Viaggio sentimentale di Yorick (Laterza, 1920)/Due scritti relativi al Viaggio sentimentale/II. Confessioni di Didimo Chierico

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Due scritti relativi al Viaggio sentimentale - II. Confessioni di Didimo Chierico

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Due scritti relativi al Viaggio sentimentale - I. Notizia intorno a Didimo Chierico

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II

CONFESSIONI DI DIDIMO CHIERICO

FRAMMENTO

[1813?]

i

Chi disse: «Fratelli, confessatevi vicendevolmente i peccati vostri» intese, a parer mio, che i fedeli sentissero vergogna de’ propri e misericordia degli altrui falli, perché vide che la vergogna e la misericordia sole possono fare men tristi i delitti e piú equa la virtú e la giustizia. Però io, Didimo Chierico, mi sono, dopo molti consigli meco medesimo, deliberato di dire il come ed il perché dall’undecimo al trentesimoquinto anno dell’età mia ho peccato e patito sopra la terra; s’ perché questo spazio di vita è piú propenso a peccare e piú sofferente a patire, sí perché, sentendomi omai freddo ad ogni piacere e dolore, né sperando migliore e maggior numero d’anni di vita, troverò alcuna consolazione a rivivere nel tempo perduto, il quale non dirò ad ogni modo tutto perduto, se potrò in esso cercare alcuna lezione che m’insegni a morire.

ii

Ma perché, palesando i miei, non potrò, bench’io non nomini anima nata, tenere coperti i peccati altrui, da che l’ignoranza o la malignità del mio prossimo m’indusse le piú volte [p. 178 modifica] a peccare, e la mia piú stretta prossimità fu quasi sempre cogli uomini letterati, parmi discreto compenso di scrivere in greco idioma, affinché anche questo libro non confermi presso i men dotti quella sentenza: essere la letteratura e la libertà due numi venerati contro lor voglia con sacrifici sanguinosi, tumultuosi e venali. Che se taluno (non ch’io lo speri) stimasse che, ove si risapessero le colpe di noi letterati, e sono la codardia, la venalità e l’invidia, il mondo si ravvederebbe dal troppo onorarli, e quindi i fratelli nostri dall’abusarsi troppo del mondo; traduca come può meglio e comenti il mio libro, e il cielo gli dia pazienza e premio che sia pari alla fatica e all’intento. So bene che molti de’ suddetti fratelli e maestri miei non considereranno in questo libro fuorché lo stile, perché appunto potranno agevolmente dannarmi come arrogante scrittore di lingua veneranda e non mia. Ma io a suo tempo racconterò quanta vita e lume di ragione ho perduto in sí fatte dottrine di stile; e di ciò domando perdono a Dio, e lo prego che conceda riposo all’anima, dovunque ella si trovi, di quell’Alessandro, il quale, benché insegnasse grammatica a un imperatore del mondo, non abusò della sorte per far cacciare in esiglio chiunque non parlava con le sue regole; anzi né ingiuriò mai, né riprese magistralmente veruno che parlasse o scrivesse con barbarismi e con solecismi: cosa nelle storie inaudita e degna che Marco Aurelio la tramandasse piú all’ammirazione che all’imitazione dei posteri.

iii

Adunque, incominciando e prescindendo dall’indole mia, la quale sinceramente si manifesterà nel corso del libro, dico che i primi casi della mia vita, perché furono tutti felici, partorirono in séguito tutti i miei falli. Nacqui di contadini, e però crebbi d’animo semplice; erano poveri, e m’avvezzavano alla misericordia; e la madre mia, rimanendosi vedova sei giorni dopo ch’io nacqui, mi alimentò del latte del suo petto e del sudore delle sue mani, ma con l’esempio, incredibile quasi [p. 179 modifica] nel suo stato, m’insegnò a non avvilirmi all’altrui carità e a tollerare i disagi con silenzio e con verecondia. Era, ed è tuttavia, il tugurio de’ padri miei tra le feconde correnti dell’Adda, fiume, e la città di Milano, in un colle di cipressi detto Inverigo, dove vivendomi sino all’undicesimo anno dell’età mia, mi compiacqui tanto di quella solitaria e pensosa e libera vita, ch’io non ho mai piú in appresso potuto in verun luogo popolato acquetarmi. Finalmente venni ammaestrato nell’alfabeto da un vecchio curato, sacerdote di viscere veramente paterne; se non che si dilettava troppo delle gazzette e sperava ch’io gli sarei stato un giorno lettore, poiché gli occhi suoi mezzo infermi potevano sostenere a fatica lo splendore del sole. Nondimeno lasciava ch’io leggessi e scrivessi quando e come piú mi piaceva, e, per mercede del mio aiuto negli uffici della chiesa, mi rivestiva da chierico de’ suoi men logori panni. Ma la semplicità, la misericordia, la verecondia, la vita solitaria e pensosa, la libertà di corpo e di mente non solo, come vidi per propria esperienza, ti fanno misero a sei volte e spregevole e avverso al tuo prossimo, ma ti armano altresí di certo intempestivo e ruvido zelo e di certe superstizioni per le virtú, in guisa che tu vivi, e senza poterti tacere, mattamente bramoso che il mondo non si contenti del poco bene e del molto male di cui fu ab aeterno composto dall’arcano consiglio di Dio.

iv

Insuperbitomi delle lodi del vecchio parroco, che già mi stimava egregio lettore di gazzette, volli, per amore e ambizione di letteratura, andare a Milano vestito da chierico, sebbene io non avessi ricevuti peranche gli ordini minori. Ricordomi che fui sino alla piscina di Desio, grosso borgo, accompagnato dalla mia povera madre, dal parroco e da una vecehierella che parea scema, tante lagrime e vani gemiti mandava lungo la via; ma si vedrà che, quando il rimorso mi fece germogliare nell’anima lo spirito tristo della querimonia e della profezia, quella vecchia fu a me piú terribile della maga del re Saule. La madre [p. 180 modifica]

mia frattanto non lasciò che io le vedessi neppure una lagrima, e solo quando s’inginocchiò per darmi la sua e la benedizione d’iddio, mutò aspetto, e m’accorsi ch’ella guardavami come se temesse di non rivedermi mai piú. Il parroco poi m’abbracciò con queste parole: — Ho paura, figliuolo mio Didimo, che Dio, per punirti di questa tua ostinazione d’abbandonarci, ti mandi a menare, con un’anima semplicissima, una vita assai poco semplice, e certo è grande castigo; tuttavia non cesserò di pregarlo nelle mie orazioni, affinché tu possa tornare a servirmi la santa messa ed a leggermi le gazzette. —

v

In Milano campando in santa pace di iatte e di pane, ch’io mi guadagnava amministrando gli uffici di chierico nelle chiese de’ monaci, [e] facendomi nelle ore d’ozio assiduamente vedere nelle scuole de’ Preti regolari, diedi buon odore di me; vidi con fanciullesca superbia che que’ monaci di San Francesco appellati «cappuccini» e i barnabiti (la Compagnia di Gesú era stata a quel tempo soppressa) litigavan1. . . . . tra loro per vestirmi de’ loro panni, e i primi mi prometteano di farmi uscire un primo predicatore di monache, e gli altri maestro di rettorica, logica e filosofia. Mi attenni a questi: se non che, come quell’esser chiuso uccideva il mio corpo, cosí il padre maestro toccatomi uccideva l’animo mio. Perch’egli era nato e cresciuto in un luogo malaugurato del fiume dove si sogliono giustiziare gl’infelici muli ed asini infermi e i cavalli decrepiti e benemeriti, e s’era quindi non solo avvezzato a non sentir pietà delle creature d’iddio, ma ben anche a compiacersi delle sozzure e a lodare i cani che vivevano di carogne. Avvenne dunque ch’io odiassi il maestro, ed egli me; e per questa ed altre simili vane opinioni, che pure non doveano provare tanto né quanto, io me n’andai senza pigliare commiato, e fuggii, per timore della... e [p. 181 modifica] della carcere, di Milano. E qui gioverà a’ miei fratelli, poiché a me ha molto poco giovato, un memorabile detto d’un di que’ frati, dettomi pochi giorni prima della mia trasmigrazione.

Riprendendo io molti abusi ch’io vedea nel convento, e ricordando la santità della regola di chi avea istituito quell’ordine, il frate senza ira né sorriso mi disse: — La santità bisognava a fondare e gli abusi bisognano a mantenere [il nostro] Istituto.

Note

  1. Indecifrabile nel ms. [Ed.].