Ada Negri

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Ada Negri

Ada Negri (1870 – 1945), poetessa italiana.

Citazioni di Ada Negri[modifica]

  • Archi.
    Dietro la chiesa parrocchiale, a destra, lungo la via che conduce al chiostro vuoto di Santa Teresa, e più in là, nei meandri di Capri: archi, buio e frescura.
    So che, a poca distanza, c'è la gran luce meridiana, e il mare: un mare immobile, incandescente, dal quale, sulla curva dove si confonde col cielo, Ischia, Procida, la penisola Sorrentina e il pinnacolo acceso del Vesuvio escono come dal grembo del caos. Ma oggi nel riflesso del sole e del mare, le disperate rupe di Monte Solaro e del Castiglione dànno, a guardarle, la follia; e le viuzze interne di Capri dugentesca sono invece meravigliosamente riposanti.
    Muraglie e volte, grigie: grigio-perla, grigio-argento, grigio-plumbeo, grigio-lapillo; una fusione di grigi dolce agli occhi come il velluto alle dita: rotta qua e là da risate rosse e verdi (grembialucci di bambini): da raggère dorate o nerazzurre (zazzere di bambini): da stelle scintillanti nella penombra (occhi di bambini). Il mare?... Il cielo?... Chi ci pensa?... Archi. Archi. Archi.
    L'uno entra nell'altro con la più snella naturalezza del mondo, senza che una regola architettonica ve lo costringa.[...] Tutte le forme; tutti gli stili; a sesto acuto: a mezzo sesto: a gàveta: a botte: a schiena d'asino col classico profilo del basto.Tutti gli adattamenti: a riparare un balconcino zampillante di gerani sanguigni: ad accarezzare un tubo di grondaia: a difendere una rampa di scala esterna: e poi, così, senza ragione, per puro lusso estetico, per delizia degli occhi: alti, bassi, storti, mozzi, duri e scarni, pieni e voluttuosi: archi, archi, archi.[1]
  • Batte la pioggia con tinnir di nacchere | della magnolia sulle foglie dure: | compatta e stralucente è la magnolia | sotto il lavacro; ed ogni foglia è lastra | brunita ove rimbalzano le gocciole. | S'aprono invece di tra il verde i calici | dall'aroma che sta fra amore e morte | pallidamente offerti al gran ristoro | dell'acqua, e in sé l'accolgono: viventi | acquasantiere, a cui nessuna mano | attingerà pel Segno della Croce.[2]
  • [Sui fascisti] Giovani così radiosi di corpo e di anima che sembrano giovani re.[3]
  • Ho consegnato il manoscritto delle mie novelle "Le solitarie". Vi è contenuta tanta parte di me, e posso dire che non una di quelle figure di donna che vi sono scolpite o sfumate mi è indifferente. Vissi con tutte, soffersi, amai, piansi con tutte.[4]
  • Io non ho nome. — Io son la rozza figlia | dell'umida stamberga; | plebe triste e dannata è mia famiglia, | ma un'indomita fiamma in me s'alberga.[5]
  • Sui campi e sulle strade | silenziosa e lieve | volteggiando, la neve cade. | Danza la falda bianca | nell'ampio ciel scherzosa, | poi sul terren si posa stanca.[6]
  • [Su Linda Murri] Tu cerchi, nel sogno, due teste | di bimbi - i tuoi bimbi - lontani: | non v'è sangue sulla tua veste, | non v'è sangue sulle tue mani. | [...] | Chi sa? T'assolveranno, o Madre. | Chi sa? Ti daranno ai figliuoli. | Fra un grumo di sangue ed un carcere | oh, sarebbero troppo soli.[7]
  • Venne in cerca di te | nella calda notte, lungo le strade dai fanali azzurri. | Tutte le strade, allora, la notte erano azzurre | come le vie dei cieli, | e il volto amato | non si vedeva: si sentiva in cuore. | E ti trovò, o dolcezza, nell'ombra | casta, velata d'un vapor di stelle. | Fra quel tremolio d'astri | discesi in terra, | in quell'azzurro di due firmamenti | l'uno a specchio dell'altro, ella ella pure | rispecchiò in te l'anima sua notturna. | E ti seguì con passo da bambina | senza sapere, senza vedere, tacita e fluida. | E allor che il giorno apparve | con fresco riso roseo su l'immenso turchino, | non trovò più se stessa | per ritornare.[8]

I canti dell'isola[modifica]

Incipit[modifica]

Ho male di luce, ho male di te, Capri solare.
Oh, troppo bella, oh, simile all'onda sul capo del naufrago.
Ma forse ai miei occhi non sei che un raggiante capriccio del prisma,
una dorata nuvola emersa dal fiato del mare?...
No. Sento il tuo cuore che vive, che batte, in un cavo di roccia
del Pizzolungo; e guardia dal mare gli fanno i Ciclopi
che mai non conobbero il sonno; e dal monte le lance
dell'àgavi, e, immote, da torri di rupi, pupille di falchi.
Guizza ancor lungo i fianchi dei tre Ciclopi, e sfavilla
la lucertola azzurra che nacque al tuo nascere, o Capri.
Sacra al tempo, ella è maga, sovrana del sortilegio glauco.
Perfida come l'acqua che intorno agli scogli in cristalli
multisplendenti s'indura, dissolti da un tuffo di remo,
s'io l'afferro mi sfugge e m'irride, lasciandomi agli occhi il barbaglio.
Azzurra è la tua follia, Capri, nube del mare.
Azzurro il canto eterno di che tu colmi i cieli.
S'io debba morire di te, dammi la morte azzurra.

Citazioni[modifica]

  • Solaria, il vento del sud scrolla e devasta il tuo pergolato di glicini. | Ne piombano a terra i corimbi, chicchi violetti di grandine, pesanti d'un peso di morte. | Così a te traboccan dagli occhi, nell'ora del torbido amore, le lacrime; | ma non si raccoglie il pianto d'amore, non si raccolgono i fiori caduti del glicine. (Il pergolato di glicini, p. 14)
  • Or cercherai riposo, sotto i carrubi: ché gli occhi | t'ha resi folli il sole dell'Isola folle. Ora gli occhi ||tu chiuderai, sull'erba: fin che l'abbaglio sia spento. | Non sapevi che la bellezza fosse sì gran patimento. || Agli aromi che intridon la macchia, per dormire, chiederai grazia: | questa è terra senza pietà, di troppa delizia ti macera e strazia. || Voci che amavi, che t'eran sì dolci, sì necessarie, laggiù, | al paese: voci del sangue: non son più tue, non ti chiaman più. || Questa è terra senza pietà, ti ruba a te stessa, ti svuota della memoria, | poi, con una risata di sole, ti scaglia a mare, consunta scoria. || Se vuoi salvarti, vattene. – Domani sarà troppo tardi. | Ma forse non vuoi salvarti. – Taci, allora. Abbandónati. Ardi. (Stanchezza, p. 16-17)
  • Nutrita di roccia, tu affondi nella roccia le tue radici | e t'è impresso sul volto di fiore il mistero della madre pietra. | Splendi in aprile come un disco d'oro, trascolori sulfurea nel maggio: | l'arsura del luglio ti veste d'un drappo vinoso, di baccante ebra. | Innamorata del fico d'India, dalle innumeri mani in preghiera, | per lui disvellerti al sasso che t'è parte viva non puoi – né esso può; | e ti dilati, impura, gonfia di tossico, nel desiderio vano. | O velenosa, sei bella; ma niun s'attenta a toccare i tuoi fiori perfetti. | O solitaria, io conosco fra gli uomini un deserto ch'è simile al tuo. | O alta sul mare, un cuore io conosco ch'è più in alto e più triste di te. (Euforbia, pp. 29-30)
  • Non so che livido volto mi mostri oggi Monte Tiberio, | inciso di cicatrici, saturo d'odio, forse d'amore: | il volto di colui che fu per uccidermi, un giorno. | Ove è colui che un giorno fu per uccidermi, perchè mi amava? | Ch'io tremi ancóra al suo fiato geloso, ch'io svenga in quel brivido. | Carcere duro è l'Isola ov'io mi credetti aria ed ala: | l'alte rocce son mura di mastio, impervie: sul mare cinereo | non onda, non vela, non varco, non remissione: – e pur sento, | malfida Capri, ch'è dolce, troppo dolce esser vinta da te. (Scirocco, p. 65)

Il dono[modifica]

  • Quando vedemmo, insieme, il grande arbusto | di spirèe bianche, tutto in fiore, molta | fu l'allegrezza: come dell'arrivo | d'un fratello, improvviso, da lontane | terre. Era un giorno sul finir d'aprile. | Quali de' fiori erano aperti, e quali | stretti nel boccio, d'un pallor che in grigio | sfumava; e fitti sì, che il fresco verde | delle fronde spariva: una rotonda | nube parea, calata giú dal cielo | per gioco, e pronta a risalirvi. Bombi | ronzavano tra il folto delle rame | fragranti: la dolcezza del glucosio | entrava in noi con quel ronzio d'ingorda | felicità. || Perché non dura, amici, | tutta l'annata il fior della spirèa, | fiore di gioventú, fior di speranza? | Troppo sarebbe. Non potrà nessuno | su' suoi passi fermar la primavera. (Le spirèe, p. 32)
  • Sugli steli diritti come sbarre | d'acciaio, mi salutano i giaggioli | in doppia siepe, mentre salgo all'alto | chiosco che mira, dal giardino, i campi | via digradanti verso i boschi e il fiume. | Giaggioli d'una carne vïoletta | quale piú scura, qual piú smorta: tutti | pensosità di sguardo, e rilucenti | d'una grazia guerriera; e li diresti | sbocciati sulla punta delle spade. | Fra le due schiere io salgo, nella tersa | luce del mezzodì: son principessa | di corona: men vo per chiare vie | fra cavalieri di gran scorta, armati | dell'amor che li illumina; ed ognuno | pronto è a morir per me. || Libera andare | fra i giaggioli del maggio al chiosco verde | che guarda i campi e le foreste; ed essere | principessa regnante in questo regno. (Le due siepi, p. 35)
  • Amo la libertà de' tuoi romiti | vicoli e delle tue piazze deserte, | rossa Pavia, città della mia pace. | Le fontanelle cantano ai crocicchi | con chioccolìo sommesso: alte le torri | sbarran gli sfondi, e, se pesante ho il cuore, | me l'avventano su verso le nubi. | Guizzan, svelti, i tuoi vicoli, e s'intrecciano | a labirinto; ed ai muretti pendono | glicini e madreselve; e vi s'affacciano | alberi di gran fronda, dai giardini | nascosti. Viene da quel verde un fresco | pispigliare d'uccelli, una fragranza | di fiori e di frutti, un senso di rifugio | invïolato, ove la vita ignara | sia di pianto e di morte. Assai più belli | i bei giardini, se nascosti: tutto | mi par più bello, se lo vedo in sogno. | E a me basta passar lungo i muretti | caldi di sole; e perdermi ne' tuoi | vicoli che serpeggian come bisce | fra verzure d'occulti orti da fiaba | rossa Pavia, città della mia pace. (I giardini nascosti, p. 43)
  • Son globi d'oro i kàki del novembre, | (chi ci rubò l'estate senza notti?) | ma d'un oro sanguigno. Dalle rame | spoglie pendono ignudi, e al morso invitano, | colmi del succo zuccheroso: il sole | di San Martino li attraversa d'una | liquida luce, in trasparenza. Vieni | con me nell'orto, tutto strati e cumuli | di foglie gialle: sulle foglie gialle | meriggiar voglio, e m'attraversi il sole | come quei frutti. Tu li coglierai, | Giuliana dalle gambe di cerbiatta, | per gettarmeli in grembo, tondi, molli, | troppo dolci al palato, ultima gioia | d'autunno: in essi il mio dorato autunno | festeggerò presso il tuo verde aprile. (I globi d'oro, p. 45)
  • Sorge la luna tonda | dal monte: un'altra luna entro l'immote | acque del lago appare. Io mi domando | qual sia la vera : cielo ed acque formano | un'aperta conchiglia rosazzurra | che due perle gemelle | offre ai miei occhi innamorati. Vento | non spira, ala non palpita, né vela | cammina, né dei salici piangenti | curvi alla riva un brivido han le foglie. | Solo parla, sommesso, un usignolo | nel cipresseto: con sì pura voce | ch'io mi penso esser morta, e questo il luogo | dove l'anima è giunta al suo perdono. (Luna sul lago di Castel Toblino, p. 56)

Orazioni[modifica]

Incipit[modifica]

Alessandrina Ravizza camminava un giorno lentamente per le vie di Milano, quando vide passare un carro funebre di terza classe, nudo di fiori, quasi vergognoso della sua povertà, seguìto solo da un prete.
Colui che riposava nella cassa greggia pareva non avesse avuto, nel mondo, nome, famiglia, affetti: nulla. Se ne partiva solo: solo, forse, aveva vissuto. Ma la tristezza di quell'abbandono anche dopo la morte gelava il cuore.
La Donna della Pietà si mise allora dietro il carro, e lo accompagnò, passo passo, fra la gente affrettata e indifferente, sotto la pioggia. Lo accompagnò al cimitero, vi restò fino a quando la terra fu gettata sulla cassa, a palate brutali e sorde. Chi la vide, pensò che fosse la madre o la sorella del morto.

Citazioni[modifica]

  • Il suo aspetto era quello di un essere che porti in sé stesso – e lo sappia – l'Assoluto della regalità.
    Alta su tutto, la fronte: vasta bianca massiccia nell'aureola dei lievi capelli d'argento, dura infrangibile come fosse fatta di materia silicea, luminosa lontana come fosse fatta di materia astrale.
    Dalla troppo grave pesantezza del corpo alla lentezza del gesto ieratico alle linee belle ma affloscite del viso, ogni particolare della persona straordinaria si riassumeva nella maestà di quella fronte.
    V'era contenuto un mondo.
    Fra lo sguardo di Alessandrina Ravizza e chi le stava dinanzi, fluttuava sempre una misteriosa immagine scôrta da lei sola: un sogno, una verità, l'ombra d'un sogno, l'ombra d'una verità. (pp. 8-9)
  • Interventista della prima ora come Alessandrina Ravizza, [Luigi Majno] non pensò neppure per un momento che la patria potesse rimanere spettatrice indifferente dell'aggressione germanica. Egli, che sempre era stato irriducibile avversario del militarismo e della guerra. Che aveva vissuto la più candida delle esistenze nella religione dell'Internazionale. Che come Socrate era sereno e, come Dostojewski, come Tolstoï, non per sé vivo ma per l'umanità. (p. 71)
  • [...] Luigi Majno non ebbe bisogno di andare a combattere per essere ucciso dalla guerra.
    Egli morì di dolore per aver dovuto accettare e proclamare, davanti alla feroce verità dei fatti, la necessità ineluttabile di passare, anche in questo secolo, attraverso la guerra per difender la pace. (p. 73)
  • Alto, robusto, massiccio, un poco tozzo il collo sulle spalle quadre, [Luigi Majno] portava fiera la testa dalla gran fronte bionda, sovrastante a torre sulle profonde cavità degli occhi. Ma gli occhi azzurri e la fresca bocca erano di un bambino. Di un bambino, talvolta, nella quiete delle ore raccolte, l'accento e la voce. (p. 74)

Incipit di alcune opere[modifica]

Dal profondo[modifica]

Ti fui compagna per le ignote strade
del mondo e all'ombra dei crocicchi, in una
vita lontana che fu mia, fu mia
come questa non già che s'attorciglia
al mio collo e al mio cor, segni imprimendo
di ferro e corda nelle nude carni.

Esilio[modifica]

Chiama chiama—ed alcun non le risponde—
la Donna prigioniera nella Trappa:
dello spiraglio ai ferri ella s'aggrappa,
livida tra le sparse ciocche bionde:
 
notte e giorno, alba e vespro, estate e inverno,
chiama ed attende, chiama e spera, chiama
e piange:—taglia l'aria come lama
lo stridor vano del singhiozzo eterno.

Fatalità[modifica]

Questa notte m'apparve al capezzale
Una bieca figura.
Ne l'occhio un lampo ed al fianco un pugnale,
Mi ghignò sulla faccia.—Ebbi paura.—
Disse: «Son la Sventura.»

Maternità[modifica]

Io sento, dal profondo, un'esile voce chiamarmi:
sei tu, non nato ancora, che vieni nel sonno a destarmi?

Stella mattutina[modifica]

Io vedo – nel tempo – una bambina. Scarna, diritta, agile.[9]

Tempeste[modifica]

È ver, son forte.—Per la via sassosa
Lasciai brandelli d'anima e di fede;
Pur con superbo piede
Salgo ancor verso l'alba luminosa.

Citazioni su Ada Negri[modifica]

  • Ada Negri, figlia del popolo, la cui sottile persona alimentata dal sangue gagliardo da cui è nata, dà a chi la ripensa una piacevole visione di finezza e di robustezza; volto la cui maschera mobilissima, quasi tragica, ove ardono i bellissimi occhi, riesce indimenticabile a chi l'ha veduta una sola volta; donna che anche ora, nella vita cui è giunta attraverso profondi mutamenti di tutto il suo essere, nella raffinatezza di abitudini che appagano il suo innato senso estetico, ha salvato qualche cosa di acerbo, di crudo, che non è mai volgare ma che piace come ogni espressione di sentita sincerità. (Camilla Bisi)
  • Profonda è l'impronta che Ada Negri ha lasciato di sé: la sua lirica non si riallaccia a nessuna tradizione, ma a sua volta fu una delle fonti cui ancora attinge la poesia femminile. (Camilla Bisi)

Note[modifica]

  1. Da La scala bianca. In La veste di crespo, Cento anni di racconti da "Il Mattino", a cura di Michele Prisco e Ginella Zamparelli, illustrazioni di Vincenzo Stinga, EDI.Me., Napoli, stampa 1992, pp. 48,51.
  2. Magnolia, in Otto liriche, Società anonima La nuova Antologia, Roma, 1942 p. 13.
  3. Citato da Freddi, Bandiera Nera, Libreria del Littorio, Roma; citato in Leo Longanesi, In piedi e seduti, Longanesi & C., 1968.
  4. Da Le solitarie, 1917.
  5. Da Senza Nome, in Fatalità, Fratelli Treves, 1900.
  6. Da Neve; citato in Scuola Italiana Moderna, n. 11, Gennaio 1961, Editrice «La Scuola», Brescia.
  7. Per un'accusata, da Opere.
  8. Sinfonia azzurra, in Il libro di Mara, Fratelli Treves, Editori, Milano, 1919, pp. 13-14.
  9. Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937

Bibliografia[modifica]

  • Ada Negri, Dal profondo, Fratelli Treves, 1910.
  • Ada Negri, Esilio, Fratelli Treves, 1914.
  • Ada Negri, Fatalità, Fratelli Treves, 1911.
  • Ada Negri, I canti dell'isola, introduzione di Elio Pecora, La conchiglia, Capri, stampa 2000.
  • Ada Negri, Il dono, Arnoldo Mondadori, Milano, 1936.
  • Ada Negri, Maternità, Fratelli Treves, 1922.
  • Ada Negri, Orazioni, Fratelli Treves, Milano, 1918.
  • Ada Negri, Tempeste, Fratelli Treves, 1896.

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