Una passione/XIV

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XIV. Zenith

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XIII XV
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XIV.

Zenith.

Un oblio assoluto di quanto era stato la sua esistenza fino allora continuò a dominare sulle giornate d’Ippolito. Neppure un pensiero della sua casa e della sua famiglia, meno ancora del suo avvenire, interrompeva l’ardente duetto di amore. Tutto ciò che non fosse Lilia non esisteva per lui.

Talora gli sembrava di amarla come una fanciulla che dovesse far sua; abbracciandola provava una sensazione piena di poesia; gli pareva di essere entrambi molto giovani ed appena sulla soglia di una felicità misteriosa e lontana. Talora invece, inginocchiato ai di lei piedi si sentiva piccino piccino, umile, debole, e se ella sorridendo, lo chiamava fanciullo, una improvvisa [p. 197 modifica] tenerezza gli faceva groppo in gola suscitandogli l’immagine dell’affetto materno che non aveva provato mai, e gli sorgeva in petto una calma, una sicurezza nuova, come se quell’amore dovesse proteggerlo e difenderlo contro ogni sciagura. In altri momenti parlando e scherzando insieme si illudeva di averla sempre conosciuta e che fosse per lui un’amica, una sorella, una gaia compagna a cui poter confidare ogni segreto pensiero; e gli appariva pure talvolta nell’aspetto di una meravigliosa principessa la quale, corteggiata da mille e mille sudditi, li ingannasse tutti per venire incognita a recargli i suoi baci.

Ma tutti questi amori si fondevano in uno solo, potente, irresistibile. Quando, stretto fra le sue braccia, sentiva di essere riamato così, e nella flessibilità di quel corpo di giunco, attraverso l’urto della materia coglieva l’abbandono completo dell’anima, il ruggito dell’uomo che primo conobbe il divino mistero scuoteva il suo petto di giovine.

Le metamorfosi di Lilia, i molteplici aspetti della sua femminilità e della sua intelligenza facevano trovare sempre breve il tempo trascorso presso a lei. Dopo lunghe ore d’amore Ippolito aveva l’impressione di non averle dimostrato nemmeno la più piccola parte della sua passione, di quella passione strana, ardente, [p. 198 modifica] assorbente, che mirava ad accogliere in sè tutti i sentimenti, tutti gli affetti; passione fatta di simpatia, di gratitudine, di ammirazione, di fascino ma sopratutto di occulto destino in cui egli vedeva realizzati i sogni più pazzi della prima gioventù. Due bellezze, due giovinezze, due intelligenze, e un solo palpito, un eguale delirio! Ma perchè ad onta di ciò le sue manifestazioni riuscivano di tanto inferiori al fuoco che le aveva ispirate? Lampi e bagliori profondi illuminavano le loro ebbrezze eppure lo bruciava dentro ben altra fiamma. Egli si torceva contro l’impotenza della carne ad esprimere tutto ciò che sentiva; Provava l’avidità e il martirio del cercatore di tesori chino sull’immenso oceano che travolge ne’ suoi gorghi le perle.

Ali! ali! Con questa smania nel sangue Ippolito percorreva gli intricati meandri del vecchio giardino porgendo orecchio ai fremiti della selva, agli indistinti susurri dei nidi e raggiunta la parte più elevata del giardino dai ruderi cadenti di un terrazzo contemplava la superficie del lago nei molteplici aspetti che le conferiva l’ora, la luce, la nuvola che passa. Disteso al mattino colla leggerezza trasparente di un velo nuziale si faceva gradatamente più denso, con marezzature verdi e azzurre di broccato, con lunghi nastri aggrovigliati che sparivano improvvisamente per far sorgere al loro posto uno scintillio di [p. 199 modifica] brillanti; e man mano che le ombre dei monti si allungavano sembravano respingere al confine le tinte tenere morenti nell’ora del tramonto, mentre le rive vicine si ammantavano di cupi velluti.

Avvezzo alla contemplazione della natura, Ippolito la associava alle più intime sensazioni. A’ suoi occhi nulla era isolato di ciò che palpita nell’universo: egli intendeva il grido giulivo del germoglio che rompe la terra e il lamento della foglia che cade; egli soffriva la malinconia dei fiori strappati prima della maturanza, dei nidi deserti, delle piante sterili, dei rami morti. Da un letto d’erbe, colla fronte levata al cielo, percepiva nel punto nero quasi invisibile librato ad altezze vertiginose il volo dell’aquilotto selvaggio, ed egli balzava in piedi tutto fremente, coi polsi che gli martellavano per un inconsulto desiderio di ascesa. Oh! levarsi alto sulla terra per vederla tutta, per abbracciarla tutta! Levarsi in un amore che potesse stringere tutti gli amori e toccare le soglie dell’immortalità!

Mirabile cosa. La passione che si era destata in lui e che tutto lo assorbiva, invece di sminuire sembrava crescere la sua forza d’amore, sembrava svolgere dai più occulti recessi del suolo una personalità nuova più potente e più complessa. Avrebbe voluto fare qualche cosa di grande e che fosse nello stesso tempo di una dolcezza infinita, come un tempio, come un [p. 200 modifica] altare; meglio ancora, come un roveto perenne dove bruciasse tra colonne di fuoco un incenso di vita.

Lilia assisteva curiosa e meravigliata a questa fioritura di un’anima sotto il sole dell’amore. La sua commozione però non assomigliava a quella di Ippolito. Fin dove era possibile arrivare coll’intelligenza ella lo seguiva, e la sua facoltà di assimilazione era tale che in certi momenti la fusione appariva perfetta. Comprendeva i suoi pallori e i suoi fremiti, ma non poteva impallidire e fremere ella stessa, perchè in altro modo sentiva e vedeva la vita. Congiunti nell’ardore di un amplesso dove il desiderio e il piacere erano uguali, Lilia sentiva che al di là di quelle labbra virili una sensazione ignota le sfuggiva di continuo, batteva un’ala ch’ella non giungeva ad afferrare. Raddoppiava allora la foga dei baci e gli chiedeva ansiosa: «Sei mio? Sei mio?» al che egli non sapeva rispondere se non stringendola freneticamente contro il suo cuore.

Così eccitati percorrevano i viali folti di erbe selvatiche dove gli scarpini di Lilia non riuscivano sempre a districarsi dai rovi; e quando il sentiero era troppo malagevole egli la portava, raggiante di piacere e di orgoglio, sentendo il bel corpo piegare sulla sua spalla. Il boschetto delle rose li accoglieva nelle ore più calde. Essi [p. 201 modifica]vi avevano praticato uno spazio libero rizzandovi un’amaca trovata alla villa, nella quale Lilia faceva la siesta col braccio passato intorno al collo di Ippolito — quel braccio che usciva così bianco e morbido dalle maniche aperte che ella soleva portare negli abiti di casa, ricadenti lungo il fianco a guisa di ali in riposo — e nella gioia di trovarsi tanto vicini e tanto felici rifacevano la storia del loro amore.

Lilia rivendicava il diritto di anzianità avendolo amato per la prima, solo per udirne parlare. Ippolito diceva di averla amata sempre, di averla amata in tutte le cose belle, ne’ suoi sogni e nella sua arte. Narrava la commozione delle lettere che riceveva e il primo dolore che gli cagionò con quella del dodici aprile, asciutta e crudele. Ricordava?

Sì, Lilia ricordava. L’amante dal quale si era staccata e che la inseguiva ancora colla sua gelosia sospettosa, fiutando il rivale, non si era fatto scrupolo di denigrarlo spietatamente in un giornale da lui diretto. Non era forse giunto a stampare per disgustarla che il giovane eroe dell’incendio sarebbe rimasto storpio, cieco e cretino? Ma come spiegare tutto ciò a Ippolito?... Ella disse invece:

— Anche tu sei stato crudele qualche volta.

Ippolito assaporò tutta la dolcezza del rimprovero e improvvisamente, guardandola fissa, le chiese: [p. 202 modifica]

— Dove eri, in maggio, quando ti scrissi tre lettere senza ottenere risposta?

Lilia abbassò le palpebre con un attimo di esitazione, ma si riprese subito accarezzando i folti e biondi capelli del giovine:

— In Riviera, te lo dissi.

— E perchè vi passasti giorni tanto lieti?

— Perchè sentivo che mi avresti amata, — rispose questa volta Lilia sollevandogli in volto le stelle de’ suoi occhi; e la verità palese era così sfolgorante che la piccola menzogna nascosta non apparve.

— E quel giorno, quel giorno che ti vidi! Ti riconobbi subito.

— Anch’io.

— Non potevi essere che tu.

— E tu!

Ippolito ebbe un brivido rammentando gli spasimi di desiderio che seguirono e le notti passate sulla panchina dei Boschetti, sotto le sue finestre.

Più stretto, più stretto ancora, colle labbra sulle labbra dell’amata, l’innamorato disse:

— Se non mi avessi amato sarei morto. Non ucciso, sai? morto. Morto della morte naturale che era per me la mancanza del tuo amore. Se tu sapessi che cosa è stato il tuo amore! L’hai sentita la sua voce nel Cantico dei cantici?

Commossa, Lilia tornò a baciarlo con una [p. 203 modifica] specie di timore sacro. Suggellava ella forse su quella fronte l’impronta del genio?

Il bisogno di fondersi, di immedesimarsi, di formare una persona sola diveniva sempre più imperioso. La scoperta di alcune piccole affinità nei gusti e nelle opinioni ribadiva il loro anelito di unione perfetta. Perchè non sarebbero giunti a pensare insieme, a soffrire insieme anche materialmente? Già Lilia si era punta nel boschetto delle rose ed essi acquistarono la certezza che la ferita venisse dalla stessa spina che aveva punto Ippolito. E poichè una notte sognarono entrambi lo stesso sogno, e una volta stando a guardare il lago che si oscurava per prossima tempesta trasalirono nello stesso momento come se una mano invisibile li avesse toccati, e sovente ancora davanti a certe impressioni della natura o del loro amore lo stesso motivo musicale sorgeva dalle loro labbra, tutto li induceva alla suprema illusione dell’unità che è l’anelito più alto cui possano giungere gli amanti.

Avevano esplorato tutto il giardino conquistando i posti migliori secondo l’ora della giornata. Consacrando ai meriggi soleggiati il fitto bosco delle rose raggiungevano l’antico terrazzo, quando il sole stava per coricarsi dietro le montagne, ed era come se uscissero da una alcova voluttuosa per muovere incontro alla purità di sensazioni più complesse e più varie. [p. 204 modifica] Serbava il terrazzo avanzi magnifici di una balaustra di marmo, dove pure rimaneva qualche statua mezzo sepolta sotto l’edera quasi ammantando la propria nudità, ed aprivasi per due lati sulla ampiezza del lago dinanzi all’anfiteatro tracciato dalla catena che oltre Gera chiude la Valtellina e la Svizzera. Qui sostavano bevendo avidamente le prime frescure della brezza vespertina, con uno sguardo di commiserazione al battello che portava verso le città popolate quel misero branco di umani cui era sconosciuta l’ebbrezza della passione amorosa protetta dalla solitudine e dal silenzio.

Era l’ora della conversazione propriamente detta. Il luogo si prestava a simulare un salotto nelle pareti riccamente lavorate della balaustra, nei decori delle statue, nei tappeti di velluto muscoso, nei sedili che tra i marmi infranti assumevano aspetti variati e bizzarri non privi di una austera eleganza. Qui Lilia ritrovava il suo spirito, la sua arguzia mondana, e tacendo per poco la voce dei sensi, addestrava Ippolito al piacere raffinato dello scambio delle idee non mai così sensibile come quando avviene fra un uomo ed una donna entrambi intelligenti. Ed era allora che Ippolito sentiva anche maggiore l’ammirazione e la gratitudine per Lilia, la quale potendo aspirare alle più grandi conquiste si era data a lui, povero e sconosciuto, [p. 205 modifica] consentendo a vivere lontana dal teatro delle sue glorie, dagli amici e dagli ammiratori che le formavano intorno una specie di regno.

Fu in quel luogo, seduto accanto a lei sopra un divanino di musco, simile a quello del salotto di Milano ove per la prima volta le aveva baciate le mani, che Ippolito le riprese quelle care mani baciandole dito per dito con umile devozione. Incontrando la grossa turchese dell’anello che Lilia portava sempre all’anulare della destra, le chiese, tanto era bella, se fosse una gemma di famiglia.

— No, — rispose Lilia: — è un dono.

Senza sapere perchè, per un segreto istinto forse, Ippolito soggiunse:

— È magnifico questo anello, ma ha troppi brillanti, non mi piace. Dovresti levarlo.

— L’ho già levato un’altra volta, — disse Lilia sorridendo: — per lasciare maggior posto ai tuoi baci.

— Lèvalo per sempre..., — scongiurò lui.

— Fanciullo!

Così disse Lilia, mostrando di sorvolare su quel capriccio da innamorato, ma l’anello non apparve più sulla sua bianca mano. Nei dì seguenti, trovandola libera, Ippolito gliene fu tanto riconoscente che Lilia si rammaricò di non avere con sè altri gioielli per fargliene il sacrificio. [p. 206 modifica]

— Io non posso donartene alcuno, — esclamò improvvisamente Ippolito, con una tinta di malinconia: — ma se potessi, non vorrei che fosse uno di questi gioielli privi di ispirazione e di significato. Cosa voglion dire tante pietruzze allineate simmetricamente dove solo appare la grossa somma di colui che le ha comperate? A vedere le gemme che si fabbricano ora, così volgari nel loro disprezzo dell’idea creatrice, non si può a meno di pensare che tanto varebbe infilare sopra uno spillo o cucire intorno a una catena un pacco di banconote.

Risero insieme del paragone e Lilia disse che un giorno o l’altro egli le avrebbe composto un diadema di stelle.

— Di stelle?

— Sì, quando sarai celebre.

La fronte di Ippolito si oscurò di una lieve preoccupazione per questo accenno ad un avvenire che il suo amore gli impediva di guardare in faccia.

— Io sarò fiera di te, — soggiunse Lilia gravemente.

— Mi ameresti di più se fossi celebre?

— Ti ho già amato per questo.

— Oh la mia celebrità di una notte! Vedi quanto durò.

— Ma qui c’è dell’altro, — disse Lilia appoggiandogli un dito sulla fronte. [p. 207 modifica]

— Credi? (il cuore gli batteva più celere).

— Ne sono sicura.

· · · · · · · · · · · · ·

Da quindici giorni si trovavano alla villa senza che venisse loro in mente di uscire. Il giardino, vasto e delizioso nella sua fioritura incolta, bastava alle brevi passeggiate ed alle lunghe soste degli amanti; ma guardando il lago oltre il terrazzo furono ripresi dal desiderio di andare in barca che già li aveva tentati. Una darsena in cattivo stato giaceva alla riva nelle dipendenze della villa, abbandonata e priva di barca. Fecero venire un sandolino e cominciarono a esercitarsi in qualche breve gita, prima col barcaiolo, poi soli.

Benchè volgesse la fine di agosto, il caldo persisteva opprimente. «Se ci fosse luna — dicevano — si anderebbe di sera.» E la luna venne, la meravigliosa luna di agosto, lucente e piena.

La sera in cui apparve, sorgendo infocata dalla crosta dei monti quasi miracolo che per rinnovarsi di volte non muta suo incanto, la loro gioia non ebbe limiti.

Scesero alla riva correndo giù per gli scaglioni vestiti d’erba dove i loro passi risuonavano in una quiete altissima. Slegarono il sandolino e vi presero posto dirigendolo verso Menaggio. Bassa ancora, la luna non illuminava che una parte del lago, lasciando l’altra in una [p. 208 modifica] mezza oscurità fra la quale il sandolino guizzava leggero, ombra nell’ombra; nè si scorgevano altre imbarcazioni se non una vela bianca da lontano guidante alla deriva due zattere cariche di merce.

— Io non sapevo che fosse così dolce andare in barca, — disse Ippolito puntando i remi con grande lentezza affinchè il movimento non turbasse la soavità dell’ora.

Rispose Lilia:

— Dolce è sopratutto il lago, più del fiume, più del mare. Direi che il lago è più amoroso... perchè poi non so, è una mia impressione.

— È vero. Il suo abbraccio è più stretto di quello del mare, più intimo di quello del fiume. Non senti tu il respiro di queste montagne curve su di noi come buoni e fedeli colossi alla custodia di un luogo sacro? E sono ben chiuse le cortine della nostra alcova, Lilia! Guarda che splendidi arazzi verdi e azzurri su cui la luna intesse fili d’argento! Quale reggia può vantarne di più sontuosi?

— E questo tappeto di perle steso dietro a noi, non si direbbe il manto di una fata?

— Il tuo manto. E quei topazi che brillano laggiù, io so bene che si chiamano i fanali dei grandi alberghi di Bellagio, ma non sembrano a te la cintura luminosa di una dea?

— O piuttosto cuori appesi, ardenti cuori [p. 209 modifica] votivi intorno a un’altare?... — disse Lilia timidamente.

— Sì, sì! — gridò Ippolito entusiasmato: — cuori votivi; i cuori di tutti gli amanti che vissero e sospirarono su questo lago, fra questa cortina di monti in una notte come questa. —

Stava per soggiungere: «amandosi come noi»; ma gli parve assurdo. Chi mai avrebbe potuto amare in quel modo? La persuasione di un amore superiore a tutti gli amori doveva necessariamente imporsi alla sua anima di artista, e Lilia, benchè non nuova al miraggio, vi si abbandonava pur essa, stretta al fianco del giovine e bello innamorato, nella realtà palpitante dei loro baci.

Passavano sulla sponda i paeselli e le ville da’ cui terrazzi veniva a ondate il profumo dell’olea e dalle cui finestre illuminate ed aperte uscivano voci, risa e suoni, mentre la barca scivolava tacitamente non ancora raggiunta dalla luna, ma già prossima, in una penombra azzurra lievemente dorata. Il bacino della Tremezzina si trovava dinanzi a loro.

— Tieni il largo, — susurrò Lilia vedendo alcune persone affacciate ad un terrazzo.

Ippolito fece meglio: guidando il sandolino rasente la riva dove l’ombra era più fitta per il riflesso di alti tigli e di sicomori sporgenti, guizzarono sotto al terrazzo colla gioia [p. 210 modifica] birichina di due scolaretti, eludendo la curiosità di coloro che avevano subodorato nella barca errante un dolce mistero.

In quel tratto di lago le abitazioni si seguono ininterrotte e la luna che era sorta per intero ne rischiarava minutamente i più piccoli particolari, accarezzando ogni contorno con un taglio netto che faceva spiccare il rilievo delle case, degli alberi, fin dei menomi cespugli sopra un cielo chiaro senza nubi del colore di una pallida ametista. La riva di contro invece ergevasi nuda e deserta e fra le due rive il raggio della luna piena tracciava in mezzo all’acqua un sentiero di luce.

Il desiderio di attraversare il lago sopra quella magica via venne ad entrambi contemporaneamente. Oh! dolce vogare! Entrarono nella striscia luminosa che li avvolse subito nella sua aureola facendo spiccare con riflessi di perla l’abito bianco di Lilia. Ma niuno poteva riconoscerli oramai. Il sandolino fendeva lo onde con una linea dritta e sicura, lasciandosi lontane, sempre più lontane, le ville della Tremezzina fino a confondersi nelle macchie degli alberi ed a sparire completamente.

Giunto nel mezzo del lago Ippolito depose i remi. Eccoli veramente soli fra i due silenzi del cielo e dell’abisso!

Il pensiero della morte che stava sotto di loro [p. 211 modifica]attraversò per un attimo la mente del giovine. Così vicini ne erano che avendo Lilia abbandonato la mano fuori della sponda a scherzare coll’acqua egli diè un sussulto. Un movimento brusco sarebbe bastato a capovolgere la leggera imbarcazione e pochi minuti a travolgerli sotto i gorghi profondissimi e infidi. Egli cinse con un braccio la vita di Lilia. Tacevano.

Quali divinazioni ha il cuore in certi momenti di estasi suprema, allor che sembrano diradarsi le tenebre della vita materiale e sorgere quasi un nuovo senso profetico dell’al di là? Perchè gli amanti si fan muti sulla soglia maggiore della felicità? Perchè tremano? Perchè impallidiscono? Perchè un mistero sacro si oscura su di loro quando ogni mistero sembra squarciato? Perchè, fondendo la carne e il sangue, dagli spasimi stessi della voluttà nasce un così pauroso terrore del nulla?

Tacevano, e più stretto facevasi il loro amplesso fino alla soffocazione, fino al dolore.

— Io ti voglio tutta, per sempre, — mormorò alla fine Ippolito.

Il raggio della luna li avvolgeva come in una apoteosi, come in un sogno.

— Giura che mi amerai sempre, — insistette.

Ella sospirò senza togliere la bocca dalla bocca di lui. [p. 212 modifica]

— Giura.

— Perchè chiedi dei giuramenti? Ti amo. Non lo senti che ti amo?

Parve a Ippolito che un pianto lontano singhiozzasse nell’ardente bacio che accompagnò queste parole, e traendosela tutta sul petto provò un così acuto bisogno di lei e insieme una sensazione così disperata dei limiti imposti all’uomo, che una improvvisa stanchezza lo assalse sentendosi passare accanto l’ala della morte.

— Più di così, sai, più di così non si può amare!

Pallidi e smarriti guardarono il lago che si sprofondava sotto di essi quasi ne uscisse una misteriosa tentazione.

— Ho freddo, — mormorò Lilia.

Ma non era il freddo che la faceva tremare mentre avvinghiata al collo di Ippolito confondevano i battiti dei loro cuori. Egli tuttavia riafferrò i remi per raggiungere la sponda opposta prima che scemasse la luna.

Quando toccarono terra col sandolino furono presi dal desiderio di muovere alcuni passi sulla riva. Uscivano da una commozione troppo intensa perchè non si imponesse loro quale necessità di reazione l’attività del moto, e poichè, il boschivo della sponda li attraeva co’ suoi tremuli alberelli illuminati dal raggio lunare, essi [p. 213 modifica]vi si internarono un poco tenendosi abbracciati, colpiti da quella nuova specie di silenzio, diverso dal silenzio del lago ma ugualmente malinconico e profondo.

— Che spiaggia deserta!

— Se la morte ci assalisse nessuno dei nostri gridi potrebbe raggiungere orecchio d’uomo.

Ancora alitavano intorno ad essi pensieri di morte, ma Ippolito soggiunse con ardore:

— Noi non dobbiamo morire.

— No, no — disse Lilia: — è tanto bella la vita!

E veramente, come se l’evocazione della tomba avesse acuito il loro amore, raddoppiarono gli slanci appassionati. Tuttavia Ippolito pensò ancora che pochi momenti prima, sospesi sull’abisso, essi avevano colto il palpito supremo che congiunge in un solo anelito amore e morte, e che più in là non si può andare.

I giuochi di luce nelle rame leggiere protese sul cielo, le fitte ombre dei rami più densi che facevano pensare a fantastici recessi, la linea bizzarra di un albero, un fruscio, un susurro, la forma stessa dei loro corpi proiettata sull’arena e che correva dinanzi a loro, tutto li interessava e li divertiva in quell’intima unione dell’essere per cui ricevendo ciascuno la porzione dell’altro si sentiva vivere due volte.

— Ascolta, l’usignuolo. [p. 214 modifica]

Si fermarono in una radura battuta in pieno dalla luna, tendendo l’orecchio al dolce cantore. Ai loro piedi il capelvenere aggrovigliava l’ideale leggerezza delle sue foglie in una trina che sembrava d’argento e l’intero paesaggio riceveva dalla luce siderea quella particolare espressione di incanto che è propria della notte lunare.

Non sapevano risolversi a tornare indietro, poi che ogni senso della realtà li aveva abbandonati, sì che essi procedevano inconsci ed immemori.

I blandi rintocchi di un orologio li destarono dal sogno e questa voce quasi umana, mentre si credevano fuori del mondo, li fece trasalire.

— È il campanile di Lèzzeno, — disse Lilia.

— Lèzzeno?

— Un disgraziato paesello perduto su questa riva. Lo chiamano il paese della mala fortuna: d’inverno senza sole, d’estate senza luna.

Ippolito contò dodici ore seguendo l’eco dell’ultimo rintocco che andò a frangersi sull’ampia distesa del lago.

— Come dormiranno tranquilli gli abitanti di Lèzzeno!

Pronunciando queste parole Ippolito ebbe una rapida visione del paesello nativo, ma subito sparve travolta dal riso cristallino di Lilia:

— Se ci vedessero direbbero che siamo pazzi! [p. 215 modifica]

— Pazzi, sì, pazzi d’amore.

Errarono ancora per un po’ di tempo finchè raggiunto il sandolino che li aspettava alla riva Lilia volle entrarvi per riposare.

— Dormirai qui stanotte — disse Ippolito coprendola con lo scialle bianco che ella aveva portato con sè: — Ti cullerò con le più tenere canzoni mentre guiderò la barca dolcemente per non svegliarti.

— Ma non ho sonno, amor mio. Mi basta di stare coricata accanto a te guardandoti.

Egli gettò un piccolo grido intanto che Lilia piegava la testa sul cuscino della barca.

— Che vedo? Un brillante fra i tuoi capelli! Oh! come scintilla!... No, non è un brillante, è una lucciola; un brillante vivo. Non toccarla, ti sta tanto bene! Ecco una gemma di cui non sono geloso e che non è volgare.

Lilia, docile, tornò a posare la bella testa sul cuscino godendo della gioia infantile di Ippolito nel rimirare il singolar gioiello che mandava bagliori verdognoli tra il volume morbido delle di lei chiome.


Il sandolino riprese lentamente, assai lentamente la via del ritorno, ripassando sotto le ville chiuse, sotto le finestre mute, in un silenzio profondo e solenne che rendeva ancor più affascinante quel gran chiarore lunare diffuso [p. 216 modifica]sulla terra addormentata. I due amanti, quasi immobili in fondo alla barca, in preda a un languore stanco, si abbandonavano al ritmo voluttuoso dell’onda aspirando tratto tratto ad occhi chiusi il profumo dell’olea che dai terrazzi si spandeva nell’aria pura della notte.