Teatro greco/Eschilo

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Indice del libro

In un saggio pubblicato negli anni quaranta, il filologo inglese Gilbert Murray definiva Eschilo come il «creatore della tragedia».[1] Al di là delle diverse interpretazioni storiografiche, è comunque certo che la tragedia greca, per come la conosciamo, deve molto alle innovazioni di Eschilo. Autore a cavallo tra la poesia arcaica e quella classica, compose tragedie che si basavano su un rigido sistema di valori e risentivano delle strutture che caratterizzavano la società greca dell'epoca arcaica. Allo stesso tempo, può però essere considerato il fondatore del linguaggio tragico, con il suo tono aulico ed elevato.

Cenni biografici[modifica]

Eschilo. Musei capitolini, Roma

Eschilo nacque a Eleusi nel 525 a.C., figlio di un proprietario fondiario di nome Euforione. Sappiamo che partecipò alla prima guerra persiana, combattendo a Maratona nel 490, e che iniziò presto l'attività di tragediografo. Dalle fonti risulta una sua partecipazione agli agoni della LXX Olimpiade, nel 499-496 a.C., durante i quali ebbe come avversari Pratina e Cherilo. In seguito, nel 479, celebrò la vittoria degli ateniesi a Platea nella seconda guerra persiana portando sulle scene i Persiani, che gli valse il primo posto agli agoni drammatici.

Durante la maturità trascorse alcuni anni alla corte di Ierone a Siracusa, forse attratto dalla fama di mecenate del sovrano. Secondo alcune fonti compose anche un dramma, Le Etnee, con cui celebrò la città di Aitna, fondata dal re attorno al 475. Nel 468 Eschilo era però di nuovo ad Atene, dove fu sconfitto agli agoni da Sofocle. Tornò alla vittoria l'anno seguente con la trilogia tebana e nel 458 con il ciclo dell'Orestea. In generale, fu un fervente democratico e poté godere a lungo dei favori del pubblico: vinse molti agoni drammatici, dai tredici ai ventotto (il numero varia a seconda delle fonti). Negli ultimi tornò in Sicilia, alla corte di Ierone, e morì a Gela 456 a.C.

Stando alle fonti, anche altri membri della sua famiglia furono dei tragediografi. Il figlio Euforione, per esempio, vinse nel 431 contro Sofocle ed Euripide. Anche un altro suo figlio, Eveone, compose drammi, e lo stesso fece un figlio di sua sorella, Filocle, che con le sue tragedie sconfisse l'Edipo re di Sofocle. Ma la sua discendenza comprendeva anche altri poeti tragici, tra i quali ci sono rimasti i nomi di Morsimo, Astidamante, Astidamante II e Filocle II.[2]

Caratteri della drammaturgia di Eschilo[modifica]

A Eschilo, come già ricordato, dobbiamo alcune importanti innovazioni che riguardano il linguaggio e la prassi teatrale. Tra queste, le più importanti riguardarono l'introduzione di un secondo attore sulla scena (fino ad allora ce n'era uno solo) e il maggiore spazio dato alle parti parlate rispetto a quelle del coro.[3] Il suo lavoro di perfezionamento del genere drammatico culminò però nella composizione di tetralogie con un argomento comune: in precedenza, infatti, le tragedie presentate da ciascun poeta potevano trattare ciascuna temi differenti.[4] Nell'unico ciclo completo che ci sia giunto, l'Orestea, ciascuna tragedia rappresenta solo una fase della vicenda e acquista senso pieno unicamente all'interno del ciclo.

Per quanto riguarda il linguaggio, la caratteristica principale delle tragedie di Eschilo è la loro grandiosità. Il ricorso alla trilogia porta a strutture complesse, in cui l'azione procede lentamente e con solennità, secondo una caratteristica che era tipica della poesia arcaica. I suoi personaggi inoltre sono statici, impenetrabili e irremovibili nell'affrontare il loro destino, fino alle più estreme conseguenze. Sebbene abbiano una forte volontà di affermare se stessi, non riescono comunque a sfuggire alla necessità: il loro è un mondo ancora sovradeterminato, in cui l'autonomia dei personaggi è limitata da forze invisibili e inarrestabili. Le loro azioni sono sempre dettate da fattori esterni, come divinità o demoni, che influenzano il comportamento degli uomini e li portano alla sciagura. Al di sopra del mondo degli uomini c'è quello sereno degli dèi, chiamati a garantire la dikē (δίκη), la giustizia, intesa in termini religiosi come la legge imposta dagli dèi agli uomini, con la quale viene spiegato il difficile equilibrio che sussiste tra la colpa e la punizione.

I temi principali delle sue opere affondano le radici nella società greca arcaica: vi troviamo la vendetta, la hybris (ὕβρις), il rapporto tra il diritto familiare e quello della polis, e la contaminazione collettiva, che lega tra di loro le generazioni di una famiglia. Tutto questo viene descritto attraverso un linguaggio straniante, lontano dal quotidiano, che ricorre a parole auliche, neologismi, inversioni sintattiche, metafore ricercate e insolite.[5]

Le tragedie[modifica]

Le fonti antiche attribuiscono a Eschilo una novantina di titoli; di questi però ci sono giunte solo sette tragedie, selezionate durante l'età imperiale: la trilogia dell'Orestea (composta da Agamennone, Coefore ed Eumenidi), i Persiani, i Sette contro Tebe, le Supplici e il Prometeo incatenato.

Persiani[modifica]

Rilievo di Serse nella sua tomba a Naqsh-e Rustam

I Persiani (Πέρσαι) furono rappresentati nel 472 a.C., a meno di un decennio dalla vittoria ateniese a Salamina, che è il tema dell'opera. È inoltre la più antica tragedia che ci sia giunta integralmente. Dalle fonti sappiamo che in quell'anno Eschilo vinse con la tetralogia che comprendeva, oltre ai Persiani, anche le tragedie Fineo (che riprendereva un momento della saga degli Argonauti) e Glauco Potnieo (dedicato alla morte di Glauco), e il dramma satiresco Prometeo Pyrkaeus (che mostrava Promoteo insieme ai satiri).[6]

Trama

La tragedia si svolge alla reggia di Susa, dove il coro composto da vecchi Persiani attende notizie dalla guerra e teme per il peggio. Atossa, vedova di Dario e madre di Serse, dice di avere avuto pessimi presagi e orribili sogni, che sembrano preannunciare la disfatta di Serse. Questa viene confermata alla fine da un messaggero, che racconta della sconfitta dei Persiani a Salamina. Atossa e il coro si abbandonano ai lamenti. La donna inoltre invoca il marito Dario, il cui spirito si palesa sulla scena, criticando l'arroganza del figlio e preannunciano una nuova sconfitta a Platea. Infine, giunge sulla scena anche Serse, che instaura un dialogo, fatto di lamenti, con il coro.

È una tragedia che presenta ancora caratteri arcaici, come l'impiego di due soli attori, la staticità della situazione di attesa, la lentezza dei discorsi, l'estensione dei cori. C'è però, allo stesso tempo, un tentativo di raccontare una situazione in divenire: la rovina dei persiani viene anzitutto presagita dal coro, poi richiamata dai sogni della regina Atossa e poi, quando l'attesa viene portata all'estremo, un messaggero giunge con la notizia della disfatta. Tema centrale della tragedia è l'encomio di Atene, capace di vincere contro la potenza persiana. Come ribadito da Dario nella sua apparizione, Serse si è macchiato di hybris e accecato di potere ha cercato di ridurre a sudditi i liberi cittadini della Grecia. La sconfitta è quindi la punizione per la sua colpa. Ma sullo sfondo c'è anche la constatazione della condizione umana e dell'infelicità a cui è votato ogni tentativo dell'uomo di rendersi artefice del proprio destino.[7]

Sette contro Tebe[modifica]

I Sette contro Tebe (Ἑπτὰ ἐπὶ Θήβας) furono rappresentati nel 467 a.C. e facevano parte di una trilogia sul destino dei Labdacidi (la dinastia sovrana di Tebe), composta da Laio, Edipo e dal dramma satiresco Sfinge, tutte e tre andate perdute. In quell'anno, Eschilo si aggiudicò la vittoria.

Trama

È in corso una guerra tra i due figli di Edipo: Eteocle, che è stato riconosciuto re di Tebe, e Polinice, che cinge d'assedio la città. Sull'acropoli di Tebe, Eteocle guida la resistenza, quando irrompe il coro delle donne tebane, atterrite per le violenze. Il re riceve poi un messaggero, che gli riferisce informazioni sui sette campioni argivi schierati contro la città, tra i quali c'è anche Polinice. A loro Eteocle contrappone, in difesa di Tebe, altri sei guerrieri, riservando a se stesso lo scontro con il fratello. Segue un canto del coro, dopo il quale il messo rivela che gli assalitori sono stati respinti, ma che i due fratelli si sono feriti a morte a vicenda. Nel finale (che però si sospetta sia un'interpolazione di un grammatico, per creare un legame con l'Antigone di Sofocle) viene decretato che Polinice, nemico della città, non riceverà sepoltura, provocando lo sdegno della sorella Antigone.

Come i Persiani, anche i Sette contro tebe prevedono due soli attori. La prima fase è dominata da Eteocle, che si attribuisce il ruolo di difensore della città, fino a quando non prende la solenne decisione di fronteggiare il fratello sul campo. È l'apice del dramma e viene posto da Eschilo al centro della tragedia: la vittoria ha avuto un prezzo enorme, la morte di Eteocle e Polinice, e quindi la fine della dinastia regnante. In questo modo si doveva chiude il ciclo, che nel disegno della trilogia era stato iniziato con le due tragedie precedenti. Il coro nel finale piange la sorte dei due giovani, morti per scontare la pena per un male che non hanno commesso, una sorte che può essere allargata a quella dell'umanità intera.[8]

È passato alla storia il giudizio di Gorgia, che definì i Sette contro Tebe un dramma «pieno di Ares»[9] Eschilo descrive Eteocloe in uno dei momenti di massimo eroismo, impegnato a difendere la propria patria. Questo tuttavia lo porta a scontrarsi con il fratello: il risultato della situazione, l'altra faccia della medaglia, è che chiunque dei due figli di Epido avesse vinto, sarebbe in ogni caso diventato fratricidia. Si rivela così il senso del tragico proprio di Eschilo, per il quale ogni azione è un groviglio inestricabile di necessità, merito e colpa: l'uomo è quidato dalla necessità ad agire e non può sottrarvisi, anche se già sa che dovrà compiere un delitto, e impegna nell'azione anche la sua stessa volontà. Eteocle in questo caso è il difensore della città, ma allo stesso tempo è anche il figlio di Edipo, l'erede di una stirpe maledetta, mosso a scontrarsi con un suo consanguineo. Quando decide di combattere il fratello, sa che andrà incontro alla rovina, eppure sa anche di non potere sottrarsi al volere degli dèi.[10]

Supplici[modifica]

A una data incerta, ma comunque successiva ai Sette contro Tebe, risalgono le Supplici (Ἱκετίδες), che era la prima di una trilogia dedicata alle Danaidi che comprendeva Egizi, Danai e il dramma satiresco Amimone.

Trama

Danao e le figlie, che compongono il coro, chiedono aiuto a Pelasgo, re di Argo, per difenderle dai figli d'Egitto, re dell'Egitto, che vogliono sposarle con la forza. Dopo lunghe meditazioni Pelasgo, che ha rapporti di parentela con Egitto, accetta di proteggere le supplici, onorando una sacra legge; la decisione viene poi ratificata dall'assemblea cittadina. I figli d'Egitto raggiungono la città reclamando le Danaidi, ma a loro si oppone Pelasgo, che alla fine li respinge. Le fanciulle possono così fare ingresso nella città, ma la guerra è inevitabile.

Nelle Supplici il coro occupa il centro dell'azione, e a questo ruolo preminente corrisponde una maggiore estensione delle parti corali. Per certi aspetti la tragedia è ancora legata a una fase arcaica, prevede ancora due soli attori sulla scena e i dialoghi sono ancora molto rigidi. Tuttavia un elemento di innovazione è dovuto al dilemma che deve affrontare il personaggio di Pelasgo, diviso tra l'accettare la protezione delle giovani supplici e inimicarsi i parenti, con il rischio di una guerra, oppure scacciare le fanciulle e violare la legge divina che richiede che si dia assistenza agli esuli. Analizzando la situazione con il raziocinio proprio della cultura ellenica, Pelasgo alla fine prende la decisione di accogliere le fanciulle.[11]

La guerra è inevitabile, e nella seconda tragedia della trilogia, Egizi, si narrava molto probabilmente la sconfitta degli Argivi e la morte di Pelasgo. Le Danaidi, costrette a sposare gli Egizi, si vendicavano però uccidendo i loro mariti durante la prima notte di nozze. L'inizio delle Danaidi doveva essere ambientato la mattina successiva alla strage. Dalle fonti, sappiamo che veniva raccontata la storia di Ipermestra che, innamoratasi dello sposo Linceo e mossa a pietà, lo risparmia: Ipermestra viene probabilmente sottoposta a un processo e condannata. La trilogia si concludeva, in ogni caso, con l'affermazione della volontà divina: dalla discendenza di Ipermestra e Linceo sarebbe nato infatti Eracle, uno dei maggiori eroi greci. Nel dramma compariva anche Afrodite che, in alcuni frammenti che ci sono giunti, tesseva un elogio dell'amore e parlava dell'importanza dell'Eros cosmico nelle nozze tra Cielo e Terra. In tutto questo è inoltre significativo che nella vicenda anche gli antagonisti, cioè gli Egizi, alla fine trovino un posto nell'ordinamento del mondo stabilito dalle divinità.[12]

Agamennone[modifica]

L'unica trilogia integra che ci è giunta dall'antichità è l'Orestea, formata dal'Agamennone, dalle Coefore e dalle Eumenidi, a cui si aggiungeva il dramma satiresco Proteo, andato perduto. Con essa Eschilo vinse nel 458 a.C. e concluse la sua carriera. La trilogia presenta maggiore libertà rispetto alle opere precedenti, a cominciare dall'utilizzo del terzo attore (anche se non sono ancora previste delle vere e proprie scene a tre, come accadrà invece nel teatro di Sofocle).

L'Agamennone (Ἀγαμέμνων) è la tragedia che apre la trilogia, e racconta dell'uccisione del re dopo il suo ritorno dalla guerra di Troia per mano della moglie, istigata dall'amante Egisto.

Trama

Clitemnestra e l'amante Egisto apprendono del ritorno di Agamennone ad Argo dopo la guerra di Troia. La notizia viene confermata dalla regina stessa al coro dei vecchi Argivi. Quando Agamennone giunge infine al palazzo, viene accolto con calore da Clitemnestra, che lo invita a entrare nel palazzo passando sul tappeto porpora deposto per l'occasione. Rimasta sola sulla scena, Cassandra rivela al coro che presto sarà uccisa insieme al re. Il ritorno in scena di Clitemnestra è preceduto dalle grida di Agamennone: la regina, con una scure in mano e in preda all'esaltazione, racconta al coro la sua vendetta. Compare così sulla scena anche Egisto, rimasto fino ad allora in attesa, che rientra nel palazzo con Clitemnestra, nonostante le proteste del coro.

La tragedia di Agamennone aveva degli antefatti importanti: il padre dell'eroe, Atreo, aveva ucciso i figli del fratello Tieste e gli aveva dato in pasto le loro carni. L'unico sopravvissuto alla strage era stato Egisto, che nella tragedia vendica la morte dei fratelli uccidendo il re. Agamennone stesso, poi, aveva sacrificato la figlia Ifigenia alla dea Artemide per propiziare la partenza delle navi greche verso Troia. Tutti questi precedenti fanno da sfondo alle prime parti dell'Agamennone, dove il ritorno del re genera nella reggia gioia per la vittoria, ma anche angoscia per il sangue versato durante la guerra e timore che il re possa subire le conseguenze di questo sangue. Il re è infatti al centro dei piani di vendetta di Clitemnestra, un personaggio che rivela una particolare profondità psicologica: il suo odio per il marito è dovuto al suo dolore di madre, che ha visto la figlia uccisa, alla sua devozione verso l'amante Egisto, che vuole così vendicarsi di Atreo, e alla gelosia, nata dal fatto che Agamennone giunge alla reggia con Cassandra, diventata sua concubina. L'epilogo, che segue l'uccisione del re, è di grande intensità, con Clitemnestra che irrompe sulla scena grondante di sangue per raccontare l'accaduto.[13] La regina è consapevole del delitto, non ne prova rimorso ma si rende conto di essere un anello della catena di colpe che discende dal passato della stirpe atride.[14]

Coefore[modifica]

Le Coefore (Χοηφόροι), seconda tragedia della trilogia, è ambientata alcuni anni dopo la morte di Agamennone.

Trama

Oreste, figlio di Agamennone, visita la tomba del padre ad Argo, accompagnato da Pilade. Qui si incontra con la sorella Elettra, che è stata mandata dalla madre, insieme alle donne del coro (le coefore, cioè "portatrici di libagioni"), a compiere dei sacrifici per il defunto. La regina ha infatti avuto un sogno carico di presagi, che l'hanno sconvolta. Dopo il riconoscimento tra i due fratelli, il coro invoca Agamennone come protettore dei figli, che lo vogliono vendicare. Oreste mette in atto il suo piano: presentatosi sotto le spoglie di un messaggero, dice alla madre di essere morto. Clitemnestra manda a chiamare Egisto, e quando questi arriva Oreste lo uccide; poco dopo, nonostante invochi pietà al figlio, anche Clitemnestra viene uccisa. Appena compiuto il gesto, Oreste viene però subito aggredito dalle Erinni, spiriti vendicatori, ed è costretto a fuggire.

La tragedia si svolge in un crescendo di tensione che passa attraverso il riconoscimento tra i due fratelli Oreste ed Elettra, e il pianto, comune con il coro, sulla drammatica sorte del re Agamennone. Da lì la situazione precipita, portando rapidamente al duplice omicidio. Oreste però sente da subito il peso della sua vendetta, nonostante proclami che il suo è stato un atto di giustizia. Questo peso è manifestato dalle Erinni, che perseguitano Oreste, e che simboleggiano come la soluzione della tragedia dei figli di Agamennone sia ancora lontana.[15]

Le Coefore presentano alcuni parallelismi con l'Agamennone, soprattutto per quando riguarda la struttura. Anche in questo caso, infatti, un personaggio è costretto a riconoscere di essere entrato all'interno del cerchio di delitti e colpe che continua a segnare gli Atridi. E se in un primo momento Oreste attribuisce la decisione di uccidere la madre a un comando di Apollo delfico, nel seguito della tragedia è l'eroe riporta su se stesso la volontà di compiere il matricidio. Si rivela così il dualismo tragico tipico di Eschilo: Oreste che vendica il padre è un figlio pio che obbedisce al dio, ma allo stesso tempo finisce per rientrare ancora nella catena di delitti della sua stirpe. Di fronte a Clitemnestra che lo chiama "figlio" e invoca pietà rivendicando il suo ruolo di madre, Oreste ha un cedimento e la sua vendetta rischierebbe di fallire se non fosse per l'intervento di Pilade che, in qualità di portavoce di Apollo, parla per la prima e unica volta in tutto il dramma e lo sprona a muovere contro la madre. Le parole di Pilade sono a questo punto significative: la volontà di Oreste non può andare oltre, ed è quindi necessario richiamare le parole del dio. Assalito infine dalle Erinni, Oreste scappa a Delfi dalla divinità che gli ha ordinato il delitto.[16]

Eumenidi[modifica]

Oreste e le erinni su un cratere del IV secolo a.C. British Museum, Londra

La soluzione si ha nella terza e ultima tragedia della trilogia, le Eumenidi (Εὐμενίδες).

Trama

All'interno del tempio di Delfi, la sacerdotessa sorprende Oreste che viene perseguitato dal coro delle Erinni. Interviene in suo soccorso Apollo, che ammansisce le Erinni e invia Oreste ad Atene, dove potrà essere purificato. Le Erinni però vengono risvegliate dallo spirito di Clitemnestra e tornano a inseguire il giovane. Sull'acropoli di Atene viene lasciato ad Atena il compito di giudicare il delitto commesso da Oreste; la dea, a sua volta, lascia il giudizio a un'assemblea di dodici cittadini ateniesi, a cui le Erinni e Apollo racconto i fatti. La giuria si divide equamente: sei voti sono per l'assoluzione e sei per la condanna. Atena decide quindi di assolvere Oreste. La minaccia delle Erinni di rivalersi sulla città di Atene viene scongiurata dall'intervento della dea; abbandonati gli intenti vendicativi, le Erinni si trasformano nelle Eumenidi, divinità benigne protettrici della città.

Nelle Eumenidi Eschilo va oltre il mito, che magnificava la potenza purificatrice di Apollo: il dio sottoponeva Oreste a particolari riti di espiazionne e gli donava un arco, con il quale poteva difendersi dalle Erinni. Nella tragedia eschilea, Oreste si sposta invece ad Atene e le colpe degli Atridi, per la loro gravità, sono tali che un rito di purificazione non può bastare a ristabilire l'ordine di Dike, la giustizia.[17] Le Eumenidi, e in generale tutta l'Orestea, risentono infatti della trasformazione che stava attraversando Atene in quegli anni. La trilogia è divisa tra un passato segnato dalla legge del taglione, in cui le famiglie avevano il compito di vendicare un delitto, e il presente, in cui la comunità ha il diritto di intervenire nei fatti di sangue. Nelle Eumenidi questo passaggio viene mostrato attraverso il conflitto tra le Erinni, antiche divinità del sangue che, implacabili, chiedono conto a Oreste dell'uccisione della madre, e le due divinità olimpiche di Apollo e Atena, le quali invece prendono le difese dell'eroe che ha agito per vendicare l'uccisione del padre.[18]

Decisivo è il ruolo di Atena, presso la cui statua, ad Atene, Oreste chiede asilo: la dea stabilisce che dei fatti di sangue si deve occupare un apposito tribunale composto da cittadini, che deve ascoltare le ragioni del corifèo (quindi delle Erinni) e quelle di Apollo, per poi prende una decisione. La comunità assume direttamente l'amministrazione della giustizia e in questo modo si impone una norma basilare del vivere civile; inoltre, il tribunale valuta non solo il fato, ma anche i moventi e le intenzioni, riuscendo così a porre fine al ciclo delle uccisioni attraverso la pacificazione. Tuttavia la decisione dell'Areopago termina con un ex aequo, l'assemblea si divide in due sulla scelta. Gli uomini non sono quindi in grado di risolvere il conflitto, e alla fine gli unici a poterlo fare sono gli dèi: è Atena infatti che decide per l'assoluzione di Oreste.[19] Eschilo quindi esalta lo stato come fonte del diritto, ma allo stesso tempo ne mostra i limiti.

C'è però anche dell'altro: dopo un lungo contrasto, Atena riesce a convertire le Erinni. Le divinità figlie della Notte provengono dal sottosuolo, che è il regno dei morti ma anche il luogo da cui scaturisce la vita, e possono quindi essere sia persecutrici sia benevole. Ad Atene viene dedicato a loro un altare, e le divinità, divenute Eumenidi, non mancheranno di benedire la città. Una processione festante accompagna le dee alla loro nuova fede. Oreste è stato purificato, il conflitto tra le divinità è stato risolto e tutto è avvenuto per volontà degli dèi e del fato.[20]

Prometeo incatenato[modifica]

Del Prometeo incatenato (Προμηϑεὺς δεσμώτης) non si conosce il periodo in cui fu composto e portato in scena, e parte della critica ha messo persino in dubbio la paternità dell'opera, che sembra lontana dallo stile di Eschilo. Protagonista del dramma è il titano Prometeo, il benefattore degli uomini, colui che donò loro il fuoco e, in senso ampio, la civiltà. Zeus però lo considera un ostacolo ai suoi piani e per questo lo fa imprigionare.

Trama

Prometeo viene incatenato da Efesto, aiutato da Kratos (Violenza) e Bia (Forza), a una rupe isolata ai confini del mondo. Una volta rimasto solo, il titano si abbandona ai lamenti e inveisce contro Zeus, che lo ha punito ingiustamente a causa dei benefici che ha donato agli uomini. La sua sorte viene compianta sia dal coro delle Oceanine, sia da Oceano in persona, che lo invita senza successo ad abbandonare ogni desiderio di ribellione. Il titano però mantiene un ostinato contegno. Riceve anche la visita di Io, l'amante di Zeus che fu tramutata in vacca e costretta da Era a vagare per il mondo: a lei Prometeo rivela che sul Nilo Zeus la renderà madre di Épafo, re dell'Egitto, e dalla sua stirpe nascerà Eracle. Dopo la partenza di Io, Prometeo rivela al coro di conoscere un segreto che gli dà potere su Zeus. Il dio ha infatti una relazione con Teti, dalla quale nascerà un figlio più forte di lui, che lo spodesterà così come Zeus aveva fatto con il padre Crono. Le sue parole vengono sentite dagli déi e Prometeo viene raggiunto da Ermes, che gli chiede di rivelargli il suo segreto. Prometeo si rifiuta di parlare e Zeus, adirato, fa sprofondare la rupe a cui è incatenato nel Tartaro.

A partire dall'Ottocento, i filologi hanno evidenziato molte caratteristiche di questo dramma che non si riscontrano nel resto della produzione eschilea, a cominciare da determinate scelte lessicali e dal linguaggio, che risulta insolitamente semplice. Inoltre, è difficile con la drammaturgia eschilea l'immagine che viene data qui di Zeus, presentato come un sovrano duro e violento che provoca sofferenze a Prometeo e a Io. Forse molte di queste difficoltà venivano risolte dalle altre opere che componevano la trilogia, ma che non è stato possibile individuare con certezza.[21]

Note[modifica]

  1. Gilbert Murray, Aeschylus: The Creator of Tragedy, Clarendon Press, 1940.
  2. Albin Lesky, Storia della letteratura greca, Milano, Saggiatore, pp. 296-297.
  3. Aristotele, Poetica 1449a.
  4. Albin Lesky, Storia della letteratura greca, Milano, Saggiatore, pp. 298-299.
  5. Giulio Guidorizzi, Il mondo letterario greco. L'età classica, vol. 1, Torino, Einaudi, 2000, pp. 41-44.
  6. Albin Lesky, Storia della letteratura greca, Milano, Saggiatore, p. 299.
  7. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, pp. 185-186.
  8. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, pp. 186-187.
  9. DK 82 B24.
  10. Albin Lesky, Storia della letteratura greca, Milano, Saggiatore, pp. 303-304.
  11. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, pp. 187-188.
  12. Albin Lesky, Storia della letteratura greca, Milano, Saggiatore, p. 308.
  13. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, pp. 189-190.
  14. Albin Lesky, Storia della letteratura greca, Milano, Saggiatore, p. 314.
  15. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, p. 191.
  16. Albin Lesky, Storia della letteratura greca, Milano, Saggiatore, pp. 314-316.
  17. Albin Lesky, Storia della letteratura greca, Milano, Saggiatore, p. 317.
  18. Walter Otto, Gli dèi della Grecia, Milano, Adelphi, 2004, pp. 28-30.
  19. Dario Del Corno, Letteratura greca. Dall'età arcaica alla letteratura dell'età imperiale, Milano, Principato, 1995, pp. 192-194.
  20. Albin Lesky, Storia della letteratura greca, Milano, Saggiatore, p. 319.
  21. Albin Lesky, Storia della letteratura greca, Milano, Saggiatore, pp. 309-310.