interesse sì volgare qual era quello della mia individuale conservazione, al cospetto d’una così bella manifestazione della potenza di Dio. E penso che me ne salisse il rossore alla fronte quando tale idea mi lampeggiò nello spirito: — alcuni istanti dopo io venni invasato dalla più ardente curiosità rispetto al vortice medesimo. E provai realmente il disio, l’intenso disio d’esplorarne i suoi profondi abissi, dovesse pure esserne prezzo il sacrifizio di me stesso; solo ed unico mio rammarco il pensare che tuttavia non mi fosse dato raccontare a’ miei vecchi camerata i misteri ch’eran lì lì per aprirmisi. Certo, quelli eran pensieri singolari per tenere occupato lo spirito di un uomo che trovavasi a tali estremi; — e lo confesso, da allora ho pensato più volte che i giri del battello intorno l’abisso mi avessero un po’ tolto di capo il senno.
Nullameno una circostanza contribuì a rimettermi nella signoria di me stesso; e fu la completa cessazione del vento, che, al punto ove omai ci trovavamo, non giugneva più a colpirci: che, come potrete giudicarlo di per voi stesso, la suddetta zona di schiuma trovandosi notevolmente al di sotto del natural livello dell’oceano, questo, in quella nostra postura, ci si levava sopra a mo’ della cresta di alta e nereggiante montagna. E se non vi trovaste mai in mare nelle furie di forte tempesta, voi non potete farvi un’idea delle agitazioni dello spirito, deste per la simultanea azione del vento e delle nebbie. Tutto ciò vi accieca, vi sbalordisce, vi affoga togliendovi ogni facoltà di oprare e di riflettere. Ed ormai noi ci sentivamo grandemente sollevati di tutti questi fastidi — simili agl’infelici dannati nel capo, cui accordasi in prigione qualche lieve special favore, solito a negarsi innanzi il proferimento della sentenza.
Mi sarebbe impossibile il dirvi quante e quante volte, saettati da quella forza infernale, siasi da noi fatto il giro della zona strana. Vagammo, circolando sempre, per non meno d’un’ora: anzichè galleggiar su flutti, scivolavamo, sguizzavamo, volavamo, sempre più accostandoci al centro del turbine, e sempre più vicini, sempre più vicini all’affamata sua bocca.
Intanto, in tutto questo tempo, le mie mani erano sempre state aggrappate alla chiavarda; mio fratello maggiore, più in dietro, tenevasi ad un piccolo barile vuoto, sodamente fisso sotto la vedetta, dietro la chiesola: era il solo oggetto a bordo che non fosse stato spazzato quando fummo assaliti dalla prima furia del vento.
In quella che ci appressavamo all’argine di questo pozzo semovente, e’ lasciò il barile tentando d’afferrare l’anello che, nell’agonia del terrore, voleva strappare dalle mie mani, e che non era però tanto largo da poter con sicurezza servire ad entrambi. Di mia vita, io non sentii dolore simile a quello da me provato allor che scorsi mio fratello tentare così fatta azione, quantunque ben vedessi che, allora, egli era fuor sensi, e che il solo spavento avevalo renduto furioso. Tuttavia non istetti a disputargli il posto. Ben sapeva quanto poco importasse il tenere l’anello; e quindi mi spiccai dalla chiavarda, e m’afferrai al barile, di dietro. Nè v’era molta difficoltà a compiere questa mossa, avvegnachè il battello scorresse circolarmente molto eguale, e perpendicolare alla sua chiglia, spinto soltanto talvolta qua e là dalle immense ondate e da’ subbollimenti del turbine. Ma non sì tosto mi fui acconciato in quella nuova postura, che un violento abbrivo di destra mi trabalzò all’ingiù, e noi demmo di botto del capo nell’abisso. Mormorai a Dio una rapida prece, certo ora che il tutto dovev’essere finito.
Siccome pativa assai l’effetto dolorosamente nauseabondo della discesa, aggrappatomi istintivamente al barile con maggior energia, aveva chiuso gli occhi; nè per alcuni secondi osai più aprirli, in attesa di un’istantanea fine, e quasi diggià meravigliato di non sentire ancora gli ultimi affanni dell’affogamento. Ma passavano i secondi, passavano, passavano ed io era sempre in vita. Cessata qui la sensazione della caduta, il moto del battello rassomigliava nuovamente a quel di prima, allora, cioè, che ci eravamo immessi nella zona di schiuma, ad eccezione che adesso pigliavamo più il largo nel giro della zona circolante. Ripreso animo, osservai una volta ancora la scena meravigliosa.
Non dimenticherò mai le sensazioni di spavento, d’orrore e d’ammirazione da me provate spingendo lo sguardo a me d’intorno. Il battello pareva, come per incanto, sospeso a mezza via di sua caduta sulla interna superficie dell’imbuto di amplissima circonferenza, di prodigiosa profondità, le cui pareti, mirabilmente terse, si sarebbero scambiate per ischietto ebano, se non fosse stata l’abbagliante velocità con cui giravano sopra sè stesse, e lo scintillante orribile splendore che rifrangevano sotto i raggi della luna piena, i quali, come dissi, da quell’altissimo circolar pertugio piovevano in pioggia d’oro e di luce mirifica lungo quelle nere pareti, penetrando sino ne’ più imi gorghi del cupo abisso.
Sulle prime, io era troppo sconvolto per notare ogni oggetto con giusta esattezza. Tutto quanto io aveva potuto osservare consisteva nello spettacolo subitaneo, immane, completo di una magnificenza altrettanto unica quanto magnifica: non sì tosto ritornai in me, il mio occhio si spinse istintivamente verso l’abisso. Nella quale direzione invero io poteva spingere lo sguardo liberissimamente, appunto per la situazione del battello, che rimaneva librato sull’inclinata superficie del pozzo. E sempre il mio legno scorreva sulla sua chiglia, sempre, in maniera che il suo ponte faceva un piano parallelo a quello dell’acqua formante come una scarpa inclinata oltre i 45 gradi, onde pareva che noi ci reggessimo sul nostro fianco. Nella quale situazione rilevava eziandio come omai, a tenermi con le mani e co’ piedi, io non durassi maggior disagio che se mi fossi trovato sur un piano orizzontale; lo che, suppongo, dipendeva dalla massima velocità con cui giravamo.
Pareva, che i raggi della luna cercassero l’imo fondo dell’immenso abisso; e, tuttavia, nulla io poteva scernere di distinto a motivo della fitta nebbia ond’erano avvolte tutte cose, sulla quale vibravasi uno stupendo arco baleno, simile allo stretto e minaccievol ponte che i Mussulmani tengono, essere l’unico passaggio tra il Tempo e l’Eternità. La quale nebbia o schiuma era naturale effetto del conflitto delle sterminate muraglie dello imbuto strano, colaggiù nell’imo baratro, dov’esse, urtando, cozzavano sprizzandosi vorticosamente. Nè io mi sento capace di descrivervi l’urlo incessante che da que’ baratri levavasi tra quella nebbia al cielo.
Il nostro primo sdrucciolar nell’abisso ci avea tratti — a partir dalla schiumosa zona — ad un’immane distanza su la china: ma l’ulterior nostra discesa avvenne su per giù in modo piuttosto uguale, cioè non tanto rapido. Scorrevamo sempre, sempre, circolarmente, non più con moto uniforme, ma a slanci e scosse assordanti che ora ci balzavano a una centinaja di jarde2 ed ora ci facevano persin compiere un’intiera rivoluzione sulla bocca del vortice. E ad ogni nuovo giro ci accostavamo alla voragine, lentamente, è vero; ma in modo sensibilmente graduato.
E con l’occhio discorsi la superficie dell’ampio deserto di ebano da noi solcato, e mi accorsi come la nostra barca non fosse il solo oggetto attratto nelle spire del vortice. Di sopra e sotto di noi scorgevansi avanzi di navigli, e grossi pezzi d’armature, di navi, e buon numero d’oggetti varj, frammenti di mobilie, di bauli, di barili, di doghe, ecc. Vi ho diggià detto la curiosità soprannaturale in me sottentrata ai terrori primitivi; ma qui mi pareva ch’essa si fosse accresciuta in proporzione che mi avvicinava all’orribile mio destino: quindi diedimi ad osservare, con istranissimo interesse i numerosi e molteplici oggetti che galleggiavano in nostra compagnia. Bisognava ch’io fossi preda del delirio, poichè devo confessare che provava una specie di piacere in calcolare le relative velocità della loro discesa verso il turbine di schiuma.
E una volta giunsi persino a dire: — Ecco, quell’abete là fia il primo di tutti noi a far l’orribile tuffo, e a scomparire; — e mi trovai poscia molto piccato, scorgendo che un bastimento mercantile olandese lo aveva preceduto ed era piombato nel fondo. Col tempo, dopo varie congetture di simil natura, sempre erronee, — questo fatto, il fatto cioè del continuo error de’ miei calcoli, — aprircimi un altr’ordine di riflessioni, che nuovamente scossero ogni mio membro e fecero più penosamente pulsare lo stremo mio cuore.
Non era più un terrore nuovo che mi assalisse ancora, ma sì il barlume d’una speranza assai più commovente, speranza che in parte veniva dalla memoria, in parte dall’osservazione presente. Mi rammentava l’immensa e varia quantità di oggetti e resti di naufragio che cuoprivano le coste di Lofoden, stati assorti e rivomitati dal Moskoe-Strom; articoli quasi tutti rotti noi modo più straordinario e violento, sfregati, rôsi, scanalati nelle più strane foggie, tanto che parevano tutti coperti di punte e di scheggie. E nullameno distintissimamente ricordavami come ve ne fossero di tali che l’avean poco o punto perduto la prisca lor forma. Della quale differenza, allora, non mi sapeva dar ragione se non che supponendo tali disformati frammenti fossero i soli stati completamente inghiottiti, — e gli altri entrati nel turbine in un periodo già assai innanzi della marea, o che, attrattivi, fossero per una od altra causa, potere od influsso, secondo il caso, così lentamente discesi da non toccare il fondo pria del ritorno del flusso o del riflusso. Era, insomma, giunto a capire come, ne’ due casi, fosse stato possibile ch’essi fossero risaliti per nuovi ed opposti vortici di reazione sino al livello dell’oceano, evitando così la sorte di quelli che, attratti ne’ primi momenti, erano stati più rapidamente inghiottiti.
Allora feci queste tre importanti osservazioni: la prima — regola generale — che, più grossi erano i corpi, e più rapida diventava la loro discesa: la seconda, che, date due masse di estensione uguale, sferica l’una e l’altra non importa di quall’altra forma, la celerità della discesa era maggiore nella sferica: la terza che, avute due masse a volume uguale, cilindrica l’una e l’altra di qualsiasi altra forma, il cilindro veniva ad essere inghiottito più lentamente.
Scampato poi dal pericolo, varie volte tenni ragionamento su tale subbietto con un vecchio maestro di scuola della provincia, dal quale appunto imparai l’uso della parola cilindro e sfera. E mi spiegò (spiegazione ch’io scordai), che quanto aveva osservato era la natural conseguenza della forma dei resti galleggianti; e dimostrommi che un cilindro, avvolgendosi in un vortice offriva più resistenza ad essere inghiottito e veniva attratto con maggior difficoltà d’un corpo di qualunque altra forma e di volume uguale3.
Vi era eziandio una circostanza assai notevole che aggiugneva gran forza a queste osservazioni, eccitandomi disio di verificarle: ed era che, ad ogni nostro giro passavamo avanti ad un barile o ad un’antenna o ad un albero di nave; e che la maggior parte di simili oggetti natanti al nostro livello quando aveva per la prima volta aperto gli occhi su’ portenti del vortice, ora si trovavano assai al di sopra di noi, e pareva si fossero pochissimo scostati dalla primitiva loro situazione.
Non esitai più sul da farsi.
Risolvetti d’attaccarmi con confidenza al carratello, cui tenevami sempre abbracciato, mollare il cavo ond’era tenuto alla gabbia, e d’avventurarmi con esso alle onde. E con segni mi sforzai di trarre l’attenzione del fratello su’ barili natanti, che discorrevano d’attorno, usando tutto quanto seppi e potei per fargli capire questa risoluzione. Mi parve in fine ch’egli avesse indovinato il mio disegno; ma, avesselo o no afferrato, scosse senza speranza la testa, e rifiutò di lasciar il suo posto presso l’anello. Violentarlo e trarlo a me, impossibile; e, ogni perdita di tempo, fatale. Per lo che con angoscia straziante abbandonai al suo destino affidandomi al carratello col cavo ond’era legato alla vedetta; e, con piena risoluzione, mi spinsi con esso in mare.
E il risultamento soddisfece pienamente le speranze. E poi ch’io medesimo vi narro questa storia, io, che vedete scampato dal pericolo; e poichè omai v’è noto il mezzo di salvamento da me impiegato, — da cui per certo potete facilmente prevedere quanto potrei ancora svelarvi; io, abbreviando il racconto, tirerò diritto alla fine.
Era passata circa un’ora da che io aveva abbandonato il battello, quando questo, disceso a un’immensa distanza al di sotto di me, compì uno dopo l’altro tre o quattro giri velocissimi, e, trasportando il mio carissimo fratello, infilò direttamente e per sempre nel caos della schiuma. Il barile, cui io era avvinghiato, galleggiava quasi a mezza via tra il fondo del baratro e il sito dond’erami slanciato dal battello, allora che un notevolissimo cangiamento manifestossi nel carattere del turbine. Man mano le pareti dell’imbuto infernale perdettero quell’eccessivo loro sdrucciolo, e grado a grado i lor giri scemarono di velocità e forza; e andate bel bello in dileguo la schiuma e l’arcobaleno, il fondo del baratro parve lentamente sollevarsi.
Splendido il cielo e calmo era il vento, e la luna piena superbamente calava a ponente, quando mi trovai alla superficie dell’oceano, proprio in vista della costa di Lofoden, in su lo spazio dove, poco fa era stato il vortice del Moskoe-Strom. Era l’ora della bonaccia temporanea, ma il mare per effetto della tempesta continuava a sollevarsi in ondate grosse e distese. Venni violentemente spinto nel canale dello Strom, e pochi minuti dopo gittato sulla spiaggia, nella pescheria; dove, rifinito di stenti e d’affanno, fui raccolto da un battello: se non che or ch’era passato il pericolo, l’orrore di tante cose viste e sofferte aveami reso muto. Coloro che mi trassero a bordo eran tutti vecchi miei camerata di mare, miei compagni di tutti i giorni; ma essi non riconobbermi, altrimenti che s’io fossi stato un viaggiatore ritornato dal mondo degli spiriti.
I miei capelli, neri il giorno prima, neri com’ala di corvo, s’eran fatti bianchi, perfettamente bianchi come vedete; e mi dissero che tutta l’espression della mia fisionomia s’era cangiata. Io narrai loro la mia storia, ed essi non la vollero credere. Ora io l’ho raccontata a voi e mi lusingo che voi le darete più fede di que’ miei increduli e bajoni pescatori di Lofoden.
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