Il paradiso delle signore/6

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Q
uando venne l’estate e la vendita al solito ne soffrí, un vento di paura spirò per tutto il Paradiso delle signore. Era il panico dell’esser mandati via, perché la direzione si disfaceva degl’impiegati mentre gli avventori nei caldi di luglio e agosto non si facevano vedere.

Il Mouret tutte le mattine, nel fare, col Bourdoncle, l’ispezione solita, discorreva a quattr’occhi coi capi che l’inverno, perché la vendita non ne soffrisse, aveva spinti a prendere piú commessi del bisogno, salvo poi farne una buona scelta a tempo opportuno. Ora si trattava di diminuire le spese, mandandone via un buon terzo, tutti i deboli che si lascian mangiare dai forti.

— Via via! — diceva lui. — Di quelli che non san fare ce ne dovete avere... Non si può mica tenerli lí a non far nulla, con le mani alla cintola!

E se il capo esitava, non sapendo chi sacrificare:

— Fate quel che volete; ma sei commessi vi devon bastare... A ottobre li ripiglierete: ce n’è sempre tanti per le strade!

Ma era il Bourdoncle che s’incaricava delle sentenze. Aveva un suo terribile: «Alla cassa! [p. 219 modifica]alla cassa!» che dalle labbra sottili cadeva come un colpo di scure. Ogni pretesto per mandar via gli era buono: inventava colpe, stava attento alle minime negligenze. «Eravate a sedere: alla cassa!» - «Non vi siete fatto lustrare le scarpe: alla cassa!» E anche i migliori tremavano a quella strage. Poi, non parendogli di fare abbastanza, aveva immaginato un laccio col quale strangolare quanti commessi voleva levarsi dai piedi. Alle otto si metteva sull’uscio con l’orologio in mano, e chi arrivava scalmanato con tre minuti di ritardo aveva l’accoglienza d’un: «Alla cassa! alla cassa!». Cosí faceva presto e bene.

— Come siete brutto, voi! — esclamò un giorno in faccia a un disgraziato che gli dava noia col naso un po’ storto. — Alla cassa! alla cassa!

I favoriti avevano quindici giorni di vacanza, senza stipendio: e cosí piú umanamente si diminuivano le spese. Del resto i commessi, domati dalla necessità e dall’abitudine, consentivano di essere assoldati a quel modo provvisoriamente. Da quando eran giunti a Parigi andavano or qua or là, cominciando il loro tirocinio a destra, terminandolo a sinistra, mandati via o andando via da sé, da un momento all’altro, secondo il tornaconto. Quando non c’è lavoro per la fabbrica, si sa, non c’è pane per gli operai: e ciò faceva parte del meccanismo impassibile. Quel ch’è inutile si butta via come una ruota di ferro cui nessuno è grato dei servizi resi. Tanto peggio per chi non sa vivere!

Le sezioni non discorrevano ora d’altro. Ogni giorno c’era una notizia nuova: i nomi dei commessi licenziati correvano, come si contano i morti durante un’epidemia. Gli «scialli» e le [p. 220 modifica]«lane» furono i percossi piú duramente; in una settimana se n’andarono sei commessi. Poi toccò alla «biancheria», dove una signora, che si sentí venir male, accusò la ragazza che la serviva d’aver mangiato dell’aglio: la ragazza fu licenziata su due piedi, per quanto, nutrita poco affamata, si contentasse di rosicchiare al banco una intiera provvista di croste di pane.

La Direzione si mostrava senza pietà per ogni piú piccolo lamento delle clienti: non c’erano scuse possibili, l’impiegato doveva aver torto e sparire come uno strumento guasto che nocesse al buon andamento della vendita. E i compagni piegavano il capo, e non tentavano neppure di prenderne le difese.

In quel terrore ciascuno tremava per sé: il Mignot, un giorno che usciva, con un involto sotto il soprabito, contro le norme del regolamento, fu sul punto d’esser sorpreso e si credé gettato sul lastrico da un momento all’altro: il Liénard, di cui era celebre la pigrizia, lo dové al posto che occupava suo padre se non fu messo alla porta, una volta che il Bourdoncle lo sorprese mentre sonnecchiava in piedi tra due mucchi di velluti inglesi. Ma i Lhomme erano piú inquieti di tutti, aspettandosi ogni mattina che fosse licenziato il loro Alberto: del come teneva la cassa nessuno poteva esser contento; aveva sempre lí delle donne a distrarlo; e la signo ra Aurelia dové per due volte intenerire la Direzione.

Dionisia, frattanto, in quella furia di licenziamenti era cosí minacciata, che viveva aspettandosi da un minuto all’altro la catastrofe... Aveva un bel farsi coraggio e combattere con l’innata serenità e ragionevolezza per non cedere agli as[p. 221 modifica]salti dell’indole sua, troppo sensibile; le lacrime l’accecavano non appena aveva chiuso l’uscio della cameretta, e si vedeva già in mezzo alla strada, in rotta con lo zio, senza saper dove andare, senza un soldo da parte, e con i due ragazzi per giunta. Tornava alle sensazioni delle prime settimane; le sembrava d’essere un granello di miglio sotto una mola grande: e quel sentirsi cosí meschina in quella macchina che l’avrebbe schiacciata con la sua tranquilla indifferenza, la opprimeva di scoraggiamento. Non c’era da farsi illusioni: se mandavano via qualcuna delle «confezioni», sarebbe stata lei. Nella scampagnata a Rambouillet le ragazze dovevano aver certamente messa su la signora Aurelia contro di lei, perché da quel giorno la trattava con una severità dove entrava un po’ di rancore. E poi non le perdonavano la sua giterella a Joinville; ci vedevano una ribellione, quasi una sfida a tutta la sezione, in quell’essere andata con una della sezione nemica. Dionisia non aveva mai sofferto tanto come allora, e oramai disperava d’amicarsi le compagne.

— Lasciatele fare! — ripeteva Paolina. — Sono delle smorfiose... in fondo sono piú stupide di un’oca!

Ma erano appunto quelle maniere da signore che intimidivano la giovinetta. Quasi tutte le ragazze, per via del loro quotidiano strofinarsi con le clienti ricche, diventavano alla fine d’un ceto senza nome, indeterminato, tra l’operaio e il borghese; e sotto la loro arte di vestirsi, sotto i modi e le frasi prese a prestito, non c’era che un’istruzione falsa, la lettura dei giornalucci, qualche tirata di dramma, e tutte le sciocchezze che corrono sul lastrico di Parigi. [p. 222 modifica] — Sapete! la scarruffata ha un figliuolo! — disse una mattina Clara, subito che fu arrivata.

E scorgendo la meraviglia delle altre:

— L’ho veduta io ieri sera che se lo trascinava dietro... Lo deve nascondere in qualche posto.

Due giorni dopo, Margherita, tornando da desinare, diede un’altra notizia:

— Bel lavoro! ho visto l’amante della scarruffata... Figuratevi, è un operaio! un ragazzaccio tutto sudicio, con certi capelli gialli, che la guardava traverso i vetri.

Bastò perché tutte ne fossero sicure. Dionisia aveva per amante un manovale, e nascondeva un figliuolo nel quartiere. La flagellarono con maligne allusioni. La prima volta che capí, diventò pallida dinanzi alla mostruosità delle supposizioni. Era un’infame calunnia; volle render conto dei fatti suoi e balbettò:

— Ma sono i miei fratelli!

— Già, i fratelli! — disse Clara beffarda.

Bisognò che la signora Aurelia ci mettesse bocca:

— Zitte un po’! fareste meglio a mutare quei cartellini... La signorina Dionisia è padrona di portarsi male, fuori di qui. Basterebbe che qui lavorasse!

E quella secca difesa era una condanna. La giovinetta, sentendosi mancare il respiro come se l’avessero accusata d’un delitto, cercò vanamente di spiegare come stavan le cose. Le altre si mettevano a ridere e facevan spallucce, ed ella n’era ferita al cuore.

Il Deloche, quando quella voce si sparse, se ne sdegnò al punto che voleva pigliare a schiaffi tutte le ragazze delle «confezioni»; e non fu [p. 223 modifica]trattenuto che dalla paura di compromettersi. Fin dalla serata di Joinville, aveva per lei un amore devoto, un’amicizia quasi religiosa, ch’egli attestava con occhiate da cagnolino fedele. Nessuno doveva sospettare la loro affezione perché Dio sa come n’avrebbero riso; ma ciò non gl’impediva di fantasticare improvvise violenze, gran pugni vendicatori, se mai avessero osato sparlarne in presenza sua.

Dionisia dové smettere di rispondere. Ci soffriva troppo, e le pareva che nessuna a quelle infamie ci potesse credere. Quando una compagna gettava una nuova allusione, si contentava di guardarla fissa con un’aria triste e calma. E poi aveva altri pensieri; il bisogno del denaro, che le dava anche piú noia. Gianni non era mai contento, e ne faceva sempre delle sue. Non passavano due o tre settimane senza ch’ella ricevesse da lui un intero romanzetto di quattro pagine; e allorché il postino del negozio le consegnava quelle lettere d’una grossa calligrafia, da cui traspariva la passione, si affrettava a nascondersele in tasca, perché le ragazze ridevano sforzatamente, canticchiando parole insolenti.

Poi, quando con un pretesto era andata in fondo al magazzino per aprire la lettera, un terrore la coglieva: quello sciagurato di Gianni le pareva bell’e perduto. Ogni bugia era valida per lei, ogni storia d’amore piú inverosimile nella sua ignoranza di tali faccende le presentava anche maggiori i pericoli. Ora si trattava di due franchi, per sfuggire alla gelosia d’una donna; ora di cinque o sei, per salvare l’onore d’una povera ragazza che il babbo, se no, voleva ammazzare. Non bastandole lo stipendio e il tanto per cento, aveva avuta l’idea di cercarsi un po’ [p. 224 modifica]di lavoro fuor del magazzino. Ne aveva parlato al Robineau, che le era stato simpatico fin da e lui le quando l’aveva incontrato da Vinçard, aveva trovato da fare delle cravattine a venticinque centesimi la dozzina. La notte, dalle nove al tocco, ne poteva cucire sei dozzine e guadagnare cosí un franco e mezzo, meno i quattro soldi del lume. Ma quel franco e trenta centesimi al giorno andavano pel mantenimento di Gianni; né lei si lamentava del poco dormire: si sarebbe, anzi, detta felice, se un’altra disgrazia non le fosse cascata addosso.

Alla fine della seconda quindicina, quando si presentò alla donna che le dava da fare le cravatte, trovò la porta chiusa: c’era stato un fallimento che le rubava diciannove franchi, somma considerevole e sulla quale da otto giorni faceva assegnamento. Che erano gli scherni della sezione, rispetto a quella rovina?

— Siete seria, — le disse Paolina che la incontrò pallidissima nella galleria della mobilia.

— Avete bisogno di qualcosa? perché non me lo dite?

Ma Dionisia le doveva già dieci franchi, e rispose, sforzandosi di sorridere:

— No, grazie... Ho dormito male.

Era il venti di luglio; proprio nel colmo della paura degli impiegati. Di quattrocento il Bourdoncle ne aveva già mandati via piú di cinquanta, e correva la voce che ne avrebbero licenziati degli altri. Ma lei a quelle minacce non ci pensava piú, angosciata da una nuova scappata di Gianni, piú terribile delle altre. Questa volta aveva bisogno di quindici franchi; gli ci volevano per salvarlo dalla vendetta d’un marito messo di mezzo. Il giorno innanzi aveva ricevuta una [p. 225 modifica] lettera che preannunziava il dramma; dopo ne eran venute due altre; nell’ultima, ch’ella terminava di leggere quando s’era imbattuta nella Paolina, Gianni le scriveva che si sarebbe ammazzato la sera medesima se non avesse avuto i quindici franchi. Dionisia non sapeva dove batter la testa: sulla pensione di Beppino non poteva prenderli, perché l’aveva già pagata da due giorni. Tutte le sfortune la perseguitavano; aveva sperato di riavere i suoi diciannove franchi rivolgendosi al Robineau che forse poteva rintracciare la donna delle cravatte, ma il Robineau, che aveva avuto un permesso di due settimane, non era tornato il giorno innanzi come avrebbe dovuto.

Paolina seguitava a muoverle domande da amica. Quando erano a quel modo insieme, in fondo a una sezione fuor di mano, discorrevano senza paura. Ma a un tratto Paolina fece come per scappare; aveva scorta la cravatta bianca d’un ispettore, che veniva dagli scialli.

— No, no! è il Jouve, — mormorò facendosi animo. — Non so che mai abbia quel vecchio; tutte le volte che ci vede insieme, si mette a ridere... se fossi in voi avrei paura; è troppo gentile con voi. Gran vecchiaccio maligno è quell’uomo! crede sempre di parlare ai suoi soldati!

Il Jouve era veramente odiato da tutti i commessi per la sua severità nel sorvegliare. Piú della metà dei licenziamenti era accaduta per colpa dei suoi rapporti. Quel nasone rosso, da vecchio capitano bontempone, s’arricciava da per tutto, tranne nelle sezioni delle donne.

— O perché dovrei aver paura? — domandò Dionisia.

— To’! — rispose Paolina ridendo — vorrà [p. 226 modifica]forse essere ricompensato. Son parecchie che se lo tengono caro.

Il Jouve aveva tirato di lungo fingendo di non vederle; e lo sentirono che piombava addosso a un disgraziato nella sezione delle trine, perché se ne stava a guardare un cavallo cascato in Via Nuova Sant’Agostino.

— A proposito riprese Paolina; — non cercavate il Robineau ieri sera? credo che sia tornato.

Dionisia si ritenne salva:

— Grazie: allora faccio il giro e passo dalle sete... Tanto, m’hanno mandata al laboratorio, lassú, per un certo spillone...

Si separarono; e la giovinetta, sconvolta come se corresse da una cassa all’altra a correggere uno sbaglio fatto, infilò la scala e scese alle sete. Mancava un quarto alle dieci; era sonata già la campanella per la prima tavolata. Un sole ardente scaldava i cristalli, e, nonostante le tende di tela grigia, il calore cadeva nell’aria immobile. Di tanto in tanto un alito fresco saliva dal pavimento che i garzoni inaffiavano d’un sottil filo d’acqua. Era una sonnolenza, una siesta d’estate, nel vuoto delle sezioni, simili a cappelle, dopo l’ultima messa, quando l’ombra vi si affolta sonnacchiosa. I venditori stavan dritti, insonnoliti, e qualche rara cliente passava per le gallerie e traversava la sala col passo strascicato delle donne cui il sole dà noia.

Mentre Dionisia scendeva, il Favier stava misurando una stoffa di seta leggiera, a pois rosa, per la signora Boutarel, arrivata la mattina innanzi. Fin dai primi del mese, le provincie qualcosa mandavano; non si vedevano che signore goffamente vestite, scialli gialli, sottane verdi. [p. 227 modifica]Ma i commessi, indifferenti, non ridevano nemmeno piú. Il Favier accompagnò la Boutarel alla merceria, e, tornato, disse all’Hutin:

— Ieri tutte alvergnati, oggi tutte provenzali... Non ne posso piú.

Ma l’Hutin si precipitò innanzi: toccava a lui quella volta, ed aveva riconosciuta la «bella signora», quella stupenda bionda che tutti designavano cosí nella sezione, non sapendo come si chiamasse. Le sorridevano tutti, e non passava una settimana ch’ella non capitasse al Paradiso sempre sola. Quel giorno aveva invece con sé un bambino di quattro o cinque anni. Ci fecero su mille discorsi.

— Dunque è maritata? — disse il Favier, quando l’Hutin tornò dalla cassa dove aveva condotta la signora a pagare trenta metri di raso.

— Può essere, — rispose l’Hutin — ma il bambino non prova nulla. Chi sa che non sia d’una sua amica?... Quel che è certo è che deve aver pianto... aveva certi occhi rossi ed era seria seria.

Per un momento stettero muti a guardare vagamente nella profondità del magazzino. Poi il Favier riprese con voce lenta:

— Se è maritata, chi sa che il marito non le abbia dato degli schiaffi!

— Chi lo sa? — rispose l’Hutin — o forse è un amante che l’ha piantata.

E conchiuse, dopo un’altra pausa:

— Io, per me, me ne infischio.

In quel punto Dionisia traversava la sezione, andando piú adagio, e guardandosi intorno per vedere se c’era il Robineau. Non lo vide, andò alla biancheria, e tornò indietro. Ma i due commessi s’erano accorti dell’astuzia. [p. 228 modifica]

— Rieccola la disossata! — sussurrò l’Hutin.

— Cerca il Robineau, — rispose il Favier. — Chi sa quel che impasticciano insieme. Niente di male, sicuro, perché il Robineau è troppo stupido in queste cose... Dicono che le abbia procurato un lavoruccio, delle cravattine. Eh! un affarone!

L’Hutin pensò una delle sue solite cattiverie. Quando Dionisia gli passò dinanzi, la fermò col dirle:

— Cercate me?

Ella si fece rossa rossa. Da quella sera di Joinville non osava piú leggere nel cuor suo, dove cozzavano sentimenti confusi. Lo aveva sempre davanti agli occhi con quella ragazza coi capelli rossi, e, se tremava ancora nel trovarsi faccia a faccia con lui, forse era per ripugnanza. Gli aveva voluto bene? glielo voleva sempre? non ci voleva pensare, ché il pensarci le faceva male.

— No, — rispose un tantino impacciata.

— Se lo volete, vi si dà subito... Favier, dalle un po’ di Robineau alla signorina.

Lei lo guardò fissa, con lo sguardo triste e calmo col quale accoglieva le allusioni e le ingiurie delle compagne. Ah! dunque era cattivo? anche lui le dava noia come gli altri: e sentí nell’animo un supremo strappo, l’ultimo legame che si rompeva. Le si dipinse sul viso tale uno spasimo, che il Favier, per quanto fosse poco tenero di natura, le venne in soccorso:

— Il Robineau ora non c’è, ma tornerà di sicuro per la colazione... Oggi, se gli volete parlare, lo troverete.

Dionisia ringraziò e tornò alla sua sezione, dove la signora Aurelia l’aspettava, freddamente rabbiosa. Come! mezz’ora ci aveva messo? e di [p. 229 modifica]dove veniva? dal laboratorio, no, di certo! La ragazza chinava il capo, e pensava a quell’accanimento della sfortuna contro di lei. Se il Robineau non tornava, era finita. Ma bisognava cercare di scender giú un’altra volta.

Il ritorno del Robineau aveva nella sezione delle sete scatenata una rivoluzione. Tutti speravano che, per le tante noie che gli davano continuamente, non ritornasse; e c’era stato davvero un momento in cui, sempre stimolato dal Vinçard che gli voleva affibbiare il suo negozio, era stato quasi per pigliarlo. La mina a poco a poco scavatagli dall’Hutin sotto i piedi, stava finalmente per scoppiare.

Costui, durante il permesso del Robineau, aveva fatto di tutto, trovandosi nel suo posto come supplente, per nuocergli nell’animo dei capi e rubargli il posto con eccessi di zelo: aveva segnalato piccole irregolarità, proposto miglioramenti e nuovi disegni. Dal principiante entrato «alla pari» fino al direttore che voleva divenire un po’ padrone anche lui, non avevan tutti che un pensiero fisso: mandar via il compagno che stava sopra, per pigliargli il posto; e questo cozzo di desideri, questo cercare di passarsi innanzi, era una parte necessaria della gran macchina, perché faceva piú svelta la vendita e quadruplicava la buona fortuna del magazzino. Dietro l’Hutin c’era il Favier, dietro il Favier gli altri in fila. Si sentiva quasi un rumore di mascelle: il Robineau era bell’e condannato, e ciascuno se ne portava via di già un pezzo d’osso. Per questo, quando invece tornò, fu un brontolio generale. Bisognava farla finita; i commessi erano minacciosi, tanto che il capo, per dare alla direzio[p. 230 modifica]ne il tempo di pigliare un partito, aveva mandato il Robineau a far delle compre.

— Piuttosto ce n’andiamo tutti, se tengono lui! — dichiarava l’Hutin.

L’affare dava noia al Bouthemont, che nella sua placidità non poteva vivere col diavolo in casa: ci soffriva a vedersi intorno soltanto visi scontenti. E poi, voleva esser giusto.

— Via, via! lasciatelo un po’ stare. O che vi fa, lui?

Ma rispondevano in coro:

— Come? non ci fa nulla?... Un uomo che non si può sopportare, uno che ha sempre i nervi, e che è tanto superbo che non baderebbe a passarci sul corpo!

Era questa la grande arma della sezione. Il Robineau, nervoso come una donna, era permaloso ed aveva scatti intollerabili. Ne raccontavano venti aneddoti; un giovine s’era ammalato per colpa sua; delle signore s’erano offese per le sue osservazioni.

— Ma insomma, — disse il Bouthemont — non voglio pigliare la cosa su di me... Ho avvertita la direzione: e or ora mi chiameranno a discorrere un po’.

Sonavano per la seconda tavola: la campanella, lontana e affievolita nell’aria morta del magazzino, mandava il suo rintocco dal sotterraneo. L’Hutin e il Favier scesero. Da tutte le sezioni i commessi arrivavano ad uno ad uno, un po’ alla volta, affrettandosi nel corridoio della cucina, angusto ed umido, illuminato sempre dal gas. Vi si affollavano, senza ridere né ciarlare, in mezzo all’acciottolio crescente dei piatti e nel forte odore delle vivande. Poi, arrivati in fondo, si fermavano a un tratto davanti a uno [p. 231 modifica]sportello. Un cuoco in mezzo a due monti di piatti, con dei cucchiaioni che ficcava nei paioli di rame, distribuiva le porzioni. E quando si tirava un po’ da parte, si vedeva, dietro la sua pancia col grembiale, fiammeggiar la cucina.

— Bella roba! — sussurrò l’Hutin, dando una occhiata a una lavagna, sopra lo sportello, dov’era segnata la nota delle pietanze. — Manzo con la salsa piccante o razza, mai un po’ di arrosto in questa stamberga! Si resta con lo stomaco vuoto, con tutta la loro carne e tutto il loro pesce!

Del resto, il pesce nessuno lo voleva, e il recipiente restava pieno. Con tutto ciò il Favier scelse la razza. Dopo lui l’Hutin si chinò dicendo:

— Carne con salsa.

Quasi meccanicamente il cuoco infilzò un pezzetto di carne, e ci versò sopra una cucchiaiata di salsa. E l’Hutin, mezzo soffocato dall’avere avuto in viso il soffio ardente che veniva dallo sportello, se ne andava appena con la sua porzione, che già alle sue spalle sonavano come litanie le parole: «Carne con salsa piccante... carne con salsa piccante»; e il cuoco seguitava a infilzare pezzetti e versarvi la salsa sopra, col moto rapido e regolare d’un orologio.

— È fredda questa razza! — disse il Favier che non si sentiva scaldare la mano.

Seguitavano ora tutti a andare col braccio teso, il piatto in equilibrio, con una gran paura d’urtarsi. Dieci passi piú in là c’era un altro sportello con un banco di stagno lucido, dove stavano in ordine le boccette del vino, piccole, senza tappo, umide ancora dalla risciacquatura. E ciascuno nel passare riceveva la sua; poi sem[p. 232 modifica]pre piú impicciato si recava al proprio posto, cercando serio serio di mantenere l’equilibrio.

L’Hutin borbottava tra i denti:

— Bella passeggiata con questa roba in mano!

La tavola sua e del Favier era in fondo all’andito, nell’ultima stanza. Tutte le stanze si rassomigliavano; perché tutte erano antiche cantine, larghe cinque metri e lunghe quattro, ch’erano intonacate e ammobiliate da refettorio; ma l’umido screpolava i muri che, dipinti di giallo, eran pieni di macchie verdastre; e dalle strette aperture che davano sulla strada a paro dei marciapiedi, veniva giú una luce livida, traversata ogni poco dalle ombre indistinte di chi passava. Luglio o dicembre che fosse, vi si soffocava, in quella umidità calda, grave di odori nauseabondi esalati dalla cucina lí accanto.

L’Hutin era entrato pel primo. Sulla tavola da una parte incastrata nel muro e tutta coperta di tela incerata, non v’erano che i bicchieri e le posate, posto per posto. Una castellina di piatti si alzava di qua e di là, pel ricambio: in mezzo un grosso pane, con un coltello conficcatovi dentro, fino al manico. L’Hutin posò la bottiglia e il piatto; poi, preso il tovagliuolo dallo scaffale che era l’unico ornamento dei muri, si gettò a sedere con un sospiro.

— Che fame che ho! e c’è proprio da levarsela!

— Sempre cosí! — disse il Favier che gli stava alla sinistra. — Quando si ha fame, non c’è nulla.

Via via, arrivava gente e pigliava posto alla tavola apparecchiata per ventidue. Da principio un gran rumore di forchette e di mascelle: con [p. 233 modifica]tredici ore di fatica ogni giorno, quei pezzi di giovanotti si sentivano cascar lo stomaco. Era robaccia, lo dicevano tutti; ma intanto strofinavano i piatti, cosí da levar la vernice. Quand’era stato messo su il magazzino, i commessi avevano un’ora per far colazione e potevano andar un caffè fuori; e perciò si sbrigavano a prendere in venti minuti per la furia di uscire. Ma la Direzione, notato che poi restavano distratti dalla vendita, aveva risoluto di non farli piú uscire; chi voleva il caffè doveva pagare lí tre soldi. Ed ora naturalmente non avevano furia e tiravano in lungo importando loro poco o punto di tornare nella sezione innanzi l’ora fissata. Molti, mentre ingollavano grossi bocconi, leggevano un giornale, piegato e appoggiato alla bottiglia. Altri, placata la prima fame, si mettevano a discorrere ad alta voce, tornando sempre ai discorsi medesimi, ciò che avevano guadagnato, ciò che avevan fatto la domenica passata, ciò che volevan fare la domenica prossima.

— Dite un po’, e il vostro Robineau? — domandò un commesso all’Hutin.

La battaglia di quelli delle sete contro l’«aiuto » dava da chiacchierare a tutte le sezioni. Ogni giorno fino a mezzanotte la cosa era dibattuta nel caffè San Rocco. L’Hutin, tutto affaticato a tagliare e rodere la sua porzione, si contentò di rispondere:

— Il Robineau è tornato.

E sfogandosi a un tratto:

— Ma Dio santo, m’hanno dato del ciuco a me invece che del manzo!... è una porcheria. In parola d’onore non si può andare avanti cosí: è una vera porcheria!

— Non vi lamentate tanto! — disse il Fa[p. 234 modifica]vier. — Ed io che ho fatta la sciocchezza di gliare la razza... è andata perfino a male.

Parlavano tutt’e due insieme, un po’ arrabbiandosi, un po’ ridendo. In un cantuccio della tavola, accanto al muro, il Deloche mangiava zitto zitto. Non ne poteva piú dalla fame, e non se la levava mai: e siccome guadagnava tanto poco che non poteva pagarsi qualche altra cosa, si tagliava certe fette di pane enormi, e ingoiava i piatti meno appetitosi, come se fossero ghiottonerie. Per questo era la beffa di tutti; gli gridavano:

— Favier, passa un po’ la tua razza al Deloche. A lui gli piace cosí!

— Dategli anche la vostra carne, Hutin. Il Deloche la vuole per rifarsi la bocca.

Il povero diavolo alzava le spalle e non rispondeva nemmeno; se moriva di fame, non era colpa sua. E poi gli altri avevano un bello sputar sulle vivande; finivano sempre anche loro col mangiarsele.

— Ma un lieve fischio li fece chetare. Era il segno che il Mouret e il Bourdoncle comparivano nell’andito. Da qualche giorno i lamenti degli impiegati eran divenuti tali, che la Direzione fingeva di voler giudicare da sé se il vitto fosse buono o no. Non davano al cuoco ogni giorno che un franco e mezzo a testa, e il cuoco doveva con quel franco e mezzo pensare a tutto: vitto, carbone, gas, servizio. Quando il cibo non era buono, i direttori pareva cascassero dalle nuvole.

Anche quella mattina tutte le sezioni avevano delegato un commesso, e il Mignot e il Liénard si erano impegnati a parlare a nome di tutti. Cosí in quel silenzio improvviso le orecchie si tesero per sentire le voci della stanza accanto, dove [p. 235 modifica]il Mouret e il Bourdoncle erano entrati. Il Bourdoncle asseriva che il manzo era squisito; e il Mignot, sbalordito da quell’affermazione buttata là a faccia fresca, badava a ripetere:

— Ma l’assaggi!

Il Liénard, invece, insisteva sul pesce e diceva con dolcezza:

— Puzza! creda pure che puzza!

Allora il Mouret profuse parole piene di cuore: perché i suoi impiegati stessero bene, avrebbe fatto di tutto: era come un padre per loro; piuttosto che saperli nutriti male, avrebbe preferito di mangiar lui pane solo.

— Vi prometto di pensarci sul serio e di provvedere, — conchiuse alzando la voce per essere sentito da un capo all’altro dell’andito.

L’inchiesta era bell’e finita, e il rumore delle forchette ricominciò. L’Hutin mormorava:

— Già, già! c’è proprio da contarci sopra! Le belle parole non gli mancano; ma le chiacchiere non fanno farina! E intanto ci danno a mangiar suola di scarpe vecchie, e ci scaraventano sul lastrico con un calcio, tal quale come si fa ai cani.

Il solito commesso gli domandò:

— Dite un po’: e il Robineau dunque?...

Ma un grande acciottolío di piatti ne copri la voce. I commessi si cambiavano il piatto da sé, e i due mucchi a destra e sinistra diminuivano. Uno sguattero portava ora grandi vassoi di latta, e l’Hutin esclamò:

— Ci mancava anche questa! ecco lo sformato di riso!

— Qua due soldi di colla! aggiunse il Favier, mentre si serviva. [p. 236 modifica]

Ad alcuni piaceva; agli altri pareva appiccicoso.

Qualcuno poi se ne stava zitto zitto, tutt’assorto nel suo giornale, senza neppure accorgersi di ciò che mangiava. Tutti si asciugavano la fronte; la stretta cantina si empiva d’un vapore rossastro; e le ombre di quelli che passavano nella via, correvano continuamente, come strisce nere, sulla tavola in disordine.

— Pane al Deloche! — urlò un burlone.

Ciascuno si tagliava la propria fetta, e poi rificcava il coltello nella crosta fino al manico, e il pane seguitava a girare.

— Chi vuol fare a baratto, di questo riso, con la frutta? — domandò l’Hutin.

Quand’ebbe concluso l’affare con un giovi nottino gracile, cercò di dar via anche il vino; ma nessuno lo volle, tanto era cattivo.

— Il Robineau, dunque, è tornato, — continuò a dire tra le risate e i discorsi che s’incrociavano. — Oh! è un affare grave suo... Figuratevi che corrompe le ragazze! Già, le corrompe a cravattine!

— Zitto! sussurrò il Favier. — Gli fanno il processo, proprio in questo momento.

E con la coda dell’occhio accennò il Bouthemont che camminava su e giú per l’andito tra il Mouret e il Bourdoncle, tutt’e tre pensierosi e in colloquio, fatto a voce bassa ma vivacemente. La stanza dei capi e degli aiuti era per l’appunto di faccia. Quando il Bouthemont, avendo finito di mangiare, vide passare il Mouret, s’era alzato da tavola, e raccontava le seccature che gli dava la sua sezione e come non sapesse che cosa fare. Gli altri due stavano a sentire, non disposti ancora a mandar via il Robineau, valentissi[p. 237 modifica]mo, e che stava nel magazzino fin dal tempo della Hédouin: ma quando si venne alla storia delle famose cravattine, il Bourdoncle andò su tutte le furie. Era diventato pazzo a cercar lui lavoro alle ragazze? Il magazzino lo pagava fin il tempo delle ragazze; se lavoravano altroppo la notte per conto loro, il giorno lavoravano meno al banco, per forza; dunque rubavano; rischiavano la salute che non era piú di loro ma del padrone. No, la notte è fatta per dormire. Dovevano dormire o andarsene.

— Si riscaldano! — osservò l’Hutin.

Ogni volta che i tre uomini nel loro lento andare su e giú passavano davanti alla stanza, i commessi badavano a commentarne il piú piccolo gesto. Avevano perfino dimenticato lo sformato di riso, in cui un cassiere aveva trovato un bottone!

— Ho sentito dire «cravatta» — disse il Favier. — E, avete visto?, il Bourdoncle è diventato a un tratto bianco bianco.

Il Mouret era indignato non meno del socio. Una ragazza, ridotta a lavorare la notte, gli pareva un’offesa contro lo stesso ordinamento del Paradiso. Ma chi era quella scioccherella che non riusciva a andare innanzi con gli utili sulla vendita? Quando però il Bouthemont gli ebbe nominata Dionisia, mutò tono e cominciò a scusarla. Ah! quella ragazza! povera figliuola! sicuro, non era troppo svelta a vendere, e poi doveva anche mantener qualcuno, a quel che dicevano.

Il Bourdoncle l’interruppe affermando che bisognava mandarla via su due piedi; era troppo brutta e non ne avrebbero cavato mai nulla di buono: e pareva che, nel dir ciò, sfogasse un rancore. Per questo si stizzí davvero quando il [p. 238 modifica]Mouret, non sapendo piú che dire, finse di mettersi a ridere. Ma, Dio santo! che uomo severo! non si poteva perdonare per una volta? era meglio chiamare la colpevole e farle una buona lavata di capo. La colpa, in fin dei conti, l’aveva il Robineau, che, pratico del magazzino, non avrebbe dovuto farsi complice, anzi avrebbe dovuto consigliarla bene.

— O questa? il padrone ride, ora! — disse il Favier meravigliato, mentre i tre ripassavano davanti l’uscio.

— Ah! perbacco! — proruppe l’Hutin, — se si ostinasse ad appiccicarci daccapo il Robineau, vedranno che scene!

Il Bourdoncle, sul punto di uscire dai gangheri, guardava in viso il Mouret; ma si contentò poi d’un gesto di disprezzo, come per dire che aveva capito il tiro, e ch’era una stupidaggine.

Il Bouthemont aveva ricominciate le lagnanze, i commessi minacciavano d’andarsene loro, e ce n’era degli eccellenti. Ma parve che piú d’ogni altra accusa facesse effetto quella che il Robineau se la intendeva col Gaujean; il quale, secondo la voce che correva, gli offriva crediti larghissimi, purché si stabilisse per conto proprio nel quartiere, e facesse la guerra al Paradiso delle signore. Rimasero zitti per un momento. Ah! dunque il Robineau voleva la battaglia? Il Mouret era divenuto serio; finse che non gliene importasse nulla, ed esitò a risolversi, come se la cosa avesse poca importanza: — Avrebbero veduto, gli avrebbero parlato. — E si mise a scherzare col Bouthemont, di cui il padre, giunto due giorni innanzi dalla botteguccia di Montpellier, aveva corso il rischio che gli venisse un accidente nel vedere, tra indignato e stupefatto, [p. 239 modifica]la sala enorme dove regnava suo figlio. Non la finivano piú di ridere del pover’uomo che, rimettendosi da un momento all’altro, aveva cominciato con la sua sfacciataggine da meridionale a dir male di tutto e a sostenere che le ««novità » a quel modo sarebbero andate a finire su pei banchetti.

— Ecco il Robineau, sussurrò il capo della sezione. — L’avevo mandato a far certe compre per evitare qualche guaio che può nascere, purtroppo, da un momento all’altro... Scusatemi se ci torno su: ma le cose sono arrivate a tal punto, che un partito bisogna pigliarlo.

Il Robineau, che tornava di fuori, passò infatti per mettersi a tavola, e salutò.

Il Mouret si contentò di ripetere:

— Sta bene: si vedrà.

Se n’andarono. L’Hutin e il Favier li aspettavano ancora, ma quando non li videro piú ricomparire, si sfogarono. I direttori, dunque, volevano anche scendere cosí a contar loro ogni volta i bocconi? Sarebbe stato un bel lavoro, se nemmeno quando mangiavano avessero potuto avere un po’ di libertà. La verità era, che avevano visto ritornare il Robineau e il buon umore del padrone li metteva in dubbio sulla buona riuscita della battaglia incominciata. Abbassarono la voce, e studiarono nuovi modi per tormentare il Robineau.

— Ma io crepo! — continuò l’Hutin piú forte. — Quando si esce da tavola, s’ha piú fame di prima!

Aveva già mangiato due porzioni di conserva, la sua e quella che aveva avuto in cambio dello sformato.

— Oh! — disse a un tratto — io per me mi [p. 240 modifica]compro qualche altra cosa!... Vittorio, dell’altra conserva.

Il garzone finiva di distribuirla. Poi portò il caffè: quelli che lo volevano gli davano subito i tre soldi. Qualcuno se n’era già andato a passeggiare pel corridoio, cercando un cantuccio per fumare in pace la sigaretta. Gli altri restavano sonnacchiosi davanti alla tavola piena di piatti sudici; facevano delle palline di pane tornando sempre agli stessi discorsi in quel puzzo di mangiato che non sentivano piú, e nel caldo da stufa che arrossiva le orecchie. I muri trasudavano: dalla volta ammuffita cadeva una lenta asfissia. Il Deloche, appoggiato al muro, inzeppato di pane, digeriva chetamente con gli occhi fissi all’apertura che dava sulla strada: tutti i giorni era quello il suo divertimento dopo colazione, guardare a quel modo i piedi di coloro che passavano lesti lesti lungo il muro, piedi piatti, scarponi, scarpe eleganti, stivaletti da donna; un viavai continuo di piedi viventi senza corpo né testa. I giorni di fango era un vero sudiciume.

— Ma come? di già?

Una campanella sonò in fondo all’andito; bisognava lasciare il posto alla terza tavola. I garzoni venivano con secchi d’acqua tiepida e grandi spugne, e lavavano l’incerato. Le stanze si votavano a poco a poco, e i commessi tornavano alle sezioni, salendo lentamente le scale. In cucina, il cuoco s’era rimesso al suo posto dietro allo sportello tra i recipienti della carne e della salsa, bell’e pronto a riempire un’altra volta i piatti col suo moto regolare da orologio. Mentre l’Hutin e il Favier venivano su piano piano, videro Dionisia che scendeva. [p. 241 modifica]

— Il Robineau è tornato, signorina — disse l’Hutin con cortesia canzonatrice.

— È ancora a tavola — aggiunse l’altro. — Però, se avete fretta, potete entrare.

Dionisia seguitava a scendere senza né rispondere né voltarsi.

Ma quando passò davanti alla stanza da pranzo dei capi e degli aiuti, non poté fare a meno di gettarvi un’occhiata. Il Robineau c’era davvero: avrebbe cercato di parlargli dopo; e si affrettò per l’andito verso la sua tavola, ch’era in fondo.

Le donne mangiavano da loro in due stanze riservate. Dionisia entrò nella prima, ch’era anche essa un’antica cantina adattata a refettorio, ma con un po’ piú di decenza. Sulla tavola ovale, in mezzo, le quindici posate non stavano fitte fitte, e il vino era in bocce; ai due capi, due vassoi: uno di carne con la salsa piccante, l’altro di razza. Un garzone col grembiale bianco serviva le signore, che non erano obbligate a pigliarsi da sé le porzioni allo sportello. La Direzione aveva voluto, cosí, usare speciale riguardo al sesso.

— Avete dunque fatto tutto il giro? domandò Paolina, ch’era di già a sedere e si tagliava il pane.

— Sí, — rispose Dionisia, arrossendo — accompagnavo una cliente.

Era una bugia: Clara diè nel gomito a una ragazza accanto. Che diavolo aveva la «sciattona »? Quel giorno ne faceva di tutte. Aveva cominciato col ricevere lettere dell’amante, poi s’era messa a correre su e giú pel magazzino come una pazza, con la scusa del laboratorio, dove non poneva mai piede. Chi sa che pasticcio [p. 242 modifica]era! Allora Clara, pur seguitando a mangiare la sua razza allegramente come una che in altri tempi aveva mangiato di peggio, cominciò a parlare su un fatto terribile, di cui eran pieni i giornali.

— L’avete letto di quell’uomo che ha tagliata la testa all’amante con un rasoio?

— To’! — osservò una ragazzina col viso delicato — l’aveva trovata con un altro... Ha fatto bene.

Ma Paolina saltò su:

— O questa è bella! Sta’ a sentire che, se non si vuol piú bene a uno, lui può venire a tagliarci il collo. Oh, questo poi no!

E interrompendosi, si volse al garzone:

— Pietro, questa carne non la posso mandar giú... Fatemi fare una frittatina, e poco cotta, veh!

Per aspettarla, tirò fuori di tasca pasticche di cioccolata (aveva sempre qualche ghiottoneria con sé), e cominciò a rosicchiarle col pane.

— Sicuro, un uomo a quel modo non mi piacerebbe! — riprese Clara. — Eppure ce ne son tanti dei gelosi! Anche ieri l’altro un operaio fece fare alla moglie un bel volo dalla finestra!

Non levava gli occhi di dosso a Dionisia; credeva d’avere indovinato, vedendola impallidire. Non c’era dubbio; quella santocchia aveva una gran paura d’essere ceffonata dall’amante, cui di sicuro faceva le corna. Sarebbe stato un bel caso, se lui l’avesse inseguita pel magazzino, come pareva che ella temesse.

Ma, di discorso in discorso, una ragazza dava ora una ricetta per far raddrizzare il velluto: poi parlarono d’un’operetta al Teatro della Galté, dove c’erano degli amorini di bambine, che [p. 243 modifica]ballavano meglio delle grandi. Paolina, fatta seria per un momento dalla sua frittata, che le pareva cotta troppo, tornava allegra sentendola invece assai buona.

— Datemi un po’ di vino! — chiese a Dionisia. — Vi dovreste, anche voi, ordinare una frittata.

— La carne a me basta — rispose la giovinetta che, per non spendere nemmeno un soldo, si contentava del vitto del magazzino, benché le ripugnasse.

Quando il garzone portò lo sformato di riso, le ragazze protestarono; anche la settimana scorsa lo avevan lasciato, e speravano non tornasse piú. Dionisia, senza pensarci, turbata da quelle storie di Clara, per via di Gianni, fu la sola che ne mangiò, e tutte la guardavano come se facesse schifo. Si sfogarono a spese loro con la conserva; era, del resto, «elegante» mangiare a proprie spese.

— I commessi, sapete? — disse la ragazzina delicata — si son lamentati e la Direzione ha promesso...

Fu uno scroscio di risate; non discorsero piú che della Direzione. Non ce n’era una che non pigliasse il caffè, eccetto Dionisia, la quale non lo poteva soffrire, diceva lei. E stavano lí con la loro tazzina davanti; quelle delle «biancherie» vestite di lana come semplici borghesi, quelle delle «confezioni» vestite di seta, col tovagliuolo sotto il mento per non insudiciarsi; parevan signore, scese in cucina a mangiare con le cameriere. Avevano aperta la finestra per dare un po’ d’aria, e mandar via quell’afa e quel puzzo; ma bisognò richiuderla subito, perché le ruote dei legni pareva passassero sulla tavola. [p. 244 modifica]

— Zitte! — disse Paolina — ecco quella bestiaccia!

Era il Jouve. Girava volentieri attorno alle ragazze quando finivano di mangiare; non c’era nulla che dire, perché toccava a lui sorvegliare le due stanze. Con gli occhi sorridenti entrava e faceva il giro delle tavole; qualche volta si metteva perfino a discorrere, domandando se avevan mangiato bene. Ma tutte scappavano via subito, per non esser seccate.

Sebbene non fosse ancora sonata l’ora, Clara fu la prima ad andarsene, e le altre le tennero dietro. In breve non restarono che Paolina e Dionisia. Paolina, finito il suo caffè, dava fondo ai cioccolatini.

— To’! disse a un tratto, alzandosi voglio mandare qualcuno a comprare delle arance... Venite anche voi?

— Fra poco — rispose Dionisia che rosicchiava una crosta di pane, tanto per restare l’ultima e poter parlare al Robineau nel tornar su.

Ma quando si trovò sola col Jouve, capí d’averla sbagliata, e, dispiacente, si alzò. Mentre ella si volgeva verso l’uscio, costui le sbarrò la strada:

— Signorina...

Diritto in faccia a lei, aveva presa un’aria paterna. I mustacchi grigi, i capelli corti e irti, gli davan l’aspetto d’un onesto soldato; e sporgeva il petto col nastrino rosso.

— Che desidera? chiese lei, in tono rimesso.

— Anche stamani vi ho sorpresa lassú, che discorrevate dietro i tappeti. Voi sapete che è proibito, e se facessi il rapporto... Ma dunque vi vuol proprio bene la vostra Paolina? [p. 245 modifica]

I mustacchi gli si mossero; una fiamma gli fece ardente il naso enorme, naso curvo, spugnoso, che rivelava bramosie da toro.

— Ma c’è verso di saperlo perché vi volete tanto bene voi due?

Dionisia non capiva, ma era turbata: le si avvicinava troppo e le parlava sul viso.

— È vero... si discorreva, signor Jouve, - balbettò lei — ma che male c’è a far due chiacchere?... Lei, però, è tanto buono con me, che la devo ringraziare egualmente.

— Non dovrei mai esser tanto buono. La giustizia!... vedete, la giustizia!... Ma quando una è carina come voi...

E si avvicinava ancora. Allora lei ebbe proprio paura. Ciò che le aveva detto Paolina le tornava in mente; si ricordava certe storielle che correvano di qualche ragazza che si comprava la benevolenza del Jouve, avendone paura. Nel magazzino, del resto, lui si contentava di poco: accarezzava con i suoi ditoni grassi le gote delle ragazze compiacenti, pigliava loro le mani e le teneva nelle sue quasi distrattamente. Erano, in fondo, cose paterne: al toro non dava la via che fuori, quando qualcuna accettava le fettine di pane col burro in casa di lui.

— Mi lasci andare! — mormoró la ragazza, dando indietro.

— Via via, non fate tanto la cattiva con me, che vi ho sempre dei riguardi!... Siate buona, venite stasera a inzuppare una fettina di pane in un po’ di tè. Alla buona, veh!

Ma lei ora si dibatteva.

— No! no!

La stanza era sempre vuota, il garzone non tornava piú.

Il Jouve, attento al rumore dei pas[p. 246 modifica]si, diè un’occhiata rapida intorno; e, fuor di sé, oltrepassando la paterna familiarità, cercò di darle un bacio sul collo.

— Birbantella... bestiolina!... Con quei capelli, come si fa a essere tanto sciocca? Venite, stasera: si ride un po’.

Ora lei, piena di terrore, per quel viso ardente, di cui sentiva l’alito, pareva pazza. Di colpo gli diè uno spintone con tanta forza, che il Jouve barcollò e quasi cadde sulla tavola. Per fortuna c’era lí una seggiola; ma nell’urto, il vino che era rimasto in fondo a un bicchiere sprizzò fuori e gli macchiò la cravatta bianca, bagnando anche la decorazione. Rimase lí, senza nemmeno asciugarsi, soffocando dalla rabbia per tanta villania. Quell’uscita non se l’aspettava! Ci era andato tanto con le buone, e lei si rivoltava a quel modo!

— Non son io, se non te la faccio scontare!

Dionisia era scappata via. In quel punto sonava la campanella; e nella confusione, tremando ancora, non pensò piú al Robineau e ritornò alla sezione. Dopo non ebbe piú il coraggio di tornar giú.

La facciata dalla parte di Piazza Gaillon, esposta al sole, dopo mezzogiorno, ardeva addirittura; e nella sala del mezzanino, nonostante le tende di tela grigia, ci si scoppiava dal caldo. Vennero delle clienti, ma fecero sudare le ragazze senza comprar nulla. Tutte sbadigliavano sotto i grandi occhi sonnolenti della signora Aurelia. Finalmente, verso le tre, Dionisia, vedendo che la direttrice s’addormentava, prese l’uscio cheta cheta e si rimise a correre pel magazzino con aria spaventata. Per imbrogliare i curiosi che le potevano tener dietro con gli occhi, non scese [p. 247 modifica]subito alle sete; prima parve che andasse alle trine; vi fermò il Deloche e gli domandò qualche cosa; poi a pianterreno traversò le tele dipinte; e stava per entrare nella sezione delle cravatte, quando lo stupore la fermò di botto. Gianni le si parava di faccia.

— Ma come? perché sei venuto qui? — mormorò lei, impallidendo.

Gianni aveva il camiciotto da lavoro, era senza cappello, coi capelli biondi tutti arruffati, con qualche ricciolino sulla pelle da ragazza. Ritto innanzi a una mostra di cravatte nere, pareva che stesse meditando profondamente.

— Che ci fai qui? — domandò lei.

— To’! rispose — aspettavo!... Tu non vuoi che ci venga, e per questo son entrato, ma senza dir nulla a nessuno. Oh! puoi stare tranquilla! Fingi di non conoscermi; sei padrona.

Alcuni commessi cominciavano a guardarli curiosamente; Gianni abbassò la voce.

— E sai, m’ha voluto accompagnare proprio in persona. Già, è lí sulla piazza, accanto alla Fontana... Dammi lesta quindici franchi o siamo fritti, come è vero il sole!

Dionisia perse la testa: i commessi stavano a sentire e ridevano. Dietro la sezione, c’era un uscio che dava nel sotterraneo; l’aprí, vi spinse il fratello, e lo portò giú con sé. Gianni le ripeté la storiella, non trovando le parole e cercando i fatti, per paura di non esser creduto.

— I quattrini non son mica per lei! È onesta... E nemmeno per il marito; che gliene importa a lui di quindici franchi? Nemmeno un milione gli farebbe permettere che sua moglie... E un fabbricante di colla, te l’ho detto, eh? Stanno benissimo... No, no! Un birbaccione, un suo [p. 248 modifica]amico, un amico di lei, ci ha visti; e se non gli do quei quindici franchi stasera...

— Zitto! — mormorò Dionisia. — Vieni via... lesto!

— Eran scesi nell’ufficio delle spedizioni. La stagione, poco propizia al commercio, addormentava il vasto sotterraneo sotto la pallida luce delle finestrine. C’era fresco, pareva che dalla volta piovesse un silenzio grave. Un garzone prendeva da uno degli scompartimenti i pochi involti per il quartiere della Maddalena; e sulla tavola il Campion, capo dell’ufficio, se ne stava a sedere con le gambe penzoloni e gli occhi aperti.

Gianni ricominciò:

— Il marito ha un coltello...

— Via, via! — ripeté Dionisia, seguitando a spingerlo innanzi.

Fecero tutto un andito stretto dove il gas ardeva continuamente. A destra e a sinistra, in fondo alle cantine buie, le merci di riserva affoltavano le ombre loro dietro i cancelli. Finalmente si fermò appoggiandosi a uno di quei ripari. Non sarebbe venuto nessuno, di sicuro; ma era proibito, ed ella si sentiva un brivido per le ossa.

Se quel birbaccione fa la spia, — riprese — a dire Gianni — il marito ha un coltellone...

— Ma dove vuoi che li pigli, io, quindici Non franchi? esclamò Dionisia disperata. — Non vuoi dunque mettere giudizio mai! Ti accadono una dopo l’altra cose tanto strane che...

Gianni si picchiò con la mano nel petto. Fra tutte quelle invenzioni non sapeva piú nemmeno lui la verità. Non faceva che atteggiare a dramma i suoi appetiti; in fondo c’era sempre qualche urgente necessità. [p. 249 modifica]

— Su quel che ho di piú sacro, questa volta poi è proprio vero... Io la tenevo cosí, e lei mi abbracciava...

Lo dové far chetare ancora, e, non potendone piú, perseguitata a quel modo da tutti, proruppe:

— Non voglio saperne nulla, la tua cattiva condotta tientela per te. Son cose troppo brutte, capisci?... E tu non la smetti mai di tormentarmi coi tuoi cinque franchi!... Già, sto le nottate intere a lavorare... e tu rubi, rubi, intendi?, il pane al tuo fratellino.

Gianni restava a bocca aperta, fattosi pallido. Ma come? eran cose troppo brutte? Non ci capiva piú nulla: aveva sempre trattata la sorella come un buon compagno, e gli pareva naturale sfogarsi con lei. Ma ciò che piú lo meravigliava, era che lei lavorasse la notte. Il pensiero che egli la struggeva, e che mangiava il pane di Beppino, lo commosse sí forte, che si mise a piangere.

— Hai ragione! hai ragione! sono un infame! Ma non sono cose brutte, no! Anzi son belle, son tanto belle, che non si può fare a meno di ricominciare... Lei, vedi, ha vent’anni sonati, e credeva di poter scherzare, perché io ne ho soltanto diciassette... Dio mio! che male mi voglio ora da me! mi darei degli schiaffi. — Le aveva prese le mani, e le baciava bagnandole di lacrime. Dammi i quindici franchi, e ti giuro che sarà l’ultima volta... Ma no! no! non mi dar nulla; è meglio che io muoia. Se il marito m’ammazza, almeno non avrai piú questo pensiero.

Vedendo piangere anche lei, ebbe un rimorso:

— E poi, chi lo sa? Può anche essere che non ammazzi nessuno... Ci accomoderemo in qualche [p. 250 modifica]modo, sorellina mia; te lo prometto. Via, via! addio: me ne vo.

Un rumore di passi in fondo all’andito li turbò. Lei lo prese e lo tirò con forza verso il cancellino, in un cantuccio d’ombra. Per qualche secondo non sentirono che il cigolio d’un becco di gas accanto a loro; poi, i passi si fecero piú vicini, e Dionisia, allungando la testa, riconobbe il Jouve, ch’era entrato, col suo portamento rigido, nell’andito.

Passava per caso, o qualche altro sorvegliante, fermo alla porta, l’aveva avvertito? Fu presa da un tale spavento, che, non sapendo piú che fare, cacciò Gianni fuor delle tenebre dov’erano nascosti, e se lo spinse innanzi, sussurrandogli:

— Va’ via! va’ via!

Tutt’e due correvano a piú non posso, e si sentivano alle spalle il fiato grosso del Jouve, che correva anche lui. Ritraversarono l’ufficio delle spedizioni, e giunsero in fondo alla scala, che dava in Via della Michodière.

— Va’ via! va’ via! — ripeteva Dionisia. — Se posso, ti manderò i quindici franchi a ogni modo.

Gianni, sbalordito, scappò. L’ispettore, scalmanato, non vide, arrivando, che il camiciotto bianco e i riccioli biondi mossi dal vento della strada. Riprese fiato per recuperare la sua gravità; aveva una cravatta bianca nuova nuova, presa alla sezione della biancheria, con un fiocco larghissimo che splendeva come neve.

— Brava, brava davvero! — disse poi con le labbra che gli tremavano. — Brava, proprio brava! se sperate che io tolleri nel sotterraneo queste sudicerie, oh sbagliate, ve lo dico io!.... [p. 251 modifica]

E seguitava a dir brava! mentre essa risaliva al magazzino, tanto commossa da non poter pronunziare una parola di difesa. Ora si disperava d’essere scappata in quel modo: non avrebbe potuto scusarsi, mostrare il fratello? Chi sa che cosa si sarebbero immaginati! Nessuno, per quanto ella giurasse, le avrebbe creduto. Anche quella volta si scordò del Robineau, e ritornò alla sezione.

Il Jouve, senza aspettare altro, era corso alla Direzione per fare rapporto. Ma il garzone di servizio gli disse che il direttore era col Bourdoncle e col Robineau, e discorrevano da un quarto d’ora. Dall’uscio socchiuso si sentiva il Mouret dimandare di buon umore al commesso se aveva passate bene le vacanze; di mandarlo via non se ne ragionava; la conversazione si aggirava invece su certi provvedimenti che bisognava prendere nella sezione.

— Volete qualche cosa, signor Jouve? — disse ad alta voce il Mouret. Entrate, entrate!

Ma un istinto rattenne l’ispettore: vide uscire il Bourdoncle, e raccontò tutto a lui. Passo passo vennero insieme lungo la galleria degli scialli, l’uno parlando chinato, a voce bassissima, l’altro ascoltando senza che una linea del volto severo desse a vedere quel che pensava. E siccome erano arrivati alle «confezioni», Proprio allora la signora Aurelia si scatenava contro Dionisia. Ma da dove veniva? quella volta non poteva dire d’essere stata al laboratorio; era un continuo andare e venire, e a quel modo non si poteva durare.

— Signora Aurelia! disse il Bourdoncle.

S’era risolto di tagliar lui il nodo, perché ave[p. 252 modifica]va paura che il Mouret s’impietosisse. La direttrice venne innanzi, e tutta la storia fu raccon tata da capo a voce bassa. Le ragazze aspettavano impazienti, fiutando una catastrofe. Poi la signora Aurelia si voltò solennemente:

— Signorina Dionisia...

E sul suo viso da imperatore apparve la inesorabile immobilità dell’onnipotenza:

— Andate alla cassa.

La terribile frase sonò forte nella sezione vuota allora di clienti. Dionisia era rimasta ritta e bianca come un cencio lavato, senza un respiro.

Poi balbettò:

— Io! io!... Ma perché? che ho fatto io?

Il Bourdoncle rispose duramente che nessuno lo sapeva meglio di lei, è che avrebbe fatto meglio a non chiedere spiegazioni: accennò alle cravatte, e aggiunse che sarebbe stato un affar serio se tutte le ragazze fossero andate a quel modo nel sotterraneo a confabulare con gli amanti.

— Ma era il mio fratello! — gridò lei con la collera dolorosa d’una vergine cui si faccia violenza.

1 Margherita e Clara si misero a ridere; perfino la Frédéric, tanto discreta di solito, crollò la testa con un’aria incredula. Sempre quel fratello!

era un po’ troppo, via! Allora Dionisia li guardò tutti: il Bourdoncle che fin dal primo giorno.

non ce la voleva tra i piedi, il Jouve ch’era rimasto lí a far testimonianza e che non le avrebbe certo resa giustizia; poi le ragazze, che non le era riuscito disarmare con nove mesi di coraggio sorridente, ed erano beate di vederla andar via, sospinta da loro medesime. A che combattere? perché volersi imporre, se nessuno era dalla sua? E se n’andò senza aggiunger parola; [p. 253 modifica]non diede nemmeno un’occhiata a quella stanza dove aveva sofferto tanto.

Ma subito che fu sola, davanti alla ringhiera della gran corte, un’angoscia piú viva le strinse il cuore. Nessuno le voleva bene; e il pensiero improvviso del Mouret le toglieva tutta la rassegnazione. No! no! non poteva rassegnarsi ad esser mandata via cosí! Anche lui ci avrebbe forse creduto a quella turpe storiella, a quell’appuntamento con un uomo in fondo al sotterraneo.

A codesto pensiero una gran vergogna l’assalse, un’angoscia di cui non aveva mai fin allora sofferto la stretta. Voleva andarlo a trovare; gli avrebbe spiegato le cose, soltanto perché le sapesse lui, come stavano veramente: poi, per lei sarebbe stato lo stesso andarsene o no. E la sua vecchia paura, il brivido che davanti a lui la coglieva, divenne a un tratto un bisogno ardente di vederlo, di non andar via prima d’avergli giurato che non s’era data ad un altro.

Eran quasi le cinque: il magazzino ripigliava un po’ di vita nell’aria piú fresca della sera. Risolutamente si avviò verso la Direzione: ma quando si trovò all’uscio dello studio, fu di nuovo presa da una disperata tristezza; la lingua non le si scioglieva; tutto il peso dell’esistenza le ricadeva sulle spalle. Anche il Mouret non l’avrebbe creduta; anche lui avrebbe riso come gli altri; e questa paura la fece quasi svenire. Tutto era finito: meglio per lei star sola, scomparire. E senza nemmeno raccontare a Paolina o al Deloche, ciò ch’era avvenuto, andò difilata alla cassa.

— Signorina, disse l’impiegato — voi dovete avere ventidue giornate; son diciotto fran[p. 254 modifica]chi e settanta; piú sette franchi di utili sulla vendita. Sta bene?

— Sí, grazie.

E Dionisia se n’andava col suo danaro, quando finalmente s’imbatté nel Robineau. Sapeva di già che l’avevano mandata via, e le promise di trovare la donna delle cravatte. A bassa voce la consolava e insieme ci si riscaldava. Che vita!

vedersi sempre sul punto d’essere licenziati per un capriccio! licenziati da un momento all’altro senza poter nemmeno avere lo stipendio intero del mese! Dionisia salí ad avvertire la Cabil che in serata avrebbe cercato di mandare a pigliare la valigetta. Sonavano le cinque quando si trovò sul marciapiede di Piazza Gaillon, sbalordi.

ta, in mezzo ai legni e alla gente.

La sera stessa, mentre il Robineau entrava in casa sua, ricevé una lettera della Direzione che in cinque righe l’avvertiva come per ragione di servizio si fosse nella dura necessità di privarsi dell’opera sua. Eran sette anni che stava nel magazzino; e quel giorno stesso aveva discorso con quei due signori! Fu come una mazzata sul capo. L’Hutin e il Favier cantavano vittoria alle «sete», come Margherita e Clara trionfavano.

alle «confezioni». Bel colpo era stato! Soltanto il Deloche e Paolina, quando s’incontravano nel viavai delle sezioni, si scambiavano qualche parola addolorata, rimpiangendo Dionisia, cosí buona e onesta.

— Ah! — diceva il giovinotto — se le riuscisse di farsi largo in qualche altro posto, vorrei che tornasse qui a schiacciarle tutte, queste poco di buono!

Toccò al Bourdoncle sopportare in questo affare l’urto violento del Mouret. Quando questi [p. 255 modifica]seppe che avevan mandato via Dionisia, montò sulle furie. Egli, di solito, non se n’occupava mai degl’impiegati; ma questa volta finse di fiutare una ribellione, un tentativo per sottrarsi alla sua autorità. Dunque il padrone non era piú lui? Osavano dare dei comandi? Tutto doveva passare sotto i suoi occhi, tutto! e avrebbe spezzato come un fil di paglia chiunque gli resistesse.

Poi, quando ebbe cercata per conto suo la verità, ci s’arrabbiò piú che mai: la ragazza non aveva mentito; quel giovane era proprio il suo fratello. L’aveva riconosciuto il Campion. E allora perché mandarla via? Parlò perfino di ripigliarla.

Ma il Bourdoncle, forte nella resistenza, sapeva piegarsi sotto la tempesta, e studiava il Mouret.

Finalmente, un giorno che lo vide piú tranquillo, osò dirgli con un certo tono di voce:

— È meglio per tutti, che se ne sia andata!

Il Mouret non trovò lí per lí una risposta, e si fece rosso in viso.

— Chi sa — rispose ridendo — che non abbiate ragione?... Andiamo a vedere come vanno le cose. Non c’è malaccio, pare; ieri si son fatti quasi centomila franchi.