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Versi editi ed inediti di Giuseppe Giusti/I Brindisi

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I Brindisi

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Gl'Immobili e i Semoventi L'Amor pacifico
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I BRINDISI.1



Mia cara amica,

Voi Milanesi siete assuefatti a vedere il carnevale che fa un buco nella quaresima e ruba otto giorni all’Indulto. Non so o non mi ricordo chi v’abbia data questa licenza; ma dev’essere stato di certo un Papa di buon umore e di maniche larghe. Noi, finite le maschere (almeno quelle di cartapesta), e rimanendoci addosso uno strascico di svagatezza, come rimane negli orecchi il suono dei violini dopo una festa di ballo, ci pigliamo a titolo di buon peso, e senza licenza dei superiori, il solo giorno delle ceneri, e tiriamo via a godere sino alla sera, come se il Mementomo non fosse stato detto a noi. Voi quegli otto giorni li chiamate il carnevalone, e noi quest’unico giornarello di soprappiù lo chiamiamo il carnevalino.

La sera del giovedì grasso del 1842, uno di quei tali che danno da mangiare per ozio, e per sentirsi lodare il cuoco, aveva invitati a cena da diciotto o venti, tutti capi bislacchi chi per un verso e chi per un altro, e tutti scontenti che il carnevale fosse lì lì per andarsene. V’erano nobili inverniciati di fresco e nobili un po’ intarlati; v’erano banchieri, avvocati, preti alla mano, insomma omni genere musicorum. Tra gli altri, non so come, era toccato un posto anche a due che pizzicavano di poeta, agli antipodi uno dall’altro, ma tutti e due portati allo stile arguto o faceto come vogliamo chiamarlo. Il padrone, sapendo l’indole delle bestie, per rimediare allo sproposito fatto d’invitarli insieme, pro bono pacis gli aveva collocati alle debite distanze. Il primo era un Abate, solito tenere la Bibbia accanto a Voltaire; buon compagnone, tagliato al dosso di tutti, nè Guelfo nè Ghibellino, dirotto al mondo, un maestro di casa nato e sputato. L’altro era un giovane nè acerbo nè maturo, una specie di cinico elegante, un viso tra il serio ed il burlesco, da tenere una gamba negli studii e una nella dissipazione e via discorrendo. La cena passò in discorsi sconnessi, in pettegolezzi, in lode al Bordeaux e ai [p. 167 modifica]pasticci di Strasburgo; vi fu un po’ di politica, un po’ di maldicenza; per farla breve fu una cena delle solite.

Alla fine, cioè due ore dopo la mezzanotte, il padrone nel congedare i convitati disse loro: spero che il primo giorno di quaresima vorrete favorirmi alla mia villa a fare il carnevalino. Ringraziarono, e accettarono tutti. Ma uno, o che si dilettasse di versi, o che avesse alzato il gomito più degli altri, gridò: alto, Signori; prima di partire, i due poeti ci hanno a promettere per quel giorno di fare un brindisi per uno. Gli altri applaudirono, e i poeti bisognò che piegassero la testa.

Venne il giorno delle ceneri, e nessuno mancò nè alla predica nè al desinare. Passato questo nè più nè meno com’era passata la cena: Sor Abate, tocca a lei, gridò quello stesso che aveva proposto i brindisi; e l’Abate che in quei pochi giorni aveva chiamato a raccolta i suoi studii tanto biblici che volterriani, accomodandoli all’indole della brigata, si messe in positura di recitante, bevve un altro sorso che fu come il bicchiere della staffa, e poi spiccò la carriera di questo gusto:


Io vi ho promesso un brindisi, ma poi
     Di scrivere una predica ho pensato
     Perchè nessuno mormori di noi;
     Perchè non abbia a dir qualche sguaiato
     Che noi facciamo la vita medesima
     Tanto di carneval che di quaresima.

Senza stare a citarvi il Mementomo
     O quell’uggia del Passio o il Miserere,
     Col testo proverò che un galantuomo
     Può divertirsi, può mangiare e bere,
     E fare anche un tantin di buscherio,
     Senza offender Messer Domine Dio.

Narra l’antica e la moderna storia
     Che i gran guerrieri, gli uomini preclari,
     Eran famosi per la pappatoria;
     Tutto finiva in cene e in desinari:
     E di fatto un eroe senza appetito,
     Ha tutta l’aria d’un rimminchionito.

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Perchè credete voi che il vecchio Omero
     Da tanto tempo sia letto e riletto?
     Forse perchè lanciandosi il pensiero
     Sull’orme di quel nobile intelletto,
     Va lontano da noi le mille miglia
     Sempre di meraviglia in meraviglia?

Ma vi pare! nemmanco per idea:
     Sapete voi perchè l’aspra battaglia
     Di Troia piace, e piace l’Odissea?
     Perchè ogni po’ si stende la tovaglia;
     Perchè Ulisse e quegli altri a tempo e loco
     Sanno farla da eroe come da coco.

Socrate, che fu tanto reverito
     E tanto onora l’umana ragione,
     Se vi faceste a leggere il Convito
     Scritto da Senofonte e da Platone,
     Vedreste che tra i piatti e l’allegria
     Insegnava la sua filosofia.

Ma via, lasciamo i tempi dell’Iliade,
     I sapienti e gli eroi del gentilesimo;
     Passiamo ai tempi della santa Triade,
     Della Circoncisione e del Battesimo:
     Piacque sotto la Genesi il mangiare,
     E piace adesso nell’era volgare.

Tutti siam d’una tinta, e per natura
     Ci tira la bottiglia e la cucina;
     Dunque accordiam la ghiotta alla scrittura;
     Anzi, portando il pulpito in cantina,
     Vediam di fare un corso di buccolica
     Tutto di balla alla chiesa cattolica.

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Papa Gregorio è un papa di criterio
     E di Dio degnamente occupa il posto,
     Eppur si sa che il timpano e il salterio
     Accorda all’armonia del girarrosto;
     E se i preti diluviano di cuore,
     Lo potete vedere a tutte l’ore.

La Bibbia è piena di ghiottonerie:
     Il nostro padre Adamo per un pomo
     La prima fe delle corbellerie,
     E la rôsa ne’ denti infuse all’uomo.
     S’ei per un pomo si giuocò il giardino,
     Cosa faremo noi per un tacchino?

Niente dirò di Lot e di Noè,
     Nè d’altri patriarchi bevitori,
     Nè di quel popol ghiotto che Mosè
     Strascinò seco per sì lunghi errori;
     Che male avvezzo, sospirò da folle
     Perfin gli agli d’Egitto e le cipolle.

Giacobbe, dalla madre messo su,
     Isacco trappolò con un cibreo,
     E inoltre al primogenito Esaù
     Le lenticchie vendè da vero Ebreo:
     Anzi gli Ebrei, per dirla qui tra noi,
     Chiedono il doppio da quel tempo in poi.

Vo’ dire anco di Gionata, che mentre
     Saulle intíma ai forti d’Israele
     Di tener vuoto per tant’ore il ventre,
     Ruppe il divieto per un po’ di miele;
     Tanto è ver che la fame è sì molesta,
     Che per essa si giuoca anco la testa.

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Venendo poi dal vecchio testamento
     A ripassar le cronache del nuovo,
     Cariche, uffici, più d’un sacramento,
     Parabole, precetti, esempi, trovo
     (Se togli qua e là qualche miracolo)
     Che Cristo li fe’ tutti nel Cenacolo.

Sembra che quella mente sovrumana
     Prediligesse il gusto e l’appetito;
     Come fu visto alle nozze di Cana
     Che sul più bello il vino era finito,
     Ed ei col suo potere almo e divino
     Lì su due piedi cangiò l’acqua in vino.

Ed oltre a ciò rammentano i cristiani,
     E nemmeno l’eretico s’oppone,
     Ch’egli con cinque pesci e cinque pani
     Un dì sfamò cinque mila persone,
     E che gliene avanzâr le sporte piene,
     Nè si sa se quei pesci eran balene.

Ne volete di più? l’ultimo giorno
     Ch’ei stette in terra, e che alla mensa mistica
     Ebbe mangiato il quarto cotto in forno,
     Istituì la legge eucaristica,
     E lasciò nell’andare al suo destino
     Per suoi rappresentanti il pane e il vino.

Anzi, condotto all’ultimo supplizio,
     Fra l’altre voci ch’egli articolò
     Dicon gli evangelisti che fu sitio;
     Ed allorquando poi risuscitò,
     La prima volta apparve, e non è favola,
     Agli apostoli, in Emaus, a tavola.

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E per ultima prova, il luogo eletto
     Onde servire a Dio di ricettacolo,
     Se dall’ebraico popolo fu detto
     Arca, Santo dei Santi e Tabernacolo,
     I cristiani lo chiamano Ciborio,
     Con vocabolo preso in refettorio.

Lascerò stare esempi e citazioni,
     E cosa vi dirò da pochi intesa,
     Da consolar di molto i briaconi;
     È tanto vero che la Madre Chiesa
     Tiene il sugo dell’uva in grande onore,
     Che si chiama la vigna del Signore.

Dunque destino par di noi credenti
     Nel padre, in quel di mezzo e nel figliuolo,
     Di bere e di mangiare a due palmenti,
     E tener su i ginocchi il tovagliolo;
     E se questa vi pare un’eresia,
     Lasciatemela dire e così sia.

Allegri, amici: il muso lungo un palmo
     Tenga il minchion che soffre d’itterizia;
     Noi siamo sani, e David in un salmo
     Dice Servite Domino in lætitia;
     Sì, facciam buona tavola e buon viso,
     E anderemo ridendo in Paradiso.2


L’Abate era stato interrotto cento volte da risa sgangherate; ma alla chiusa, l’uditorio andò in visibilio, e ricolmati i bicchieri, urlò [p. 172 modifica]cozzandoli insieme, un brindisi alla predica e al predicatore; e l’urto fu così scomposto, che il più ne bevve la tovaglia. Toccava all’altro, il quale con certi atti dinoccolati, e senza cercare aiuto nel vino, disse: Signori, io in questi giorni non ho potuto mettere insieme nulla di buono per voi; ma ho promesso e non mi ritiro. Solamente vi prego di lasciarmi dire un certo brindisi che composi tempo fa per la tavola d’uno, che quando invita non dice: venite a pranzo da me, ma si tiene a quel modo più vernacolo, o se volete più contadinesco: domani mangeremo un boccone insieme. Udirono la mala parata, e il poeta incominciò:


BRINDISI PER UN DESINARE ALLA BUONA.


A noi qui non annuvola il cervello
     La bottiglia di Francia e la cucina;
     Lo stomaco ci appaga ogni cantina,
                                        Ogni fornello.

I vini, i cibi, i vasi apparecchiati
     E i fior soavi onde la mensa è lieta,
     Sotto l’influsso di gentil pianeta
                                        Con noi son nati.

Queste due strofe non fecero nè caldo nè freddo.

Chi del natio terreno i doni sprezza,
     E il mento in forestieri unti s’imbroda,
     La cara patria a non curar per moda
                                        Talor s’avvezza.

Filtra col sugo di straniere salse
     In noi di voci pellegrina lue;
     Brama ci fa d’oltramontano bue
                                        L’anime false.

Qui il padrone e gl’invitati cominciarono a sentirsi una pulce negli orecchi.

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Frolli siam mezzi, frollerà il futuro
     Quanta parte di noi rimase illesa:
     La crepa dell’intonaco palesa
                                        Che crolla il muro.

Fuma intanto nei piatti il patrimonio:
     Il nobiluccio a bindolar l’Inglese
     (Che i dipinti negati al suo paese,
                                        Pel suolo ausonio

Raggranellando va di porta in porta)
     Fra i ragnateli di soffitta indaga;
     Resuscitato Rafaello paga
                                        Per or la sporta.

O nonni, del nipote alla memoria
     Fate che torni, quahdo mangia e beve,
     Che alle vostre quaresime si deve
                                        L’itala gloria.

Alzate il capo dai negletti avelli;
     Urlate negli orecchi a questi ciuchi
     Che l’età vostra non patì Granduchi
                                        Nè Stenterelli.

Tutto cangiò, ripreso hanno gli arrosti
     Ciò che le rape un dì fruttaro a voi;
     In casa vostra, o trecentisti eroi,
                                        Comandan gli osti.


Per tutte queste strofe, la stizza, il dispetto, la vergogna, erano passate e ripassate velocemente sul viso di tutti come una corrente elettrica, e già si sentivano al più non posso. Solamente l’Abate se ne stava là come interdetto, tra la paura di tirarsi addosso l’ironia dell’avversario per un atto di disapprovazione, e quella di perder la minestra per un ghigno che gli potesse scappare. Il poeta seguitava:


E strugger puoi, crocifero babbeo....

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A questa scappata, il padrone che da un pezzo si scontorceva sulla seggiola come se avesse i dolori di corpo, fatto alla meglio un po’ di viso franco, disse con un risolino stiracchiato: se non rincrescesse al poeta, potremmo passare nelle altre stanze a bevere il caffè, e là udire la fine del suo brindisi. Tutti si alzarono issofatto, andarono, fu preso il caffè, e nessuno fece più una parola del brindisi rimasto in asso. Ma il poeta che stava in orecchi, udì due in disparte che si dicevano tra loro: che credete che il brindisi fosse bell’e fatto, come ha voluto darci ad intendere? quello è stato un ripiego trovato lì per lì, per suonarla al padrone di casa e a noi. — Che impertinenti che si trovano al mondo! rispondeva quell’altro; a lasciarlo dire, chi sa dove andava a cascare! — Chi fosse curioso di sapere la fine che doveva avere il brindisi, eccola tale e quale:


E strugger puoi, crocifero babbeo,
     L’asse paterno sul paterno foco,
     Per poi briaco preferire il coco
                                        A Galileo;

E bestemmiar sull’arti, e di Mercato
     Maledicendo il Porco3 e chi lo fece,
     Desiderar che ve ne fosse invece
                                        Uno salato?

D’asinità siffatte, anima sciocca,
     T’assolve la virtù del refettorio:
     Ciancia se vuoi; ma sciolta all’uditorio
                                        Lascia la bocca.

Se parli a tal che l’anima baratta
     Col vario acciottolío delle scodelle,
     In grazia degl’intingoli la pelle
                                        Ti resta intatta.

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Chi visse al cibo casalingo avvezzo
     Stimol non sente di sì bassa fame,
     Che paghi un illustrissimo tegame
                                        Sì caro prezzo.

La tavola per lui gioconda scena
     È di facezie e di cortesi modi;
     Non è, non è d’ingiuriose lodi
                                        Birbesca arena.

Entri quel prete nella rea palestra,
     Che il sacro libro, docile al palato,
     Cita dove Esaù vende il primato
                                        Per la minestra;

Rida in barba a San Marco ed a San Luca,
     E gridi che il suo santo è San Secondo,
     E che il zampon di Modena nel mondo
                                        Compensa il Duca.

O v’entri il dottore! che come corbo
     Si cala dello Stato alla carogna,
     E colla rete delle lodi agogna
                                        Pescar nel torbo.

Nè l’indefesso novellier s’escluda,
     Bastonator d’amici e di nemici,
     Famoso di cenacoli patrici
                                        Buffone e Giuda.

Qui di lieto color brilli la guancia,
     Sia franco il labbro e libero il pensiero:
     No, tra gli amici contrappeso al vero
                                        Non fa la pancia.

O beato colui che si ricrea
     Col fiasco paesano e col galletto!
     Senza debiti andrà nel cataletto,
                                        Senza livrea.

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Vedete bene che questo brindisi non aveva che far nulla con quel desinare; e anch’io penderei a credere che l’intenzione del poeta non fosse schietta farina. Veramente sentirsele dire sul muso, non piace a nessuno; e parrebbe regola di convenienza che mangiando la minestra degli altri, si dovesse risparmiare chi ha il mestolo in mano. Ma questi benedetti poeti, con tutta la reverenza che professano a Monsignor della Casa, si fanno un Galateo a modo loro; e specialmente quando si sono intestati di volerle dire come le pensano. — Potete bene immaginarvi che a quella tavola il poeta cagnesco bisognò che facesse un crocione, e che l’Abate rimase in perpetuo padrone del baccellaio. Ora ecco qui questi due brindisi al comando di chi li vuole. Il primo assicurerà il fornaio a tutti gli scrocconi che sapranno imitarlo; col secondo bisognerà rassegnarsi a mangiare all’osteria.

Note

  1. Con questi due brindisi si pongono a confronto due generi opposti di poesia scherzosa, l’uno nato di licenza, l’altro di libertà; il primo falso, il secondo vero, o almeno più convenevole.
  2. Ecco le brutte facezie che hanno avuto voga per tanto tempo, lusingando l’ozio e la scempiataggine. L’autore, a costo di macchiare il suo libro, ha voluto darne un saggio per mettere alla berlina questi abusi dell’ingegno. Confessa d’esservisi indotto anco per una certa vanità, sperando che il modo di scherzare tenuto da lui, acquisti grazia dal paragone.
  3. Il Porco di bronzo che si vede davanti alle logge di Mercato Nuovo in Firenze.