Dell'uomo di lettere difeso ed emendato/Parte prima/10
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Ignoranza, e Ricchezze
Chi usa le Lettere per guadagno, e si scrive di Mercurio, come gli Orafi dell’argento vivo, per separare da altrui e tirare a sè l’Oro, non intenderà, che male stia l’Ignoranza in un Ricco. Che se la mano è piena, non accade più vuotarsi il capo, né lambiccarsi il cervello già si è trovata la quinta essenza della Fortuna, che dicono essere il danaro. Basta esser d’oro; poco monta se poi si sia, come il Montone di Frisso, o quel Filosofo bestia, un’Asino d’oro.
Oggi nel mondo i danari son quegli, che comprano e l’amore e l’onore: perciò dunque non v’ha lettere di raccomandazione migliori inchiostro si scriveche con quello de’ Banchieri.
Ingenium quondam fuerat pretiosius auro;
At nunc, barbaria est grandis habere nihil.
E poi; a che tanta Filosofia e tante Scienze in capo, se non servono fuor che a rompere il capo, perché n’esca il cervello? Mirate gli antichi Filosofi; e vi verrà voglia d’aver più tosto le mani di Mida per far dell’oro, che la lor testa per far di queste pazzie. Chi si cava gli occhiper vederci meglio all’oscuro; e per farsi un’Aquila diventa una Talpa. Chi butta le ricchezze in mare si fa mendico per non diventar povero. Chi sceglie per abitarvi luoghi scossi da continovi tremuoti; e gli pare di viver meglio, stando sempre in pericolo di morire; e d’abitar più sicuro, mentre la casa ogni ora sta per fargli un sepolcro. Chi vive in una botte; più come un Cane nel suo nido, che come un’Uomo nel suo albergo. Chi si butta nel Mongibello, e chi nel mare; e l’uno perché non intende la cagione di que’ movimenti, l’altro perché non rintraccia l’origine di quelle fiamme. Pitagora si trasforma in cento bestie; Socrate stando tutto il giorno in un pensiero e ritto su un piè rassembra una Gru; Anassagora, mirando fisso il Sole, un’Aquila; Senocrate è un marmo senza senso; Zenone uno sterpo senza affetti; Diogene un Cane; Epicuro un’animale; Democrito un pazzo, che sempre ride; Eraclito un disperato, che sempre piange. O curas hominum! Non è egli meglio non aver capo, che avere in capo queste pazzie? E questo è esser Filosofo? con questo si merita credito di Letterato? Le perle tonde e grosse (due proprietà de’ Ricchi ignoranti) sono la più preziosa, la più stimata cosa del mondo. Fatemi d’oro: quando ben’io sia un Bue, sarò adorato come un Dio: Apoteosi cominciata ab antiquo, fin da gli Ebrei colà nel deserto, e seguitata dipoi sino a’ tempi d’oggi, per non finir mai.
Questa è la Filosofia di molti Ricchi, la quale cantano per ischerno de’ Dotti, massimamente se li vegggano poveri, mal condotti dalla fame, e cenciosi, se non ignudi.
Ma vorrei io all’incontro aver penna di si buon disegno, che sapesse esprimervi al vivo le deformi fattezze d’un Ricco Ignorante: so che ne avreste quell’orrore, che l’Orgagna, pittor bravissimo de’ suoi tempi, cagionò in molti amici, nello scoprir che lor fece mi bruttissimo ceffo di Medusa, per cui dipingere alvea ricavato e raccolto in uno quanto di sconcio e mostruoso trovò sparso in cento schifi e sordidi animali che a tal’effetto adunò.
Gli Spartani per rendere abbominevole l’ozio e le delizie, nimiche, di quella severa Republica, chiamato il Popolo ad una publica raunauza, gli fecero d’alto vedere Nauclide, uomo sì grasso, che da capo a piedi parea tutto pancia. Altro esame, altro Processo di lui noi, si fece. La sua grassezza lo convincea d’ozioso onde come inutile fu cacciato da quella città, in cui si puniva come dannoso a tutti chi era solo giovevole a sè stesso. Or fatevi comparire inanzi un Ricco ignorante: voi vedete in lui non un’uomo, ma in sembiante d’uomo un vivo pezzo di Paragone, che sa ben distinguere Oro e Argento, e al tocco solo li conosce e li discerne, ma nel rimanente egli é un Sasso. Voi vedete una spugna, che, per ciò che può succiare, è tutt’occhi; al resto, non ha senso, e non é neanche ben’animale.
Vestitelo delle più sottili tele, de’ più candidi lini, delle più le più nobili sete; copritelo delle fine lane, che rosseggino in due tinte di porpora; a egli in Demonatte Filosofo, sentirà dirsi come a quell’altro: Signore, cotesta lana, prima la portava una Pecora; perciò ella vi sta sì bene indosso, e sì volentieri vi s’adatta e acconcia; perché non le pare aver perduto, ma solo aver mutato padrone. E sì come il colore in ch’ella è tinta non toglie ch’ella non sia lana, ancorché più bella; così la sembianza umana che voi avete non fa che non siate una Pecora, benché di più bel pelo e di Più onorata presenza.
Mettetelo in una casa guernita di tutti gli arredi, di tutti i più nobili finimenti: che avete voi fatto? Chi le passa inanzi, e sa le qualità del padrone che v’abita, dira ciò che d’un certo ozioso Vazia, ritirato in un palagio, villesco, dicevano nel passargli avanti i suoi conoscenti: Vatia hic situs est. Eccovi da Seneca la ragione del detto: Vivit is qui se utitur, non chi fa il capo servo del ventre, consumando i pensieri di quello in trovare com’empir questo: dovendo il ventre servire al capo con provederlo di spiriti, strumenti necessarj per operazioni da uomo: altrimenti (siegue egli) qui latitant et torpent, sic in domo sunt, tamquam in conditivo. Horum licet in limine ipso nomen marmori inscribas, mortem suam antecesserunt.
Queste condizioni d’un’uomo ignorante e ricco mostrò ben di sapere Temistocle, quel savissimo Ateniese, che cercando marito ad una sua figliuola povera sì come lui, e offerendosegli per isposo un’uomo ricco sì, ma che non avea due lettere in contanti; dove altri sarebbe corso a quest’amo d’oro, e avrebbe ringraziata la Fortuna coll’Ecatombe di Pitagora egli se ne ritirò con quel detto d’oro, che valse più che tutte le ricchezze di quell’gnorante: Quæro Virum qui indigeat pecunia, non pecuniam quæ indigeat Viro.
E qui, prima di chiudere questo capo, non può meno ch’io non mi lasci traportare a dar’ il buon pro a certe avventurose Famiglie, in cui non tanto le ricchezze come retaggio de’ Maggiori, quanto le Lettere quasi fideicommisso da gli Antenati si tramandano a’ Nipoti; tanto che, come fra i pulcini dell’Aquile, degener est qui lumina torsit, perché non gli soffre l’occhio alla vista del Sole, fra essi e d’origine sospetta, e di sangue straniero sembra chi seco, non trae nascendo la medesima vivezza d’ingegno e ‘l medesimo amor delle Lettere. Alberi di Famiglie veramente felici, in cui v’é sempre qualche ramo d’oro: né solo uno avulso non officit alter aureus; ma in essi v’è d’ogni tempo chi frutta, chi fiorisce, e chi germoglia; adeguando co’ gradi dell’età que’ delle Lettere, che sono imparare, possedere, e insegnare.
Bellissimo costume quello degli Spartani, che ripartiti in tre cori, secondo l’età vecchia, virile, e giovane, in certe, publiche solennità andavan cantando. I vecchi: Nos fuimos fortes. Rispondevano quegli d’età virile: Et nos modo sumus. Ripigliavano i giovani. Et nos erimus aliquando. Qual musica pari a questa? quando avviene, che in una casa l’Avolo, l figliuolo e ‘l Nipote, il primo, benemerito delle Lettere, raccontando i gradi de’ suoi onori, dica quel glorioso Fui; il secondo portandosene le insegne, e godendone gli splendori, dica Sum; l’ultimo dandone le speranze, e assicurandone le promesse, dica, Ero, per dover dire dipoi anech’egli Sum, e all’ultimo, Fui? Questo e incatenare una preziosa discendenza di figliuoli, come gioielli, con anella d’oro: Questo è fare una successione di posteri, con una ricca vena di diamanti, de’ quali ognuno da sè è un patrimonio, tutti insieme sono un tesoro.