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Zecche e monete degli Abruzzi/Manopello

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Guardiagrele Ortona
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VIII.


MANOPELLO.


La storia di Manopello è sì intimamente collegata a quella di Guardiagrele, che, ove l’ordine alfabetico per me adottato non mi avesse conceduto di far succedere a questa quella zecca, avrei dovuto appigliarmi al partito di riunirle ambedue in un solo capitolo, non si potendo l’una dall’altra per avventura disgiungere.

Giace anche Manopello nell’Abruzzo chietino, grossa e già forte borgata, posseduta fino dai tempi del re Roberto dal ramo dei figli d’Orso che, infeudati di quella terra con titolo comitale, assunsero indi il nome di conti di Manopello. Seguitammo già la discendenza di detta linea per insino ai figliuoli e successori di Ugolino, uno de’ quali, Giovanni, fu padre di un Giacomantonio, che nel 1454 ricevette la investitura de’ feudi, e tenne Manopello indiviso prima cogli zii, e poscia, dal 67, coi cugini, nati d’Orso. Lasciò Giacomantonio un figliuolo, di nome Pardo o Leopardo, infeudato alla morte del padre degli stati aviti, ne’ quali ebbe consignore il cugino Leone Giordano II, nipote d’Orso. Estinta il 1505 in Leone Giordano la linea di Orso, non fu più superstite del ramo di Manopello che la linea di Pardo, durata fino al 1553 in Camillo, natogli di Leonarda di Antonello Petrucci.

L’epitafio scolpito sull’elegante monumento, che nella chiesa di S. Maria in Araceli di Roma eresse a Camillo, morto ivi in esiglio, la pietà della vedova, Vittoria della Tolfa, ci fa conoscere l’epoca della nascita dell’ultimo conte di Manopello [p. 84 modifica]e Guardiagrele, accaduta il dì 19 maggio 1487, vale a dire quattro giorni dopo che il suo avo materno andò mozzo del capo per ordine di Ferdinando I. Non avea quindi tocchi i nove anni, quando Carlo VIII invase l’Italia, ond’è manifesto l’errore del Litta1, che ce lo dipinge «partigiano furioso di Francia, che prese le armi contro il proprio re Ferdinando II;» mentre ciò non poteasi asserire che del padre suo. Ad aizzare pertanto l’odio di Pardo contro la casa aragonese dovettero non poco influire i benefici che sotto i re angioini avevano goduto i suoi maggiori, e la perdita di Manopello che Ferdinando I, spodestatine gli Orsini, vendette intorno al 1470 alla università di Chieti per settemila ducati di coronati. Non può quindi dubitarsi ch’egli avesse presa parte attiva nella congiura dei baroni, promossa in principal modo dal suocero suo, Antonello Petrucci; ed è sommamente verosimile che, dopo lo infausto esito delta congiura, si sottraesse colla fuga alle ire dell’inesorabile aragonese.

Invaso poi il regno da Carlo VIII, niuna meraviglia che Pardo impugnasse le armi, nella speranza di ricuperare i perduti stati; e perciò tra i nomi dei baroni che parteggiavano per Francia nel 1495, conservatici da Marino Sanuto2 quello pure leggiamo del nostro Orsino. Rimasti poscia, per la subita dipartita di Carlo, esposti gl’infedeli baroni alla vendetta di Ferdinando II, Pardo fu di bel nuovo spossessato de’ feudi, ma pare ch’ei non fosse disposto a rinunciare il contado e la fortezza di Manopello al comune di Chieti, al cui dominio li avea violentemente ritolti.

Il dì 7 maggio 1497 gl’inviati chietini, presentatisi in Napoli a re Federico, gli domandavano di essere reintegrali nel libero e tranquillo possesso di Manopello col seguente capitolo: Item però che la terra de Manuppello con la sua fortecza tenendo et possidendo la dicta cita pieno jure, et justo titulo [p. 85 modifica]dominando quella pacifice et quiete, lo m. Pardo Ursino, volendo extendere la mano de facto et ex abrupto, per vim et violenciam tolse la detta terra con la fortecza da potere et da mano de la cita predicta, essa cita non essere intesa altrimenti in le soe ragiune; supplica vostra maestà se digne ritornare et reintegrare la possexione de la dicta terra con la sua fortecza, et essa terra de novo concedere iuxta la continentia et tenore de li privilegi quali dicta cita ne tene da la felice memoria de re Ferrante patre de vostra maestà, non obstante qualsevoglia promissione, privilegij, capituli, albarani ne fossero facti da farse; et che de jure era promesso a la dicta università armata manu togliere la possexione de dicta terra da potere del dicto Pardo Ursino andando loro ad campo, et la dampnificò et guastò per la causa predicta; che dicta dampnificatione sia remessa et relaxata a la universita predicta, tanto dell’emenda dampno et interesse have havuto la dicta terra di Manuppello et homini de epsa, como de la pena fersitan incorsa. Alla quale domanda il re apponeva il rescritto: Placet regiae majestati, praevia justicia3.

La ricomparsa delle bandiere francesi nel regno, a sostenere i diritti che Lodovico XII avea redati da Carlo VIII, ridestò le speranze di Leone Giordano II conte di Manopello, succeduto al defunto cugino prima del 1501. Nè, pei mutati destini di quel monarca, fu dato ai chietini di ricuperare il possesso la seconda volta perduto, e passato poi nel 1505, per la morte di Leone Giordano, nel conte di Sarno. Ond’ebbero ricorso il 28 febbraio 1507 a Napoli al re cattolico Ferdinando, interessandolo per la reintegrazione nel dominio, nel modo che segue: Domandano la reintegra di Manoppello colla fortezza e suo distretto, comprata dalla città di Chieti da Ferdinando I, per docati 7000 di coronati, e da lei posseduta per anni quaranta circa, e quindi spogliata da Pardo Orsini in tempo della venuto del rè Carlo VIII, coll’essere passata in potere del [p. 86 modifica]quondam Giordano Ursino, et al presente per la di lui morte passata al conte di Sarno, non purgato vitio spolii; et che a tale effetto le sia amministrata giustitia tanto sul possessorio quanto sulla proprietà dall’udienza della provincia di Abruzzo. Il re cattolico soggiunse al ricercato capitolo: Regia majestas opportune providebit4. E ben provide, infeudandone invece il suo generale Barlolomeo d’Alviano, in cui potere non rimase però che due anni. Venghiamo ora alla moneta coniata, secondo il mio vedere, da Pardo Orsini nella rocca di Manopello.

La scoperta della zecca di Sora, accertata dalle monete di Piergiampaolo Cantelmi, che in essa improntaronsi nella seconda metà del secolo decimoquinto, chiarì cotal parte della numismatica italiana di Carlo VIII, che ormai più non resta inesplicato che un solo pezzo di rame di quella importante serie. Ei sarà dunque di non lieve momento il conghietturarne, sulla base degli storici avvenimenti or ora accennati, l’attribuzione; e con ciò la nummografia della calata in Italia di quel monarca, sì dottamente iniziata dal Fusco e dal Cartier, verrà a ricevere il suo compimento. Fra i cavalli di Carlo VIII, uno ne diede il Fusco5, il cui disegno si vede ripetuto sotto il numero 41 della .

D. klvs * d * g * rex fr * Arme incoronata di Francia.

R. . . .ↄvs * vr * co * ma . . Croce ancorata accostata da quattro rosette.

La unicità dell’esemplare che potè il Fusco vederne lasciava, nel guasto della leggenda, libero il campo alle ipotesi; alle quali egli si appigliò, ingegnandosi di rivendicare, non senza grave titubanza, alla città di Como la finora indecifrabil moneta. Riporto le sue stesse parole:

«Il rovescio della descritta moneta per mala ventura è di tal sorta consunto dalla lunghezza del tempo, da non potersi [p. 87 modifica]chiaro raccogliere il sentimento delle impressevi parole. Dappoichè vi mancano due lettere nel suo principio, ed altrettante delle rimanenti, la prima e l’ultima, non sono di certa lezione. Tuttavolta parendomi esse un c ed un i, non possono formare altra leggenda, se non ...cvs*vr*co*mi*. Cosa dire si volessero questi monosillabi, non so con certezza fissare; però sembrandomi straniera la fabbrica di questa moneta alle nostre regioni, col supplire i due mancanti elementi, leggerei a tal modo: decus urbis Comi. Quindi ben si vede intendere io che la croce effigiata nel rovescio della moneta, vi fosse stata posta come principale ornamento della città di Como, a simiglianza di tante altre italiane, che gloriavansi in simile guisa, e che io qui riferirei, se non stimassi di arrecare noja al leggitore coll’allegare cose ovvie. Egli è pure il vero che a questi tempi la città di Como obbediva a Lodovico il Moro duca di Milano, ma re Carlo comunque da lui chiamato in Italia, pure i costui inganni temendo, per siurtà la ridusse in suo potere6. Il volere perciò improntata nella città di Como la descritta moneta da re Carlo, è conghiettura cui risponde la lezione della sua leggenda, non che l’istorico riscontro. Purtuttavolta se nelle altre mie assegnazioni non ho mancato di rimettermi al giudizio dei saggi, dovrò farlo maggiormente in questa, che trattasi di un monumento non patrio, e perciò non capace a procurare quella interna persuasione, che assai più sentesi, di quel che non sa manifestarsi»7.

La opinione del Fusco non parve accettabile al Cartier, che al surriferito luogo dello scrittore napoletano soggiungeva: «Je vais plus loin que M. Fusco, dans ses doutes si légitimes, relativement à cette attribution; je suis persuadé que Charles VIII n’a pas frappé monnaie à Còme ni dans aucune autre ville de l’Italie supèrieure, excepté à Pise, et notre légende [p. 88 modifica]ne rappelle pas, d’une manière probable, le nom de Còme. Je pense que cette monnaie, dont le type est si positivement celui d’une pièce de Chieti, pourrrà être de cette ville, mais surfrappée et fautive, ou d’une agrégation de villes»8.

A me invece gli elementi superstiti, primo ed ultimo, delle lettere componenti la scabrosa leggenda, ma più la rimembranza degli appunti poco addietro toccati della biografia di Pardo Orsini e della storia di Manopello, rendono agevole e chiara la restituzione e la interpretazione della epigrafe, pardvs.vr.co.ma, Pardus Ursinus comes Manuppelli. Vedremo, occupandoci della zecca di Sora, un nuovo esempio del diritto della moneta esercitato da un altro barone fautore di Carlo VIII; e ancor meno dee farci specie il vederlo dall’Orsino, quando pensiamo che tal diritto non era già nuovo nel suo casato, perciocchè due volte almeno i suoi maggiori aveano battuto moneta nel feudo di Guardiagrele. Mi si domanderà piuttosto, perchè non reputi più probabile che Pardo riaprisse la officina di Guardiagrele, invece di crearne una nuova; al che risponderò, non aversi certezza che l’Orsino, alla venuta di Carlo VIII, altro de’ feudi aviti ricuperasse, all’infuori di Manopello, che aveva armata mano ritolto ai chietini, e non trovarsi sulla moneta in discorso niun indizio della zecca di Guardiagrele, i cui conii andavano contraddistinti dalle sigle g. v. a. r. Che se quivi si fosse riattivata la zecca, quelle lettere poteano opportunamente trovar luogo dalla banda ov’è impresso lo scudo di Francia, in quella guisa che le sigle sulmonesi s. m. p. e., che disposte in croce nelle monete dei durazzeschi tengono il centro dell’area, in quelle di Carlo VIII furono ripetute nell’esergo del lato ove stanno il nome e l’arme del re. Le quali considerazioni, desunte dalla moneta stessa e dalla storia, mi fanno ritenere che Pardo Orsini a Manopello, e non altrove, abbia stampata la preziosa monetuccia che formò argomento di questo capitolo.


Note

  1. Fam. Orsini, tav. VI.
  2. Diarii mss. nella imp. r. libreria di S. Marco in Venezia, T. I, p. 165.
  3. Ravizza, o. c., III, 21
  4. Ravizza o. c., III, 33.
  5. G. V. Fusco, Monete di Carlo VIII, tav. VI, n. 10. ― Cartier, l. c., tav. V, n. 13.
  6. Guicciardini, I. IV.
  7. G. V. Fusco, o. c., p. 83-84.
  8. Cartier, l. c., p. 64.