L'aes grave del Museo Kircheriano/Tavola I. II. III. A. III. B. III. C.

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Incerte - Tavola di supplemento Tavola IV. V. VI. VII.
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PARTE SECONDA


RAGIONAMENTO

CLASSE I.

TAVOLE I. II. III. A. III. B. III. C.


Se ne’ sanguinosi contrasti, che secondo la storia i primitivi popoli di questa Italia tiberina sostennero contro Roma, per impedirle il levarsi alla gloria del primato e alla grandezza dell’impero, gli etruschi di Vejo o di Cere, gli equi di Tivoli o di Palestrina, i latini d’Albalunga o di Tuscolo, i rutuli d’Ardea o i volsci d’Anzio avessero avuti amici gli auspizj, come gli ebbe questa Roma, noi tra la copia delle monete primitive, che mancano d’ogni epigrafe, a grande fatica sapremmo discernere quali fossero le romane. Le sappiamo al presente con si grande facilità riconoscere, perchè gli scrittori ch’ebbe Roma, e non ebbero i popoli vicini, ne diedero un qualche indizio di ciò che su di esse, e singolarmente sul rovescio vi era rappresentato, e molto più perchè l’arte della moneta, che in Roma non dovea mai venir meno, nel suo progredire aggiunse alle antiche impronte l’iscrizione ROMA: la qual cosa far non si potè da’ popoli vicini, che troppo presto si videro da Roma spogliati del diritto di segnar moneta propria e nazionale. Non v’è dunque mestieri d’altri argomenti a provar che le monete delle cinque tavole prime di questa classe son monete romane. D’altronde l’occhio stesso che riconosce Roma in quelle scritte della tavola III. C, troverebbe una insuperabile difficoltà a persuadersi, che sia un altro il padrone di quelle delle tavole precedenti.

Né è necessario il rinnovare ricerche per iscoprire la prima introduzione di questa moneta in Roma ; se pure non si volesse che ridicessimo ciò che abbiamo esposto nell’esaminar che abbiamo fatto le sentenze di Plinio intorno alla storia della moneta. L’opinion nostra è che quest’arte non sia qui meno antica del primo secolo della città di Romolo, e che qualcuno di que’ primi re la prendesse da’ vicini popoli, che già ne aveano l’uso. Avremmo quindi noi per la ragione cronologica dovuto porre in questo primo luogo le monete che riputiamo d’origine anteriore alle romane: ma la necessità di aprirci la via procedendo dalle cose che meglio conosciamo a quelle che in qualche parte di se ci sono tuttora sconosciute, vuol che ci dipartiamo per poco da quel giusto divisamento. [p. 40 modifica]Leggesi in queste tavole l’intera storia dell’arte della moneta di bronzo in Roma dalla prima sua origine fin quasi verso la fine della republica. La tavola III. A. ci dimostra quale essa fu dal primo nascere sino al tempo in che cominciò a perdere del suo peso. La parte sinistra della tavola III. B. ci dà a vedere una delle sue prime diminuzioni. Coincide questa col tempo in cui Roma segnò il decusse della tavola I., i tripondj e il dupondio della tavola II. e cominciò ad usare il conio anch’essa, per effigiar la moneta con maggiore prontezza e facilità. La fusione in questo tempo forniva le quattro monete maggiori: le due minori si stampavano col conio, e posson vedersi cotesti sestanti ed oncie coniate nella parte sinistra della tavola III. C. La parte destra della III. B. rappresenta una seconda diminuzione, nella quale pure operano di concerto la fusione ed il conio; ma in tal guisa, che la fusione costantemente crea l’asse e il semisse, come il conio segna costantemente il quadrante, il sestante e l’oncia: il triente viene contemporaneamente da amendue le arti, come vedesi ne’ trienti d’amendue le tavole. Finalmente la parte destra della tavola III. C. contiene tre altre diminuzioni diverse, alle quali la moneta in diversi tempi fu richiamata, dopo che la fusione avea perduto sopra di essa ogni diritto. Rimane per tal modo palese e certa la ragione, per cui mancano i sestanti e le oncie fuse alla prima diminuzione; e alla seconda, oltre i sestanti e le oncie, anche i quadranti. Vedesi quivi perchè sia piutosto raro il triente fuso della seconda diminuzione, e perché i trienti, i quadranti, i sestanti e le oncie coniate che so- no nella parte sinistra della tavola III. C. non abbiano le loro parti maggiori operate col conio.

Alla questione del peso non daremo noi mai quella importanza che non ha: ma neppure ometteremo di render ragione di que’ fatti principali che valgono a chiarire una qualche oscurità. I ventidue assi della prima epoca che qui abbiamo per le mani, s’avvicinano alle undici oncie senza mai toccarle, e non discendono al di sotto delle nove. Quelli tra le undici e le dieci non sono che sei; gli altri sedici stanno tutti tra le nove e le dieci. In questa serie che tanto abbonda di assi, non vogliamo tener conto del peso de’ semissi e delle altre parti minori, perchè il meno o il più del metallo che in queste monete minori non è difficile rincontrare, ne condurrebbe a conseguenze troppo incerte, quando da esse volessimo argomentare qual fosse il vero peso dell’asse. L’errore o l’alterazione di peso nel semisse, quando si rifonda sopra l’asse, si raddoppia; tripla diviene nel triente, quadrupla nel quadrante, incalcolabile affatto nell’oncia. Se questa differenza di quasi due oncie, che trovasi negli assi più pesanti di Roma, debba prendersi per argomento di diminuzione di peso, altri lo giudichi: l’opinion nostra sarebbe contraria a questo giudizio, perchè abbiamo in mano troppo certe prove della grande insufficienza o trascuranza de’ fonditori in quella prima età. [p. 41 modifica]Testimonj veridici della prima diminuzione di peso nella moneta romana ne sono i sestanti e le oncie, che quivi furono la prima volta coniate. Que’sestanti pesano un’ oncia, e quelle oncie sono appunto la metà de’ sestanti. Su queste monete con tanto maggiore sicurezza possiamo stabilire il peso dell’asse romano nelle sei oncie, quant’era più facile il determinare il peso di questi piccioli metalli prima di sottoporli al conio.

Il decusse della prima tavola supera le trentanove oncie, e un de’ tripondj della tavola seconda supera le undici. Questi due pesi tanto è più certo che si riferiscono ad un asse di quattr’oncie, quanto la differenza in più o in meno del metallo di queste due monete era più difficile in tanta grandezza. E quando una qualche alterazione anche qui avesse avuto luogo, divisa questa nelle tre libre del tripondio viene di molto a diminuirsi, nelle dieci libre del decusse al tutto si annienta. I sestanti e le oncie coniate confermano mirabilmente il fatto di queste quattr’oncie.

Il secondo tripondio della tavola seconda eguaglia esattamente il peso di nove oncie; il dupondio quello delle sei. Che se a queste due monete aggiungansi i trienti, i quadranti, i sestanti e le oncie coniate, che abbiam rappresentate nella parte sinistra della tavola III. C.; non può rimanervi dubbio sul peso di tre oncie, che fu un tempo quello dell’asse romano. A questo tempo si possono giustamente riportare il semisse fuso che porta scolpita la L arcaica, il sestante e l’oncia coniata che portano la spiga sopra la prora, come abbiam fatto disegnare nelle due tavole III. B., e III. G. Nulla diciamo della significazione di quelle spighe e di quegli L che truovansi eziandio nelle parti coniate minori del semisse. Un tal discorso apparterrebbe alle monete delle famiglie romane, che noi ora non abbiamo in animo d’esaminare.

Nella parte destra della tavola III. C. la prima serie è quella del famoso asse sestantario, la seconda quella dell’asse onciale, la terza dell’ asse semonciale.

Le nostre monete ne indicano altre diminuzioni tra mezzo alle sei, di cui abbiam recate le pruove: ma nel rintracciarle e metterle in veduta non ritroviamo per ora un grande interesse per questa dottrina della moneta romana di bronzo.

Conchiuderemo avvisando gli studiosi, che la prima epoca ebbe una lunga durata, come si può argomentare dalla quantità della moneta romana della prima grandezza. La moneta delle varie diminuzioni è molto meno copiosa : quantunque i romani de’ primi secoli non avessero a provedere se non a proprj bisogni; laddove ne’ secoli seguenti dovessero fornire la moneta necessaria non al solo commercio civile e nazionale, ma a quello altresì de’ popoli che aveano conquistati. Dunque la moneta romana diminuita ebbe un corso molto breve: il qual fatto comparirà anche più ragionevole, se si consideri, che la molta comodità de’ conj non poteva lasciare che avesse una lunga vita la precedente arte della fusione. [p. 42 modifica]Quando avessimo potuto serbare l’ordine cronologico nella publicazione di queste monete, avremmo trovata una maggiore facilità nell’illustrarle, e non saremmo costretti a tener discorso prima della copia, per poi trapassare all’originale. Roma fu forse l’ultima di origine tra le città latine, e per un lungo corso di tempo pare che nelle costumanze religiose, civili e militari non avesse alcuna cosa che dir non si potesse latina. Nell’allontanarsi da’ primi natali, venne provedendosi di ciò che trovava di meglio adattato a’ suoi bisogni e alle sue istituzioni tra gli etruschi e anche tra gli altri popoli, su cui stese le sue conquiste. Ma nel decorso di questo ragionamento vedremo, che Roma su la sua moneta non fece forse altro che ricopiare la moneta latina.

Il bifronte che è nel diritto degli assi romani non può meglio illustrarsi, che con gli altri bifronti che sono negli assi delle tavole VI. e VII. di questa prima classe, e in tutta la serie della tavola I. classe III. I due primi sono di città molto prossime a Roma, anzi forse di città latine : e l’ultimo è di Volterra città etrusca. Ecco in qual modo noi stimiamo che qui debbasi discorrere. Se fosse stato intendimento de’ latini e degli etruschi l’effigiare Giano ne’ due loro bifronti, e perchè in tanta vicinanza non s’accordarono a rappresentarlo nella medesima forma; ma gli uni gli cinsero il capo di diadema, gli altri gliel coprirono di pileo? E i romani che trovavansi nel mezzo tra gli etruschi e i latini, perchè non presero l’una delle due forme, ma ne foggiarono una terza facendolo barbato? Eppure in altre imagini non vediamo tra questi popoli così strane trasformazioni. Perciò con buona pace di colui che altrove ne ha parlato del Janus geminus, confesseremo d’ essere mal disposti a credere che il buon senso de’ latini, romani ed etruschi volesse con si bizzarra maniera effigiare il nume o l’eroe ch’ebbe impero su le rive del fiume etrusco e latino. E se nel Lazio e nell’Etruria, come in più altri luoghi d’ Italia e fuori, non furono altro mai que’ bifronti se non semplici simboli di due popoli o di due città insieme congiunte, il bifronte romano per nostro avviso non fu forse inventato ad altro fine, se non a quello di significare il primo collegamento de’ romani co’ sabini, dal quale Roma ebbe il vero essere di città e di nazione. Se non che Servio non vuole che restiamo incerti su questo fatto: egli positivamente ce lo dà per vero (Aen. Lib. XII. v. 147.) „ Ipse (Giano) faciendis foederibus praeest: nam postquam Romulus et T. Tatius in foedera convenerunt, Jano simulacrum duplicis frontis effectum est, quasi ad imaginem duorum populorum„.

Questa nuova nazione, acquistata coll’alleanza sabina quella forza e solidità che non avea, ne dimostra nel rimanente delle sue monete, che le sue divinità e la sua religione sono quelle medesime de’ latini. Quindi stampa l’imagine di Giove nel primo luogo che è il semisse; Minerva che dopo Giove ebbe qui sempre i primi onori, gli vien vicina nel triente; la forza, di cui Ercole è il nume e dalla quale la nuova città prese il nome, ha sua sede nel quadrante; il Mercurio, che fu o il primo iddio il primo condottiere [p. 43 modifica]degli aborigeni o de’ pelasgi che nel Lazio stanziarono, occupa il sestante. Finalmente la Venere frigia, creduta madre d’ Enea, è la divinità che a noi pare di ravvisare nell’oncia. Nel ragionare delle quattro seguenti tavole ci studieremo di dar qualche plausibile ragione della nostra opinione in favore del Mercurio pelasgico e della Venere frigia.

Ma vengasi alle imagini del decusse, del tripondio e del dupondio. Il peso ci ha svelato il tempo in che queste monete sono state fuse, che è quello appunto in cui l’asse romano era disceso alle quattr’ oncie. Di queste monete che vanno al disopra della serie ordinaria della moneta italica, ne aveano i romani veduta in tempi rimoti una pruova in quel popolo loro vicino le cui monete abbiamo fatte disegnare nella tavola VIII, di questa classe. I rutuli (se pure a’ rutuli appartiene cotesta tavola) allorché vollero segnar e quel loro dupondio, non inventarono una nuova imagine per istamparvela sopra, ma nel dupondio ricopiarono l’asse. Gli etruschi, che per quanto finora conosciamo, sono i soli che oltre i rutuli ed i romani hanno fatto uso di moneta fusa di forma rotonda, di peso e di valore maggior dell’asse, per una diversa ragione imprimono sui dupondj e quinipondj i simboli e le imagini dell’asse. Ma i romani, che dal primo secolo della città sino alla caduta della republica si tennero inalterabilmente fermi nel ripetere su la loro moneta di bronzo quelle sole impronte, che Romolo forse o Numa vi aveano dapprima fatte stampare, nell’allargar che fecero i confini alla loro serie primitiva, aggiungendole i dupondj, i tripondj e i decussi, pare rispettassero l’istituzione de’ maggiori, e come i rutuli nel dupondio avean ricopiato l’asse, così eglino nel decusse e ne’ tripondj ricopiaron l’oncia, nel dupondio il triente. Gli studiosi pongano tutti i trienti cosi fusi come coniati, che sono nella terza tavola, a confronto del dupondio che è nella tavola seconda, e veggano se il consiglio del loro occhio discorda dalla nostra opinione. Facciano una eguale comparazione tra l’oncia, il decusse e il tripondio romano, e gli assi delle tavole IV. V. e VIII., ed incomincino ad avvedersi del motivo per cui ricorriamo alla Venere frigia per ispiegare quella svariata unità delle tre monete romane. Speriamo che non si vorrà usare severità contra di noi, perchè qui pure ci dipartiamo dalle sentenze de’ numismatici de’ passati tempi. Essi vorrebbono coprire di Minerve tutta la moneta romana, perchè a Minerva donano decussi, dupondj, tripondj, trienti ed oncie: noi per opposto attenendoci al giudizio dell’occhio in questi studj, più che alle altrui sottili speculazioni, riconosciamo nel primo autore della moneta romana il divisamento di variare e non quello di raddoppiare le imagini di que’ sei diritti; nell’autore de’ decussi, ripondj e dupondj crediamo di ravvisare non altra intenzione, che quella di ripetere 1’effigie della Minerva e della Venere frigia, per non alterare, in questa parte almeno, la primitiva istituzione.

Molti sono que’ che veggono l’imagine di Roma nelle tre monete, in cui noi collochiamo la Venere frigia. Non usciremo contra essi in lunghe [p. 44 modifica]confutazioni. Basterà recare in mezzo un doppio confronto per nostra giustificazione. Se la dea del dupondio e dell’asse della tavola VIII. è quella dea medesima che vedesi scolpita su gli assi delle tavole IV. e V., quantunque tra l’una e l’altra v’abbiano delle grandi differenze di stile, stimiamo che gl’intelligenti non troveranno difficoltà ad accordarsi con noi in riconoscere su’ decussi e tripondj romani questa dea stessa, comechè sieno molto gravi le differenze del costume e dell’arte romana dall’arte e dal costume straniero. Ma questi stranieri non erano né gli alleati , né gli amici di Roma; le erano rivali ed emoli invidiosi ; anzi il più delle volte le erano nemici, come quelli che troppo ben conoscevano i divisamenti di lei a loro danno. Or chi potrà persuadersi , che i rivali e nemici di Roma , mentre durano le rivalità e le inimicizie , vogliano tributarle si alto onore da scolpirne la imagine nel luogo il più nobile della loro moneta?

E se vero fosse che le prime origini della moneta di Roma risalgono al primo secolo della città, chi vorrà pure recarsi a credere, che Romolo o Numa pensassero fin da quel tempo ad innalzare a divini onori quella disordinata riunione di miseri abituri e di squallide capanne ch’era Roma in quella sua infanzia? Non neghiamo con ciò, che ne’ tempi in cui le memorie della prima istituzione s’erano smarrite, tra gli stessi romani vi potessero essere di quelli che alla propria Roma, piutosto che alla Venere attribuissero quella imagine. Ma qui noi discorriamo del primo disegno di questa moneta , e in vederla in quella prima comparsa che fa di se nella tavola III. A. n. 6. vestita di forme molto più guerresche di quelle che mostra negli assi delle tavole IV. V. e VIII., riconosciamo l’indole feroce e soldatesca di que’ primi romani, che ogni lor cosa erano obligati a trasformare in armature e in ornamenti da guerra.

I due bifronti non romani della moneta italica primitiva ed insieme la testimonianza autorevole di Servio ci obligano a non riconoscere Giano nel bifronte romano. Ora noi abbiamo nuovi sospetti eziandio contro la nave di Saturno.

Quando i latini , co’ quali Saturno aveva avute relazioni immediate e dirette, vollero porci su gli occhi un simbolo proprio di lui solo, non ricorsero alla nave, ma alla falce cosi bene acconcia a significarci il nome di lui che da essi chiamavasi dio falcifero. I romani che presero da’ latini l’arte della moneta non avrebbono forse adoperato mai altro tipo fuori della falce, se avessero qui voluto parlarci di questo iddio, con cui non erano tanto strettamente legati quanto i latini.

E a qual fine adunque cotesta nave su tutti i rovesci della moneta di bronzo romana ? Facciano i nostri lettori quel conto che si meritano di due congetture che qui liberamente publichiamo. I romani avevano veduta l’unità dell’impronta nel rovescio delle monete che sono alla tavola VIII., e avevano veduto in quella ruota il nome del popolo che delle monete era il padrone. La prora, della nave non portava forse il nome di forza o di Roma: contuttociò [p. 45 modifica]per la robustezza e per il suo uffizio poteva essere simbolo di quel nome. La clava che vedesi sculta sul fianco di queste prore in molte delle monete romane, che furon le prime operate col conio, aggiungerebbe un piccolo peso alla nostra opinione. Una seconda congettura vorrebbe che credessimo intendimento del primo autore della moneta romana essere stato quello di mostrare a’ popoli vicini il vantaggio di che Roma godeva in loro confronto. Essa sola sedea su le rive di quel fiume ch’era forse allora il porto più facile e sicuro anche alle navi più grandi che percorrevano il vicin mare. Né solamente posta era sul fiume, ma n’ era legitima padrona sino alla foce; perchè Romolo avea già tolto a’ vicini ogni diritto su le due rive, se si può prestar fede a’ primi articoli delle romane istorie.

Senza voler penetrare molto addentro ne’ misterj delle arti belle, noi vediamo che queste monete appena mai hanno tra loro un carattere eguale e costante. Nella prima epoca a cagion d’esempio il bifronte offre un insieme ben proporzionato, quantunque nelle parti dimostri assai scarsa intelligenza: il Giove è quasi mezzanamente buono: la Minerva manca di quelle forme che la contradistinguano donna e dea: l’Ercole cade poco meno che nel deforme: il Mercurio e la Venere si rimangono anch’essi al di sotto della mediocrità. Ne’ tempi diversi della diminuzione del peso le monete fuse potrebbono quasi dirsi mostruose: tanto in esse l’arte è universalmente trascurata. In questo tempo medesimo a tanta trascuranza nella fusione accoppiasi nel conio un’ arte, che se non è ottima por ogni parte, è certamente all’ottimo molto prossima. Ma quivi pure a misura che il conio si diparte dalla sua prima origine, le monete vengon perdendo di bellezza e di eleganza, fino a diventar barbare: non mai però in modo ohe così nelle coniate come nelle fuse non se ne vegga tratta tratta comparirò qualcuna lavorata con discreta diligenza e proprietà.

Da questi fatti crediamo si possa dedurre, che nella doppia origine della moneta fusa e della coniata, Roma fu costretta a prevalersi d’artisti forastieri, perchè i proprj non erano da tanto; che in seguito adoperò gli artisti proprj, a’ quali imponeva l’uffizio di far moneta, senza obligarli a farla bella; che ne’ tempi della diminuzione del doppio genere di moneta qualcuno tra la moltitudine degli artisti romani seppe sollevarsi ad un qualche pregio nell’esercizio della sua professione; se pure queste monete di stile migliore non debbono anch’esse attribuirsi a maestri stranieri, che di tempo in tempo quivi ricoveravano.