Versi editi ed inediti di Giuseppe Giusti/Il Sortilegio

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Il Sortilegio

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Il Giovinetto La Guerra
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A ENRICO MAYER E A LEOPOLDO ORLANDINI.



Miei cari


Nel 1844, quando io era quasi disperato della salute, voi due m'accoglieste successivamente in casa vostra, e per mesi e mesi mi ci teneste come fratello, sopportando infiniti fastidi per causa mia, e dividendo meco i patimenti e le malinconie di quello stato angoscioso.

Io non potrò mai rimeritarvi di tanto benefizio; ma per mostrarvi in qualche modo la mia riconoscenza, ho pensato di pubblicare col vostro nome questo Racconto, assicurandovi che non intendo offerirvi cosa degna di voi, se non quanto allo scopo al quale è diretto il componimento.


Vostro

Giuseppe Giusti.


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IL SORTILEGIO.



Il Lotto, ve lo dissi un’altra volta,
     Il Lotto è un gioco semplice, innocente,
     Che raddirizza ogni testa stravolta;
     E chi si fonda in lui, non se ne pente:
     Lo dissi e lo ridico, e n’ho raccolta
     La più limpida prova ultimamente
     In un bel fatto accaduto tra noi,
     Che siamo al tempo che sapete voi.

In un Castello de’ nostri Appennini,
     E il nome non importa, era saltato
     Tanto nell’ossa di que’ montanini
     L’estro del giocolin soprallodato,
     Che nelle gole giù de’ Botteghini,
     In ambi e in terni avean precipitato,
     Colla speranza certa d’arricchire,
     Fin le raccolte di là da venire.

La voce Botteghino non è mia:
     E una protesta mi pare opportuna,
     Se mai pensaste che la poesia
     Parli a malizia, o secondo la luna:
     Il Botteghino e la Prenditoria
     Volgarmente son due in carne una.
     Se il nome è brutto, il popolo inventore
     N’ha colpa, e non ne sto mallevadore.

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Dunque tornando a noi, que’ montanari
     Fino alle scarpe avean data la via,
     Sognando negli spazi immaginari
     Di fare un buco in Depositeria.
     Di giocator, di prodighi e d’avari
     Oltre la borsa va la bramosia;
     E come chi più n’ha più ne vorrebbe,
     Chi più ne sciupa e più ne sciuperebbe.

Bazzicava lassù per que’ paesi
     Un di que’ rivenduglioli ambulanti,
     Che fan commercio a denari ripresi
     Di berretti, di scatole, di Santi,
     E di ferri da calze, e d’altri arnesi
     Quanti n’occorre per cucire, e quanti
     Ne porta in petto, al collo e sulla testa,
     La villana elegante il dì di festa.

Oltre a codeste bricciche, costui
     La sacca d’un gioiello avea provvista,
     Che tra le cose che giovano altrui
     Va messo per ossequio in capo lista;
     Cosa mirabilissima per cui
     Splende alla mente una seconda vista,
     Cosa che serve per tutti i bisogni;
     E questa perla era il Libro de’ Sogni.

La famosa Accademia del Cimento,
     L’Istituto di Francia e d’Inghilterra,
     È tutta roba di poco momento
     Appetto a quella che il gran libro serra.
     «Credete a chi n’ha fatto esperimento»
     Che quello è il primo libro della terra,
     Onde lo privilegia, e con ragione,
     La sacra e la profana Inquisizione.

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Questo libro utilissimo, non solo
     Egli lassù l’avea disseminato,
     Ma nel mezzo di piazza al montagnolo
     Spiegato con amore e postillato;
     E il giorno dell’arrivo, al Merciaiolo,
     Il popolo, il comune, e il vicinato
     Correano a dire i sogni della notte,
     Ladri, morti, paure, e gambe rotte.

Ed ei, presa la mano a far l’Oracolo,
     O rispondeva avvolto o stava muto;
     Anzi, tra l’altre, aveva un tabernacolo
     Con dentro un certo Santo sconosciuto,
     Dal qual, secondo lui, più d’un miracolo,
     E più d’un terno a molti era piovuto,
     Pur di destare la sua cortesia
     Pagando un soldo ed un’Avemmaria.

Lo spolverava, l’apriva, e gridava
     Che tutti si levassero il cappello;
     Poi brontolando Paternostri, andava
     Torno torno a raccorre il soldarello:
     E mentre ognuno pregava e pagava,
     Più numeri, di sotto dal gonnello,
     Tirava fuori agli occhi della folla
     Il moncherino di quel Santo a molla.

Nè volendo, se a vuoto eran giocati,
     Parer col Santo e tutto, un impostore,
     Egli è, dicea, per i vostri peccati,
     Che non trovan la via di venir fuore.
     Smunti così gran tempo e bindolati
     Avea que’ mammalucchi in quell’errore,
     E col Governo il traffico diviso,
     E mescolato al vizio il Paradiso.

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Stanchi alla fine, e come accade spesso
     D’uno che al gioco giochi anco il cervello,
     Che invece di pigliarla con sè stesso
     E’ se la piglia con questo e con quello,
     Un dì che il Rivendugliolo avea messo
     Fuori i fagotti e il solito zimbello,
     Da sei gli sono addosso, e con molt’arte
     L’attorniano, e lo traggono in disparte.

E dopo averlo strapazzato, e dette
     Cose del fatto suo proprio da chiodi,
     Gl’intuonaron minaccie maledette,
     E che voleano il terno in tutti i modi.
     Messa lì su quel subito alle strette
     La volpe che maestra era di frodi,
     Facendo l’imbrogliato e il mentecatto,
     Te gli abbonì che non parve suo fatto.

Poi protestando, che del trattamento
     Non facea caso e lo mandava a monte,
     Accennò roba, parlò d’un portento,
     La prese larga, te li tenne in ponte,
     E finse di raccogliersi un momento,
     E chiuse gli occhi, e si fregò la fronte,
     E disse: attenti, che non diate poi
     A me la colpa che si spetta a voi.

Bisognerebbe, quando il gallo canta
     Sull’alba, o appena il sole è andato sotto,
     Novanta ceci secchi, sulla pianta
     Côrre, senz’esser visti o farne motto;
     E dall’uno giù giù fino al novanta
     Scriverci sopra i numeri del Lotto,
     Con una tinta che non si cancella,
     Fatta di pece e d’unto di padella.

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Affilare un coltello, essere accorto
     Che chi l’affila non tocchi nessuno;
     E un corpo maschio, defunto di corto,
     Scavar di notte, in giorno di digiuno;
     E tagliata e vuotata a questo morto
     Ben ben la testa, dentro a uno a uno
     Mettere i ceci, stando inginocchiati,
     Tre volte scossi e tre volte contati.

Avere un pentolone, e a queste gore
     Qua sotto, empirlo di quell’acqua gialla,
     E bollirci quel capo, e che di fuore
     Non vada l’acqua, Dio guardi a versalla!
     A mala pena spiccato il bollore,
     Da’ primi ceci che verranno a galla
     Avrete il terno; e se dico bugia,
     Che non possa salvar l’anima mia.

Quel dettar tutto sì minutamente,
     Quel morto, quella pentola, e il gran guaio
     D’aver bisogno, fece a quella gente
     Girar la testa come un arcolaio;
     E creduto per fede agevolmente
     E rimandato libero il Merciaio,
     Stillano il modo di venire a capo
     D’aver in mano, e di bollir quel capo.

Di fresco era lassù morto il Curato,
     E l’aveano sepolto dirimpetto
     Alla porta di Chiesa, ove il sacrato
     Ha una lapide antica a questo effetto.
     Quel Prete, per disgrazia, infarinato
     D’Algebra, se di tempo un ritaglietto
     Gli concedea la Cura di montagna,
     Era sempre a raspar sulla lavagna.

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Quell’armeggío di numeri venuto
     A risapersi nel paese, il Prete
     Per un gran cabalista era tenuto,
     E che de’ terni avesse in man la rete.
     E scalzarlo parecchi avean voluto,
     Mentre che visse, sull’arti segrete
     Di menar la Fortuna per il naso,
     Pescando il certo nel gran mar del caso.

L’ultima carne maschia seppellita
     Era il Prete, la cosa è manifesta;
     Dunque la testa che andava bollita
     Era la sua, certissima anco questa;
     E tanto più che avvezzi erano, in vita,
     I numeri a bollirgli nella testa.
     Così dicendo quella gente grossa
     Pensò del Prete vïolar la fossa.

Risoluti s’accordano costoro,
     E si partiscon l’opere e le veci;
     Ammannisca il coltello uno di loro,
     Un altro il pentolone, un altro i ceci,
     E poi tutti si trovino al lavoro
     Di nottetempo, là dopo le dieci,
     Nel giorno da Mosè dato all’altare,
     Ed alle streghe nell’era volgare.

Tutto quel giorno che precesse il fatto,
     Maso, un di quelli dell’accordellato,
     Girò per casa mutolo, distratto
     E torbo come mai non era stato:
     La moglie era presente, e di soppiatto
     Coll’occhio che alle donne Amore ha dato,
     Lo guardava e guardava, a quella vista
     Facendosi anco lei pensosa e trista.

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Erano sposi da cinqu’anni, e stati
     Sempre insieme su su da piccolini,
     Poi coll’andar del tempo innamorati,
     S’eran congiunti da onesti vicini.
     E dal dì che l’altar santificati
     Avea gli affetti lor, già tre bambini
     Rallegravan la rustica dimora
     Che tre rose parean côlte d’allora.

A forza di risparmio e di lavoro
     Conducean vita semplice e frugale,
     Poveri sì ma in pace, e con decoro,
     Contenti nel pudor matrimoniale;
     Quando ecco il Lotto a ficcarsi tra loro,
     Il Lotto, gioco Imperiale e Reale,
     E quella pace e quel viver onesto
     Subito in fumo andar con tutto il resto.

Vani usciti i consigli erano, e vani
     Con lui gli affanni di quella meschina,
     Che sempre più vedea d’oggi in domani
     Esso e la roba andarsene in rovina;
     Ed or facea concetti e sogni strani
     Del vederselo lì dalla mattina
     Senza toccar lavoro, o far parola,
     O consolarla d’un’occhiata sola.

E come più la sera s’appressava,
     Più lo vedea smaniante e pensieroso.
     Un po’ sedeva, un po’ cantarellava,
     Come fa l’uom che aspetta e non ha poso:
     Ed or prendeva in braccio, ora scansava
     Un fanciulletto, che tutto festoso
     Con più libero piè degli altri dui,
     Salterellava dalla madre a lui.

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L’aria imbrunì, suonò l’Avemmaria,
     E sorta in piè la donna, a’ figlioletti
     Incominciò malinconica e pia
     A suggerir garrendo i sacri detti:
     Maso, fermo sull’uscio, o non udia
     La squilla, vaneggiando in altri obietti;
     O se l’udì, non ebbe in quella sera
     Nè parola nè cuor per la preghiera.

Notò la donna l’atto, e avendo piena
     Già già la testa di mille paure,
     Dentro se ne sentì crescer la pena,
     Ma la represse, e attese ad altre cure.
     E acceso il lume e il foco, e dato cena
     E messe a letto quelle creature,
     Ritrovò Maso come addormentato,
     Col capo sulla mensa abbandonato.

Volea parlar, ma non le dette il cuore
     D’aprir la bocca, e ste’ soprappensiero,
     E quello immaginar pien di dolore
     Le cose più che mai le volse in nero;
     Poi, come fa chi dubbia e sente amore,
     Che cerca e teme di sapere il vero,
     Soavemente a lui che amava tanto
     Si volse, e disse con voce di pianto:

Maso, per carità, parla, che hai?
     Via, parla, non mi dar questi spaventi:
     Così confuso non t’ho visto mai;
     Oh, Maso mio, perchè non mi contenti?
     Se non lo fai per me, se non lo fai,
     Fallo per que’ tre poveri innocenti,
     Che son di là che dormono: e non sanno
     Lo snaturato di padre che hanno.

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Maso, bada alla gente! Il viciname
     Sparla di te; che ti se’ mal ridutto,
     Che un giorno o l’altro quel giocaccio infame
     T’ha da portare a qualcosa di brutto:
     Oh senti, Maso mio, meglio la fame,
     Andar nudi, accattare, è meglio tutto;
     Ma, se non altro, non darmi il rossore
     Che tu perda col pane anco l’onore.

E sì dicendo, a lui s’era accostata
     E dolcemente gli tendea la mano,
     Continuando con voce affannata
     A interrogarlo, a scongiurarlo invano,
     Chè da sè la respinse, e dispietata-
     -mente la minacciò quel disumano,
     E di tacer le impose, e che di volo
     Andasse a letto, e lo lasciasse solo.

Andò la dolorosa, e mezza morta
     Senza spogliarsi in letto si distese:
     E là piange, e si strugge e si sconforta,
     Cheta, in sospetto e sempre sull’intese;
     Nè molto sta, che cigolar la porta
     Udendo, sorge, e coll’orecchie tese
     Sente, pian piano, con sordo stridore,
     A doppia chiave riserrar di fuore.

Balza da letto, e prima che s’involi
     Del tutto, vuol seguirlo arditamente:
     E poi non si risolve, e de’ figlioli
     Sorge il pensiero a divider la mente;
     Ma tosto il dubbio di lasciarli soli
     Cede al timor più vivo, e più presente;
     Scende e tenta la toppa, e nulla avanza,
     E del forzarla è vana ogni speranza.

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Più l’ostacolo è forte, e più s’esalta
     L’animo in quello; ond’essa audace e destra
     Si lancia ove ricorre angusta ed alta
     Cinque braccia da terra una finestra;
     L’apre la donna e su vi monta, e salta
     Speditamente nella via maestra,
     E per molti sentieri erra, e s’invesca
     Senza molto saper dove riesca.

In questo mentre i compagni di Maso
     A mezza costa, fuor dell’abitato,
     Celatamente avean le legna e il vaso
     Per la strana cottura apparecchiato:
     Egli co’ ferri che faceano al caso
     D’alzar la pietra e scorciare il Curato,
     Per altra via, coll’animo scontento,
     Ultimo venne al dato appuntamento.

Qui ci vorrebbe una notte arruffata,
     Una notte di spòlvero, che quando
     Alla tedesca fosse strumentata,
     Paresse un casa-al-diavolo, salvando.
     Se, per esempio, la nota obbligata
     D’un par di gufi avessi al mio comando,
     E fulmini a rifascio, e un’acqua tale
     Da parere il diluvio universale;

E una romba di vento, e il rumor cupo
     D’un fiume, d’un torrente, o che so io,
     Che giù scrosciando d’un alto dirupo
     Rintostasse de’ tuoni il brontolio;
     Di quando in quando un bell’urlo di lupo,
     Un morto che gridasse Gesù mio,
     E una campana che sonasse a tocchi,
     Riuscirebbe una notte co’ fiocchi.

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A farlo apposta, tra le notti belle
     Vedute al mondo, questa, a mia sfortuna,
     Si potea dir bellissima: le stelle
     Erano fuori, tutte, fin a una!
     Se a sciuparmi le tenebre con quelle
     Fosse venuta in ballo anco la luna,
     Piantavo la novella, e buona sera:
     Tiriamo avanti, la luna non c’era.

Zitti, spiando intorno, e come un branco
     Di lupi ingordi..... Adagio, e colle buone;
     Il lupo è detto. — Di corvi? — Nemmanco,
     Che di notte non vanno a processione;
     Sicchè dunque dirò, lasciato in bianco,
     Per questa volta tanto, il paragone,
     Che s’avviò la frotta al Cimitero,
     (E passi per la rima) all’aer nero.

Intanto qua e là s’era aggirata
     Ratta, intendendo la vista e l’udito,
     Quella povera donna sconsolata
     Inutilmente cercando il marito;
     E stanca per que’ sassi, e disperata
     Della traccia, per ultimo partito
     Alla Chiesa risolse incamminarsi,
     E là piangere, e a Dio raccomandarsi.

Su per una viottola scoscesa
     Va la meschina risolutamente,
     E all’orlo del sacrato appena ascesa
     Che fa piazzetta, sul poggio eminente,
     Ode, o le pare, là, verso la Chiesa
     Un sordo tramenío, come di gente
     Che soprarrivi cheta e frettolosa,
     E s’argomenti di tentar qualcosa.

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Insospettita fermasi e s’acquatta
     Giù rannicchiata, dietro a certi sassi
     D’una vecchia casipola disfatta,
     Distante dalla Chiesa un trenta passi;
     E di lì guarda e scorge esterrefatta
     Un gruppo strano, e parle che s’abbassi
     In atto di sbarbar con violenza
     Di terra, cosa che fa resistenza.

Ecco, si smuove una lapide, e tosto
     S’alza quel gruppo, e indietro si ritira,
     E di subito giunge là discosto
     Il grave puzzo che l’avello spira.
     Senza alitare o muoversi di posto,
     Trema la donna misera, e s’ammira
     Qual chi dorme e non dorme, e in sogno orrendo
     Volteggia col pensier stupefacendo.

Lenta calarsi dentro e risalire
     Una figura vede dall’avello,
     E sorta, accorrere i compagni, e dire
     Un non so che di testa e di coltello.
     E allor le parve vedere e sentire
     Ricollocar la lapide bel bello;
     Poi tutti verso lei tendere al piano,
     E innanzi un d’essi con un peso in mano.

Quel vederli venire alla sua volta
     Tanto le crebbe tremito e spavento,
     Che dentro si sentì tutta sconvolta
     E chiuse gli occhi e uscì di sentimento.
     Quelli che con molt’impeto e con molta
     Fretta correano in basso all’altro intento,
     Raccolti in branco e presa la calata,
     L’ebber senza notarla oltrepassata.

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Non molto andaro in giù, che dalla via
     Torsero a manca, e pervennero in loco
     Ove per molti ruderi s’uscia
     Ne’ campi, scosti dalle case un poco.
     La poveretta che si risentia,
     Ecco vede laggiù sorgere un foco,
     E parecchi d’intorno affaccendati
     Dal baglior delle fiamme illuminati.

Brillò la fiamma appena, che non lunge
     Da lei, più gente a gran corsa si sferra,
     E giù piombata in un attimo, giunge
     Là dove lo splendor s’alza da terra:
     E altra gente gridar che sopraggiunge,
     E d’un’altra che fugge il serra serra,
     E su e giù per fossi e per macchioni
     Stormir di frasche, e salti e stramazzoni.

S’alza un alterco... ahi misera! è la voce,
     È la voce di Maso; e par che tenti
     Di liberarsi d’uno stuol feroce
     Che lo serri d’intorno e gli s’avventi.
     Tosto drizzata in piè, scende veloce
     Onde veníale il suon de’ fieri accenti,
     Quand’ecco che la ferma un duro sgherro
     Con un artiglio che parea di ferro.

Le spie del luogo avean raccapezzato,
     Non si sa come, un che di quel ritrovo,
     E un Ser Vicario già n’era avvisato
     Famoso per trovare il pel nell’ovo:
     Ma tardi e male postisi in agguato
     I bracchi, mossi a chiapparli sul covo,
     Fallito il colpo della sepoltura,
     Te gli avean côlti alla cucinatura.

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Raggranellati tutti e fatto il mazzo,
     La donna fu creduta della lega:
     Il Merciaiolo citato a Palazzo,
     Svesciando il caso dall’alfa all’omega,
     Provò che per uscir dell’imbarazzo
     Avea dato una mano alla bottega.
     Tant’è chi ruba che chi tiene il sacco:
     Dunque fu detto che battesse il tacco.

Con più giustizia della falsa accusa
     Uscì netta la misera innocente,
     Ma di vergogna e di dolor confusa
     Pericolò di perderne la mente;
     Perocchè fissa in quella notte, e chiusa
     Nel proprio affanno continuamente,
     Da paurose immagini assalita
     S’afflisse e tribolò tutta la vita.

Veggano intanto i Re, vegga l’avaro
     Gentame intento a divorar lo Stalo,
     Di quanti errori il pubblico denaro
     E di che pianto sia contaminato!
     Fuman del sangue sottratto all’ignaro
     Popolo, per voi guasto e raggirato,
     Le tazze che con gioia invereconda
     Vi ricambiate a tavola rotonda.

Dritto e costume nel consorzio umano
     Così, per vostre frodi, hanno discordia:
     E cupidigia vi corrompe in mano
     E la giustizia e la misericordia;
     Chè assolver non si puote un atto insano
     Che con legge e ragion rompe concordia;
     Nè giustamente l’error mio si danna,
     Quando il giudice stesso è che m’inganna.

[p. 237 modifica]


Premesso questo, è tempo di sbrigare
     Anche quegli altri che lasciammo presi.
     Dopo un gran chiasso e un grande almanaccare
     Di spie, di birri, e di simili arnesi;
     Dopo averli tenuti a maturare,
     Come le sorbe, in carcere se’ mesi;
     Dopo un processo lungo, lungo, lungo,
     Si svegliò la Giustizia e nacque il fungo.

E fu, che resultava dal processo
     Vïolato sepolcro, e sortilegio:
     Ma visto che il delitto fu commesso
     Per il Lotto, e che il Lotto è un gioco regio,
     Chi delinque per lui, di per sè stesso
     Partecipa del Lotto al privilegio. —
     Se fosse stata briscola o primiera,
     Pover’a loro, andavano in galera.