Viaggi alle Due Sicilie e in alcune parti dell'Appennino/Capitolo XI
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CAPITOLO XI.
si segue a ragionare
di stromboli.
Materie componenti quest'Isola sono scorie, lave, tufi, pomici, ferro specolare. Tre qualità di scorie. Qualche vetrificazione nella prima qualità. Stromboli non dà vetri veraci, nè smalti. A tale qualità di scoria non può accordarsi il nome di pomice. Suo lanciamento, e figura che talvolta prende nell'aria. Seconda qualità di scorie, per cui Stromboli è famooso. Sua attuale decomposizione, dove esalano i vapori acido-sulfurei. Materie eruttate da Stromboli più ribollite e ricotte, che nelle fornaci degli altri Vulcani. Attività de' fuochi di Stromboli da lungo tempo rimasa la stessa. Falsa opinione di alcuni, che i vetri vulcanici sieno originati da lave rifuse. Terza qualità di scorie. Tutte e tre queste scorie riconoscono per pietra primordiale il porfido a base di pietra di corno. Enumerazione delle diverse lave di Stromboli. Suoi tufi, e pomici. Ferro specolare. Sito pericolosissimo dove si trova. Sua cristallizzazione, bellezza, e varietà. Sfoglie di sulfato di calce incrostanti alcune di queste cristallizzazioni. Nate per sottillissimi foglietti di ferro soprapposti, e insieme conglutinati. Durezza, e fragilità insieme di questo ferro. Sua polarità. Cangiamenti in esso osservati, sottoponendolo al fuoco della fornace, e a quello che viene animato dal gaz ossigeno. Lava decomposta, matrice di questo ferro specolare. Causa di tale decomposizione. Confronto tra questo ferro specolare scoperto dall'Autore, e quello scoperto da altri nelle materie vulcaniche. Questi ferri specolari sono nati per via secca. Radezza dei medesimi ne' Paesi vulcanici. Impotenza degli acidi sulfurei nell'alterare il ferro di Stromboli. Sua antichità. Rocce porfiriche, le quali fuse da sotterranei accendimenti, e spinte fuori del mare hanno formato l'Isola di Stromboli. Diversi porfidi di Paesi non vulcanizzati, posti alla fornace, per confrontare i cangiamenti su di essi fatti dal fuoco nostro con quelli, che in rocce congeneri produce il fuoco vulcanico. Epoca dei primi incendj di Stromboli anteriore ad ogni Istoria. Scarse notizie lasciateci dagli Antichi. Confronto di Strabone tra i fuochi di Stromboli, e quelli di Vulcano. A quel tempo i getti di quest'ultima Montagna dovevano essere più frequenti, e più forti che adesso. Vento che secondo Diodoro Siculo esciva da queste due Isole. Opinione poco fondata del Cluverio, che a' suoi tempi il cratere di Stromboli esistesse su la sua cima. Epoca più antica degl'incendj di Stromboli a noi cognita per le storie, anteriore di 290. anni circa all'Era cristiana. Ricerche su le materie per sì lungo tempo alimentatrici di questi incendj.
Le materie che forman quest'Isola, per quanto almeno ho potuto scoprire, sono scorie, lave, tufi, pomici, e ferro specolare, oltre l'arena, di che nel precedente Capitolo ho parlato abbastanza. E per rifarmi su le scorie, ne ha di tre qualità. La prima è leggerissima, e di colore tra il nero, e il bigio, e su lei ha più agito la violenza del fuoco. Alcuni piccioli pezzi sono vestiti d'una verace vernice di vetro. Gli altri in generale costano massimamente di semitrasparenti fili vetrosi, taluno de' quali è sì sottile, che emula quelli delle tele de' ragni. Si vede adunque che la materia era in uno stato di semivetrificazione, quando le sue parti sono state distratte da' fluidi elastici, e rese porosissime, e che in quella distrazione alcune di loro in vece di discontinuarsi, sonosi allungate in fila, induratesi poi al toccamento dell'aria. Si comprende altresì, che non vi era mestieri, che d'un grado di fuoco di più, perchè la vetrificazione fosse compiuta.
Dei diversi corpi che getta il Vulcano di Stromboli, la presente scoria sembra esser quella, che provata più abbia la sua efficacia. Non è però mai stata ridotta a vetro verace, se non se in pezzetti di disprezzabil grossezza. Anzi gl'incendj di Stromboli a tale di attività non sono mai giunti, ricercato avendo io invano per tutta l'Isola vetri, o smalti. La non esistenza degli uni, e degli altri, accertatami dagli Isolani stessi, comprova di più la mia affermazione; giacchè se vi fossero vetri o smalti, gli avrebbero sicuramente riconosciuti, pel confronto di quelli della vicina Lipari, notissimi a tutti gli abitatori dell'Isole Eolie, sotto il volgar nome di ferizzi.
Ma la scoria descritta, siccome in gran parte filamentosa, non potrebbe ella dirsi una specie di pomice? Non ve ne ravviso i caratteri: e d'altronde la qualità fibrosa non basta. Dal che raccolgo, che affinchè una pietra tormentata da' fuochi vulcanici passi alla condizione di pomice, vi si richieggono certe determinate condizioni o in lei, o nel grado del fuoco, o fors'anche in ambidue, finora da' Vulcanisti non troppo bene conosciute, malgrado i loro sforzi per lo spiegamento delle pomici. La presente scoria può fornirne un esempio. La pietra che le ha servito di base, per l'azione del fuoco si è stemperata in lava dentro al cratere; e questa lava per l'azione de' fluidi elastici, e per quella probabimente del solfo, si è fatta sostanza filamentosa, e vetrosi essendo i suoi filamenti, pareva essere in prossima disposizione di convertirsi in pomice: pure non ea fatta dalla natura per divenir tale, manifestandolo que' pezzuoli, che contratta hanno una sottile corteccia di vetro. Se i presenti incendj di Stromboli fossero adunque più efficaci, le pietre che fondono, e che rigettano, passerebbero dallo stato di scorie a quello di vetro perfetto, senza acquistar prima la natura delle pomici.
Le scorie di questa fatta non vengon mai in grossi pezzi a molta lontananza dal Vulcano gettate, per la somma facilità nel rompersi, e polverizzarsi.
E' degno di riflessione, che non pochi pezzi di queste scorie pendono alla figura cilindrica, e che i loro filamenti sono paralleli all'asse del cilindro: l'uno, e l'altro opino esser nato dall'impeto di projezione, ricevuto da' fluidi elastici nello staccarsi dalla lava fusa, non avendo que' pezzi avuto il tempo di ritondarsi, pel quasi subito raffreddamento, e quagliamento, per la tenuità della loro mole.
Segue ora a far parola della seconda qualità di scorie, voglio dire di quelle per cui Stromboli è famoso, derivando massimamente da esse le sue grandinate. Questa seconda specie quantunque seco non porti essenziale divario dalla prima, pure volendo giudicarla esteriormente, in ciò differisce, che sotto un pari volume, è quasi il triplo più pesante, nè è punto fibrosa, e manifesta soltanto leggerissimi segnali d'incominciata vetrificazione. Del rimanente, come il più delle scorie, non solo è sparsa di scabrosità, e di tumori, e di bizzarre figure, e per tutto scorificata, ma vedesi piena zeppa di cavernette rotonde, allungate, e d'altra configurazione. Le massime sono di mezzo pollice, e le minime poco meno che invisibili. Elleno poi si estendono a tutte le parti delle scorie fino al più interno midollo, in que' pezzi eziandio, che sono i maggiori. Che anzi nel centro di taluno sono più confluenti, e più ample. Quindi apparisce, che nella sostanza di queste scorie, allorchè erano liquide, regnava una universale effervescenza degli elastici fluidi. La superficie interna d'ogni cavernetta è come spalmata d'una vernice senza lustro, e di un rosso cupo, quando il rimanente delle scorie è nero. A ben discernere i sensibili caratteri di questa scoria, conviene guardarla alla lente nelle fresche rotture, e allora scopriamo che in lei la grana è poco fina, e senza lustrore, la tessitura uniforme, la durezza mezzana, la frattura irregolare, che manda qualche scintilla all'acciajo, che rende un debole odore terroso, e tira a mezza linea l'ago magnetico. Tai note esteriori danno a pensare, che questa scoria abbia per base la pietra cornea, e i lei prossimi principj lo confermano senza replica.
Ma cotal base non è omogenea, giacchè avviluppa feldspati, e sorli. Affilando adunque lo sguardo, apparisce segnata di bianche, e sottili macchiette numerosissime, che fanno un mirabil contrasto col lei fondo che è nero, e chiamata in ajuto la lente, non indugiamo a riconoscere le macchiette per altrettante sottili squame di feldspato. Essendo piatte come deschi, ove si mirino di taglio, appariscono lineari, ma grandicelle, guardandole ne' piani. Il numero dei sorli è incomparabilmente minore, ma il volume di ciascheduno è di molto più grande. Sono di color nero, e di forma prismatica, e la lunghezza del prisma è in molti cinque linee, e due la grossezza. Ma difficil cosa è l'avere prismi interi dalle scorie, per la troppa aderenza con esse.
Piuttosto conviene cercarli isolati in certi bassi fondi, non lungi dal cratere, dove le sbriciolate scorie sono più che altrove ammucchiate. Poco alterandosi eglino dagli stemperamenti delle stagioni, quivi veggonsi raccolti abbondantissimamente, molti a dir vero scheggiati, e più altri in minuzzoli, ma alcuni pochi eziandio intieri, e conservanti la forma prismatica, che è ottaedra, e terminata da due piramidi diedre. Intaccano appena il vetro, quindi non sono molto duri. L'aspetto è vetroso, e mostrano d'essere così sani, come lo erano nella primitiva roccia matrice.
Ma oltre i feldspati, e i sorli ha dentro a queste scorie diverse altre petrucciole, che da prima mi hanno tenuto dubbioso s'io dovessi caratterizzarle per altra specie di sorli, oppure pei così detti crisoliti de' Vulcani. Hanno la trasparenza del vetro, e molta eleganza ne' colori. Alcune adunque mostrano un tenero verde di erba, altre un verde più carico, e smeraldino: in certe è un misto tra il verde, e il giallo. Alcune di queste qualità, comuni a' crisoliti, e a certe specie di sorli, ne' primi esami mi tennero adunque in forse, s'io dovessi collocarle nel genere di quelli, ovvero di questi. Ma oltre al non avere potuto scorgervi figura regolare, la facilità con cui ho fuso al tubo ferruminatorio cosiffatte petruzze, mi ha indotto a crederle piuttosto sorli.
Per le cose fin quì ragionate si fa chiaro che queste due guise di scorie sono porfiriche, sendo composte d'una pietra di corno, a cui sono incorporati i feldspati oltre ai sorli[1].
Ma innanzi di lasciare questa seconda qualità di scorie, tornerà a bene il farne ancor sentire una parola. Alcuni pezzi di essa giacciono allato de' fumajuoli già altrove divisati, e posti all'ouest del Vulcano. Quando adunque mi accostai a quel luogo, ne raccolsi alcuni che ingombravano in parte uno de' fori, di dove usciva il cocente fumo, e che per conseguente ne sentivano la viva impressione. Cotesti pezzi hanno contratto cangiamenti analoghi a quelli delle lave della Solfatara. Perduto adunque il color nero si sono vestiti d'una crosta biancogialliccia, ammorbidita, e divenuta tenera a segno da potersi tagliar col coltello. I sorli però nella porzione alterata sono sanissimi. Ma l'acido del solfo, che ha agito su queste scorie, oltre l'averle in parte decomposte, ha anche prodotto entro le sue cavernette alcuni piccioli aggregati di sulfato di allumina, e di sulfato di calce. Questa mia osservazione fatta non già sopra prodotti vulcanici anticamente decomposti, e che per buone ragioni crediamo esser divenuti tali mediante gli acidi sulfurei, ma imparata dalla natura stessa in un prodotto attualmente decomponentesi, è una irrefragrabile confermazione del potere di questi acidi nel decomponimento di cosiffatte produzioni.
Le precipue materie che getta Stromboli, e intorno alle quali mi sono trattenuto fin quì, le ho nominate scorie, giacchè secondo il giudizioso, e verace avvertimento del Sig. Dolomieu, ove parla in generale delle scorie[2], queste differiscono dalle lave, per avere sofferta maggiore alterazione nel Vulcano, in quanto che sono più gonfiate, ed acquistata hanno superficie più scabrosa, e forme più bizzarre. E giusto somiglianti apparenze ci presentano le pietre lanciate da Stromboli. Non è però ch'io non m'avvegga che la diversità di tali circostanze non è intrinseca ed essenziale: e che quinci le nominate scorie non si potessero anche dir lave, ma dal Vulcano più alterate, essendo in sostanza la medesima materia fusa dal fuoco, e dai gaz elastici diversamente modificata. E però credo d'essermi rettamente espresso, dicendo che la lava di Stromboli si abbassava, inturgidiva, scoppiava, veniva a brani in alto lanciata[3], quantunque poi cotesti brani gli abbia in seguito denominati scorie, per averne effettivamente i caratteri.
Intorno alle materie che fermentano, e gorgogliano nella voragine di Stromboli, e che del continuo si eruttano sotto forma di scorie, gioverà qui fare una non disacconcia considerazione. Questo Vulcano oltre la singolarità di rigettar sempre, e da immemorabile tempo, ha l'altra, che le materie che rigetta, vengono nel suo cratere più ribollite, più ricotte, che nelle rotte viscere degli altri Vulcani. Questi spuntando dalla cima di ripide montagne, quantunque volte spinto hanno al di là degli orli della bocca le pietre, più mai non le ricevono, rotolando esse all'ingiù pe' fianchi delle medesime. Ma il cratere di Stromboli oltre il giacere a mezzo il Monte, è sì attorniato per di sopra da scoscese pendenze (salvo il lato che mira il nord) che oltre le scorie lanciate a piombo, e dentro lui immediatamente cadute, vi precipita, e vi si nasconde buona parte di quelle, che di fuora si versano. E correndo già qualche secolo che succede cotal giro di materie uscite dal Vulcano, e subitamente rientratevi, chi non vede quanto a lungo provato avranno gli ardori della rinfocata fucina, per cui pareva dovessero accostarsi di più alla natura vitrea, o piuttosto passare allo stato di vetro verissimo? E pure la cosa va diversamente. A otto piedi di profondità fatte dissotterrare non lungi dalla bocca del Vulcano più scorie, si sono trovate somigliantissime a quelle che erano alla superficie, non ostante che esser dovessero per assai tempo anteriori. E quel che più rileva, i sorli delle recentissime scorie sono sì intieri, sì cristallizzati, siccome quelli delle più antiche.
Queste mie osservazioni sono una sicura, e secondo ch'io avviso, bellissima pruova, che l'attività de' fuochi di Stromboli non è stata per l'addietro minore, nè maggiore di quella d'oggidì. Non minore, giacchè allora non sarebbe seguita la fusione nelle materie del cratare, e conseguentemente nessuna eruzione. Non maggiore (almeno in considerabil grado) diversamente le scorie si sarebbero compiutamente vetrificate, e i sorli fusi, siccome li veggiam fondersi al fuoco comunale, ove sia intenso. Si raccoglie inoltre l'insussistenza dell'opinione di alcuni, che pretendono essere originati i vetri vulcanici dalle lave rifuse, giacchè, siccome abbiam veduto, non è mai escito da Stromboli vetro verace, non ostante la moltiplicata rifusione delle eruttate scorie, o lave scoriacee che vogliam nominarle[4]
Ma è tempo di farci a considerare la terza specie di scorie. Questa propriamente appartiene all'antico Vulcano, e smuovendo l'arena, si ritrova a poca profondità all'est dell'Isola, poco sopra le sue falde, distesa come in tavolati, formanti un sol corpo con le sottogiacenti lave, corse una volta dalla cima di Stromboli al mare. Quegli abitanti si valgono molto di questa scoria per le loro case, essendo consistente insieme, e leggerissima. Nasce la leggerezza dall'occupar questa scoria un amplissimo spazio con picciola massa, grandemente rarefatta per la immensità delle cellette che abbraccia. Sottilissimi essendo i tramezzi che separano l'una dall'altra le cellette, difficile cosa è l'espiare la scoria a dovere, massimamente per avere l'impronta della più rimota antichità. Ciò non ostante l'attento esame di molti pezzi, mi ha fatto scoprirvi i neri sorli, e i bianchi feldspati. La pasta, per quanto ho potuto accorgermi, non discorda da quella dell'altre due specie.
Detto delle tre scorie di Stromboli, senza però pretendere, che ricerche novelle non ne possano altre scoprire, ragion vuole che passiamo a numerarne, e a descriverne le lave, le quali per seguire qualche ordine, divideremo in porose, e in solide, e dalle prime piglieremo cominciamento.
I. Questa lava all'ouest dell'Isola forma un'alzata di qualche cento passi, e l'occhio non pena un momento a riconoscerla per un prodotto niente nella sostanza diverso dalla seconda specie di scorie. Il medesimo fondo, impasto, e colore, i medesimi feldspati, i medesimi sorli, e la medesima integrità, e cristallizzazione negli uni, e negli altri. Nel modo stesso scintilla all'acciajo. Solamente l'ampiezza, e il numero delle cavernette sono minori, le solide parti più lisce, nè hanno negli andamenti quell'apparente bizzarria che pare inseparabile dalle scorie. Potrebbe dunque far credere d'essere stata un giorno versata dal presente Vulcano. Nè io su questo esiterei punto, se l'andamento della lava fosse a quella volta, ma trovo che guarda il sommo della Montagna, dove emmi paruto di potere a ragione supporre, che ci esistesse anticamente il Vulcano maggiore: e però crederei piuttosto che di là fosse scaturita.
II. Meno porosa è questa lava. La grana ha occhio alquanto siliceo, è morbida al tatto, e scintillantissima al focile. Rade sono le squamette feldspatose, ma innumerabili i sorli. Giace al sud della Montagna, formando petroni isolati.
III. Picciolo è il divario tra la presente lava, e l'altra del numero II., e consiste nella maggiore porosità, e in un tenue odore argilloso. Questa lava trovasi erratica per l'Isola. Il petroselce ha servito di base a queste due lave.
Diciamo ora delle lave solide, non già che queste sieno senza pori, ma perchè la sottigliezza loro li rende invisibili.
I. Malgrado la sua spessezza, la lava di che ora scrivo, è piuttosto friabile, e debolmente scintilla all'acciajo. Abbonda in feldspati, ma più anche in sorli. Il colore è grigio-nericcio, la sua base è una pietra di corno, e quindi ne è terroso l'odore.
II. Più anche friabile è questa seconda specie di lava solida, e l'odore di argilla è notabile. Non è accompagnata da' sorli, ma sibbene da tanta ricchezza di feldspati, che occupano più d'un terzo di lei; e distinguonsi chiaramente, per esser bruna la pasta, ed essi bianco-lucenti. Sono a lame egualmente per la pasta distribuite. Così questa lava, come l'altra del numero I. sono state da me staccate da più correnti al sud-est di Stromboli.
III. Sono tra due se la presente roccia debba chiamarla una lava, sendo un porfido di un nobile rosso carico, il qual colore si cangia in nero, appena che senta l'attività della fornace. Accresce i miei dubbj il luogo medesimo dove ella esiste, essendo questo un alzamento tufaceo formante un grosso strato inchinato al sud-est dell'Isola, dentro al quale a grossi pezzi si trova. Quindi mi è corso per l'animo, che tal porfido insieme al tufo sboccato sia dal Vulcano, senza provare la possanza del fuoco. Tuttavia rimango in pendente, per avere esempli di qualche altro porfido, che ha non equivoci caratteri di aver colato, non ostante che ritenga un bel rosso di sangue, come vedremo ragionando di Lipari. Comecchè sia, il presente è a base di petroselce, ha le macchie bianco-feldspatose, e riceve pulimento, e lucidezza.
IV. Questa lava, che al sud-ouest produce una continuata corrente lunghissima, è sparsa dei soliti feldspati, nera nel colore, a base di pietra di corno, e manda un forte odore terroso. Va congiunta con diversi sorli verdognoli, e neri. Più increspamenti, ed onde appariscono in essa, nate verisimilmente allorchè giù colava dal Monte. Quantunque solida, lascia però vedere delle picciole vacuità, tutte quante allungate in elissi acutissime, e l'allungamento è quasi sempre giusta la direzione della corrente, per cui appunto nascer doveva così fatta figura.
Queste sono le scorie, e le lave ritrovate a Stromboli, lasciando da parte alcune varietà, che amplificherebbero il volume del libro, senza accrescerne l'utilità.
Secondo la partizion fatta, dopo le lave dovrei parlare dei tufi; e a dir vero ho già fatto sentire che essi non mancano in qualche parte dell'Isola. Ma crederò l'aver detto tutto, narrando che sono una terra argillosa, polverizzabile, bibacissima, grigia, a cui mischiati vanno frammenti di feldspato, e di sorlo, la qual terra alla fornace s'indura senza fondersi. Son questi almeno i caratteri dei tufi da me quivi osservati.
Accostandomi adesso al quarto genere delle produzioni vulcaniche di Stromboli, cioè alle pomici, dirò che queste esistono all'est dell'Isola ad un terzo circa di sua elevatezza, nei lati di alcune viottole, che attraversan più vigne, e negli affossamenti generati per lo discorrimento dell'acque. Ma non sono mica in massi, molto meno in correnti, ma in minuti pezzi, nè molto frequenti; ed è facile l'accorgersi che per opera degli uomini, e per quella delle piogge sono state dissotterrate, e seguendo le tracce, di dove sono provenute, si arriva a conoscere che giacciono sotto l'arena alla profondità di più piedi. Quivi adunque si scorgono raramente seminate, e nello stato in cui erano, quando dal Vulcano vi furon lanciate. Io poi non oso pronunciare quale dei Vulcani ne sia stato l'autore, se l'antico, o il presente, oppur qualche altro, di cui forse cancellata siasi la memoria, non avendo alcun lume, che in tanta oscurità mi rischiari, e diriga. Non mi sono abbattuto a vederne in altre parti. Queste pomici non allontanandosi dalle più comuni, e più note, è superfluo ch'io fermi la penna nel descriverle. Dirò soltanto che la loro base è petrosilicea colla mescolanza de' consueti feldspati. Stromboli ha dunque altre volte vomitato pomici, quantunque più non ne getti presentemente. La quale alternazione la veggiamo anche accadere di tempo in tempo, ma assai più in grande, al Vesuvio.
Fatto sentire in separati crogiuoli a queste diverse qualità di scorie, e di lave il fuoco della fornace, la base tanto petrosilicea, che a pietra di corno, ha dato uno vetro lustrante, bollicoso, ma duro, con la fusione dei sorli, senza quella però dei feldspati. Dalla pomice si è avuto un vetro leggiere per la moltitudine de' suoi vani, grigio, e suddiafano.
Rimane ora a dire del ferro, che è il quinto, ed ultimo de' prodotti vulcanici da me trovati in quest'Isola. Desso è specolare. Non ignoro che questa specie di metallo è stata osservata in altri Vulcani. Godo però d'essere io il primo ad averla scoperta nelle Isole di Lipari. Me ne compiaccio vieppiù nel vedere, che essendo le cristallizzazioni di cotal ferro a molti doppi più grandi, che le osservate da altri, riescono considerabilmente più adatte ad intendere, e a spiegare la loro formazione. Poco più d'un miglio dall'abitato esiste al sud questo ferro in uno scoglio di lava, che cade quasi a piombo sul mare, e che lo superchia di cencinquanta e più passi. Dagli Strombolesi essendomene stato mostrato qualche picciol saggio, qual rarità del loro Paese, senza saper cosa fosse, mi prese subito vaghezza di averne più altri, ma alla matrice aderenti, quelli essendone già staccati, e ritrovati sotto quello scoglio alla spiaggia. Ma ad avere l'intento non bastarono i prieghi, nè una discreta moneta, e però dovetti con loro mostrarmi generosissimo. E a dir vero la loro fatica in simile affare non era mai pagata abbastanza. Per impadronirsi di quelle pietre, come essi le chiamano, è forza passare per un sito pericolosissimo, a superare il quale le capre salvatiche, non che gli altri uomini, sarebbon forse restìe, detto perciò a tutta ragione il malo passo. Ma evvi anche maggior pericolo nel recarsi al luogo preciso, dove trovasi il ferro, per essere quello scoglio, oltre l'estrema sua ripidezza, parte ruinato, parte ruinoso. Ed è assai difficile il portarvi sopra il piè fermo, senza che questo non isdruccioli, e precipiti in mare. Pure l'avidità del guadagno, unita all'abitudine di que' Paesani nel passar per su greppi, e balzi dirupati, in altezza paurosa a vedere, fece che due di loro non ricusarono la malagevole impresa, che felicemente fu recata ad effetto, con la raccolta di bellissimi pezzi, per via d'un piccone dalla matrice lava staccati. Da loro appresi, che quello scoglio è fesso in più siti, e che alle pareti delle fessure ritrovasi il ferro.
Questo metallo è cristallizzato in lamine verticali alla roccia matrice, le quali su lei sono sì tenacemente impiantate, che per averle isolate gli è sempre d'uopo spezzarle. I due piani d'ogni lamina sono fra se paralleli, o si accostano di molto al parallelismo. Generalmente le lame al primo scontro degli occhi si presentano ovali, ma con qualche attenzione guardate, si scorgono poligone. Quì la figura poligona diversifica prodigiosamente. Talvolta ella è un triangolo, che nella superior parte termina in un angolo ottuso. Tale altra in un retto od acuto, quantunque di rado ciò accada. Certe lame sono circoscritte, quale da sei lati, quale da sette, o da otto, e taluna ancora da più. Non meno si osservano varietà senza fine nella lunghezza, e brevità dei lati, come nella misura degli angoli compresi. I lati sono le più volte tagliati da' piani o triangolari, o quadrati, o romboidali, o risultanti d'altra poligona figura. Quì adunque la natura nell'organizzar questo metallo sembra che voluto non abbia prescriversi una sola forma di cristallizzazione, o almeno se lo ha fatto, non è sì agevole il poter conoscere la figura semplice primitiva, donde nate sono tante varietà.
Le lamine sono sì lustre, sì forbite, che il più fino acciajo se non vi perde, non è loro al certo superiore in bellezza. Quindi nel rifletter la luce emulano i più tersi specchi. Le più grandi oltrepassano i quattro pollici di lunghezza, e i tre e mezzo di larghezza. Ma ne ha oltrenumero delle minori, e a proporzione più sottili, cioè d'un pollice, di un mezzo, di un terzo, di un quarto di pollice, fino ad impicciolire in maniera, che le più esili sono microscopiche, sempre però cristallizzate in una delle divisate figure. Non vedesi mai una lamina da se, ma sono sempre insieme aggroppate, o piuttosto affastellate; e talvolta su la roccia formano groppi del giro di venti e più pollici. Quindi strabocchevole ne è la copia. Ma non si vuol tacere più d'una rilevante circostanza, che d'ordinario va unita a queste cristallizzazioni. La circonferenza di tali, diciam così, affollatissime metalliche selvette suole esser formata di lame sì minute, che per discernerle è mestieri d'una lente forte. Ma a grado a grado dell'internarsi nelle selvette, le esili laminette si fanno grandicelle, e quanto più si va dentro di esse, l'aggrandimento è maggiore, e verso il centro gli è massimo, giacchè quivi le lamine superano nell'ampiezza le altre tutte. Di più v'ha qualche sito delle selvette, in cui la natura ha abbozzato, anzi che compiuto il suo lavorio. Vi sono adunque certi groppi o massette di ferro, ove nulla più si presenta che un primo principio di cristallizzazione. Sebbene in altre neppur tale abbozzo si osserva, ma soltanto una crosta alla matrice attaccata. Ha poi de' siti, da cui risaltano numerosi tumoretti, dall'occhio ignudo giudicati informi, ma che sotto la lente si scoprono una moltitudine di laminette irregolarmente conglutinate. In somigliante modo sono pur formate alcune croste, grosse talvolta tre linee, le quali sì internamente, che alla superficie si riconoscono un aggregamento di lamine insieme avviluppate, e confuse.
Per le riflessioni che farem quinci a poco, non è da pretermettere, che più adunamenti di lamine sono o interamente coperti da una sfoglia di sulfato di calce, di guisa che per averle nude, gli è d'uopo levarla; o desse risaltano soltanto dalla medesima per la parte superiore. Cotale sfoglia è bianchissima, e sì fortemente è attaccata al ferro, che sembra cera colatavi sopra, e indurita.
In generale il color delle lamine è somigliantissimo a quello del più nobile, e più lucido acciajo, a riserva di certe che tinte sono in violetto. Nelle rotture brillano come nelle facce. Malgrado la grande loro durezza, hanno quasi la fragilità del vetro.
Nel ricercare con l'occhio diligente queste lamine, mi si presentò un fenomeno, che accrebbe la mia attenzione. Ciò furono alcune squamette fra se parallele, che sporgevano dalle facce di questi cristalli. Il fenomeno m'indusse a sospettare, che la composizione di essi fosse il risultato di molti foglietti insieme uniti, e ferruminati. E le lamine più grandi mi mostrarono che ragionevoli erano i miei sospetti. Rotte adunque di traverso, si ravvisano spesso nelle rotture i sottilissimi fogli: e v'ha pur di quelle che evidentemente li mostrano, e numerosissimi nelle loro facce. Un foglietto adunque, a forma d'esempio, occupa un sesto di una faccia, ed ivi finisce. Più in là al di sotto di lui se ne presenta un novello, che occupa un altro sesto, e quivi termina, come il primo. Più oltre sottovia al secondo foglietto ne scappa un terzo, che su la lamina s'inoltra egli pure a qualche spazio, senza progredire più in là. E così è d'altri foglietti, intanto che la lamina, andando sempre pel medesimo verso, si assottiglia vieppiù pel minor numero de' componenti foglietti. A valermi d'una comparazione, grossolana sì, ma spiegante, qui in certa guisa interviene quel che osserviamo talvolta in una mano di fogli di carta, prima messi in rotolo, poi su d'un piano distesi, succedendo nello svolgimento che ognun d'essi si allontani alcun poco dall'altro, talmente che li possiam sul piano numerar tutti, e vedere, che il primo, che sta sopra a tutti gli altri fa più voluminoso il cumulo delle carte, il qual cumulo per le carte successivamente minorate di numero, si rende sempre più sottile, così che in ultimo non ritiene che la esilità d'un foglio.
Le lamine non veggonsi però tutte a questo modo disposte. Le squamette generatrici talor sono conglutinate in modo, che non appajono, e la rottura delle lame mostra una superficie continuata. Rade sono però le lamine così lisce alle due facce, che non manifestino la presenza di qualche foglietto. Anzi più d'una fiata su d'una lamina sono attaccate altre, le quali mostrano d'essere di formazion posteriore. I surriferiti fatti insieme combinati non ci lasciano adunque il menomo dubitamento su la genesi di queste nobilissime cristallizzazioni; troppo manifesto apparendo essere state prodotte da un numero più o meno grande di sottilissime laminette insiem soprapposte, e attaccate, per cui nate sono le lame maggiori.
Fra tutte le vulcaniche produzioni da me nel mio Viaggio incontrate, e raccolte, non ne ha una sì sfavillante sotto l'acciajo, e sì possente a muovere in distanza l'ago magnetico, come la presente.
Quasi ogni lamina, ogni suo pezzetto, ogni briciolo, ha la polarità, attraendo per un verso l'ago calamitato, e respingendolo per l'altro verso; e l'attrazione, e la ripulsione camminan del pari. E la doppia virtù ha luogo egualmente nelle croste di ferro apparentemente non cristallizzate, e nelle loro parti.
Malgrado però tanta possanza nel muovere l'ago magnetico, appena questo ferro si risente dalla calamita, e conviene ancora che sia sottilmente sminuzzato.
Avvicinato alla boccia leidese, lascia pienamente passare l'elettrica commozione.
La fornace null'altro fa che togliere il lustro alle lamine, e sminuire di poco la virtù magnetica. Non viene tampoco levata per la fusion delle lamine; ad ottenere la quale è pure inutile il tubo ferruminatorio, e vi si richiede il gaz ossigeno, ed applicatovi anche per quasi due primi minuti, giacchè un solo non basta. La pallina, in che per la fusione si converte una picciola lamina di ferro specolare, perde superficialmente ogni lucentezza, ed acquista il colore del piombo tenuto all'aria. Internamente però è alquanto lucente, ma la friabilità delle parti è cresciuta, e all'acciajo dà pochissimo fuoco. Accade allora a questo metallo quel che sì sovente avviene ad altri corpi fusi, e vo' dire che rimane interrotto da bollicelle, e reso come spugnoso.
Tali sono le osservazioni instituite sul ferro specolare da me scoperto a Stromboli. Ma quale ne è la matrice? Troppo era necessario il conoscerla. Dessa dunque nell'essenziale non differisce da quelle lave di questo vulcanico Paese, che sono a base di pietra cornea, se non in quanto è alteratissima. Ella è tanto friabile, che l'unghia la rompe: in luogo d'esser nera o fosca, è cenerina, ed in qualche parte rossigna. E' porosissima, e quindi leggiera, e la sua grana ruvida, e secca non si discosta da quella di alcune pietre arenarie. Argilloso ne è l'odore, ed appiccasi tenacemente alla lingua, come farebbe un osso bruciato, e come lui immergendola nell'acqua, la tragge fischiando, e se ne imbeve, e satolla. Oltre al non scintillar punto all'acciajo, non fa questa lava la menoma impressione sull'ago calamitato, quando non sieno alcune sue parti interne, dove cova qualche particella di ferro specolare. Imperocchè quantunque questo copra massimamente l'esterno della lava, non è però che gl'interni vani non luccichino qua e là di più microscopiche laminette.
I Cristalletti feldspatosi di questa lava alterata sono intieri, pregiudicati però nella vivezza, e screpolati. E' mestieri affissarvi ben bene sopra lo sguardo, per distinguerli dall'impasto della lava, per esserne comune il colore. Questi però saltano agli occhi, tenuta che siasi la lava nella fornace, sì perchè allora acquistano un grado di più di bianchezza, sì perchè si mirano attraverso di una tenue crosta nereggiante di smalto, in che si è convertita superficialmente la lava. Questa però in pochi secondi rimane sciolta interamente dal gaz ossigeno, nascendone uno smalto omogeneo, ma bollicoso.
La massima analogia dell'alterazione di questa lava con quella di altre assaissime alterate dagli acidi sulfurei, chiaro palesa che la cagione ne è stata la medesima. E una evidente confermazione ne sono le sottili croste di sulfato di calce ad essa soprapposte, generate dagli acidi del solfo, combinati con la picciola dose di calce della pietra di corno. Cadrà ora in acconcio il dar quì una breve contezza di alquante osservazioni analoghe alle sopra indicate, per trarne dal confronto le conseguenze più confacenti al presente argomento. Il primo che ha parlato, a quel ch'io sappia, del ferro cristallizzato aderente a materie vulcanizzate, è il Sig. Faujas nella sua Mineralogia de' Vulcani. Trovò egli spuntare dalla superficie, e dalle fessure di una lava omogenea, e pesante di Volvic nell'Alvernia una moltitudine di sottili e picciole laminette di ferro aventi il brillante, e il lustro del più bell'acciajo polito. E quantunque non ne assegni la grandezza, conviene però supporre, che fossero pressocchè microscopiche, se ci fa sapere, che v'era mestieri d'una lente acuta per conoscere, che altre di tai laminette costavano di segmenti di prismi esagoni, altre di due piramidi pur esagone, unite per le basi. Erano attratte dalla calamita. La lava, cui si trovavano aderenti, secondo lui, era basaltina, ma grandemente alterata, divenuta essendo bianca, screpolata, friabile, e rammollita.
Il Sig. de Larbre Medico a Riom, in una sua dissertazione divulgata nel Giornale di Rozier (an. 1786.) oltre al nominato ferro di Volvic, esamina con molta accuratezza quello del Puy-di-Domo, e del Monte-d'-Oro della stessa Provincia. I cristalli di cotal ferro sono sezioni di un ottaedro alluminiforme, e talvolta ottaedri compiuti. E' nel Monte-d'-Oro, dove le cristallizzazioni o lame del ferro specolare sono più belle, e più distinte. Le maggiori hanno un pollice e mezzo di larghezza, un po' più di estensione nella lunghezza, e una linea e mezzo, o due al più di profondità. Le facce delle lame sotto la lente mostrano delle strie, delle diminuzioni, che palesano la soprapposizione di più picciole lamine.
Il ferro specolare dei tre ricordati luoghi dell'Alvernia ha virtù magnetica, e molti pezzi attraggon da un canto l'ago calamitato, e lo ripellon dall'altro.
Nota il de Larbre, che i ferri specolari cristallizzati del Monte-d'-Oro, del Puy-di-Domo, e di Volvic hanno una matrice comune, cioè una lava cellulare e pomicosa: e che questa lava dagli acidi è stata più o meno alterata.
Finalmente un terzo esempio di cristalli di ferro specolare si reca in mezzo dal Commendatore Dolomieu, da lui trovati su d'alquante lave compatte a Jaci-Reale, e in diverse scorie alterate, e intenerite dai vapori acido-sulfurei nel cratere di Monte Rosso. I cristalli del primo sito sono squamette sottili lucenti esagone regolarissime, dure, alcun poco moventisi verso la calamita, e le più grandi non superano una linea e mezzo. Quei del secondo luogo costano pure di tenui squamette sottili, ed irregolari.
Comparando ora queste osservazioni sul ferro specolare con le mie, veggo che le une hanno moltissimi rapporti con le altre. I ferri descritti da questi Autori sono cristallizzati, non altrimenti che il mio. Solamente la cristallizzazione è diversa, e le lame di quello di Stromboli hanno maggiore estensione, che quelle dell'Alvernia, e dell'Etna. Il bel lustro dell'acciajo quinci, e quindi è il medesimo, come pure la magnetica virtù. La formazione nei cristalli dell'Alvernia si osserva esser nata dal mutuo apponimento di squamette, siccome l'ho io pure osservato ne' miei, se non che in questi si vede più chiaramente espressa. Inoltre le lave cui restano attaccati tutti questi ferri specolari (tranne quelle di Jaci-Reale) hanno patito alterazione.
Questa identità negli effetti c'induce a dedurre l'identità nelle cause. Avvisano i tre ricordati Fisici, che il fuoco vulcanico sia stato l'autore della formazione di questi cristalli marziali, in quanto che per la sua azione le particelle di tal metallo sieno state separate dalle lave, di cui facevano parte, e sublimate; e che abbattendosi poi qua e là su la superficie, e su gli screpoli delle medesime, si sieno ivi attaccate, e raccolte, prendendo forma regolare. E di vero oltre l'essere naturalissima questa spiegazione, viene anche confermata dal fatto, dimostrante che il ferro ne' crogiuoli si cristallizza in modo analogo, purchè si usino certe avvertenze, come è stato osservato da' Sigg. Grignon, Faujas, e Buffon. Ed io penso altrettanto del ferro specolare di Stromboli, e voglio dire, che il veemente calorico delle lave, quando erano infuocate, spogliate le abbia di questo metallo, col sublimarlo, il qual poscia siasi attaccato alla loro superficie, che ad esso servito ha di punto d'appoggio: e quindi nati sieno i cristalli lamellosi, più o meno grandi, più o meno numerosi, con quelle anomalie che d'ordinario accompagnano le cristallizzazioni. Di fatti dove le altre lave di Stromboli muovono quasi tutte l'ago magnetico, quelle che hanno all'esterno cristallizzazioni di ferro, non fanno su di esso la menoma impressione, per essere state verisimilmente di tal metallo in massima parte spogliate. Ma avendo in generale agito il fuoco su le altre lave, non altrimenti che in quelle che manifestano il ferro specolare, e d'altronde non essendone molto frequenti gli esempli ne' Paesi vulcanizzati (giacchè a riserva dei luoghi sopra indicati, e di alcuni de' Campi Flegrei, Cap. V., io non so che in altri siti vulcanici sia stato questo ferro cristallizzato) convien dire che ad ottenere il medesimo, oltre il fuoco vi concorra qualche altra circostanza, la quale può esser quella dell'unione del ferro col muriato di ammoniaco, sapendosi che per tal unione sublimasi questo metallo, e passa alla miniera di ferro specolare.
Veduto abbiamo, che il ferro specolare di Stromboli è in più luoghi coperto dal sulfato di calce; e la formazione di questo sulfato dipendendo dagli acidi del solfo, non possono eglino non avere esercitata la loro azione su tale metallo, per essere la sua cristallizzazione di origine anteriore a questo sal neutro, che di fatti strettamente la involge, e a lei sta sopra. Comecchè cotesti acidi sieno efficacissimi per intaccare, e scomporre le lave più compatte e più dure, nulla però hanno potuto contro i cristalli specolari; i quali hanno resistito del pari agli urti dell'altre cagioni distruggitrici, tra cui tengono parte non picciola i fluidi aeriformi vaganti per l'atmosfera, mostrando essi al presente quel vivace lustro vaghissimo, che ricevettero da prima, malgrado l'antichità della loro genesi, che è quanto dire quella di Stromboli, di cui non abbiamo memoria negli annali del tempo. Di fatti essendo le cristallizzazioni aderenti ad uno scoglio stratoso di lave, che serve di fondamento a quasi tutta l'alzata della Montagna, non possiam ricorrere a' tempi cogniti alla Storia, ma gli è d'uopo rivolgerci ai rimotissimi, in cui si formò l'Isola per opera de' sotterranei accendimenti.
Ed eccoci al termine delle descrizioni dei vulcanici prodotti di Stromboli, voglio dire delle arene, scorie, lave, tufi, pomici, e ferro specolare. Lasciando a parte questo metallo, le pomici, e il tufo, tre produzioni che occupano un picciolissimo angolo di Stromboli, quest'Isola può dirsi formata (per quanto almeno al di fuori ne appare) di scorie, e di lave. E queste scorie, e queste lave essendosi mostrato provenire da rocce porfiriche, parte a base di pietra di corno, parte a base di petroselce, rimane a conchiudere, che Stromboli riconosce la materiale sua origine, e i suoi progressi dal porfido, che fuso per le sotterranee accensioni, e rarefatto per le gazose sostanze elastiche, si è sollevato dal fondo del mare, e che spandendosi ai lati in forma di lave, e di scorie ha a poco a poco formata l'Isola della presente ampiezza. E cotesta roccia porfirica, è pur dessa, che fornisce materia alle presenti eruzioni.
Ma innanzi di accostarmi alla fine del Capitolo non voglio preterire due esami, che reputo della maggiore importanza. Nelle mie ricerche sopra i Vulcani uno de' miei divisamenti è stato quello di sottoporre alla fornace i corpi vulcanizzati, per ragguagliare l'attività, e la maniera di agire de' fuochi sotterranei con quelle del fuoco nostrale. E questa comparazione emmi stata, e sarammi in seguito non poco istruttiva. Ma ragionando dell'Isole Eolie, nelle quali ho posto il maggiore mio studio, oltre un tal confronto, ho creduto opportunissimo il farne un altro, che è questo. Dopo l'avere trovato per le mie osservazioni le specie diverse di rocce primitive, che per la loro fusione hanno servito alla formazione di ciascuna di queste Isole, ho voluto soggettare alla fornace altre rocce analoghe, ma tolte da regioni non vulcanizzate, notando come dal fuoco nostro rimangano affette; per avere così un paragone d'altro genere, che prevedeva dovermi essere egualmente vantaggioso che il primo. Questo esame, che è quasi nuovo verrà dunque adesso primamente da me instituito, a cui terrà dietro un altro, che consisterà nel riferire, e nel ponderare ciò che intorno ai fuochi di Stromboli ci hanno lasciato gli Antichi; il che farem pure ragionando dell'altre Isole, essendo opportunissime queste erudizioni a confrontare lo stato d'oggidì di queste Contrade nate per sotterranei incendj con quello de' tempi andati.
E quanto al primo, siccome le principali materie di Stromboli traggono la derivazion loro dalle rocce porfiriche, così brevemente racconterò i risultati ottenuti da diverse di queste rocce naturali esposte, conforme al solito, alla fornace: e pregherò i miei cortesi Lettori al tollerare il tedio nel leggere questi saggi, s'io l'ho tollerato nel farli.
I. Questo porfido è Egiziano. Il suo colore è un rosso cupo: la base compatta, e nelle recenti rotture sottilmente terrosa. Scintilla vivamente all'acciajo, e rompesi in pezzi irregolari. Questa base inzeppa rari sorli neri lustranti lineari opachi, e feldspati abbondanti di due guise, altri quadrangolari, tinti d'un rosso pallido, e quasi opachi, altri pure quadrangolari, ma suddiafani, e brillanti. E' noto, che questo porfido riesce gratissimo all'occhio, avvivato che sia da un dilicato pulimento.
Ore 24. di fornace lo fondono perfettamente. Trasmutano adunque la sua base in uno smalto nero, minutamente macchiato di punti grigio-cenerini che sono i feldspati. Questi adunque conservansi intieri. Tale smalto abbonda in vacuità, dà fuoco all'acciajo, meno però del porfido, ha un lustro vivace, e negli angoli è traslucente.
Se poi questa roccia rimanga alla fornace ore 48. continue, allora diventa uno smalto compatto, ed equabilmente nero, per la piena fusione dei feldspati, che con la base formano un tutto omogeneo.
E' stata opinione di molti celebri Naturalisti, che la base dei porfidi Egiziani sia un diaspro: ma la facile fusione di lei alla fornace da vetrai mi persuade del contrario, e veggo andare in questa persuasione taluno de' più accreditati moderni Litologi. Tuttavia ad accertarmi di più intorno a questo affare, ch'io giudicava rilevante, ho voluto far provare ad alcuni diaspri il calorico della stessa fornace; ma la fusione non si è conseguita. Ecco pertanto l'esito de' miei tentativi in cinque specie diverse di diaspri lasciati alla fornace ore 48. in minuti pezzetti.
Il primo diaspro, che ha la giallezza del mele, da strie rossigne interrotta, la grana più silicea, che terrosa, e che piglia una bella politura, ma con poco lustro, è divenuto men pesante, friabilissimo, di un colore che tira al nero del ferro, e le strie rossicce hanno acquistato il colore della cera-lacca. Nessuna fusione è in lui seguita, se si eccettuino alcune parti, che per essere sopra l'altre nel crogiuolo hanno più provata l'energia del fuoco, le quali parti si sono coperte d'una sottillissima sfoglia vetrosa.
Il secondo diaspro del giallo della cera, di grana fina, e silicea, che sfavilla massimamente all'acciajo, e che colla politura si rende vaghissimo, non ha sofferto, che un grado considerabile di calcinazione, per cui si è fatto leggiero, friabile, screpolato, e d'un bruno nericcio. Somigliante colore, e calcinazione, senza quì pure verun principio di fusione si è osservata in un terzo diaspro della rossezza del sangue, di aspetto fra il siliceo, e l'argilloso, e men duro del secondo.
Nessun principio di liquefazione si è tampoco ottenuto dal quarto, e dal quinto diaspro, l'uno d'un rosso cupo, l'altro mischio, ambidue di grana piuttosto silicea, scintillanti al focile, e opachi affatto come lo erano gli altri tre.
Queste cinque qualità di diaspri sono originarie, parte dell'Ungheria inferiore, parte della Germania: e tutte cinque, come si è dimostrato, sono infusibili alla fornace da vetro.
Questi miei tentativi si accordano perfettamente con quelli del Sig. D'Arcet, il quale trovò la medesima infusibilità in quattro diaspri, non ostante che fossero polverizzati, e provassero la violenza del fuoco destinato a cuocere la porcellana. Cotal pietra è stata non meno trovata infusibile al tubo ferruminatorio del Sig. Mongez.
Per questi fatti io non posso adunque persuadermi, che la base del porfido in questione sia un diaspro, altrimenti non si sarebbe fusa: e dirò che quella facile fusione che ho da lui conseguita, l'ho pure avuta da altre due specie di porfido orientale.
Dolomieu, e Delametherie, che convengono non essere altrimenti diaspro la base de' porfidi dell'Egitto, discordan però fra loro, volendo il primo che questa base sia un petroselce, e il secondo una pietra cornea. La chimica analisi recata in mezzo da quest'ultimo Autore in un porfido rosso analogo a' miei, la quale dimostra essere la sua base una pietra di corno, mi fa preferire il suo sentimento a quello dell'altro Francese. Fin quì non ho avuto tant'ozio per chimicamente esaminare i porfidi Egiziani da me sottoposti al tormento del fuoco; ma cotale operazione, che non ommetterò certamente, verrà da me indicata in seguito, ove in altri luoghi di quest'Opera cadrà il destro di ragionar nuovamente de' porfidi vulcanici. Ma ritorniamo in cammino.
II. Questo porfido, che è a base di petroselce, di colore rossigno sbiadato, di grana mezzanamente fina, di rottura angolosa, di mediocre durezza, e peso, serra lucentissime squame quadrangolari di feldspato, oltre a qualche rara paglietta di mica nera.
Il risultato di questa roccia alla fornace è uno smalto compattissimo, e sfavillante molto all'acciajo, di rottura equabilissima, traslucente agli angoli, e il suo colore è cenerino fosco, con alcuni punti neri, che sono le miche semifuse. I feldspati restano intieri, ma calcinati. Lo smalto alla superficie, dove il calorico era più energico, si è vestito d'un tenuissimo velo di vetro semitrasparente, e di color topazzino.
III. I feldspati del presente porfido, a scaglie rotonde, poco lucenti, e gialliccie, sono incastrati in un fondo petrosiliceo, bruno rossiccio, di rottura squamosa, e che rinserra più punti di steatite.
A fondersi interamente, richiede ore 36. di fornace, e ne risulta un vetro suddiafano duro compatto, del colore del calcedonio vulgare, e che conserva nella loro integrità i feldspati, divenuti quì soltanto lattiginosi.
IV. Il petroselce che serve di base al presente porfido, e che per la pasta, e la grana si avvicina moltissimo alle selci comuni, è semitrasparente, ha il verde di oliva, e i suoi feldspati sono quadrangolari, e di aspetto cangiante.
Alla fornace è infusibile, a riserva della superficie che trasmutasi in un vetro trasparente, e compatto, senza la fusione dei feldspati.
V. I feldspati di questo porfido brillantissimi, e gattizzanti, si trovano in un fondo petrosiliceo, roseo sbiadato squamoso opaco, e di molle durezza.
Alla fornace i feldspati per la calcinazione perdono la bellezza del loro cangiante, e la loro compattezza pei molti screpoli contratti, e la base petrosilicea si trasmuta in un vetro suddiafano, e del colore della fuliggine.
VI. Compattissimo duro e pesante è il presente porfido, la cui base è un petroselce rosso chiaro, di grana equabile, e liscia, con dentro scagliette quadrangolari di luccicanti feldspati.
Non meno di ore 48. di fornace vi abbisognano perchè acquisti questo porfido una imperfetta vetrificazione, traslucida negli angoli, e di color nero, la qual toglie alla roccia la nativa durezza, senza però che i feldspati contratto abbiano un principio di fusione.
Oltre ai descritti sei porfidi a base di petroselce, ho pur fatte le pruove nel medesimo fuoco su diversi schietti petroselci, che quì non dichiaro in particolare, per non dilungarmi soverchiamente. Dirò solo in generale di aver trovato que' petroselci essere refrattarj, che soverchiamente abbondan di silice, e che formano come il punto di passaggio dal petroselce al selce. Per l'opposito gli altri tutti, qual più, e qual meno, sono fusibili.
Diciam ora qualche cosa di alcuni porfidi naturali a base di pietra di corno, soggettati egualmente alla fornace, giacchè diversi di questi provato hanno gl'incendj di Stromboli.
VII. La base del presente porfido non è dura abbastanza per dare scintille all'acciajo. E' bigio-scura, terrosa di rottura diseguale, morbida al tatto, sensibilissimo in essa è l'odore di argilla, ed oltre ad alcuni grani di quarzo pellucido e cristallino, comprende numerosissimi bianchi feldspati, che per restare fortemente intaccati da un temperatojo, fanno palese l'alterazione provata dal tempo, e dalle meteore.
La fornace cangia questo porfido in una scoria nera e poco consistente, e i suoi feldspati prendon l'aspetto vetroso, senza però sensibil fusione.
VIII. Questa roccia a prima giunta crederebbesi più presto un granito, che un porfido, per trovarvisi il quarzo, la mica, e il feldspato, se non si riflettesse, che queste tre sostanze vengon legate da un cemento, o pasta comune, che è una pietra cornea piuttosto molle, cenerognola, e di odore argilloso.
Le tre sostanze restano intiere alla fornace; non così il fondo, che le rinchiude, convertitosi in duro smalto nero e lucente.
IX. La base di questo porfido è una pietra di corno di granitura alquanto fina, di durezza bastante per metter scintille al battifuoco, verdognola, e che manda un forte odore terroso. Altri de' suoi feldspati sono in massette grandicelle, e amorfe, di un rosso di mattone, altri hanno cristallizzazioni quadrangolari, e piccole, d'un colore bianco gialletto. Questa roccia alla fornace passa ad uno smalto nero, mezzanamente bollicoso, e duro; rimasi però intieri i feldspati, col solo cangiamento del colore rosso in bianco.
X. La pietra cornea del presente porfido è laminosa, di liscia superficie, atta a rastiarsi col coltello, ed ha il colore tra il verde, e il rossiccio. I suoi feldspati sono romboidali, ed alcuni hanno di lunghezza linee 4½, e di grossezza linee 3.
Alla fornace rimangono intatti, ma il fondo del porfido cangiasi in una scoria nera e dura di bollicelle ripiena.
Lascio di descrivere più altri porfidi a base medesimamente di pietra cornea, nel modo stesso sperimentati, giacchè quanto all'essenziale i risultati sonosi trovati analoghi ai già riferiti. Toccherò solo, che queste diverse specie di porfidi a base di petroselce, e a base di pietra cornea vengono da quelle parti dell'Ungheria, e della Germania, dove per le osservazioni di sperti Viaggiatori non appare alcun vestigio di vulcanizzazione.
Comparando ora le differenze, e le somiglianze nell'avvenuto nelle rocce porfiriche affette dal fuoco vulcanico, e dal nostrale, il precipuo divario, che vi si osserva, si è questo, che le nostre fornaci le invetrano, togliendo loro la primitiva struttura, quando i fuochi di Stromboli di sovente non le svisano in modo, che prive rimangano de' naturali loro lineamenti. Quinci, e quindi veggiam però, che i feldspati restano per lo più infusibili: e ciò che più d'ogni altro dee interessare le attuali nostre ricerche, si è la fusione per un calorico forte bensì, ma non veementissimo (quale si è quello che svolgesi nelle fornaci da vetro) tanto delle rocce a base di petroselce, quanto dell'altre a base di pietra cornea.
Da queste sperienze apprendiamo adunque come il fuoco sotterraneo di Stromboli, quando anche volessimo supporlo di non moltissima efficacia, abbia potuto, e possa tuttavia liquefare le rocce porfiriche, che hanno esistito, e che esistono negli abissi di questa Montagna. E l'agevolezza del rifondersi delle sue lave alla fornace da vetro, è una luminosa confermazione di questo.
Quando poi cotal Vulcano abbia cominciato ad esercitar le sue forze, e a fondere le rocce suddette, noi lo ignoriamo profondamente, essendo questa un'epoca anteriore ad ogni Storia: e noi dobbiam contentarci di sentire quanto de' fuochi di Stromboli, eccitatisi non già ai loro tempi, ma assai prima, scritto ne hanno gli Antichi: il che farem brevissimamente (per passare ora al secondo dei due esami proposti) troppo essendo scarse le notizie su di un tal punto a noi tramandate.
Eustazio, Solino, e Plinio avvisano, che Stromboli per la forza delle fiamme è inferiore all'altre Isole di Lipari, ma che per la chiarezza di esse, e per lo splendore le supera. Tutti e tre però non sono stati che copiatori di Strabone, per tacere del Compendiatore di Stefano, che per soprappiù lo ha copiato male. Sentiamo adunque cotesto insigne Storico greco, il quale dopo di aver parlato di Lipari, e di Vulcano, e di avere avvertito che Stromboli anch'ella è ardente, dice che quest'Isola comparata all'altre, ne perde per la violenta eruzione delle fiamme, ma che pel fulgore le sopravanza.[5]
Egli è evidente, che per le altre Isole Strabone intende Vulcano, che fra le Eolie era la sola che ardeva a' suoi tempi. Comparando adunque Stromboli a Vulcano, veggo che anche adesso queste due Isole in ciò discordano, che le fiamme della prima sono di lunga mano più splendenti, più vivaci che quelle della seconda, come apparirà, ragionando di Vulcano. Ma dire non possiam mica, che quelle di Stromboli sieno meno impetuose, succedendo anzi tutto l'opposito: epperò è forza argomentare che a que' tempi i getti infuocati di Vulcano fossero assai forti, ed anche frequenti; il che si accorda con le affermazioni di Diodoro, e di Agatocle presso lo Scogliaste di Apollonio, il primo de' quali narra, che a' suoi giorni Vulcano e Stromboli, non altrimenti che l'Etna, vomitavano arena, e sassi infuocati a gran numero[6]; e il secondo, che queste due Isole giorno e notte lanciavano fuoco[7]
Un'altra circostanza marcata nell'accennato testo dallo Storico siciliano è importante a sapersi, cioè che da ambedue queste Isole esciva con gran fremito il vento. Il che in qualche modo consuona con le cose da me notate a Stromboli, e più assai con l'altre, che noterò in Vulcano.
Filippo Cluverio nella sua Sicilia Antiqua parlando di Stromboli, nota che il suo cratere è posto su la sommità del Monte, dalla quale vomita notte e giorno con orribil fracasso fiamme chiarissime, e copiose pomici[8]. In una altresì delle tavole da lui premesse all'Opera viene rappresentata quest'Isola col fumo che si solleva dalla più elevata sua cima.
Volgon già 173. anni circa, da che egli viaggiò in Sicilia. Dobbiam noi dunque pensare che allora la bocca del Vulcano fosse aperta al sommo della Montagna? Se l'eruditissimo Storico fosse stato sul luogo, io non avrei che opporre, ma non solo ei non dice questo, ma dalle sue parole si può argomentare il contrario. Poichè dopo l'aver narrato l'esposto di sopra, soggiunge: “sed perpetui ejus ignes eminus navigantibus nocte tantum conspiciuntur. Fumum eorum candidissimum ex Italiae pariter, ac Siciliae littoribus conspexi”. E' adunque chiaro, che non vide questo ignivomo Monte se non da lungi. E per conseguente la di lui affermazione dell'ignivomo cratere situato sul suo vertice non è sicura. Il racconto delle pomici che allora gettava, lo avrà facilmente preso in prestito da quegli Isolani, i quali o avranno confuso le lave scoriacee con le pomici, o fors'anche si saranno apposti al vero, giacchè sotto le scorie, e le lave di Stromboli si nascondono pomici erratiche, secondo che fu da me avvertito più sopra.
Per le sovrallegate autorità si raccoglie adunque che l'epoca più antica degl'incendj di Stromboli a noi cognita per le Storie, è anteriore di 290. anni circa all'Era cristiana, nella qual epoca regnava Agatocle, famoso Tiranno di Siracusa. Questo Vulcano ardeva pure a' tempi di Augusto, e di Tiberio, ne' quali fiorivano Diodoro, e Strabone. Ma dopo quest'ultima epoca corre una numerosa serie di secoli, in cui per mancanza di documenti ignoriamo lo stato di Stromboli, e solamente nel secolo XVII. torniamo a sapere che è ignivomo. Non è però improbabile che di que' tempi in cui tacion le Storie, egli ardesse. Nella qual supposizione la non interrotta diuturnità de' suoi accendimenti sarebbe prodigiosa. Ma quand'anche avesse avuto tregue di più secoli, si può però calcolare per le pubbliche testimonianze che ne abbiamo, che le infiammate, e non interrotte di lui eruzioni toccano i 200. anni. Quì però la curiosità può far nascere una spontanea domanda: quali cioè esser possano le materie idonee per sì lunga mano di anni ad alimentare, senza che mai vengan meno, cotesti fuochi. Io quì però non veggo che debbano diversificare da quelle che forniscon pascolo agl'intermittenti Vulcani, basta quì solo ch'elleno sieno d'inesausta sorgente. Credesi a buona ragione, che il solfo faccia nascere i Vulcani, e che ancor li conservi. E della presenza sua dovunque bruciano questi Monti abbiamo irrefragabili riprove. A meglio comprendere, e spiegare queste accensioni si è chiamato in soccorso il petrolio, trovato in effetto scaturire talvolta presso qualche Vulcano, di che fa fede il Vesuvio[9]. E le ondate di foltissimo e oscuro fumo, che sovente esalano all'aria dalle vulcaniche bocche, e l'untuosità, e il fuliginoso, di cui diconsi lorde le recenti scorie, sembrano essere chiari segni di tal sublimato bitume. Quanto è di Stromboli, che nelle profonde sue voragini siavi ricca miniera di acceso solfo, cel persuadono facilmente, e la copia de' fumajuoli prorompenti all'ouest dell'Isola, tutti bianchissimi, il qual colore accompagna i fumi sulfurei, e il fetore di solfo, che mandano non pur essi che la spaziosa fumante nube sovrastante al vertice della Montagna, ed in fine le picciole zollette di tal minerale generatesi attorno a' fori, donde scappan que' fumi. Ma della presenza del petrolio, o de' suoi effetti, non ho saputo conoscere il più picciol segnale. Oltre al non trovarsene alcuna vena nell'Isola, e al non essersi mai veduto soprannuotarne all'acqua marina che la circonda, siccome è voce universale di que' Paesani, l'odore di tal bitume non mi si rese mai sensibile, quantunque di sua natura acutissimo. Più fiate sonomi condotto ai fonti del petrolio, di Monte Zibio di Modena, e a più centinaja di passi prima di giungervi, io ne sentiva i penetranti aliti. Pareva dunque mi si dovessero molto più far manifesti a Stromboli, se nella sua voragine arso avesse il petrolio, per rendersi allora questi aliti di gran lunga più attuosi. Con la maggiore attenzione sono state da me osservate, così dentro alle loro cavernuzze, come al di fuora le scorie che vomitava il Vulcano, e che erano ancora caldissime, senza essermi mai accorto nè che mandassero il più picciolo fiatore di questa bituminosa sostanza, nè che fossero imbrattate da veruno umidore untuoso. Sapendosi che il fumo esalante dall'ardente petrolio piglia una tinta nereggiante, sospettai che la densa ed oscura colonna di fumo, che alzasi all'est del Vulcano, esser ne potesse un indizio. Ma a lei appressatomi, tosto mi avvidi che l'oscurità proveniva da' acquosi vapori al fumo confusi, i quali stando io per poco ivi fermo, mi inumidivano i panni.
Vorremo noi dunque dire che i fuochi di Stromboli non ricevano verun alimento da questo bitume? Malgrado le allegate osservazioni, io non oserei trarne risolutamente tal conseguenza, esser potendo che il petrolio arda sotto la Montagna ad una grandissima profondità, a tal che i suoi aliti non giungano fino alla cima, per rimanere dispersi e consunti dal fuoco, e dall'immensa massa di liquefatta materia, che dal sommo quasi del cratere si profonda verisimilmente fino all'ime radici dell'Isola. Ma ove pure suppor si volesse, non esistere in quel profondo quest'olio, io non veggo come al nudrimento del Vulcano bastar non potesse il solfo soltanto, avvivatane la sua fiamma dal gaz ossigeno, la cui presenza negli abissi vulcanici sembra innegabile per le sostanze colà entro abili a generarlo, tormentate dall'azione del fuoco. La diuturnità poi grandissima, e senza intermittenze di questi incendj, s'intende assai bene per l'immensa copia del solfo, o a dir meglio dei sulfuri di ferro, che dobbiamo necessariamente supporre seppelliti nelle viscere della Montagna; supposizione che fassi d'altronde vieppiù persuasibile per gl'indicibili aggregamenti di questo minerale scoperti sotterra in più parti del Globo.
- ↑ Aderendo alle più recenti scoperte fatte con le chimiche analisi, sembra omai dimostrato, che la base di più porfidi sia un sorlo in massa, o una pietra di corno, ovvero un trapp; quantunque negar non possiamo che più volte silicea sia cotesta base. Quindi assai lave de' Campi Flegrei da me descritte (T. I.) entrar denno in questo genere di rocce.
- ↑ L. c.
- ↑ Capit. X.
- ↑ Per conto delle materie che erutta Stromboli, le quali si scorificano, ma non si vetrificano, si potrebbe forse dire che questo nasce non mica perchè il suo calorico sia inefficace a ridurle in vetro, ma per la qualità di tali materie, che derivando da pietre cornee, fanno nascere semplici scorificazioni, e ciò per la quantità del ferro che contengono.
Questa ragione, che a prima giunta sembra plausibile, si dimostra però insussistente dalla facile vetrificazione, che si ottiene da tali scorie alla fornace, siccome fra poco vedremo. - ↑ ἐστὶ δὲ (Στρογγύλη) καὶ αυτὴ διάπυρος, βία μὲν φλογὸς λειπομένη, τῶ δὲ φέγγει πλεονεκτῦσα. Lib. VI.
- ↑ ἐν δὲ τῇ Στρογγύλη, καὶ τῆ Ιερά μέχρι τῷ νῦν ἐκ τῶν χασμάτων ἐκπίπτει πνεύματος μέγεθος, καὶ βρόμος εξαίσιος. ἐκφυσᾶται δέ καὶ αμμος, καὶ λίθoν διαπύρων πλῆθος, καθάπερ ἐστὶν ὁρᾶν καὶ περὶ τὴν ᾿Αίτνην γινόμενον. Lib. V.
- ↑ Λἲτινες (Iερά, καὶ Στρογγύλη) ἠμέρας, καὶ νυκτὸς πῦρ ἀφιᾶσιν.
- ↑ “Strongyle hodieque liquidissimam flammam, et pumices magna copia ex vertice, ubi craterem habet, noctes atque dies cum fremitu horrendo eructat”.
- ↑ Serao Istoria dell'Incendio del Vesuvio del 1737., Bottis Istoria di varj Incendj del Monte Vesuvio, ec.
- Testi in cui è citato Strabone
- Testi in cui è citato Diodoro Siculo
- Testi in cui è citato Filippo Cluverio
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