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Gerusalemme liberata/Canto sesto

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Canto Sesto

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Canto quinto Canto settimo


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ARGANTE


ARGOMENTO.

     Argante ogni Cristiano a giostra appella:
Indi Otton, non eletto, a lui s’oppone
Audace troppo, e tolto vien di sella;
Onde sen va nella città prigione.
Tancredi pur con lui pugna novella
Comincia; ma a lei tregua il bujo impone.
Erminia che del suo Signor si crede
Curare il mal, muove notturna il piede.



CANTO SESTO.


Ma d’altra parte le assediate genti
Speme miglior conforta e rassicura:
Ch’oltre il cibo raccolto, altri alimenti
4Son lor dentro portati a notte oscura:
Ed han munite d’arme e d’instrumenti
Di guerra, verso l’aquilon, le mura,
Che d’altezza accresciute, e sode, e grosse,
8Mostran di non temer d’urti o di scosse.

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II.


     E ’l Re pur sempre queste parti, e quelle
Lor fa innalzare, e rinforzare i fianchi,
O l’aureo Sol risplenda, od alle stelle
12Ed alla Luna il fosco ciel s’imbianchi:
E in far continuamente arme novelle
Sudano i fabbri affaticati e stanchi.
In sì fatto apparecchio, intollerante
16A lui sen venne, e ragionogli Argante.

III.


     E insino a quando ci terrai prigioni
Fra queste mura in vile assedio, e lento?
Odo ben io stridere incudi, e suoni
20D’elmi e di scudi e di corazze io sento;
Ma non veggio a qual uso: e quei ladroni
Scorrono i campi, e i borghi a lor talento:
Nè v’è di noi chi mai lor passo arresti,
24Nè tromba che dal sonno almen li desti.

IV.


     A lor nè i prandj mai turbati e rotti,
Nè molestate son le cene liete;
Anzi egualmente i dì lunghi, e le notti
28Traggon con sicurezza e con quiete.
Voi da i disagj, e dalla fame indotti
A darvi vinti a lungo andar sarete,
Od a morirne quì come codardi,
32Quando d’Egitto pur l’ajuto tardi.

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V.


     Io per me non vuò già ch’ignobil morte
I giorni miei d’oscuro oblio ricopra:
Nè vuò ch’al novo dì, fra queste porte,
36L’alma luce del Sol chiuso mi scopra.
Di questo viver mio faccia la sorte
Quel che già stabilito è là di sopra:
Non farà già, che senza oprar la spada,
40Inglorioso e invendicato io cada.

VI.


     Ma quando pur del valor vostro usato
Così non fosse in voi spento ogni seme,
Non di morir pugnando ed onorato,
44Ma di vita, e di palma anco avrei speme.
A incontrare i nemici e ’l nostro fato
Andianne pur deliberati insieme;
Chè spesso avvien che ne’ maggior periglj
48Sono i più audaci gli ottimi consiglj.

VII.


     Ma se nel troppo osar tu non isperi,
Nè sei d’uscir con ogni squadra ardito;
Procura almen, che sia per due guerrieri
52Questo tuo gran litigio or difinito.
E perchè accetti ancor più volentieri
Il capitan de’ Franchi il nostro invito;
L’arme egli scelga, e ’l suo vantaggio toglia:
56E le condizion formi a sua voglia.

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VIII.


     Chè se ’l nemico avrà due mani, ed una
Anima sola, ancor ch’audace e fera;
Temer non dei per isciagura alcuna,
60Che la ragion, da me difesa, pera.
Puote, in vece di Fato e di Fortuna,
Darti la destra mia vittoria intera:
Ed a te se medesma or porge in pegno;
64Chè, se ’l confidi in lei, salvo è il tuo regno.

IX.


     Tacque; e rispose il Re: giovane ardente,
Sebben me vedi in grave età seníle,
Non sono al ferro queste man sì lente,
68Nè sì quest’alma è neghittosa e vile;
Ch’anzi morir volesse ignobilmente,
Che di morte magnanima e gentile;
Quand’io temenza avessi, o dubbio alcuno
72De’ disagj ch’annunzi, e del digiuno.

X.


     Cessi Dio tanta infamia. Or quel ch’ad arte
Nascondo altrui, vuò ch’a te sia palese.
Soliman di Nicea, che brama in parte
76Di vendicar le ricevute offese,
Degli Arabi le schiere erranti e sparte
Raccolte ha fin dal Libico paese:
E i nemici assalendo all’aria nera,
80Darne soccorso, e vettovaglia spera.

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XI.


     Tosto fia che quì giunga: or se frattanto
Son le nostre castella oppresse e serve,
Non ce ne caglia, purchè ’l regal manto
84E la mia nobil reggia io mi conserve.
Tu l’ardimento, e questo ardore alquanto
Tempra, per Dio, che ’n te soverchio ferve:
Ed opportuna la stagione aspetta
88Alla tua gloria, ed alla mia vendetta.

XII.


     Forte sdegnossi il Saracino audace,
Ch’era di Solimano emulo antico;
Sì amaramente ora d’udir gli spiace
92Che tanto sen prometta il Rege amico.
A tuo senno, risponde, e guerra e pace
Farai, Signor, nulla di ciò più dico.
S’indugi pure, e Soliman s’attenda;
96Ei, che perdè il suo regno, il tuo difenda.

XIII.


     Vengane a te, quasi celeste messo,
Liberator del popolo Pagano:
Ch’io, quanto a me, bastar credo a me stesso,
100E sol vuò libertà da questa mano.
Or, nel riposo altrui, siami concesso
Ch’io ne discenda a guerreggiar nel piano:
Privato cavalier, non tuo campione,
104Verrò co’ Franchi a singolar tenzone.

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XIV.


     Replica il Re: sebben l’ira e la spada
Dovresti riserbare a miglior uso;
Che tu sfidi però, se ciò t’aggrada,
108Alcun guerrier nemico, io non ricuso.
Così gli disse; ed ei punto non bada.
Và, dice ad un araldo, or colà giuso,
Ed al Duce de’ Franchi, udendo l’oste,
112Fà queste mie non picciole proposte.

XV.


     Ch’un cavalier, che d’appiattarsi in questo
Forte cinto di muri a sdegno prende,
Brama di far con l’armi or manifesto
116Quanto la sua possanza oltre si stende:
E ch’a duello di venirne è presto,
Nel pian ch’è fra le mura e l’alte tende,
Per prova di valore: e che disfida
120Qual più de’ Franchi in sua virtù si fida.

XVI.


     E che non solo è di pugnare accinto
E con uno, e con due del campo ostíle;
Ma dopo il terzo, il quarto accetta, e ’l quinto,
124Sia di volgare stirpe, o di gentile:
Dia, se vuol, la franchigia, e serva il vinto
Al vincitor, come di guerra è stile.
Così gl’impone: ed ei vestissi allotta
128La purpurea dell’arme aurata cotta.

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XVII.


     E poi che giunse alla regal presenza
Del Principe Goffredo, e de’ Baroni,
Chiese: o Signore, ai messaggier licenza
132Dassi tra voi di liberi sermoni?
Dassi, rispose il Capitano, e senza
Alcun timor la tua proposta esponi.
Riprese quegli: or si parrà, se grata
136O formidabil fia l’alta ambasciata.

XVIII.


     E seguì poscia, e la disfida espose
Con parole magnifiche, ed altere.
Fremer s’udiro, e si mostrar sdegnose
140Al suo parlar quelle feroci schiere:
E senza indugio il pio Buglion rispose:
Dura impresa intraprende il cavaliere:
E tosto io creder vuò, che gliene incresca
144Sì, che d’uopo non fia che ’l quinto n’esca.

XIX.


     Ma venga in prova pur, che d’ogn’oltraggio
Gli offero campo libero e sicuro;
E seco pugnerà senza vantaggio
148Alcun de’ miei campioni: e così giuro.
Tacque; e tornò il Re d’arme al suo viaggio
Per l’orme, ch’al venir calcate furo:
E non ritenne il frettoloso passo,
152Finchè non diè risposta al fier Circasso.

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XX.


     Armati, dice, alto Signor, chè tardi?
La disfida accettata hanno i Cristiani:
E d’affrontarsi teco i men gagliardi
156Mostran desio, non che i guerrier soprani.
E mille i’ vidi minacciosi sguardi,
E mille al ferro apparecchiate mani:
Loco sicuro il Duce a te concede.
160Così gli dice; e l’arme esso richiede.

XXI.


     E se ne cinge intorno, e impaziente
Di scenderne s’affretta alla campagna.
Disse a Clorinda il Re, ch’era presente:
164Giusto non è ch’ei vada, e tu rimagna.
Mille dunque con te di nostra gente
Prendi in sua sicurezza, e l’accompagna;
Ma vada innanzi a giusta pugna ei solo:
168Tu lunge alquanto a lui ritien lo stuolo.

XXII.


     Tacque ciò detto: e poi che furo armati,
Quei del chiuso n’uscivano all’aperto:
E giva innanzi Argante, e dagli usati
172Arnesi in sul cavallo era coperto.
Loco fu tra le mura e gli steccati
Che nulla avea di diseguale, o d’erto,
Ampio e capace: e parea fatto ad arte,
176Perch’egli fosse altrui campo di Marte.

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XXIII.


     Ivi solo discese, ivi fermosse
In vista de’ nemici il fero Argante:
Per gran cor, per gran corpo, e per gran posse
180Superbo, e minaccevole in sembiante:
Qual Encelado in Flegra, o qual mostrosse
Nell’ima valle il Filisteo gigante.
Ma pur molti di lui tema non hanno,
184Ch’anco quanto sia forte appien non sanno.

XXIV.


     Alcun però dal pio Goffredo eletto
Come il migliore, ancor non è fra molti.
Ben si vedean con desioso affetto
188Tutti gli occhj in Tancredi esser rivolti:
E dichiarato infra i miglior perfetto
Dal favor manifesto era de’ volti:
E s’udia non oscuro anco il bisbiglio:
192E l’approvava il Capitan col ciglio.

XXV.


     Già cedea ciascun altro, e non secreto
Era il volere omai del pio Buglione:
Vanne, a lui disse, a te l’uscir non vieto,
196E reprimi il furor di quel fellone.
Ei tutto in volto baldanzoso e lieto,
Poichè d’impresa tal fatto è campione,
Allo scudier chiedea l’elmo e ’l cavallo:
200Poi seguíto da molti uscia del vallo.

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XXVI.


     Ed a quel largo pian fatto vicino,
Ove Argante l’attende, anco non era;
Quando in leggiadro aspetto e pellegrino
204S’offerse agli occhj suoi l’alta guerriera.
Bianche, via più che neve in giogo alpino,
Avea le sopravveste, e la visiera
Alta tenea dal volto, e sovra un’erta,
208Tutta, quanto ella è grande, era scoperta.

XXVII.


     Già non mira Tancredi ove il Circasso
La spaventosa fronte al cielo estolle;
Ma move il suo destrier con lento passo,
212Volgendo gli occhj ov’è colei sul colle.
Poscia immobil si ferma, e pare un sasso;
Gelido tutto fuor, ma dentro bolle:
Sol di mirar s’appaga, e di battaglia
216Sembiante fa che poco or più gli caglia.

XXVIII.


     Argante, che non vede alcun che in atto
Dia segno ancor d’apparecchiarsi in giostra,
Da desir di contesa io quì fui tratto,
220Grida; or chi viene innanzi, e meco giostra?
L’altro attonito quasi e stupefatto
Pur là s’affissa, e nulla udir ben mostra.
Ottone innanzi allor spinse il destriero,
224E nell’arringo voto entrò primiero.

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XXIX.


     Questi un fu di color, cui dianzi accese
Di gir contra il Pagano alto desio:
Pur cedette a Tancredi, e ’n sella ascese
228Fra gli altri, che ’l seguiro, e seco uscío.
Or veggendo sue voglie altrove intese,
E starne lui quasi al pugnar restío;
Prende, giovine audace e impaziente,
232L’occasione offerta avidamente.

XXX.


     E veloce così, che tigre, o pardo
Va men ratto talor per la foresta,
Corre a ferir il Saracin gagliardo,
236Che d’altra parte la gran lancia arresta.
Si scuote allor Tancredi, e dal suo tardo
Pensier, quasi da un sonno, alfin si desta:
E grida ei ben: la pugna è mia; rimanti.
240Ma troppo Ottone è già trascorso innanti.

XXXI.


     Onde si ferma, e d’ira e di dispetto
Avvampa dentro, e fuor qual fiamma è rosso;
Perch’ad onta si reca, ed a difetto,
244Ch’altri si sia primiero in giostra mosso.
Ma intanto a mezzo il corso in su l’elmetto
Dal giovin forte è il Saracin percosso.
Egli all’incontro a lui col ferro nudo
248Fende l’usbergo, e pria rompe lo scudo.

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XXXII.


     Cade il Cristiano; e ben è il colpo acerbo,
Posciach’avvien che dall’arcion lo svella.
Ma il Pagan di più forza, e di più nerbo
252Non cade già, nè pur si torce in sella.
Indi con dispettoso atto superbo
Sovra il caduto cavalier favella:
Renditi vinto, e per tua gloria basti
256Che dir potrai, che contra me pugnasti.

XXXIII.


     No, gli risponde Otton, fra noi non s’usa
Così tosto depor l’arme, e l’ardire.
Altri del mio cader farà la scusa;
260Io vuò far la vendetta, o quì morire.
In sembianza d’Aletto, e di Medusa
Freme il Circasso, e par che fiamma spire.
Conosci or, dice, il mio valore a prova,
264Poichè la cortesia sprezzar ti giova.

XXXIV.


     Spinge il destrier in questo, e tutto oblia
Quanto virtù cavalleresca chiede.
Fugge il Franco l’incontro, e si desvia,
268E ’l destro fianco nel passar gli fiede:
Ed è sì grave la percossa e ria,
Che ’l ferro sanguinoso indi ne riede.
Ma che pro, se la piaga al vincitore
272Forza non toglie, e giunge ira e furore?

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XXXV.


     Argante il corridor dal corso affrena,
E indietro il volge; e così tosto è volto,
Che se n’accorge il suo nemico appena,
276E d’un grand’urto all’improviso è colto.
Tremar le gambe, indebolir la lena,
Sbigottir l’alma, e impallidire il volto
Gli fè l’aspra percossa; e frale e stanco
280Sovra il duro terren battere il fianco.

XXXVI.


     Nell’ira Argante infellonisce, e strada
Sovra il petto del vinto al destrier face.
E così, grida, ogni superbo vada
284Come costui che sotto i piè mi giace.
Ma l’invitto Tancredi allor non bada;
Chè l’atto crudelissimo gli spiace:
E vuol che ’l suo valor con chiara emenda
288Copra il suo fallo, e, come suol, risplenda.

XXXVII.


     Fassi innanzi gridando: anima vile,
Che ancor nelle vittorie infame sei:
Qual titolo di laude alto, e gentile
292Da modi attendi sì scortesi e rei?
Fra i ladroni d’Arabia, o fra simíle
Barbara turba avezzo esser tu dei.
Fuggi la luce, e và con l’altre belve
296A incrudelir ne’ monti, e tra le selve.

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XXXVIII.


     Tacque: e ’l Pagano al sofferir poco uso
Morde le labbra, e di furor si strugge.
Risponder vuol, ma ’l suono esce confuso,
300Siccome strido d’animal che rugge:
O come apre le nubi, ond’egli è chiuso,
Impetuoso il fulmine, e se ’n fugge;
Così pareva a forza ogni suo detto,
304Tuonando, uscir dall’infiammato petto.

XXXIX.


     Ma poi che in ambo il minacciar feroce
A vicenda irritò l’orgoglio e l’ira;
L’un come l’altro rapido e veloce,
308Spazio al corso prendendo, il destrier gira.
Or quì, Musa, rinforza in me la voce,
E furor pari a quel furor m’inspira:
Sì, che non sian dell’opre indegni i carmi,
312Ed esprima il mio canto il suon dell’armi.

XL.


     Posero in resta, e dirizzaro in alto
I due guerrier le noderose antenne:
Nè fu di corso mai, nè fu di salto,
316Nè fu mai tal velocità di penne,
Nè furia eguale a quella, ond’all’assalto
Quinci Tancredi, e quindi Argante venne.
Rupper l’aste su gli elmi, e volar mille
320Tronconi e schegge, e lucide faville.

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XLI.


     Sol de’ colpi il rimbombo intorno mosse
L’immobil terra, e risonarne i monti;
Ma l’impeto, e ’l furor delle percosse
324Nulla piegò delle superbe fronti.
L’uno e l’altro cavallo in guisa urtosse,
Che non fur poi, cadendo, a sorger pronti.
Tratte le spade, i gran mastri di guerra
328Lasciar le staffe, e i piè fermaro in terra.


Tratte le spade, i gran mastri di guerra
Lasciar le staffe, e i piè fermaro in terra.



XLII.


     Cautamente ciascuno ai colpi move
La destra, ai guardi l’occhio, ai passi il piede:
Si reca in atti varj, e’n guardie nove.
332Or gira intorno, or cresce innanzi, or cede:
Or quì ferire accenna, e poscia altrove,
Dove non minacciò, ferir si vede:
Or di se discoprire alcuna parte,
336E tentar di schernir l’arte con l’arte.

XLIII.


     Della spada Tancredi, e dello scudo
Mal guardato al Pagan dimostra il fianco.
Corre egli per ferirlo, e intanto nudo
340Di riparo si lascia il lato manco.
Tancredi con un colpo il ferro crudo
Del nemico ribatte, e lui fere anco:
Nè poi, ciò fatto, in ritirarsi tarda,
344Ma si raccoglie, e si ristringe in guarda.

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XLIV.


     Il fero Argante, che se stesso mira
Del proprio sangue suo macchiato e molle,
Con insolito orror freme, e sospira,
348Di cruccio e di dolor, turbato e folle:
E portato dall’impeto e dall’ira,
Con la voce la spada insieme estolle:
E torna per ferire, ed è di punta
352Piagato, ov’è la spalla al braccio giunta.

XLV.


     Qual nelle alpestri selve orsa, che senta
Duro spiedo nel fianco, in rabbia monta:
E contra l’arme se medesma avventa,
356E i periglj, e la morte audace affronta;
Tale il Circasso indomito diventa,
Giunta or piaga alla piaga, ed onta all’onta:
E la vendetta far tanto desia,
360Che sprezza i rischj, e le difese oblia.

XLVI.


     E congiungendo a temerario ardire
Estrema forza, e infaticabil lena,
Vien che sì impetuoso il ferro gire,
364Che ne trema la terra, e ’l ciel balena:
Nè tempo ha l’altro ond’un sol colpo tire,
Onde si copra, onde respiri appena:
Nè schermo v’è ch’assicurare il possa
368Dalla fretta d’Argante e dalla possa.

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XLVII.


     Tancredi, in se raccolto, attende invano
Che de’ gran colpi la tempesta passi.
Or v’oppon le difese, ed or lontano
372Sen va co’ giri, e co’ maestri passi.
Ma poichè non s’allenta il fier Pagano,
È forza alfin che trasportar si lassi:
E cruccioso egli ancor con quanta puote
376Violenza maggior la spada rote.

XLVIII.


     Vinta dall’ira è la ragione e l’arte,
E le forze il furor ministra, e cresce.
Sempre che scende il ferro, o fora o parte,
380O piastra, o maglia: e colpo invan non esce.
Sparsa è d’arme la terra, e l’arme sparte
Di sangue, e ’l sangue col sudor si mesce.
Lampo nel fiammeggiar, nel romor tuono,
384Fulmini nel ferir le spade sono.

XLIX.


     Questo popolo e quello incerto pende
Da sì nuovo spettacolo ed atroce:
E fra tema, e speranza il fin n’attende,
388Mirando or ciò che giova, or ciò che nuoce:
E non si vede pur, ne pur s’intende
Picciol cenno fra tanti, o bassa voce;
Ma se ne sta ciascun tacito e immoto,
392Se non se inquanto ha il cor tremante in moto.

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L.


     Già lassi erano entrambi, e giunti forse
Sarian, pugnando, ad immaturo fine;
Ma sì oscura la notte intanto sorse,
396Che nascondea le cose anco vicine.
Quinci un araldo, e quindi un altro accorse
Per dipartirgli, e gli partiro al fine.
L’uno il Franco Arideo, Pindoro è l’altro,
400Che portò la disfida, uom saggio e scaltro.

LI.


     I pacifici scettri osar costoro
Fra le spade interpor de’ combattenti,
Con quella sicurtà che porgea loro
404L’antichissima legge delle genti.
Siete, o guerrieri, incominciò Pindoro,
Con pari onor di pari ambo possenti.
Dunque cessi la pugna, e non sian rotte
408Le ragioni, e ’l riposo della notte.

LII.


     Tempo è da travagliar mentre il Sol dura;
Ma nella notte ogni animale ha pace:
E generoso cor non molto cura
412Notturno pregio, che s’asconde e tace.
Risponde Argante: a me per ombra oscura
La mia battaglia abbandonar non piace:
Ben avrei caro il testimon del giorno;
416Ma che giuri costui di far ritorno.

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LIII.


     Soggiunse l’altro allora: e tu prometti
Di tornar, rimenando il tuo prigione;
Perch’altrimenti non fia mai ch’aspetti
420Per la nostra contesa altra stagione.
Così giuraro: e poi gli araldi eletti
A prescriver il tempo alla tenzone,
Per dare spazio alle lor piaghe onesto,
424Stabiliro il mattin del giorno sesto.

LIV.


     Lasciò la pugna orribile, nel core
De’ Saracini e de’ Fedeli impressa
Un’alta maraviglia, ed un orrore
428Che per lunga stagione in lor non cessa.
Sol dell’ardir si parla, e del valore
Che l’un guerriero e l’altro ha mostro in essa.
Ma qual si debba di lor due preporre,
432Vario e discorde, il volgo in se discorre.

LV.


     E sta sospeso, in aspettando, quale
Avrà la fera lite avvenimento:
E se ’l furore alla virtù prevale,
436O se cede l’audacia all’ardimento.
Ma più di ciascun altro, a cui ne cale,
La bella Erminia n’ha cura e tormento:
Chè da i giudícj dell’incerto Marte
440Vede pender di se la miglior parte.

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LVI.


     Costei, che figlia fu del Re Cassano
Che d’Antiochia già l’imperio tenne,
Preso il suo regno, al vincitor Cristiano
444Fra l’altre prede anch’ella in poter venne.
Ma fulle in guisa allor Tancredi umano,
Che nulla ingiuria in sua balía sostenne:
Ed onorata fu, nella ruina
448Dell’alta patria sua, come Reina.

LVII.


     L’onorò, la servì, di libertate
Dono le fece il cavaliero egregio:
E le furo da lui tutte lasciate
452Le gemme, e gli ori, e ciò ch’avea di pregio.
Ella vedendo in giovinetta etate,
E in leggiadri sembianti animo regio,
Restò presa d’Amor, che mai non strinse
456Laccio di quel più fermo onde lei cinse.

LVIII.


     Così se ’l corpo libertà riebbe,
Fu l’alma sempre in servitute astretta.
Ben molto a lei d’abbandonar increbbe
460Il signor caro, e la prigion diletta;
Ma l’onestà regal, che mai non debbe
Da magnanima donna esser negletta,
La costrinse a partirsi, e con l’antica
464Madre a ricoverarsi in terra amica.

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LIX.


     Venne a Gerusalemme, e quivi accolta
Fu dal Tiranno del paese Ebreo;
Ma tosto pianse, in nere spoglie avvolta,
468Della sua genitrice il fato reo.
Pur, nè ’l duol che le sia per morte tolta,
Nè l’esilio infelice unqua poteo
L’amoroso desio sveller dal core,
472Nè favilla ammorzar di tanto ardore.

LX.


     Ama, ed arde la misera, e sì poco
In tale stato chè sperar le avanza,
Che nudrisce nel sen l’occulto foco,
476Di memoria via più, che di speranza:
E quanto è chiuso in più secreto loco,
Tanto ha l’incendio suo maggior possanza.
Tancredi alfine, a risvegliar sua spene,
480Sovra Gerusalemme ad oste viene.

LXI.


     Sbigottir gli altri all’apparir di tante
Nazioni, e sì indomite, e sì fere;
Fè sereno ella il torbido sembiante,
484E lieta vagheggiò le squadre altere:
E con avidi sguardi il caro amante
Cercando gía fra quelle armate schiere.
Cercollo invan sovente, ed anco spesso
488Raffigurollo; e disse: egli è pur desso.

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LXII.


     Nel palagio regal sublime sorge
Antica torre assai presso alle mura:
Dalla cui sommità tutta si scorge
492L’oste Cristiana, e ’l monte, e la pianura.
Quivi, da che il suo lume il Sol ne porge,
Infin che poi la notte il mondo oscura,
S’asside, e gli occhj verso il campo gira,
496E co’ pensieri suoi parla, e sospira.

LXIII.


     Quinci vide la pugna, e ’l cor nel petto
Sentì tremarsi in quel punto sì forte,
Che parea che dicesse: il tuo diletto
500È quegli là, che in rischio è della morte.
Così, d’angoscia piena e di sospetto,
Mirò i successi della dubbia sorte:
E sempre che la spada il Pagan mosse,
504Sentì nell’alma il ferro e le percosse.

LXIV.


     Ma poichè ’l vero intese, e intese ancora
Che dee l’aspra tenzon rinovellarsi;
Insolito timor così l’accora,
508Che sente il sangue suo di ghiaccio farsi.
Talor secrete lagrime, e talora
Sono occulti da lei gemiti sparsi:
Pallida, esangue, e sbigottita in atto,
512Lo spavento e ’l dolor v’avea ritratto.

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LXV.


     Con orribile imago il suo pensiero
Ad or ad or la turba e la sgomenta:
E via più che la morte il sonno è fiero;
516Sì strane larve il sogno le appresenta.
Parle veder l’amato cavaliero
Lacero e sanguinoso: e par che senta
Ch’egli aita le chieda: e desta intanto,
520Si trova gli occhj e ’l sen molle di pianto.

LXVI.


     Nè sol la tema di futuro danno
Con sollecito moto il cor le scuote;
Ma delle piaghe, ch’egli avea, l’affanno
524È cagion che quetar l’alma non puote.
E i fallaci romor, ch’intorno vanno,
Crescon le cose incognite e remote:
Sicch’ella avvisa, che vicino a morte
528Giaccia oppresso languendo il guerrier forte.

LXVII.


     E perocch’ella dalla madre apprese
Qual più secreta sia virtù dell’erbe:
E con quai carmi nelle membra offese
532Sani ogni piaga, e ’l duol si disacerbe:
Arte, che per usanza in quel paese
Nelle figlie de’ Re par che si serbe;
Vorria, di sua man propria, alle ferute
536Del suo caro signor recar salute.

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LXVIII.


     Ella l’amato medicar desia,
E curar il nemico a lei conviene.
Pensa talor d’erba nocente e ria
540Succo sparger in lui che l’avvelene;
Ma schiva poi la man vergine e pia
Trattar l’arti maligne, e se n’astiene.
Brama ella almen che in uso tal sia vota
544Di sua virtude ogn’erba, ed ogni nota.

LXIX.


     Nè già d’andar fra la nemica gente
Temenza avria; chè peregrina era ita:
E viste guerre e stragi avea sovente,
548E scorsa dubbia e faticosa vita:
Sicchè per l’uso la femminea mente
Sovra la sua natura è fatta ardita:
Nè così di leggier si turba, o pave
552Ad ogni immagin di terror men grave.

LXX.


     Ma più ch’altra cagion, dal molle seno
Sgombra Amor temerario ogni paura:
E crederia fra l’ugne, e fra ’l veneno
556Delle Africane belve andar sicura.
Pur, se non della vita, avere almeno
Della sua fama dee temenza e cura.
E fan dubbia contesa entro al suo core
560Duo potenti nemici Onore, e Amore.

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LXXI.


     L’un così le ragiona: o verginella,
Che le mie leggi insino ad or serbasti,
Io mentre ch’eri de’ nemici ancella,
564Ti conservai la mente, e i membri casti:
E tu, libera, or vuoi perder la bella
Verginità che in prigionia guardasti?
Ahi nel tenero cor questi pensieri
568Chi svegliar può? chè pensi?, oimè, chè speri?

LXXII.


     Dunque il titolo tu d’esser pudíca
Sì poco stimi, e d’onestate il pregio;
Che te n’andrai fra nazion nemica,
572Notturna amante, a ricercar dispregio?
Onde il superbo vincitor ti dica:
Perdesti il regno, e in un l’animo regio:
Non sei di me tu degna; e ti conceda
576Volgare agli altri e mal gradita preda?

LXXIII.


     Dall’altra parte il consiglier fallace
Con tai lusinghe al suo piacer l’alletta:
Nata non sei tu già d’orsa vorace,
580Nè d’aspro e freddo scoglio, o giovinetta,
Ch’abbia a sprezzar d’Amor l’arco e la face,
Ed a fuggir ognor quel che diletta:
Nè petto hai tu di ferro, o di diamante,
584Che vergogna ti sia l’esser amante.

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LXXIV.


     Deh vanne omai dove il desio t’invoglia.
Ma qual ti fingi vincitor crudele?
Non sai com’egli al tuo dolor si doglia,
588Come compianga al pianto, alle querele?
Crudel sei tu, che con sì pigra voglia
Muovi a portar salute al tuo fedele.
Langue, o fera ed ingrata, il pio Tancredi:
592E tu dell’altrui vita a cura siedi.

LXXV.


     Sana tu pur Argante, acciocchè poi
Il tuo liberator sia spinto a morte.
Così disciolti avrai gli obblighi tuoi,
596E sì bel premio fia ch’ei ne riporte.
È possibil però che non t’annoi
Quest’empio ministero or così forte,
Che la noja non basti e l’orror solo
600A far che tu di qua ten fugga a volo?

LXXVI.


     Deh ben fora all’incontro uficio umano,
E ben n’avresti tu gioja e diletto,
Se la pietosa tua medica mano
604Avvicinassi al valoroso petto;
Chè per te fatto il tuo signor poi sano
Colorirebbe il suo smarrito aspetto:
E le bellezze sue, che spente or sono,
608Vagheggeresti in lui, quasi tuo dono.

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LXXVII.


     Parte ancor poi nelle sue lodi avresti,
E nell’opre ch’ei fesse alte e famose;
Ond’egli te d’abbracciamenti onesti
612Faria lieta, e di nozze avventurose.
Poi mostra a dito, ed onorata andresti
Fra le madri Latine, e fra le spose
Là nella bella Italia, ov’è la sede
616Del valor vero, e della vera fede.

LXXVIII.


     Da tai speranze lusingata (ahi stolta!)
Somma felicitate a se figura.
Ma pur si trova in mille dubbj avvolta,
620Come partir si possa indi sicura:
Perchè vegghian le guardie, e sempre in volta
Van di fuori al palagio, e su le mura:
Nè porta alcuna, in tal rischio di guerra,
624Senza grave cagion mai si disserra.

LXXIX.


     Soleva Erminia in compagnia sovente
Della Guerriera far lunga dimora.
Seco la vide il Sol dall’Occidente:
628Seco la vide la novella aurora.
E quando son del dì le luci spente,
Un sol letto le accolse ambe talora:
E null’altro pensier, che l’amoroso,
632L’una vergine all’altra avrebbe ascoso.

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LXXX.


     Questo sol tiene Erminia a lei secreto,
E se udita da lei talor si lagna,
Reca ad altra cagion del cor non lieto
636Gli affetti, e par che di sua sorte piagna.
Or in tanta amistà, senza divieto,
Venir sempre ne puote alla compagna:
Nè stanza al giunger suo giamai si serra,
640Siavi Clorinda, o sia in consiglio, o ’n guerra.

LXXXI.


     Vennevi un giorno ch’ella in altra parte
Si ritrovava, e si fermò pensosa,
Pur tra se rivolgendo i modi e l’arte
644Della bramata sua partenza ascosa.
Mentre in varj pensier divide e parte
L’incerto animo suo che non ha posa;
Sospese di Clorinda in alto mira
648L’arme, e le sopravveste: allor sospira.

LXXXII.


     E tra se dice, sospirando: o quanto
Beata è la fortissima Donzella!
Quant’io la invidio! e non le invidio il vanto,
652O ’l femminil onor dell’esser bella.
A lei non tarda i passi il lungo manto:
Nè ’l suo valor rinchiude invida cella;
Ma veste l’armi, e se d’uscirne agogna,
656Vassene, e non la tien tema o vergogna.

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LXXXIII.


     Ah perchè forti a me Natura, e ’l Cielo
Altrettanto non fer le membra, e ’l petto,
Onde potessi anch’io la gonna, e ’l velo
660Cangiar nella corazza, e nell’elmetto?
Chè sì non riterrebbe arsura, o gelo,
Non turbo, o pioggia il mio infiammato affetto;
Ch’al Sol non fossi ed al notturno lampo,
664Accompagnata o sola, armata in campo.

LXXXIV.


     Già non avresti, o dispietato Argante,
Col mio signor pugnato tu primiero;
Ch’io sarei corsa ad incontrarlo innante,
668E forse or fora quì mio prigionero:
E sosterria dalla nemica amante
Giogo di servitù dolce e leggiero.
E già per li suoi nodi i’ sentirei
672Fatti soavi, e alleggeriti i miei.

LXXXV.


     Ovvero a me, dalla sua destra il fianco
Sendo percosso, e riaperto il core;
Pur risanata in cotal guisa almanco
676Colpo di ferro avria piaga d’Amore.
Ed or la mente in pace, e ’l corpo stanco
Riposeriansi: e forse il vincitore
Degnato avrebbe il mio cenere e l’ossa
680D’alcun onor di lagrime, e di fossa.

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LXXXVI.


     Ma lassa! i’ bramo non possibil cosa,
E tra folli pensier invan m’avvolgo.
Dunque io starò quì timida e dogliosa,
684Com’una pur del vil femmineo volgo?
Ah non starò; cor mio confida, ed osa.
Perchè l’arme una volta anch’io non tolgo?
Perchè per breve spazio non potrolle
688Sostener, benchè sia debile e molle?

LXXXVII.


     Sì potrò, sì;, chè mi farà possente
Amor, ond’alta forza i men forti hanno;
Da cui spronati ancor s’arman sovente
692D’ardire i cervi imbelli, e guerra fanno.
Io guerreggiar non già, vuò solamente
Far con quest’armi un ingegnoso inganno:
Finger mi vuò Clorinda, e, ricoperta
696Sotto l’immagin sua, d’uscir son certa.

LXXXVIII.


     Non ardirieno a lei fare i custodi
Dell’alte porte resistenza alcuna.
Io pur ripenso, e non veggio altri modi:
700Aperta è, credo, questa via sol’una.
Or favorisca le innocenti frodi
Amor, che le m’inspira, e la fortuna.
E ben al mio partir comoda è l’ora,
704Mentre col Re Clorinda anco dimora.

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LXXXIX.


     Così risolve, e stimolata e punta
Dalle furie d’amor più non aspetta;
Ma da quella alla sua stanza congiunta
708L’arme involate di portar s’affretta.
E far lo può, chè quando ivi fu giunta
Diè loco ogn’altro, e si restò soletta:
E la notte i suoi furti ancor copria,
712Ch’ai ladri amica ed agli amanti uscia.

XC.


     Essa veggendo il ciel, d’alcuna stella
Già sparso intorno, divenir più nero;
Senza frapporvi alcun indugio, appella
716Secretamente un suo fedel scudiero,
Ed una sua leal diletta ancella:
E parte scopre lor del suo pensiero;
Scopre il disegno della fuga, e finge
720Ch’altra cagione a dipartir l’astringe.

XCI.


     Lo scudiero fedel subito appresta
Ciò ch’al bisogno necessario crede.
Erminia intanto la pomposa vesta
724Si spoglia, che le scende insino al piede:
E in ischietto vestir leggiadra resta
E snella sì, ch’ogni credenza eccede:
Nè, trattane colei ch’alla partita
728Scelta s’avea compagna, altra l’aita.

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XCII.


     Col durissimo acciar preme ed offende
Il delicato collo, e l’aurea chioma:
E la tenera man lo scudo prende,
732Pur troppo grave, e insopportabil soma.
Così tutta di ferro intorno splende,
E in atto militar se stessa doma.
Gode Amor, ch’è presente e tra se ride,
736Come allor già ch’avvolse in gonna Alcide.

XCIII.


     O con quanta fatica ella sostiene
L’inegual peso, e muove lenti i passi!
Ed alla fida compagnia s’attiene,
740Che per appoggio andar dinanzi fassi.
Ma rinforzan gli spirti amore, e spene,
E ministran vigore ai membri lassi:
Sicchè giungono al loco ove le aspetta
744Lo scudiero, e in arcion sagliono in fretta.

XCIV.


     Travestiti ne vanno, e la più ascosa
E più riposta via prendono ad arte.
Pur s’avvengono in molti, e l’aria ombrosa
748Veggion lucer di ferro in ogni parte:
Ma impedir lor viaggio alcun non osa,
E cedendo il sentier ne va in disparte;
Chè quel candido ammanto, e la temuta
752Insegna anco nell’ombra è conosciuta.

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XCV.


     Erminia benchè quivi alquanto sceme
Del dubbio suo, non va però sicura;
Chè d’essere scoperta alla fin teme,
756E del suo troppo ardir sente or paura.
Ma pur giunta alla porta il timor preme,
Ed inganna colui che n’ha la cura.
Io son Clorinda, disse, apri la porta;
760Chè ’l Re m’invia dove l’andare importa.

XCVI.


     La voce femminil, sembiante a quella
Della Guerriera, agevola l’inganno.
(Chi crederia veder armata in sella
764Una dell’altre ch’arme oprar non sanno?)
Sicchè ’l portier tosto ubbidisce, ed ella
N’esce veloce, e i due che seco vanno.
E per lor sicurezza entro le valli
768Calando, prendon lunghi obliqui calli.

XCVII.


     Ma poi ch’Erminia in solitaria ed ima
Parte si vede, alquanto il corso allenta;
Chè i primi rischj aver passati estima,
772Nè d’esser ritenuta omai paventa.
Or pensa a quello a chè pensato in prima
Non bene aveva, ed or le s’appresenta
Difficil più, ch’a lei non fu mostrata
776Dal frettoloso suo desir, l’entrata.

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XCVIII.


     Vede or che sotto il militar sembiante
Ir tra fieri nemici è gran follia:
Nè d’altra parte palesarsi, innante
780Ch’al suo signor giungesse, altrui vorria.
A lui secreta ed improvvisa amante
Con sicura onestà giunger desia.
Onde si ferma, e da miglior pensiero
784Fatta più cauta, parla al suo scudiero:

XCIX.


     Essere, o mio fedele, a te conviene
Mio precursor; ma sii pronto e sagace.
Vattene al campo, e fa’ ch’alcun ti mene
788E t’introduca ove Tancredi giace:
A cui dirai, che donna a lui ne viene
Che gli apporta salute, e chiede pace:
Pace, posciach’Amor guerra mi move,
792Ond’ei salute, io refrigerio trove.

C.


     E ch’essa ha in lui sì certa e viva fede,
Che ’n suo poter non teme onta nè scorno.
Dì sol questo a lui solo; e s’altro ei chiede,
796Dì non saperlo, e affretta il tuo ritorno.
Io (chè questa mi par sicura sede)
In questo mezzo quì farò soggiorno.
Così disse la donna: e quel leale
800Gía veloce così, come avesse ale.

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CI.


     E seppe in guisa oprar, ch’amicamente
Entro ai chiusi ripari ei fu raccolto:
E poi condotto al cavalier giacente
804Che l’ambasciata udì con lieto volto.
E già lasciando ei lui, che nella mente
Mille dubbj pensier avea rivolto,
Ne riportava a lei dolce risposta;
808Ch’entrar potrà, quando più lice, ascosta.

CII.


     Ma ella intanto impaziente, a cui
Troppo ogni indugio par nojoso e greve,
Numera fra se stessa i passi altrui,
812E pensa: or giunge, or entra, or tornar deve.
E già le sembra, e se ne duol, colui
Men del solito assai spedito e leve.
Spingesi alfine innanzi, e ’n parte ascende
816Onde comincia a discoprir le tende.

CIII.


     Era la notte, e ’l suo stellato velo
Chiaro spiegava e senza nube alcuna:
E già spargea rai luminosi, e gelo
820Di vive perle la sorgente Luna.
L’innamorata Donna iva col Cielo
Le sue fiamme sfogando ad una ad una:
E secretarj del suo amore antico
824Fea i muti campi, e quel silenzio amico.

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CIV.


     Poi, rimirando il campo, ella dicea:
O belle agli occhj miei tende Latine,
Aura spira da voi che mi ricrea
828E mi conforta, pur che m’avvicine.
Così a mia vita combattuta e rea
Qualche onesto riposo il Ciel destine;
Come in voi solo il cerco: e solo parmi
832Che trovar pace io possa in mezzo all’armi.

CV.


     Raccogliete me dunque, e in voi si trove
Quella pietà che mi promise Amore;
E ch’io già vidi prigioniera altrove
836Nel mansueto mio dolce signore:
Nè già desio di racquistar mi move,
Col favor vostro, il mio regale onore.
Quando ciò non avvenga, assai felice
840Io mi terrò, se in voi servir mi lice.

CVI.


     Così parla costei, che non prevede
Qual dolente fortuna a lei s’appreste.
Ella era in parte, ove per dritto fiede
844L’armi sue terse il bel raggio celeste:
Sicchè da lunge il lampo lor si vede
Col bel candor che le circonda e veste:
E la gran Tigre nell’argento impressa
848Fiammeggia sì, ch’ognun direbbe: è dessa.

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CVII.


     Come volle sua sorte, assai vicini
Molti guerrier disposti avean gli aguati:
E n’eran duci duo fratei Latini
852Alcandro, e Poliferno: e fur mandati
Per impedir che dentro, ai Saracini,
Gregge non siano e non sian buoi menati:
E se ’l servo passò, fu perchè torse
856Più lunge il passo, e rapido trascorse.

CVIII.


     Al giovin Poliferno, a cui fu il padre
Sugli occhj suoi già da Clorinda ucciso,
Viste le spoglie candide e leggiadre,
860Fu di veder l’alta Guerriera avviso,
E contra le irritò le occulte squadre:
Nè frenando del cor moto improviso
(Com’era in suo furor subito e folle)
864Gridò: sei morta, e l’asta invan lanciolle.

CIX.


     Siccome cerva, ch’assetata, il passo
Mova a cercar d’acque lucenti e vive,
Ove un bel fonte distillar da un sasso,
868O vide un fiume tra frondose rive;
Se incontra i cani allor che ’l corpo lasso
Ristorar crede all’onde, all’ombre estive;
Volge indietro fuggendo, e la paura
872La stanchezza obliar face, e l’arsura.

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CX.


     Così costei che dell’amor la sete,
Onde l’infermo core è sempre ardente,
Spegner nelle accoglienze oneste e liete
876Credeva, e riposar la stanca mente;
Or che contra le vien chi gliel diviete,
E ’l suon del ferro e le minacce sente;
Sè stessa e ’l suo desir primo abbandona,
880E ’l veloce destrier timida sprona.

CXI.


     Fugge Erminia infelice, e ’l suo destriero
Con prontissimo piede il suol calpesta.
Fugge ancor l’altra donna, e lor quel fero
884Con molti armati di seguir non resta.
Ecco che dalle tende il buon scudiero
Con la tarda novella arriva in questa:
E l’altrui fuga ancor dubbio accompagna:
888E gli sparge il timor per la campagna.

CXII.


     Ma il più saggio fratello, il quale anch’esso
La non vera Clorinda avea veduto,
Non la volle seguir, ch’era men presso;
892Ma nell’insidie sue s’è ritenuto:
E mandò con l’avviso al campo un messo,
Che non armento, od animal lanuto,
Nè preda altra simíl; ma ch’è seguita
896Dal suo german Clorinda impaurita.

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CXIII.


     E ch’ei non crede già, nè ’l vuol ragione,
Ch’ella ch’è duce, e non è sol guerriera,
Elegga all’uscir suo tale stagione
900Per opportunità che sia leggiera.
Ma giudichi, e comandi il pio Buglione;
Egli farà ciò che da lui s’impera.
Giunge al campo tal nova, e se n’intende
904Il primo suon nelle Latine tende.

CXIV.


     Tancredi, cui dinanzi il cor sospese
Quell’avviso primiero, udendo or questo,
Pensa: deh forse a me venia cortese,
908E in periglio è per me; nè pensa al resto.
E parte prende sol del grave arnese;
Monta a cavallo, e tacito esce e presto:
E seguendo gl’indizj e l’orme nuove,
912Rapidamente a tutto corso il muove.



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