Pagina:Poemetti italiani, vol. I.djvu/164

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     Ne la più badiale, e ricca fede
Stava il Petrarca, ed a man destra Dante
E ’l gran Boccaccio a la sinistra siede.
     Costor ridean tra lor de l’arrogante,
Che al tempo di Leone, arcipoeta
In Roma trionfò su l’elefante.
     Mentre più basso di carcioffi, e bieta
Tessea degna corona Messer Cino
Ad un mio paesan, che fa ’l poeta,
     Guiton d’Arezzo, e ’l Padre Certosino
Presa licenza da que’ Laureati,
Sen’uscir fuor portando un gran catino,
     Ch’esser pien d’acqua di quei rivi amati
Dalle muse credea, ma poi m’accorsi
Ch’era brodo di caoli riscaldati.
     Questa bevanda si partiva a sorsi
Fra tutti quei, che privi d’invenzione
Traducon l’opre, e vi fan su discorsi.
     E si mandava poi giù pendolone,
Da quelle rive, e non essendo secchia,
S’attaccava alla corda un berrettone,
     Che fu di Dante, de la stampa vecchia,
Fatto a foggia di sporta; e gli orecchini
Ferrati gli servian per la manecchia.
     Stavano a bocca-aperta quei meschini,
Aspettando là giù sorbire il brodo,
E diventar ingegni pellegrini.