Una questione di grammatica razionale

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Giuseppe Peano

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IV. CONGRESSO INTERNAZIONALE DI FILOSOFIA

BOLOGNA – APRILE 1911



Prof. G. PEANO




Una questione di

grammatica razionale




STABILIMENTO POLIGRAFICO
EMILIANO

BOLOGNA 1912





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Discorso del Prof. G. Peano


UNA QUESTIONE DI GRAMMATICA RAZIONALE



Leibniz, nel suo scritto «de grammatica rationali» pose le basi di un nuovo campo di studi, che solo in questi ultimi tempi comincia ad essere coltivato. Il compianto Vailati, rapito or sono due anni da immatura morte alla filosofia, presentò al Congresso della Società Italiana pel progresso delle scienza, tenutosi a Firenze nel 1906, e pubblicò, nel 1908, un articolo «La grammatica dell’Algebra» ove studiò a che cosa corrispondano gli elementi grammaticali nelle formule algebriche. La presente comunicazione tratta del valore logico della categorie grammaticali.

Le grammatiche latine classificano le parole in categorie o parti del discorso, chiamate sostantivo, aggettivo, pronome, verbo etc. Il loro numero è generalmente nove; alcune grammatiche ne hanno meno. Le grammatiche greche ne hanno dieci, compreso l’articolo. Questo numero dieci è fisso nelle grammatiche francesi; le italiane sono più variabili. Io mi propongo di esaminare se questa classificazione sia reale o formale, cioè se l’essere una parola sostantivo, aggettivo o verbo, sia una proprietà dell’ente che essa indica, ovvero solo della forma della parola.

La questione presenta un interesse di attualità, ora che molti si occupano di lingue internazionali, più o meno artificiali. Il Volapük, in grande voga or sono venti anni, termina tutti gli aggettivi colla desinenza indo-europea -ico del tipo latino prosaico, publico, classico, e greco logico, geometrico, conico, ecc. Questa idea, sotto forme diverse, fu adottata da alcuni autori di interlingue più recenti.

L’Esperanto, nelle varie forme, fa terminare i sostantivi in -o e gli aggettivi in -a. Quindi gli autori di queste [p. 4 modifica] lingue ritengono che la classificazione delle parti del discorso sia reale e non formale.

Un esempio rischiarerà la differenza fra proprietà reale e proprietà formale. Le proposizioni:

[1] «L’uomo è animale razionale»

[2] «uomo consta di quattro lettere»
esprimono rispettivamente una proprietà reale ed una formale di uomo. Si suol anche dire che la prima esprime una proprietà dell’ente-uomo e la seconda una proprietà della parola-uomo.

Si tratta di vedere se la proposizione:

[3] «uomo è sostantivo»
sia del tipo reale [1] o formale [2].

Un criterio che spesso permette di distinguere una proprietà reale da una formale è la versione della proposizione in altra lingua. Così se al posto di uomo metto l’equivalente inglese man, la proprietà reale [1] rimane vera, la formale [2] non è più verificata. Questo criterio non basta sempre: per es. se sostituisco l’italiano uomo col latino homo o col tedesco Mann, tanto la proprietà reale quanto la formale risultano verificate. La versione della prop. [3] nelle lingue europee, non permette di riconoscere chiaramente se sostantivo sia una proprietà reale o formale, perchè le grammatiche delle lingue europee hanno adottato la nomenclatura delle grammatiche latine che si adatta loro abbastanza bene, perchè le lingue neo-latine, germaniche e slave sono tutte parenti prossime del latino. Esse non sono che varie fisionomie di una stessa lingua.

Qualche differenza già si intravvede. Il latino homo è certamente un sostantivo perchè ha tutta la declinazione: homo, hominis, homini etc. Invece l’inglese man è dato nei vocabolarî o come un sostantivo, ═ I. uomo, o come un verbo attivo, nel senso di equipaggiare una nave, di provvedere di soldati un forte, etc.

La differenza si fa più evidente, confrontando lingue di origine differente. La distinzione fra le proprietà reali e le formali si incontra pure in matematica. Il segno ═ indica sempre l’eguaglianza fra i valori dei due membri. Da xy, segue che ogni proprietà reale di x è pure una proprietà di y, ma le proprietà formali possono essere diverse. Delle due proposizioni:

2/3 è frazione minore di 1.

2/3 è frazione irreduttibile,


la prima esprime una proprietà reale, la seconda una formale di 2/3. Essendo 2/3 ═ 4/6, sostituendo alla prima forma [p. 5 modifica] la seconda, la prima proposizione rimane vera, la seconda è falsa.

Il grande glottologo francese M. Bréal, nell’Essai de sémantique, Paris, 1899, chap. 19, dice: «Il y a des langues qui ne distinguent pas les categories». La stessa osservazione è ripetuta più volte dal grande glottologo inglese Max Müller. Per esempio nel libro «The science of Thought», London, 1887, egli spiega che le dieci categorie di Aristotele:

Οὐσία, ποσόν, ποιόν, πρός τι, ποῦ, ποτέ, κεῖσθαι, ἔχειν, ποιεῖν, πάσχειν,
dopo essersi fuse, decomposte e trasformate, diedero luogo alle dieci parti del discorso delle grammatiche posteriori. Il Max Müller osserva che Aristotele trasse le dieci categorie, non dalle grammatiche greche ancora da scriversi, ma dalla lingua greca. E che se egli, invece che greco, fosse stato semita o cinese, avrebbe fatto una differente classificazione in categorie.

Ma possiamo osservare il carattere formale delle categorie grammaticali, nelle lingue nostre senza ricorrere alle lingue non europee.

Considero ad esempio la proposizione di Fedro [1,6] «Sic est locutus leo: ego primam tollo, nominor quia leo».

Qui egoleo. Ma leo è sostantivo secondo le grammatiche, ego è pronome, dunque:

pronome ═ sostantivo,

cioè ogni pronome è un sostantivo ed ogni sostantivo può essere rappresentato da un pronome questo, quello.

La differenza fra sostantivo e pronome non è pertanto reale; essa è formale e precisamente morfologica; i pronomi latini hanno una declinazione differente dalle cinque dei sostantivi propriamente detti, quindi conviene in grammatica di farne una categoria a parte.

L’identità fra pronome e sostantivo è indicata dalla stessa parola pronome, che significa letteralmente: che fa le veci di un nome o sostantivo, ma che si deve intendere che ha il valore di un sostantivo.

Il valore di un pronome cambia con il contesto del discorso, secondo la persona che parla ed a cui si parla. Ma ciò non modifica l’eguaglianza fra pronome e nome. Anche in algebra le lettere x ed y hanno un valore variabile colla questione. Ma se in una questione risulta x ═ 2, segue che x è un intero, pari e primo al pari di 2, così [p. 6 modifica] da egoleo segue che ego ha la proprietà di essere un sostantivo, al pari di leo, supposto che la proprietà di essere sostantivo sia reale.

Anche gli avverbi qua e , hanno un valore dipendente dalla persona che parla; pure non si mettono in una classe a parte, ma si mettono nella stessa classe degli avverbi: bene, liberaliter etc., che hanno un valore costante; e se ne fa una classe sola perchè tutti indeclinabili.

Chi scrive in una lingua europea, può fare a meno di risolvere il problema se i pronomi siano o no sostantivi. Le varie lingue si sono sviluppate per secoli prima che ad esse si applicasse la nomenclatura grammaticale. Ma chi scrive in Esperanto, sotto una delle sue varie forme, deve cominciare a risolvere questo problema per sapere se ai pronomi debba dare o no la caratteristica -o. E mentre la maggioranza non considera i pronomi quali sostantivi, una minoranza, con a capo il Lemaire, celebre esploratore africano, li considera logicamente come sostantivi e dà loro la desinenza -o.

Passo ora alla relazione fra sostantivo ed aggettivo. Il Larousse dà le definizioni seguenti.

Nom substantif: mot qui désigne une personne ou une chose.

Nom adjectif: mot qui sert à qualifier une personne ou une chose.

Considero i due giudizi:

«Pietro è buono. Pietro è poeta».

Essi hanno la stessa costruzione; buono e poeta servono egualmente a designare e qualificare la persona Pietro. Sono amendue nomi di classi di enti. Ma buono è aggettivo, poeta è sostantivo; dunque:

aggettivo ═ sostantivo.

La differenza fondamentale tra aggettivo e sostantivo, è che in generale l’aggettivo è accompagnato da un sostantivo, con cui concorda in genere, numero e caso. Quindi la necessità di un capitolo della grammatica che spieghi queste flessioni degli aggettivi e quelle dei comparativi etc.

Ma questa differenza evidentemente appartiene alla morfologia; l’aggettivo può benissimo restar solo come in:
«verum dico», «audaces fortuna juvat» «miscuit utile dulci». Così in Italiano: «dico il vero ═ dico cosa vera ═ dico la verità», onde risulta:

il vero ═ cosa vera ═ la verità.

La concordanza latina vive ancora in Italiano, limitata al genere e numero; il caso è morto; ed è del tutto [p. 7 modifica] scomparso in Inglese. Quindi per esempio, nell’Enciclopedia Britannica, nell’articolo «Grammar» leggiamo che la distinzione fra nome ed aggettivo non è applicabile in Inglese. Questa distinzione sta nella veste. Spogliata la parola della veste della concordanza, non c’è più criterio per distinguere il sostantivo dall’aggettivo.

Dal fatto che in latino bonus da secoli concordava col soggetto, lo chiamarono i grammatici aggettivo. La grammatica del Donato, che è la prima grammatica importante, è del IV secolo dell’era volgare. Si commette un anacronismo e si scambia la causa coll’effetto quando prima si definisce l’aggettivo e poi si enuncia la regola della sua concordanza.

Come si scrisse latino per secoli, prima che nascessero i grammatici, così si può continuare a scrivere nelle lingue moderne lasciando ai grammatici la cura di decidere se la differenza fra aggettivo e sostantivo sia reale o formale. Ma chi scrive in una delle forme di Esperanto è costretto a dire dopo ogni parola: «questo è un sostantivo, questo un aggettivo e questo è un verbo». Ciò ha senso nella forma latina; ma questa lingua artificiale, avendo soppressa la forma latina, la distinzione non è più possibile.

In conseguenza, i seguaci dell’Esperanto, discutendo di una cosa non esistente come se esistesse, arrivano a risultati fra loro contradditorii. Per esempio in un sistema si ha l’eguaglianza:

«Pietro è buono - aggettivo» ═ «Pietro è buono - sostantivo»; mentre in altro sistema solo la prima forma è lecita; ivi buono - sostantivo significa bontà.

Parimenti l’articolo è messo dalla maggioranza degli esperantisti fra gli aggettivi. Ma il Comm. Lemaire osservando che esso deriva da un antico pronome, che è un sostantivo, lo pone fra i sostantivi.

Poche parole sul carattere formale del verbo. La proposizione latina:

«Ars longa, vita brevis»

corrisponde all’Italiano «l’arte è lunga, la vita è breve». In Italiano vi è il verbo essere che in latino non sta scritto. Il latino brevis corrisponde all’Italiano «è breve». Ma «è breve» è il predicato della proposizione e quindi è un verbo; dunque anche il latino brevis è un verbo. Ma questo è un aggettivo, dunque

aggettivo ═ verbo

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Alcuni grammatici dicono che in «vita brevis» il verbo è sottinteso, e che la frase è elittica. Ciò significa che l’est non sta scritto ed è cosa evidente. Non bisogna intendere però che la parola est sia stata sottintesa o soppressa; cioè che essa sia l’abbreviazione di una frase più antica contenente l’est.

Man mano noi risaliamo nella storia, troviamo la mancanza della copula est sempre più frequente.

La incontriamo in greco ed è ancora frequente in russo. Altri esempi dal Max Müller: «nix alba ═ nix albet; sarculum acutum ═ sarculum caedit». Quindi la forma originale della proposizione era soggetto + aggettivo; l’ausiliario essere è posteriore. Pare che il suo significato primitivo fosse di respirare. Dice Max Müller:

«All auxiliary verbs are merely the shadows of verbs which originally meant to grow, to dwell, to turn, to breathe.» L’identità aggettivo ═ verbo può parere una novità al pubblico moderno, benchè nota ai linguisti. Era evidente ad Aristotele il quale affermava che:

ἄνθροπος (uomo) è ὄνομα (nome), mentre λευκόν (bianco) e ῥῆμα (verbo). Se sostantivo ═ aggettivo ed aggettivo ═ verbo, segue che sostantivo ═ verbo. Eccone alcuni esempi diretti. Nel greco ἄνθρωπος ἀνθρώπῳ δαιμόνιον «homo homini deus» e nel pessimista latino «homo homini lupus», il deus e lupus valgono «si comporta come un amico» e «come un nemico», e perciò sono verbi.

Il chiar. dott. Giovanni Vacca che visitò gran parte della Cina coll’occhio del matematico e del filosofo, mi citò la frase cinese che risulta dalla triplice ripetizione del simbolo di uomo: letteralmente tradotta diventa: «uomo, uomo, uomo» e significa «l’uomo tratta umanamente l’umanità». Nulla impedisce di dire che il primo simbolo è un nominativo, il secondo un verbo, il terzo un accusativo, ma nessun segno indica questa proprietà.

Così nella scrittura che noi deducemmo dagli arabi 222, possiamo dire che il primo due rappresenta centinaia, il secondo decine e il terzo unità, e così enunciamo varie proprietà delle varie figure 2, non del numero 2.

Le parole soggetto e predicato di una proposizione, sono termini relativi alla proposizione. Si potrebbe studiare se le parole «sostantivo» ed «aggettivo» possano avere valore relativo. Ma mi basta l’aver provato che non hanno valore assoluto, e che una definizione di sostantivo è impossibile.


Vedasi sullo stesso soggetto un mio articolo su «Discussione de Academia pro Interlingua», 1910, pagg. 20-43.