Vocabolario italiano della lingua parlata (1893)/AL PROF. LUIGI MORANDI.

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AL PROF. LUIGI MORANDI.

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Vocabolario italiano della lingua parlata (1893) PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE.

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AL PROF. LUIGI MORANDI.


Mio caro Morandi,

In una nota alla tua bella e fortunata Antologia1 ricordando tu il mio Vocabolario della Lingua Parlata, scrivi che sarebbe poco se mi fosse inalzata una statua. Sebbene la iperbole di questa lode sia tutta dovuta alla bontà tua verso di me e al grande e diritto amore che hai per gli studj della lingua nostra, pure mentirei a me stesso se dicessi che non mi riesce graditissima, e non mi compensa delle molte fatiche e dei non pochi dispiaceri che questo lavoro mi è costato. Intorno al quale permetti che io mi apra con te, anzi mi confessi, con tutta quella confidenza che dall’amicizia nostra mi vien consentita. Confesso adunque che la prima edizione di questo Vocabolario fu molto affrettata. Premeva al suo editore, che fu il Corridi, e premeva anche a me e al Fanfani, di precorrere al Novo Vocabolario Giorgini-Broglio, già incominciato da alcun tempo, e che dopo venti e più anni si strascica tuttavia faticosamente per la strada. Quindi avvenne che in quella fretta di lavoro non pochi errori vi cadessero, e parecchie voci, o maniere, o significati fossero lasciati fuori. A tali difetti, giustamente notati da te e da altri (e avesse voluto Iddio che tutti avessero imitata la gentilezza de’ tuoi modi !), io mi sono adoperato di riparare negli otto anni d’indefesso studio che vi ho spesi, sicchè potrai vedere da te medesimo che la massima parte di quelle omissioni (non tutte per altro erano tali), che vai qua e là indicando nelle note al tuo libro, è sparita da questa seconda edizione, che può chiamarsi più veramente un rifacimento. Tuttavolta io non affermo (e chi potrebbe affermarlo in opere di tal genere ?) che il Vocabolario, intorno al quale ho poste tante cure, sia affatto [p. 10 modifica]immune da errori e da omissioni. Quello che è dato sperare e augurarsi al lessicografo più diligente si è, che nel suo lavoro ve ne siano il meno possibile: e questo spero e mi auguro anch’io.
Ho poi mantenuto al mio libro il primo suo titolo, cioè Vocabolario italiano della Lingua Parlata, sebbene Emilio Broglio di felice memoria lo mettesse in canzonatura nella Lettera a R. Bonghi, premessa al terzo volume del Novo, dicendo scherzosamente che non potrebbe essere lingua cantata o sonata. Alla quale canzonatura sarebbe in grado di rispondere anche uno scolaretto di Ginnasio, il quale sa che tutta la lingua parlata è o può essere scritta, e che, per contrario, non tutta la lingua scritta è o può esser parlata. Tale differenza intorno, non al sostanziale della lingua ma al suo uso, stabilì fin di principio i confini di questo Vocabolario, circa ai quali credevo di essermi dichiarato più che abbastanza nella Prefazione, che da quell’egregio uomo non dovette esser letta con animo riposato. A due altri appunti dello stesso Broglio debbo qui rispondere, cioè all’essermi io governato, secondo lui, col mio giudizio intorno all’accettabilità di molte voci nuove, chiudendo gli occhi, come sempre li ho chiusi e chiuderò, all’uso dei cattivi parlanti e dei leziosi che da per tutto si trovano, e tenendoli bene aperti all’uso dell’universale e segnatamente del popolo. Eppure chi potrebbe negare che in materia di lingua non avvenga quello stesso che nei cibi, che per alcuno un cibo è buono e saporito, per un altro è cattivo e spiacente? Certo il gusto e il giudizio proprio hanno gran parte sull’accettabilità o non accettabilità di una voce o maniera; ed io confesso, nè avrei potuto fare altrimenti, di aver seguito il giudizio mio, aiutato da una educazione che credo sinceramente toscana, e da quegli studj che nel corso della mia vita ho sempre coltivati. La censura del Broglio, che su questo punto da me grandemente discordava, potrebbe esser ritorta contro al suo Vocabolario, il quale è fatto (e ci vorrebbe poco a provarlo) senza il giudizio di nessuno, che è quanto dire senza alcun giudizio. E toccando io in quella chiacchierata sul Si dice o non si dice, fatta da me, anni sono, al Circolo filologico di Firenze, della lingua del popolo, che mi ostino a chiamar sempre vera lingua, perché in ogni voce che egli usa vuol qualche cosa sentire, immaginare, pensare, e aiutandomi degli stessi suoi spropositi, come Ubbidiente per Bidente, Eccesso per Ascesso, Matrimonio del gran destino per Matrimonio clandestino, ec., il Broglio mi dette accusa di adulatore del popolo, e affermò con un francesismo che la lingua del Novo Vocabolario è la lingua della bona società; come se io quegli [p. 11 modifica]spropositi, che a me servirono solo di prova, li avessi registrati nel mio Vocabolario, facendone regalo agl’Italiani, e come se ogni trivialità avessi raccolto, dalle quali sono stato più schivo di quello che altri per avventura, non conoscendo questo libro, possa pensare. Dirò anzi per regola ai giudizj di alcuno, che io non registro col NovoAho!, nè Arcova per Alcova, nè Drento e Indrento per Dentro e Indentro, nè Dreto e Indreto per Dietro e Indietro, nè Gna per Bisogna, nè Mana per Mano, nè Mea per quella roba, nè altri siffatti plebeismi. Del resto, per dir tutta la verità, era il Broglio così amico della lingua popolare, che spesso, per troppo amore, o la frantendeva, o la usava fuor di luogo. Ma in fondo, per quanto si vada arzigogolando sul titolo e sui termini di questo lavoro, il fatto è che il Novo sceglie lo stesso materiale di lingua che il mio Vocabolario, salvo che in questo è più abbondante, e, come spero, meglio dichiarato, ordinato ed esemplificato. Nè debbo tacere come esso, specialmente da un certo tempo in qua, largamente usa se non abusa del mio, ciò che ha fatto e va facendo anche qualche altro Vocabolario italiano, senza per altro riuscire a dare a sè quel carattere che è e rimane tutto proprio del Vocabolario della Lingua Parlata. Che se avessi per costume di detrarre all’opera altrui per esaltare la mia, non mi sarebbe punto difficile provare con gran copia di esempj come il Vocabolario del Broglio non solo è fatto senza alcun metodo lessicografico, ma non risponde neppure al concetto manzoniano, di cui egli fu acerrimo difensore. Mi duole, caro Morandi, di aver toccati questi tasti, essendo ancor calde le ceneri di quel valentuomo, a cui per altro non si può nè si deve negare il merito di aver indotto Alessandro Manzoni a riproporre negli ultimi anni della sua vita la questione dell’unità della lingua, la quale ha dato un nuovo avviamento alla lessicografia italiana: ma io dovevo a me stesso, al mio lavoro e al mio editore questa breve e assai tranquilla difesa. Vivente lui, la difesa sarebbe stata molto più lunga, e forse meno tranquilla.

E tornando a quella parte di lingua, che io ho per corrotta, credetti di far cosa molto utile il registrarla in più larga misura che non feci nella prima edizione, segnandola con una crocetta, e suggerendo quasi sempre la vera voce o maniera italiana. Cosi, in luogo di essere un diffonditore semiufficiale di cattivi neologismi, come è (consenti che lo dica) il Novo, non tanto per le voci che accoglie senza alcuna nota, ma anche per quello che adopera dichiarando, il mio Vocabolario cerca, per quanto è possibile, di guardarne specialmente i giovani. [p. 12 modifica]

Inoltre in questa seconda edizione ho curato di più la pronunzia, segnando col debito accento la voce che si registra, e di certi verbi alcuna delle persone del presente che ricorrono negli esempj;2 ai quali esempj dovranno perciò badare coloro, massime gli stranieri, che vogliono esser guidati anche in questa parte. Quali regole poi ortografiche io abbia seguito, lo dico più innanzi fra i principj del libro. Finalmente ho soggiunto le etimologie, cosa oggi desiderata da molti: ma le mie etimologie sono accennate semplicemente, e vengono poste quando o sono certe, o molto probabili. Se v’è chi voglia fare studj etimologici, può e deve ricorrere ai lavori del Diez, del Caix e dello Zambaldi, dove potrà abbellirsi come vuole.

Siamo, mio buon Morandi, nel secolo dei Vocabolarj: tanti e da tante parti ci cadono addosso. Nonostante io spero che gl’Italiani e gli stranieri continuino ad accogliere lietamente questo, ora che per i molti miglioramenti e per le molte giunte che io vi ho fatto, e per la bella veste che il Barbèra gli ha messa addosso, merita che venga anche più lietamente accolto. Io delle mie fatiche mi terrò più che ricompensato, se il mio Vocabolario darà agl’Italiani la buona e vera lingua dell’uso toscano, e a coloro dei nostri che vivono in terra straniera, e nelle cui mani ardentemente desidererei che pervenisse, ricorderà l’idioma della patria cara.

Il tuo
G. RIGUTINI.



Firenze, 1º marzo 1893.

Note

  1. A pag. 637 del libro intitolato: Prose e Poesie italiane scelte e annotate da Luigi Morandi.
  2. Non pongo l’accento sulla penultima dei verbi polisillabi in are e in ire, essendo tutti parossitoni. Quanto poi all’accentare alcuna delle tre persone del singolare o la terza del plurale del presente di certi verbi, la cosa è necessaria non solo per gli stranieri, ma talvolta anche per gl’Italiani. Poichè cavandosi fuori in ogni Vocabolario i verbi nell’Infinito, non sempre è dato sapere su quale sillaba della prima persona del presente e conseguentemente sulle altre due e sulla terza del plurale cade l’accento tonico. Così in Destinare, Imperare, Imitare, Separare, e tanti altri, è necessario che si accenni come l’accento in quelle persone cade sulla seconda sillaba. Avrei potuto a fianco dell’Infinito suggiungere in parentesi la prima persona; ma ho preferito di farlo dire agli esempj, accennando due o tre volte la voce. Per gli altri segni veggasi la Prefazione alla 1ª ediz., pag. xiv.