Viaggio in Dalmazia/Dell'Isole di Lissa, Pelagosa, Lesina, e Brazza nel mare Dalmatico, e dell'Isola d'Arbe nel Quarnaro/4. Dell'Isola d'Arbe, nel Golfo del Quarnaro

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4. Dell'Isola d'Arbe, nel Golfo del Quarnaro

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4. Dell'Isola d'Arbe, nel Golfo del Quarnaro
Dell'Isole di Lissa, Pelagosa, Lesina, e Brazza nel mare Dalmatico, e dell'Isola d'Arbe nel Quarnaro - 3. Dell'Isola di Brazza
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§. 4. Dell’Isola d’Arbe, nel Golfo del Quarnaro.

Egli è un terribile salto Geografico questo passare tutto ad un tratto dall’Isola della Brazza a quella d’Arbe, che n’è ben centoventi miglia lontana. Ma che volete ch’io dica? I viaggiatori di mare ne fanno di più belle. Delle Isole minori del mar di Sibenico, e di Zara, io ò scritto quel poco che mi venne fatto d’osservarvi; di quelle di Cherso, e d’Osero ò parlato forse anche più di quello portasse la discrezione; nell’altre Isole del Quarnaro non mi sono fermato che momenti, e quella d’Arbe è la sola, di cui possa dir qualche cosa di non inutile.

Quest’Isola agli antichi Geografi fu poco nota; si trova però nominata da Plinio, dalla Peutingeriana, e dal Porfirogenito; presso Tolommeo per qualche difetto de’ copisti, che avrà messo del disordine nel testo, l’Isola è detta Σκαρδώνα, Scarduna, e le sono attribuite due Città Arba, e Colento. Gli Arbegiani, avendo delle ragioni per credere che due Città esistessero nell’Isola loro, tengono quasi per infallibile lo storpiato testo di questo Geografo, nel quale l’Isola loro bella, e nobilissima viene confusa coll’incolto, e disabitato Isolotto di Scarda, contiguo all’Isola di Pago. [p. 189 modifica]Città di tempi Romani non ebbero gli Arbegiani probabilmente oltre quella, che porta il nome dell’Isola, dalle di cui vicinanze sovente si traggono Lapide antiche mallevadrici del vero. Io ò visitato le pretese rovine di Colento, e non ò potuto riconoscervi altro che i residui d’un ritiro fabbricato dalla paura, e dalla deboleza degl’Isolani ne’ tempi barbari. Non è possibile che uomini ragionevoli avessero colà stabilito una dimora costante; imperciocchè la situazione più aspra, e sterile, e fredda, e ventosa anche nel cuor della State non può trovarsi. È poi verità di fatto, che la costruzione delle mura mostra d’essere stata tumultuaria; che i vestigj di Porte accusano un Architetto rozzissimo; che non v’è una sola pietra riquadrata sul gusto antico, nè verun frammento d’Iscrizioni, o di pietrame nobile. Le piante delle casipole, che vi erano cinte dalla muraglia esteriore, non mostrano d’essere mai state destinate a contenere famiglie: così sono anguste, e inabitabili. S’io fossi Arbegiano vorrei cercare i vestigj d’un’altra Città in luogo che facesse più onore ai fondatori di essa.

Quantunque Capitale d’una picciola Isola, che non eccede le trenta miglia di circuito, ed è incolta totalmente ed inabitabile nella sua parte più elevata, che guarda il Canale della Morlacca, la Città d’Arbe si mantenne con decoro mai sempre. Che fosse abitata da persone colte ne’ tempi Romani lo provano le Iscrizioni, che frequentemente vi furono scoperte, alcune delle quali ora trovansi nella Collezione dell’Eccellentissimo Signor Cavaliere Jacopo Nani, altre vi rimangono ancora. Ne’ secoli bassi soffrì tutte le disgrazie dalle quali furono afflitte le contrade vicine, ma si ristabilì sempre con decoro anche dalle desolazioni. L’Archivio della Comunità d’Arbe à delle Carte anti[p. 190 modifica]che pregevolissime, che vi sono ancora custodite con somma gelosia, dalle quali rilevasi che nell’undecimo Secolo gli abitanti aveano della familiarità coll’oro, e colla seta. Dall’obbedienza de’ Re d’Ungheria passarono alla dipendenza di Feudatarj Veneziani; indi direttamente sotto il Dominio della Serenissima Repubblica, che vi tiene un Patrizio col titolo di Conte, e Capitanio, dignità ch’era coperta con sommo decoro, rettitudine e prudenza nel tempo ch’io fui colà del N. U. s. Tommaso Barozzi, di cui resterà lungamente il desiderio ne’ cuori degli onesti Cittadini.

La popolazione di tutta l’Isola non oltrepassa di molto le tremille anime distribuite in poche Parrocchie, alle quali con poca quantità di Sacerdoti si può supplire. Per una mostruosità insopportabile, e di gravosissime conseguenze a questo picciolo numero d’abitanti, è addossato il carico di tre Conventi di Frati, e tre di Monache, oltre al riflessibile aggravio di quasi sessanta Preti malissimo provveduti. Questo Clero è governato da Monsignore Giannantonio dall’Ostia, ottimo, e dotto, ed umanissimo Prelato, adorno di tutte le qualità necessarie al suo stato, e di tutte le virtù sociali, che costituiscono il vero, e rispettabile Filosofo.

Il clima d’Arbe non è de’ più costantemente felici; la stagione invernale vi è orrida, e agitata da venti Boreali violentissimi, i quali non di raro trasformano in Verno anche le stagioni intermedie, e giungono talvolta a far disparire la State. Gravissimi danni apportano all’Isola questi venti nella stagione rigida, e in Primavera. Due anni sono, intorno a dodicimila animali da lana vi perirono di freddo in una sola notte pei pascoli comunali della Montagna, dove secondo l’uso [p. 191 modifica]universale della Dalmazia sono lasciati allo scoperto in ogni stagione. La nebbia salsa sollevata dalla commozione orribile de’ flutti, che suole mugghiare fra la montagna d’Arbe, e le opposte Alpi nell’angusto Canale della Morlacca, abbrucia tutti i germogli delle piante, e de’ seminati, se portata dal vento venga a cadere sull’Isola; ella è seguita da una crudele carestia d’ogni cosa. Di questa disgrazia risentonsi anche le carni degli animali abbandonati al pascolo, che riescono di cattivo sapore in conseguenza dell’amaro, e poco nutritivo alimento. Prescindendo da queste anomalie, l’aria d’Arbe è salubre, nè si può accusarla d’avere influenza costante nelle febbri estive degli abitanti campagnuoli che provengono, second’ogni probabilità, dai cibi poco bene scelti, e da un regime di vita quasi Ottentotto.

Il materiale dell’Isola è amenissimo; nè di quelle, ch’io conosco in Dalmazia, alcuna può esserle paragonata. Dalla parte orientale à un’altissima Montagna della natura, e impasto medesimo che la Morlacca, di cui fu anticamente una parte. Appiè di essa prolungasi il resto dell’Isola verso Ponente, e si divide in bellissime, e feconde Valli piane, e di colline atte a portare i più ricchi prodotti. All’estremità, che guarda Tramontana, stendesi in mare un delizioso Promontorio detto Loparo, coronato di colline, che racchiudono quasi perfettamente una bella pianura coltivata. Da questo sono poco distanti le due Isolette di S. Gregorio, e di Goli, utilissime a’ Pastori, e a’ Pescatori. La costa d’Arbe, che guarda la Montagna Morlacca, è tutta ripida, e inaccessibile; guai al naviglio che sia colto dal furore de’ venti in quel Canale privo di porti da entrambi i lati! Il lungo, e angusto Isolotto di Dolin prolungandosi parallelamente all’Isola d’Arbe lungo il lido detto di Barbado, vi forma un Canale meno pericoloso, ma [p. 192 modifica]non tanto sicuro quanto bello da vedersi. I Porti sono moltiplicati ne’ contorni della Città, e facilitano il commercio della parte migliore dell’Isola girandone l’estremità, che guarda fra Ponente, e Tramontana.

La Città d’Arbe siede su d’una collina allungata fra due Porti, che ne formano una Penisola, e raccoglie intorno a mille abitanti, fra’ quali molte famiglie riguardevoli pella loro nobiltà, e poche notabili pelle loro finanze. Le principali sono i De Dominis da’ quali uscì il celebre Arcivescovo di Spalatro Marc’Antonio, i Galzigna, i Nemira, ch’ebbero nel XV secolo un Antonio lodato da Palladio Fosco come dottissimo delle Matematiche imparate da lui senza maestro, gli Spalatini che ricevono adesso un nuovo lustro da Monsignor Vescovo di Corzola rispettabile pell’aureo costume, non meno che pel suo sapere, e i Zudenighi.

Fra le cose loro più illustri vantano gli Arbegiani molte insigni Reliquie, e nominatamente il Capo di S. Cristofano, Protettore dell’Isola; ma gli Amatori dell’Antichità Sacra troveranno ben più singolari le tre teste de’ fanciulli Sidrach, Misach, e Abdenago, che vi si venerano con molta divozione. Il Santuario è gelosamente custodito da quattro de’ principali Gentiluomini, alla cura de’ quali sono anche raccomandati i preziosi antichi documenti della Città. Fra questi è una transazione del MXVIII, con cui la Città d’Arbe promette al Doge di Venezia Ottone Orseolo un tributo d’alcune libbre de seta serica, e al caso di contravvenzione libbre de auro obrizo.

V’ebbe nella passata età un dotto Vescovo d’Arbe, che chiamavasi Ottavio Spaderi, a cui venne in capo di non voler permettere che fossero esposte alla pubblica venerazione nella solenne giornata di S. [p. 193 modifica]Cristoforo queste Reliquie, sopra l’autenticità delle quali egli aveva dei dubbj. Il popolo sollevato ebbe a precipitarlo in mare, dall’alto della collina, su di cui sorge la Cattedrale; nè il tumulto s’acchetò passato il momento. Il Governo mandò un legno armato per trarre il Prelato dal pericolo; e il Papa si credette in dovere di dargli una Sposa più docile in Italia.

L’indole dal suolo d’Arbe non è la medesima in ogni situazione; che anzi difficilmente io saprei trovar un paese, dove in picciolo spazio tanta varietà si riunisse. V’è una differenza sensibilissima fra lo stato dell’estremità della Montagna bagnata dal canale di Barbado rimpetto a Dolin, e il dorso di essa, che dall’una parte guarda l’interno dell’Isola d’Arbe, dall’altra le Alpi della Morlacca. La sommità della Montagna medesima non è sempre della stessa costituzione, e talvolta stendesi in bella ed eguale pianura parte selvosa, e parte atta a seminagione, talvolta è tutta scogliosa, e di nudi marmi composta. I fondi situati appiè della Montagna laddove s’avanza verso il litorale opposto di Jablanaz sono di vivo marmo; nella contrada di Barbado sono ghiajuolosi, e di fondo attissimo a trattenere le radici delle viti fresche per lungo tempo. I sassolini vi sono angolosi perchè poco fluitati dall’acque che gli ànno deposti; i loro più antichi strati vanno indurandosi sotterra pella filtrazione delle piovane. Il vino di Barbado è d’ottima qualità, e quindi riputatissimo; nè quasi altro genere coltivasi lungo quel litorale, dove così bene riescono le vigne anche ad onta della negligente coltura. Appiè delle pretese rovine di Colento il terreno porta oltre le viti anche ulivi, mori, alberi da frutto, ed in qualche sito basso è opportuno alle seminagioni. Tutta la parte inferiore dell’Isola alternativamente composta di colline, e valli è d’un impasto per lo [p. 194 modifica]più differentissimo da quello della Montagna, e delle aggiacenze di essa. Come l’ossatura della Montagna è tutta marmorea, così l’ossatura de’ colli è pell’ordinario arenosa. La Cote vi predomina, e spesso contiene Ostraciti, e Lenticolari; lo strato esteriore suol esserne facilmente dissolvibile. Le valli, che dovrebbono trovarvisi second’ogni apparenza piene d’arena, sono provvedute d’un terreno eccellente, che à tanta porzione di minutissima sabbia quanta n’è opportuna per tenerlo leggieri. Le acque sorgenti, assai ben distribuite dalla Natura pell’Isola, vi mantengono una ragionevole umidezza, quando la State non sia eccessivamente arida; per modo che la cupa verdura de’ colli vestiti di bosco, la lussureggiante frondosità delle viti, e la freschezza de’ seminati formano uno spettacolo veramente consolante, ed ameno.

L’Isola d’Arbe avrebbe tutto il necessario alla sussistenza della sua picciola popolazione, se l’Agricoltura vi fosse esercitata da un popolo meno stupido, e infingardo. Ad ogni modo però ella produce legna da bruciare, di cui si fanno molti carichi annualmente per Venezia, grani, oglio, vino eccellente, acquavite, e seta da tempi antichissimi, dando per cibo ai bachi le foglie del Moro nero; manda fuori anche cuoj, lane, ed animali pecorini, porci, e cavalli di buona razza. Il mare incomincia ad esserle utile per le Saline, che si lavorano sull’Isola, e danno abbondanza di buoni sali minuti; la pescagione poi de’ Tonni, degli Sgomberi, de’ Lanzardi, e delle Sardelle, ad onta dell’esservi malissimo, e poltronamente trattata, fa un importante articolo del commercio degli Arbegiani, i quali (come tutto il resto della Dalmazia) trovano il loro conto nel vendere questo genere a’ forastieri piuttosto che a’ Veneziani. Con tutti questi suoi prodotti naturali l’Iso[p. 195 modifica]la è ben lungi dall’essere ricca, o in uno stato di sufficiente floridezza: perch’è troppo comune cosa il vedervi terreni incolti, e contadini oziosi.

Facendo delle osservazioni intorno alla Storia Fossile dell’Isola d’Arbe mi sembrò di rinvenirvi qualche cosa d’assai curioso. La sommità della montagna è quasi piana, come vi ò accennato, ed in alcuni luoghi è depressa a foggia di catino. Esaminando con diligenza i massi di marmo, che vi sono sparsi dipendentemente dagli strati, trovai senza punto restarne meravigliato perchè frequentemente incontrai cosa simile, che in buona parte erano Breccie; e mi compiacqui della maggior forza, che acquistava la mia opinione sopra l’antico stato delle montagne di quelle contrade. Ciò che mi riuscì nuovo si fu l’incontrare su di quelle altezze grandissimi tratti di minuta arena, mescolata con una terra ocracea ferruginosa, deposta a strati regolarissimi, come son quelli che si formano dalle alluvioni de’ nostri Fiumi Reali. Volli esaminare sotto il microscopio quest’arena così stranamente situata su la cima d’una montagna in Isola; e trovai ch’ella è quarzosa, e manifestamente prodotta dal trituramento di materie staccate da montagne minerali.

Voi non vi scandalezzerete certamente, dottissimo Amico, ch’io pronunzj con asseveranza, che l’arena quarzosa viene dal trituramento de’ sassi montani portati giù da’ torrenti, e sminuzzati dall’assidua confricazione in seguendo il corso de’ fiumi. Le nostre acque di Lombardia, e il Po particolarmente, non ci lasciano dubitare di questo fatto, a cui la ragione sola potrebbe condurre un uomo, che non avesse mai veduto le sponde de’ gran fiumi lontane dalle sorgenti. I Naturalisti del Nord, e fra questi il Wallerio celebratissimo, e degno certamente della celebrità sua, [p. 196 modifica]per non impegnarsi, cred’io, in ricerche, le conseguenze delle quali potessero avere un’apparenza di contraddizione colle opinioni rispettate intorno all’età del Mondo, prese il partito di accordare all’arena una strana preesistenza, e far che da essa generalmente sieno state formate le pietre; il che appunto è un dire, che la farina preesistè al frumento1. Io ò trovato stranissimo, che il grand’uomo dopo d’avere riferito sopra l’origine delle arene il parere d’Aristotele, e d’altri Antichi, che la ripetevano dalle montagne, e dalle pietre distrutte: e dopo d’aver per necessità accordato, che ad una parte di esse altro nascimento non si può dare, siasi spaventato della gran quantità, e della situazione delle arene così sotterranee, come subacquee, ed abbiala creduta un ostacolo allo stabilimento dell’antica ragionevole opinione. Egli è ben vero, che le pietre aggregate (fra le quali io metto anche le Coti della più fina grana) riconoscono immediatamente l’origine loro dall’accozzamento delle sabbie, o delle arene minute: ma questo non prova, che le sabbie non sieno nate dal disgregamento delle pietre. Non sarebb’egli un inconseguentissimo ragionatore colui, che prendendo in mano della sabbia del Po si voltasse alle Montagne, d’onde questo gran Fiume discende, e dicesse „oh, adesso sì, ch’io ò capito di che si formano le Montagne!“ invece di dire „ò capito d’onde si [p. 197 modifica]formino le sabbie? L’opinione del Wallerio intorno alla generazione delle arene dee sembrare per lo meno singolare a chi sa, ch’elleno corrispondono perfettamente nella sostanza, e nell’estensione agli strati di pietre calcaree, e quarzose, da’ quali naturalmente si deggiono far derivare. Uditelo alla pag. 108. Oss. 5. Egli c’insegna, che “probabilmente le arene quarzose sono state sin dal principio generate da una materia viscosa, o vogliamo dire gelatinosa, generata dalle acque, e mescolata con esse, indi successivamente divisa in granellini, poi condensata, e indurata.“ Egli fa degli sforzi perchè servano di prove a questa genesi le fessure, che col Microscopio si veggono ne’ piccioli atometti d’arena, e l’adesione a questi granellini medesimi delle particelle metalliche; come se non fosse da una facile sperienza dimostrato, che un pezzo di Quarzo tolto da qualche minera, ben polverizzato sotto il martello, indi lavato nell’acqua, dà granellini d’arena, ne’ quali si osservano tutte le crepature, e le particole metalliche, cui presentano all’occhio armato le arene quarzose subacquee, e le sotterranee da antiche acque depositate. Dopo tutto questo, non è quasi da trovare strano, ch’egli peni ad accordare alle sabbie calcaree l’origine dalle pietre spatose, e calcaree detrite (p. 109), ed a fatica pronunzj, che probabilmente vengono da esse. Se mettevasi a fare delle nuove teorie anche pella sabbia calcarea, il grand’uomo avrebbe poi messo un giorno, o l’altro in questione l’origine delle più grosse ghiaje, e poi de’ massi, che rotolano qualche volta dalla sommità sino alle radici de’ monti; e chi sa quante nuove cose ci avrebbe detto!

Nella minuta arena della sommità della Montagna, in un luogo detto Crazzich trovansi de’ gruppi erranti, e qualche filone perpendicolare di Geode, così compat[p. 198 modifica]ta e pesante che merita d’essere riposta fra le non povere miniere di ferro. Anticamente anche il dorso della Montagna era coperto di lecci, e dal fianco di essa che guarda Loparo scendeva al mare lavata dalle piovane l’arena minutissima quarzosa, conosciuta da’ marmoraj, e nelle officine vetrarie sotto il nome di Saldame. È probabile che Plinio2 abbia parlato di questo sito laddove dice, che per segare i marmi „era stata trovata una buona spezie d’arena in un fondo vadoso dell’Adriatico, che restava scoperto nel recedere della marea.“ La spiaggia, che giace appiè dell’aspro, e sassoso monte detto ancora Verch od mela, il Colle della sabbia, quantunque sabbia non vi sia più, è tutta di Saldame, come lo sono varj altri siti dell’Isola, dove il mare batte contro le radici de’ colli arenosi. Ecco il caso d’imbrogliare i futuri Orittologi; caso, che come vedrete più sotto, accadde altre volte. L’arena, che occupava la superficie della Montagna, dove sopra strati di marmo Ortoceratitico, e di Breccie d’antichissima origine fu deposta da mari, o da fiumi antichi (il che mi sembra più probabile, perchè non à vestigj di corpi marini), adesso è discesa colle piovane dalla sua residenza, e si mescola co’ Testacei d’un nuovo mare, che naturalmente non produce arene simili distruggendo i monti litorali calcarei. Chi sa dopo quanto tempo ella si petrificherà insieme co’ corpi marini, e dopo quanto altro ella si troverà nelle basi de’ monti nuovi! Sembra che questa spezie d’arena sia venuta ben di lontano; imperocchè monti minerali non esistono lungo il nostro Adriatico, e che [p. 199 modifica]abbia poi anche subito delle rivoluzioni anteriori a quella, che soffre presentemente. Nel colle, su di cui sorge la Città d’Arbe, la Cote à quest’arena per base, e racchiude sovente una quantità grandissima di Lenticolari, che sono, come ognun sa, produzioni d’ancora ignoto mare, non accordandosi con esse il Porpita descritto dal Linneo, pel loro originale nelle Amenità Accademiche3. Ne’ colli di Loparo trovansi frequentemente le Nummali lapidefatte erranti nella rena appena rassodata, di modo che le acque eventuali ne le staccano, e traggono seco. In questi colli arenosi, che tutti vanno a poco a poco disfabbricandosi pegli urti del mare contiguo, trovansi anche frequentemente degli Echiniti petrificati di varie spezie, e grandezze, esotici; come se ne trovano anche sulle rive del Porto d’Arbe opposte alla Città. Presso al Porto di Campora, e al Porto Domich, la pietra arenario-quarzosa delle colline racchiude in grandissima quantità Ostraciti, e Nummali petrificate. Egli è evidente, che queste colline sono di formazione posteriore a quella della Montagna: ma contuttociò deggiono essere ben antiche se contengono petrificazioni straniere ai nostri mari, e climi presenti! Nel colle, dove ànno l’ameno loro passeggio gli Arbegiani, trovansi presi nella Cote de’ pezzuoli irregolari di Selce, e Diaspro, ne’ quali talora veggonsi de’ frammenti marini. Io non vorrei però trarne la conclusione del Wallerio (p. 305.) „Quindi è evidente, che si danno anche [p. 200 modifica]Diaspri diluviani generati dalla materia fluida, che può ricevere in se, e racchiudere corpi stranieri.“ Le osservazioni replicatamente fatte su’ cangiamenti, de’ quali sono suscettibili le pietre, m’ànno chiarito che per la maggior parte le Selci, e i Diaspri non si sono mai trovati in istato di fluidità; e posseggo una picciola serie di produzioni fossili de’ monti Euganei, raccolta colle mie mani medesime, da cui si ponno trarre di molti lumi pella Genesi di questa classe di pietre.

La Breccia della Montagna d’Arbe riceve bel pulimento; ella è pell’ordinario macchiata di bianco, e unita con un cemento rosso vivissimo; i pezzi che la compongono sono angolosi, e di Marmo fino. Giacchè vi ò detto audacemente qualche cosa, contro le opinioni del Wallerio, intorno alla generazione delle arene, non tralascierò di confessarvi, che la sua teoria delle pietre aggregate mi pare ancora più strana, ed opposta alle osservazioni di fatto fisico. Io non intendo d’erigermi in censore del sommo Naturalista: ma desidero che Voi mi dispensiate dall’ammirarlo su di questo proposito, come lo ammiro su di tanti altri punti. Egli dice4 „che appena gli sembra possibile, che i sassi, e le pietre componenti gli strati aggregati avessero potuto vicendevolmente conglutinarsi quando non fossero state di più molle consistenza, non avendo ingresso per modo alcuno ne’ sassi perfettamente duri la materia conglutinante.“ Quindi conclude: „I° Che la frattura delle pietre, e de’ sassi sia stata operata nel momento della diseccazione, e indurazione, [p. 201 modifica]pell’attrazion rispettiva delle particole, pella compressione, per qualche precipitazione, o simile altra causa. 2°. Che questi sassi aggregati si unirono a formare un corpo solo mentr’erano ancora di pasta molle. 3°. Che questa unione fu per lo meno incominciata in luoghi sotterranei, dove furono operate le fratture; non sembrando possibile, che alcuna generazione, o conglutinazione petrosa possa farsi all’aria aperta. 4°. Che incominciata, o perfezionata la conglutinazione, questi sassi sieno stati cacciati alla superficie delle terre, e de’ monti da qualche forza enorme... In una parola, che la frattura de’ materiali, e l’incominciamento della loro conglutinazione sia stato antediluviano; e diluviana poi la presenza delle pietre, e sassi conglutinati alla superficie della Terra, e de’ monti.“ Io lascio per ora da parte l’improprietà delle voci ricordanti glutine, di cui certamente non si tratta negli aggregati calcarei, o vitrescenti, operati dalla cristallizzazione, o tartarizzazione, e dalla fusione ora più, ora meno perfetta. Le quattro proposizioni del Wallerio, sono contraddette dal fatto; e in quanto alla prima è costantissima verità, che le pietruzze angolose, di cui sono formate le Breccie, veggonsi confuse, e rimescolate assieme, e varie nell’impasto per modo che non si può nemmeno sospettarle d’antica continuità. Le Breccie poi, che noi veggiamo sotto gli occhi nostri formarsi appiè delle montagne, e lungo le sponde de’ torrenti, manifestamente ci mostrano il meccanismo, di cui servesi la Natura per accozzarle. Che sieno stati molli i sassi componenti le Breccie allorchè furono congesti assieme non è credibile. Basta rompere varj pezzi di Breccia per vedere, che ogni pietruzza vi sta da se; accade anche sovente che si possano separare ad una ad una, quando il cemento che le tiene unite non sia [p. 202 modifica]divenuto bastevolmente petroso. Se fossero state molli nel momento di coagmentarsi, l’una avrebbe compenetrato l’altra bene spesso, il che non si vede giammai. La terza asserzione è inconsideratissima per ogni riguardo; imperocchè dall’esame delle pietre aggregate dalle acque risulta precisamente, che non è possibile sieno state unite sotterra, come possono esserlo state quelle, che si riconoscono per produzioni del fuoco Vulcanico. È poi una solenne distrazione il dire, che all’aria aperta non sembra possibile che si generino, o indurino sostanze lapidose: mentre una quantità di stalagmie formansi ne’ luoghi più esposti all’aria; e le incrostazioni petrose delle acque Termali crescono di giorno in giorno all’aperto sotto gli occhi dell’Osservatore. La quarta è affatto lontana dal vero, e dal buon senso Orittologico; dacchè le Breccie trovansi disposte a strati vastissimi, e regolari, sopra altri strati d’impasto meno vario estesi ad eguale vastità; nè può mai essere concepibile, che una forza sotterranea gli abbia espulsi dalle viscere della Terra senza scombussolarli, e sconnetterli in mille modi. La distinzione de’ due tempi Antediluviano, e Diluviano, relativamente a questo genere di pietre, non mi sembra poi soddisfacente. Stando nel suo sistema Diluviano d’onde ripeterebbe il Wallerio le molte petrificazioni di Corpi marini esotici chiuse ne’ ciottoli componenti le Breccie?

Non è però la Breccia il più interessante, e pregevole marmo, che diano l’Isola d’Arbe, e le due Isolette di S. Gregorio, e di Goli contigue al Capo di Loparo. Vi si trova in grandissima abbondanza il Marmo bianco statuario, perfettamente simile nella grana a quello, di cui si servirono gli antichi Romani, che non sempre, come volgarmente credesi, era Greco. Egli non à quella candidezza di neve, che passa per una buona qualità nel mar[p. 203 modifica]mo di Carrara, e che inganna pur troppo spesso lo Statuario non meno, che i giudici de’ di lui lavori. La perfetta rassomiglianza del Marmo bianco tolto dalle statue Romane, e di quello che ritrovasi egualmente al piè della Montagna d’Arbe verso Loparo, e nelle due isolette soprannominate; il nome antico di Loparo, che per quanto mi fu detto rilevarsi da documenti esistenti in Arbe, era Neoparos; la probabilità, che le barche da carico Romane, andando a prendere della rena indicata da Plinio ne’ bassi fondi vicini, avessero anche scoperto questo Marmo, che in abbondanza vi si ritrova; la gran quantità di rottami di esso tuttora angolosi, ed irregolari, benchè dal tempo corrosi alla superfizie, che ritrovasi appiè del Monte della Sabbia, sono ragioni che m’inducono a credere vi fossero delle Lapicidine antiche in questo luogo, dalle quali una parte degli Statuarj Romani traesse la materia de’ suoi lavori. L’impasto del Marmo statuario d’Arbe è un aggregato d’Ortocerati, e Nummali della maggior mole: ma per avvedersene fa d’uopo esaminare di que’ rottami corrosi, ch’io v’ò indicato; allorchè si guarda lisciato dallo scalpellino, ogni vestigio de’ corpi estranei sparisce: così egualmente si perfezionò la petrificazione loro tanto nella sostanza, quanto nel colore. Rompendo qualche pezzo di questo Marmo statuario, si trova ch’è internamente cristallizzato come gli altri marmi compresi nella Categoria de’ salini. Io mi trovai contento di questa scoperta più che d’ogni altra mia osservazione, perchè mi parve la più immediatamente utile alla Nazione, e la più atta a liberarci da un annuo dispendio riflessibile, che si fa nell’acquisto di due gran carichi di marmo Carrarese. È anche tanto più opportuna la scoperta, quanto che da Carrara non ce ne viene oggimai portato di buona qualità, dopo che [p. 204 modifica]gl’Inglesi ànno stabilito a Massa un Agente, che acquista per conto loro i pezzi più netti, e lascia pegl’Italiani il venato, e macchiato di cenerognolo, che riesce malissimo nelle Statue, e in ogni altro lavoro nobile.

Nelle acque d’Arbe, e di Pago io ò fatto parecchie osservazioni sulla luce fosforica marina, delle quali prendo impegno di rendervi informato allora che le averò ridotte a qualche grado di perfezione. Intanto aggradite, valorosissimo Amico, il poco ch’io vi posso donare; e guardate questa Lettera come una prova della mia amicizia, e venerazione per Voi, che occupate un sì eminente luogo fra i Naturalisti, ed insegnate agli Oltramontani, che anche nell’età presente vive fra noi il Genio de’ Vallisnieri, e dei Redi, pe’ quali crebbe l’Italia nostra in tanto onore altrevolte.





Fine del Secondo Volume.

  1. Arenæ . . usum præstant æqualem ut aliæ terræ in eo quod originem præbeant lapidibus, & montibus; unde & patet arenam esse saxo priorem., Wall. Syst. Mineral. 1772. pag. 101 e alla pag. 107. Obs. 2: Vetat tamen ingens quantitas, nec non situs arenæ tam subterraneus, quam subacquosus, ut hoc de omni arena dici possit . . . . Plurimos montes ab arena concretos facilius demonstrari potest quam arenam ab his destructis esse ortam.
  2. Plin. L. XXXVI. cap. VI.
  3. Caroli Linnei Amœn. Acad. T. I. pag. 177. De Coralliis Balthicis. Fig. V. a. b. Tomo IV. pag. 257. Chinensia Lagerstromiana. Fig. 7. 8. 9.
  4. Wall. Syst. Min. p. 431. Obs. 2. ed. cit.