Vai al contenuto

Vita di Dante/Libro II/Capitolo XI

Da Wikisource.
Capo Undecimo - La Monarchia.

../Capitolo X ../Capitolo XII IncludiIntestazione 9 aprile 2013 25% letteratura

Capo Undecimo - La Monarchia.
Libro II - Capitolo X Libro II - Capitolo XII


[p. 273 modifica]

E sotto l'ombra delle sacre penne,
Governò il mondo lì di mano in mano.

Parad.VI.


Io vorrei che mi fosse possibile di mettere qui intiero l’opuscolo della Monarchia, e che i miei leggitori avessero la pazienza di leggerlo; chè non avrei certo mestieri d’altro a dimostrare e le strane aberrazioni dello spirito ghibellino, e come un altissimo ingegno possa essere da un falso assunto precipitato; e come, precipitando, Dante pur fosse trattenuto o dalla nativa moderazione, od anche più dagli antichi pensieri, dagli abiti giovanili, e quasi dal sangue, dell’animo guelfo1. La Monarchia non è [p. 274 modifica]di gran lunga la più bella, ma per rispetto alla storia è la più importante delle Opere di Dante. Il manifesto de’ Ghibellini fatto da uno che pur fu, a petto di altri, moderato, ci mostra le idee meno esagerate della Parte; e fatto da un Dante, ce le mostra nella loro miglior luce: ondechè, se parran false o cattive queste, quest’argomenti a fortiori, quali abbian dovuto essere quelle de’ Ghibellini più esagerati o ignoranti.

Tolta l’intricatezza scolastica del latino del 1300, il libro ha uno de’ piu bei cominciamenti che si possano desiderare, ponendo un precetto buono allora, adesso, e sempre più: dover ogni scrittore sforzarsi d’accrescere il tesoro delle umane cognizioni, e così non trattare se non argomenti utili e non trattati2. Segue un altro principio anche più meraviglioso a quell’età: dover ogni speculazione politica aver per iscopo l'utile della civilta del genere uma[p. 275 modifica]no3, e scopo della civiltà essere il promovimento, lo sviluppo della potenza intellettiva di tutto il genere umano4. Nemmeno a’ nostri tempi, nei quali tanto di ciò si discorre, nulla di più largo e di più preciso insieme non fu detto da nessuno.

Ma subito l’autore si svia. La monarchia ch’ei cerca a promuovere, non è quella di niun re su niun popolo particolare, nè egli contende per questa forma di governo contro quella dell’aristocrazia o della democrazia; che anzi, queste tre forme, queste tre politiche, ei le chiama oblique e incompatibili colla libertà5. La monarchia desiderata da Dante, è la monarchia universale6. Ai nostri dì, che le nazioni conformate felicemente ognuna in sè, non hanno nulla così caro, nulla così santo in terra quanto siffatta nazionalità, di nulla tanto ringraziano il cielo come d’averla, ovvero di nulla il pregano come di ottenerla; basta espor tal desiderio per farlo parere a un tempo impossi[p. 276 modifica]bile all’effetto, e quasi empio a concepire. Ma non così allora. Qui abbiamo la confessione di uno de’ rei, confermata, del resto, dall’intiera storia da Carlomagno fino a Carlo V. Lo scopo, la speranza, il diritto preteso e propugnato dagli Imperadori e dalla loro parte sotto qualunque nome d’imperiale o ghibellina, non fu altro se non quella monarchia universale, tanto a’ nostri dì, non so qual de’ due più, od aborrita, o derisa.

Sviato così dal mirare ad uno scopo impossibile, l’autore corre di sogno in sogno. Divide l’argomento in tre . 1° Se la monarchia universale sia necessaria al bene dell’umanità. 2° Se il popolo romano abbia acquistato diritto a tal monarchia. 3° Se questa, cioè l’imperio, dipenda da Dio solo immediatamente, ovvero mediatamente da qualche ministro o vicario di lui7. Segue poi tal divisione nei tre libri dell’opera; e nel primo prova la necessità della sognata monarchia a stabilir la non meno sognata pace universale8; e poi, perchè il genere [p. 277 modifica]umano è uno9; perchè i regni diversi non sono più che parti del genere umano, e vi debb’essere un tutto, cioè l’imperio10; perchè ciò è ad intenzione, a similitudine di Dio11; a similitudine del cielo, mosso tutto da un solo primo mobile12; per decidere le contese tra principi13; perchè il monarca universale, senza vicini nè ambizione, può solo seguir giustizia, dar libertà, ed esser buon reggitore14; perchè ciò che si può far coll’opera di uno, non si conviene fra per quella di parecchi15; e perchè l’ente, l’uno e il buono, che si producon l’uno dall’altro, non si possono attingere nell’umanità senza concordia, nè questa senza la monarchia16. Finalmente sono tali ragioni confermate da questa sperienza: che non vi fu la monarchia dalla caduta del primo uomo fino [p. 278 modifica]alla pienezza dei tempi, cioè fino alla nascita di Cristo sotto Augusto; ma sì allora, e d’allora in poi17. Ma notisi un temperamento di tal sistema, che corrisponde a quello che notammo nella epistola ad Arrigo: la monarchia universale non esclude le leggi municipali (ed ecco il guelfo, ecco il cittadino italiano), non i regni, non gli usi dei climi diversi18. Ma l’autore tralasciò di additarci i mezzi di far concordare queste due contrarie esistenze; a quel modo appunto, che un altro grande scrittore, ma utopista anch’egli de’ nostri dì, tralasciò d’accennarci la possibilità della concordanza del governo tribunizio da lui proposto, con altre forme governatotive pur da lui lodate.

Più strano forse che non il primo, è il secondo libro. Il diritto d’imperio universale del popolo romano è provato con un gran sillogismo, che comprende quasi tutto il trattato, e corre così: 1° il diritto o jus non è altro che il volere di Dio, identico con ciò ch’è voluto da Dio19. 2° Ma Dio volle l’imperio del popolo romano, poichè questo fu il più nobile e il più virtuoso20; poichè [p. 279 modifica]Dio fece miracoli per esso21; poichè lor fine fu sempre il ben pubblico o universale22; poichè tal popolo fu ordinato dalla natura ad imperare23; poichè Dio manifestò il suo giudicio nel duello che si fece tra esso e gli altri popoli per l’imperio24. 3° Dunque, il popolo romano ebbe diritto all’imperio: se non l’avesse avuto, se tal imperio non fosse stato de jure su tutto il genere umano, Nostro Signor Gesù Cristo, nato sotto esso e morto per giudicio d’un giudice di esso, non sarebbe morto per opera del genere umano intiero, nè così a sconto del peccato del padre di esso25. Vedesi a quali assurdità tragga la ricerca dei fatti a prova d’un cattivo argomento. Qui un fatto è provato buono solamente da ciò che è succeduto; e la umana redenzione è ridotta a non esser legittima, a non servire se non ai [p. 280 modifica]sudditi del sacro romano imperio. Difficile a dir, veramente, qual sia maggiore, la filosofica o la religiosa, tra queste due eresie.

Del resto, è da notar qui un altro errore combinato sì collo spirito ghibellino, ma diverso da esso. La terra nostra d’Italia è la sola del mondo che vanti due storie, due civiltà, due glorie; l’antica e la moderna. Da’Romani, fondatori e possessori di quella gloria antica, discende certo ancora gran parte della nostra popolazione; onde è naturale che noi ci gloriamo di quelli. Ma tal vanto trae seco nelle nazioni, come negli uomini, due gravi pericoli: l’uno di rivolgersi a vergogna ne’ posteri degeneri; e l’altro, forse peggiore, della intempestiva imitazione dei modi mutati dalle età, e della più intempestiva reclamazione dei diritti cancellati da quelle. L’imitazione di Roma antica, le stolte, scolaresche e puerili speranze di restaurar la potenza di lei, furono quelle che, forse più di ogni altra cosa, sviarono gli animi italiani fin dalla caduta dell’imperio nel quinto secolo, a’nostri dì. Quelle rivolsero la popolazione italiana contra Odoacre, contra Teodorico, contra i Longobardi, e gli impedirono di generare dalla unione delle due [p. 281 modifica]schiatte, romana e germanica, un popolo solo. Quelle, rivolgendosi a Carlomagno per il nome d’imperio romano ch’ei seppe troppo bene usare a suo pro, diedero origine a siffatta spuria e infausta restaurazione. Poscia, al tempo della libertà, dei Comuni e delle Parti, quelle furono cheesagerarono quinci e quindi Guelfi e Ghibellini: i Guelfi di Firenze, di Venezia, e forse di altre città e d’altri stati minori e posteriori, con la vana speranza d’arrivare ai destini di Roma antica; i Ghibellini, con quell’altro sogno di monarchia universale, qui, non che confessato, ma professato da Dante. Cittadino di città che pretendeva origine romana, pretendèntevi egli, studioso di cose romane, si lasciò trarre anch’egli all’allettamento di que’ gran nomi, di quelle grandi memorie: le quali, certo, si vogliono venerare, ma non mai tentar di risuscitare; chè, in qualunque modo si tenti, è stoltezza nociva. Di nuovo: i sogni sviano dalla realtà, e tanto più quanto più belli.

Il terzo libro tratta della dipendenza immediata da Dio, della monarchia universale o imperio romano, e della indipendenza di esso dal Papa. Incomincia l’autore a porre il principio, [p. 282 modifica]che Dio non volle ciò che ripugna all’intenzione della natura26; dice poi, avere il Pontefice romano tre sorta d’avversarii: alcuni Greci per zelo, i partigiani della Chiesa (cioè i Guelfi) per cupidigia, i decretalisti27. Poi viene a combattere gli argomenti contrarii alla sua proposizione, tratti da ciò, che Dio fece due luminari grandi, uno maggiore, l’altro minore28; da ciò, che Levi fu primogenito di Giuda29; dalla elevazione e deposizione di Saulle per Samuello30; dall’incenso ed oro offerto dai re Magi31; dalle parole di Cristo a Pietro, che sarà legato e sciolto in cielo quanto egli legherà e discioglierà in terra32; dalle due spade presentate da Pietro a Nostro Signore33; dalle donazioni di Costantino al Papa34; e dall’avvocatura della Chiesa e dell’Imperio conferita da Adriano [p. 283 modifica]papa a Carlomagno35. Quindi passa alle prove positive, che l’Imperio esisteva prima della Chiesa36; che la Chiesa non ha virtù d’autorizzare l’Imperio, nè da Dio, nè da sè, nè dagli uomini tutti, nè da più potenti fra essi37; e che tal virtù è contraria alla virtù della Chiesa38. Ondechè conchiude, che non dipendendo l’Imperio dal Vicario di Dio, ed a fortiori da nessun altro, egli dipende immediatamente da Dio. Ma finisce con queste parole:"La qual verità dell’ultima questione non si dee tuttavia così strettamente prendere, che il Principe romano non sottostia in alcun che al romano Pontefice; essendo questa mortal felicità in certo modo ordinata per la felicità immortale. Usi, dunque, Cesare verso Pietro di quella riverenza che usar debbe un figliuolo primogenito al padre; affinchè illuminato della luce della paterna grazia, più virtuosamente irraggi l’orbe della terra. Al quale da colui solo è [p. 284 modifica]preposto, che è governatore di tutte le cose spirituali e temporali".

Questa terza parte dell’opuscolo di Dante, che entra nella gran disputa della supremazia delle due potenze temporale e spirituale, è quella che trasse, come vedremo, la condanna non solo pronunziata contro il libro, ma pur tentata contra la memoria e le ossa di Dante; e più tardi poi, su questo libro e sulla lettera ad Arrigo, nuove censure ecclesiastiche. Forse una proposizione39 contro i decretalisti, che sembra dirigersi contro la tradizione in generale, parve anche più pericolosa. Ma il nostro assunto è più delle evidenti eresie politiche di Dante, che non di quelle religiose di esso. Le quali, poi, qualunque abbiano potuto sfuggirgli, gioverà rinnovar qui, rinforzate dai testi stessi della Monarchia, le proteste nostre contro quei tentativi di far Dante quasi precursore de’ riformatori che straziarono l’unità cattolica nei due secoli seguenti; Dante, così vago dell’unità, da volerla vanamente estendere dalle cose divine alle umane; Dante, che vedemmo pur testè [p. 285 modifica]seguir l’uso, od anzi dar esso l’esempio, seguito da tanti grandi benchè deriso da tanti piccioli, di quella finale protesta d’aderenza alla Chiesa, anzi specialmente alla Sedia romana; Dante che chiama il Papa qui il vero clavigero del cielo40, e che in mezzo ad ogni tratto d’ira che gli sfugge contro questo o quel Papa nella Commedia, quasi sempre rinnova in un modo o in un altro la sua protesta di riverenza alle somme chiavi. Finiscasi, dunque, di apporre a Dante le esagerazioni in cui non cadde. Che lo spirito ghibellino conducesse passo passo la Germania allo spirito di riforma, so che è ora l’opinione di parecchi storici tedeschi41, ed io mi vi accosto volentieri. Ma che Dante ciò prevedesse o desiderasse, od anche, senza desiderarlo, il promovesse, ciò nego co’ testi stessi di Dante più contrarii a’ Papi: i quali intesi per quel che suonano e sono, desiderano bensì una restaurazione della disciplina pur troppo allora di nuovo corrotta; ma una simile a quell’antica di Gregorio VII contro i Simoniaci, o [p. 286 modifica]a quella che la Provvidenza condusse poi nella Chiesa unita a’ suoi capi nell’ultimo de’ concilii; non la riforma o niun altro strazio della sposa di Cristo, venerata e cantata da Dante più che da nessuno.

Del resto, mi perdonino i leggitori di tornar loro a mente que’ due gran fatti da Carlomagno in qua, degli Imperadori in parte eletti e incoronati dai Papi, e dei Papi in parte confermati dagli Imperadori: due fatti da cui traevansi due diritti diversi, od anzi opposti; combattendo i Guelfi più o meno esagerati non solo per la indipendenza del papato, ma più o meno per la dipendenza degli Imperadori da esso; e i Ghibellini esagerati non solo per la indipendenza degli Imperadori, ma per la dipendenza de’Papi dagli Imperadori, come lo dimostrano le tante deposizioni de’ Papi fatte o tentate. Ora noi veggiamo qui, che se Dante era tanto ghibellino da propugnare l’indipendenza del Papa, ondechè, se il concedemmo ghibellino, ed anzi ghibellino feroce, vedesi qui che non s’ha a dire perciò de’ più esagerati. Del resto, in fatti di Parte [p. 287 modifica]si voglion distinguere bene queste tre cose: l’esser detto di essa, l’esserne veramente, e il professarsene. Dante fu detto ghibellino forse prima d’esserlo; tuttavia il fu all’ultimo, e molto troppo: ma ei non credeva esserlo, e professava non esserlo. E ciò vedremo a tempo suo.

Note

  1. Ho seguita l’Ediz. in 4° di Venezia 1738, dove la Monarchia è in calce al 4° Vol.; con numerazione di pagine separata e con due rami; il primo de’ quali rappresenta la monarchia imperiale in trono, con re e corone incatenate sotto i piedi, e la Chiesa colle chiavi in mano in un seggio più basso, in aria lungamente; l’altro, l’aquila a due becchi, che pianta l’ugne sul globo.
  2. §1,p.V.I§§ non segnati nell’edizione citata. Ho seguito, nel segnarli, ciò che mi pareva divisione naturale.
  3. § 2, p. VII.
  4. §3,pp.VIII,IX.
  5. §11,p.XIX.
  6. §2,p.VI, e passim.
  7. §2,p.VI.
  8. §4,p.X.
  9. §5,p.XI.
  10. §6,p.XI.
  11. §7,p.XIII.
  12. §8,p.XIV.
  13. §9,p.XV.
  14. §10,11,12,pp.XVI-XXI.
  15. §13,p.XXIII.
  16. §3,p.XXIV.
  17. §15,p.XXVI.
  18. §13,p.XXIII
  19. §1,p.XXVIII.
  20. §3,p.XXX.
  21. §4,p.XXXIII.
  22. §§5,6,pp.XXXV-XXXIX.
  23. §7,p.XL.
  24. §§8,9,10,pp.XLII-XLVII.
  25. §§ e pag. seg. fino alla LIV.
  26. §2, p.LVI.
  27. §3, p.VIII.
  28. §4, p.LX.
  29. §5, p.LXIII.
  30. §5,p.LXIII.
  31. §6,p.LXIV.
  32. §7, p.LXV.
  33. §8, p.LXVI.
  34. §10, p.LXXI.
  35. §11,p.LXXII.
  36. §12,p.LXXVI.
  37. §13,p.LXXVIII.
  38. §14,p.LXXIX.
  39. §13,p.LXXVIII.
  40. Pag.LVI.
  41. Federigo Schlegel principalmente.