Il paradiso delle signore/7

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P
er un momento Dionisia rimase sbalordita, sul marciapiede, nel sole ancora ardente delle cinque. Luglio scaldava le vie, e Parigi scintillava nella luce estiva, piena di accecanti riflessi. E la disgrazia le era cascata addosso cosí improvvisa, l’avevan cacciata via da un momento all’altro con tanta crudeltà, ch’ella voltava e rivoltava in fondo alla tasca i suoi venticinque franchi e sessanta, senza accorgersene, non sapendo né che fare né dove andare.

Una fila di legni le impediva di scendere dal marciapiede del Paradiso. Quando poté arrischiarsi tra le ruote, traversò la Piazza Gaillon come se fosse voluta andare in Via Luigi il Grande, poi si pentí, e s’avviò verso Via San Rocco. Ma non sapeva dove andare, e cosí si fermò alla cantonata di Via Nuova dei PetitsChamps, dove alla fine si inoltrò, dopo essersi guardata intorno dubbiosa. Essendole capitata innanzi la galleria Choiseul, vi entrò e si trovò, senza saper come, in Via Monsigny, per ricascare in Via Nuova di Sant’Agostino. Un gran sussurrío le empiva la testa; vedendo un facchino, si rammentò della valigia; ma dove la doveva far portare? Come mai aveva tanta pena addosso? [p. 257 modifica]E dire che un’ora prima non le mancava un letto dove riposare!

Allora, con gli occhi alzati alle case, si mise a guardar le finestre.

Gli «appigionasi» non mancavano: ma lei li vedeva in confuso, ripresa ogni poco dalla commozione che l’agitava tutta. Com’era possibile ch’ella si trovasse cosí da un momento all’altro, sola, sperduta in quella gran città che non conosceva, senza amici, senza lavoro? Eppure bisognava mangiare e dormire. Di strada in strada, per Via dei Mulini, per Via Sant’Anna, s’aggirava intorno, tornando sempre al solo luogo che conoscesse bene. A un tratto restò meravigliata; era di nuovo davanti al Paradiso delle signore: e per liberarsi da quella vista si gettò in Via della Michodière.

Ebbe fortuna: lo zio Baudu era lí sull’uscio; il Vecchio Elbeuf pareva morto dietro le sue vetrine nere. Non avrebbe mai avuto il cuore di andar da lui, dacché fingeva di non riconoscerla piú né avrebbe voluto cascargli sulle braccia per colpa d’una disgrazia che egli aveva preveduta. Ma dall’altra parte della strada un cartello giallo la fermò: «Camera ammobiliata da appigionare ». Fu il primo cartello che non le fece paura, tanto la casa era di povero aspetto. Poi la riconobbe, con i suoi due piani bassi, la facciata color ruggine, soffocata tra il Paradiso e l’antico albergo Duvillard. Sulla soglia della bottega degli ombrelli, il vecchio Bourras, coi capelli e la barba da profeta, gli occhiali sul naso, esaminava l’avorio d’una mazza. Aveva preso in affitto tutta la casa, e, per diminuirsi la spesa della pigione, subaffittava bell’e ammobiliati due piani. [p. 258 modifica]

— Signore, ce l’ha una camera? — disse Dionisia, obbedendo a un consiglio dell’istinto.

Alzò gli occhioni imboscati nei cigli e fu sorpreso a vederla. Conosceva tutte quelle ragazze; e dopo aver data un’occhiata al vestituccio pulito e all’aspetto onesto di lei rispose:

— Non è per voi.

— Quanto costa? — ribattè Dionisia.

— Quindici franchi il mese.

Allora la volle vedere. Nella botteguccia, siccome lui seguitava a guardarla con aria meravigliata, raccontò come fosse venuta via dal magazzino e come volesse dar noia allo zio. Il vecchio, alla fine, cercò la chiave su un palchetto dello stanzino buio dietro la bottega, dove egli si faceva da mangiare e dormiva: una vetriata polverosa la divideva da una corte interna, larga appena due metri.

— Vado innanzi perché non caschiate — disse il Bourras nell’andito umido, che fiancheggiava la bottega.

Inciampò egli stesso nel primo scalino, e salì moltiplicando gli avvertimenti. Attenta! Il ferro per sorreggersi era lungo il muro; alla svoltata c’era un buco; qualche volta gl’inquilini lasciavano nel mezzo le cassette della spazzatura. Dionisia, in quella oscurità, non distingueva nulla, non sentiva che il fresco del vecchio intonaco stillante umidità. Ma al primo piano un finestrino che dava sulla corte le permise di scorgere, come nel fondo d’un’acqua dormiente, la scala sconquassata, le mura nere di sudiciume, le porte mal connesse e a colori.

— Se almeno ce ne fosse una vuota di queste stanza! — riprese il Bourras — ci stareste bene... Ma le hanno sempre delle signore. [p. 259 modifica]

Al secondo piano c’era un po’ piú di luce, che rischiarava pallidamente la povertà della casa. Un garzone di fornaio stava nella prima camera; l’altra, in fondo, era vuota. Quando il Bourras ebbe aperto, dové restare sul pianerottolo perché Dionisia potesse visitarla con comodo. Il letto accanto all’uscio lasciava per l’appunto il posto perché uno potesse passarci: di faccia un cassettoncino di noce, una tavola di abete annerito, due seggiole. Gl’inquilini che si volevano cucinare qualche cosa dovevano inginocchiarsi davanti al caminetto dove era un fornello di coccio.

— Si sa! — disse il vecchio — la stanza non è di lusso, ma la finestra è allegra; si vede la gente nella strada.

E mentre Dionisia guardava, stupefatta, l’angolo del soffitto, dove una inquilina avventizia aveva scritto con la fiamma di una candela il suo nome, Ernestina, il Bourras soggiunse placidamente:

— Se si stesse ad accomodare, ci si rimetterebbe un tanto... Insomma, se la volete, ecco qui: vi do tutto quello che ho!

— Ci starò benissimo — rispose la giovinetta.

Pagò un mese anticipato, chiese la biancheria, un paio di lenzuola, due asciugamani, e si rifece il letto senza aspettare altro, tutta contenta e con un gran peso di meno sullo stomaco, dacché almanco sapeva dove avrebbe passata la notte. Un’ora dopo, aveva già mandato un facchino a prendere la valigia e aveva messo tutto in ordine.

Da principio, furon due mesi di terribile miseria. Non potendo pagar piú la pensione di Bep[p. 260 modifica]pino, se l’era ripreso con sé, e lo metteva la notte a dormire su un vecchio canapè prestato dal Bourras. Anche a fare alla meglio, le ci voleva un franco e mezzo il giorno, compresa la pigione, mangiando lei pane solo, per dare un po’ di carne al bambino.

Per i primi quindici giorni, tanto tanto, tirò innanzi; le erano rimasti quindici franchi ed ebbe anche la fortuna di ritrovare la donna delle cravatte e riavere i diciannove franchi. Ma poi la miseria si fece estrema. Ebbe un bel presentarsi ai magazzini, alla Piazza Clichy, al Buon mercato, al Louvre: s’era nella stagione morta, e tutti le dicevano di tornare a ottobre. Piú di cinquemila impiegati nel commercio, licenziati come lei, eran sul lastrico. Cercò allora di procacciarsi lavorucci; ma non essendo pratica di Parigi, non sapeva dove rivolgersi, faticava molto, e non sempre riscoteva. Qualche sera faceva desinare Beppino solo, con un po’ di zuppa, dicendogli che lei aveva mangiato fuori: e andava a letto con la testa che le ronzava e senza sentir la fame per la febbre che le bruciava le mani.

Quando Gianni piombava in mezzo a quella miseria, si dava del furfante con tanta disperazione, ch’ella era obbligata a dirgli delle bugie; spesso anche trovava modo di fargli scivolare nelle mani un paio di franchi, per provargli che aveva qualche soldo da parte. Non piangeva mai in faccia ai ragazzi, piena d’un coraggio bello e sereno. Quando poteva, la domenica, mettere sul fuoco un po’ di manzo, inginocchiandosi davanti al caminetto, la stanzuccia sonava tutta di un’allegria di ragazzi che non si dan pensiero della vita. Ma dopo che Gianni era tornato dal padrone e Beppino s’era addormentato, ella pas[p. 261 modifica]sava un’orribile nottata, nell’angoscia che le dava il pensiero del domani.

Altre paure l’assalivano. Le due signore del primo piano ricevevano visite anche a ora tardissima; e qualche volta uno sbagliava e veniva a picchiare e ripicchiare al suo uscio. Il Bourras le aveva detto, con tutta pace, di non rispondere; e lei ficcava la testa sotto il guanciale per non sentite le bestemmie. Inoltre il fornaio, che stava accanto di camera, aveva voluto divertirsi un po’: non tornava a casa che la mattina, e stava attento a guardarla quando ella andava a pigliar l’acqua; faceva perfino dei buchi nella parete e la stava spiando mentre si lavava. Cosí era obbligata ad attaccare al muro quanta roba aveva. Ma soffriva anche di piú per le importunità della strada, per la continua persecuzione di quelli che passavano.

Non poteva andar giú a comprare una candela, su quei marciapiedi motosi dove si aggirava tutta la corruzione dei vecchi quartieri, senza che si sentisse dietro un alito ardente, il crudo linguaggio della concupiscenza; e gli uomini, incoraggiati dal sordido aspetto della casa, le tenevano dietro sino in fondo all’andito. Ma perché non aveva un amante? Tutti se ne meravigliavano, pareva a tutti una cosa ridicola; un giorno o l’altro tanto ci doveva cascare anche lei. Dionisia stessa non avrebbe potuto spiegare perché si ostinasse a resistere, sotto la minaccia della fame, e cosí turbata dai desideri che ardevano intorno a lei.

Una sera che non aveva nemmeno un po’ di pane per la pappa di Beppino, un signore decorato le si era messo dietro. Presso all’andito fu villanamente audace, ed essa con un impeto di [p. 262 modifica]sprezzo gli sbatté l’uscio. Ma quando fu in camera sua, si mise a sedere, e le mani le tremavano. Il bambino dormiva. Che gli avrebbe risposto lei, se si fosse svegliato e le avesse chiesto il pane? Eppure bastava che lei dicesse di sí, e la sua miseria sarebbe finita, avrebbe avuto quattrini, vestiti, una bella camera. Era una cosa da nulla; si diceva che tutte finissero cosí, perché a Parigi una donna non poteva vivere col suo solo lavoro. Ma l’animo le si ribellava, non mica indignandosi verso le altre, ma repugnando di sua natura dalle cose disonorevoli e stagionevoli. La vita, per lei, era ragionevolezza, giudizio, coraggio.

Molte volte Dionisia si scrutò cosí da se stessa. Le tornava in mente una vecchia canzone, la sposa del marinaio, che tra i pericoli dell’a spettare conserva l’amor suo. A Valognes soleva canticchiarne l’appassionato ritornello, mentre guardava nella strada deserta. Aveva forse anche lei un affetto che la faceva cosí costante?

Pensava ancora all’Hutin, scontenta di sé: lo vedeva passare, mattina e sera, sotto la sua finestra. Da che aveva ottenuto il posto tanto desiderato, camminava solo solo tra il rispetto dei commessi. Non alzava mai gli occhi; e a lei pareva patire della vanità di lui tenendogli dietro con lo sguardo senza timore d’essere scoperta.

Ma non appena vedeva il Mouret, che passava parimente tutti i giorni, era presa da un tremito e si nascondeva col petto ansante. Perché fargli sapere dov’ella stava? E poi se ne vergognava; e, per quanto non si dovessero vedere mai piú, soffriva, immaginando ciò che egli potesse pensare di lei.

Dionisia, del resto, viveva troppo vicina al [p. 263 modifica]Paradiso. Non c’era che un muro tra la sua cameretta e la sua antica sezione: subito, appena levata, ricominciava quelle giornate, sentendo la folla che saliva e il frastuono sempre crescente della vendita. Qualsiasi rumore scoteva la vecchia casaccia, che s’appoggiava al colosso e batteva, quasi, in quell’enorme polso. Inoltre non le era possibile schivare certi incontri. S’era trovata due volte faccia a faccia con Paolina che le aveva offerto di adoprarsi per lei, tutta addolorata a sapere che stava tanto male: aveva perfino dovuto dire una bugia per evitare di ricevere l’amica o d’andare a vederla una domenica dal Baugé. Ma piú difficile era per lei difendersi dall’affetto disperato del Deloche, che la spiava, non ignorava nemmeno uno dei suoi pensieri, l’aspettava sotto gli usci: un giorno voleva ad ogni costo prestarle trenta franchi; i risparmi d’un buon fratello, diceva lui, facendosi rosso come un papavero. Questi incontri la forzavano continuamente a rimpiangere il magazzino, e la tenevano al corrente di ciò che vi si faceva, come se non ne fosse mai uscita.

Non saliva mai nessuno da lei. Un bel giorno fu tutta meravigliata sentendo picchiare. Era il Colomban: non lo pregò nemmeno di mettersi a sedere. Da principio il giovane non sapeva che dire: le domandò come stava, parlò del Vecchio Elbeuf. Chi sa che lo zio Baudu non l’avesse mandato per rimediare al suo rigore? Perché continuava a negare perfino il saluto alla nipote, sebbene dovesse sapere in che miseria si ritrovava. Ma quando Dionisia domandò al commesso se era lo zio che lo mandava, egli parve anche piú imbrogliato: no, non lo mandava il padrone; e alla fine nominò Clara. Non voleva che [p. 264 modifica]discorrere su di lei. A poco a poco prese animo e osò chiedere consigli, sperando che Dionisia potesse aiutarlo. Invano lei lo fece disperare, rimproverandogli di far soffrire Genoveffa per una ragazza a quel modo: tornò un’altra volta e prese poi l’abitudine di venire da lei. Al suo tímido amore bastava quello sfogo; non faceva che rifriggere gli stessi discorsi, senza accorgersene, tutto tremante dalla contentezza d’essere accanto a una donna che era stata con Clara. E Dionisia, anche per questo verso, dové tornare di piú, col pensiero, al Paradiso delle signore.

Verso gli ultimi di settembre, la miseria toccò il colmo. Beppino s’era ammalato assai gravemente; bisognava dargli del brodo, e lei non aveva nemmeno del pane. Una sera che, non potendo piú, singhiozzava a dirotto in una di quelle disperazioni che gettano le ragazze o in mezzo alla strada o nel fiume, il Bourras picchiò pian piano. Portava un pane, e un bricco di brodo.

— Ecco qui: questo è per il bambino! — disse con la sua aria da burbero. Non piangete cosí, date noia agl’inquilini.

E perché ella lo ringraziava con un nuovo scroscio di pianto:

— Zitta!... zitta!... Venite domattina da me. Ho del lavoro da darvi.

Dopo il colpo tremendo che il Paradiso delle signore gli aveva assestato, aprendo una sezione di ombrelli, il Bourras non teneva piú operaie. Faceva tutto da sé per spendere meno: lui puliva, lui cuciva, lui raccomodava. Ma i clienti diminuivano a mano a mano, in modo che qualche volta non aveva nulla da fare. E cosí fu costretto a inventare un lavoro purchessia, quan[p. 265 modifica]do, il giorno dopo, mise Dionisia in un cantuccio della bottega. Come si fa a lasciare le persone morir di fame lí accanto a voi?

— Vi darò due franchi il giorno. Quando troverete di meglio, ve n’andrete.

La ragazza aveva paura di lui: e si sbrigò cosí presto di quel lavoro ch’egli dové scervellarsi a trovargliene dell’altro. Le faceva ricucire la seta, accomodare le trine. I primi giorni Dionisia non osava alzar la testa, sentendoselo intorno con quella criniera da leone invecchiato, quel naso da pappagallo, quegli occhi che bucavano sotto i ciuffi irti delle sopracciglia. Aveva la voce dura, i gesti da pazzo; e tutte le mamme del vicinato impaurivano i bambini minacciando di mandarlo a chiamare, come si mandano a chiamare i carabinieri. Ma i ragazzi avevano un bel passare dinanzi alla bottega gridandogli insolenze: pareva non le sentisse nemmeno. Tutta la sua collera di maniaco si sfogava contro quei mascalzoni che gli disonoravano il mestiere a forza di vendere per nulla della robaccia di cui neanche i cani si giovavano!

E Dionisia tremava quando lo sentiva gridare furiosamente:

— L’arte è bell’e rovinata! avete capito?... Non si trova piú un manico fatto a modo; i bastoni, lo so anch’io, tutti son buoni a farli, ma i manichi... Trovatemi un manico e vi do venti franchi!

I manichi erano il suo orgoglio: non c’era in tutta Parigi uno che sapesse fare un manico come i suoi, forti e leggieri. Si divertiva specialmente a intagliarne il pomo con grazia e fantasia, senza mai ripetersi; fiori, frutta, animali, teste lavorate con disinvoltura e viva rappresen[p. 266 modifica]tazione. Non aveva bisogno che di un temperino; e passava le giornate intere, con gli occhiali sul naso, attorno a un pezzetto di bossolo d’ebano.

— Una fitta di ciuchi, — andava ripetendo — che si contentano di metter la seta sulle stecche! I manichi li comprano belli e fatti, all’ingrosso... E chi li vuole li paghi! ma l’arte è spacciata.

A poco a poco Dionisia si rimise in calma. Voleva un gran bene ai bambini, quel povero uomo, e permetteva a Beppino di venir giú, a fare il chiasso in bottega. Quando il bambino camminava carponi, non ci si entrava piú: lei nel suo cantuccio a fare i rammendi, lui davanti la vetrina a intagliare qualche cosa col temperino. Ogni giorno, le stesse occupazioni, gli stessi discorsi: mentre lavorava, il Bourras andava sempre a cascare nel Paradiso delle signore, e tutte le volte rifaceva la storia del suo terribile duello. Stava in quella casa dal 1845, e aveva un contratto per trent’anni per un fitto di milleottocento franchi l’anno: con le quattro camere ammobiliate ne ripigliava un migliaio, cosí non pagava per la bottega che ottocento franchi soltanto. Senza spese, a quel modo, poteva tener fermo dell’altro. A sentir lui, l’avrebbe spuntata di sicuro: il mostro gli doveva cadere ai piedi.

Da un momento all’altro s’interrompeva:

— Delle teste di cane come queste non ne hanno mica, loro!

E strizzava gli occhi dietro le lenti per giudicare meglio della testa che intagliava, una testa che mostrava i denti aguzzi, quasi ringhiasse davvero. [p. 267 modifica]Beppino, in estasi, si protendeva verso il cane, coi braccini sui ginocchi del vecchio.

— A me basta campare alla meglio! ricominciava lui, lavorando delicatamente la lingua del cane con la punta del temperino. — Quei birbaccioni m’han rubato tutti gli avventori; ma se non guadagno piú, nemmeno ci perdo; o per lo meno ci perdo poco. Piuttosto ci rimetto la pelle, che dargliela vinta!

Brandiva, ciò dicendo, il temperino, e i capelli bianchi gli si sollevavano, scossi in un gesto di rabbia.

— Ma se vi dessero una somma discreta, — s’arrischiava a dire Dionisia senza alzar gli occhi dal suo lavoro fareste meglio ad accordarvi!

Allora la feroce ostinazione si mostrava aperta:

— Neanche se mi ammazzano, giuraddio!... Anche col capo sotto la mannaia, direi di no!... La casa è mia per altri dieci anni; e prima di dieci anni non l’hanno, dovessi crepare di fame tra queste quattro mura... Son già venuti due volte a cercar d’accalappiarmi. Mi volevano dare dodicimila franchi del mio fondo; per gli anni da decorrere, altri diciottomila; in tutto trentamila... Nemmeno per cinquantamila! La casa è mia, e li voglio veder venire a leccarmi i piedi!

— Ma trentamila franchi non son pochi! — rispondeva Dionisia. — Potreste andare a stare un po’ piú in giú... E se comprassero la casa?

Il Bourras, che dava gli ultimi tocchi alla lingua del cagnolino, restò assorto per un istante con un riso da bambino diffuso incertamente sulla sua candida faccia da Padre Eterno. Poi ripigliò: [p. 268 modifica]

— Per la casa non c’è pericolo. Parlavano di comprarla l’anno scorso, e ne davano ottantamila franchi, il doppio di quanto vale. Ma il padrone che era un fruttaiolo smesso, un volpone come loro, li ha fatti cantare senza stringere nulla. E poi hanno paura di me, perché sanno che io terrei anche piú duro... No! no! ci sono e ci resto! Nemmeno l’imperatore con tutti i suoi cannoni mi potrebbe fare andar via!

Dionisia non osava rifiatare, e seguitava a lavorare, mentre il vecchio, tra un colpo e l’altro di temperino, borbottava interrottamente: quello era il principio; avrebbe visto poi; aveva tanto in capo da poter spazzar via tutta la loro sezione degli ombrelli: e in fondo alla sua ostinazione si sentiva l’ira del piccolo negoziante, che è al tempo stesso operaio e lavora da sé, contro l’invadere delle merci volgari, degli oggetti da bazar.

Beppino riusciva intanto ad arrampicarsi sulle ginocchia del Bourras, e tendeva le mani impazienti verso la testa di cane:

— Dammelo!

— Subito, piccino mio! — rispondeva il vecchio, con la voce che a un tratto gli si raddolciva. — Ma gli occhi ancora non ce li ha, e bisogna farglieli!

Seguitando a scavare nel legno, si volgeva daccapo a Dionisia:

— Ma li sentite?... Si chetassero mai! Ciò che mi fa piú rabbia, è proprio questo sentirmeli sempre addosso, col maledetto rumore da strada ferrata.

Affermava, perfino, che la tavola gli ballava, e che tutta la bottega era scossa. Doveva passare le giornate senza un avventore, standosene [p. 269 modifica]tra il fremito della gente che faceva ressa nel Paradiso delle signore; e, dalla mattina alla sera, era quello l’unico, eterno suo discorso. Un giorno, dovevano aver fatto un incasso spaventoso; alle sete non avevano certamente venduto per meno di diecimila franchi; un altro giorno, era invece tutto contento perché un acquazzone aveva tenuti lontani i clienti. E i piccoli rumori gli davan cosí argomento a chiacchiere infinite:

— Sentite? uno è cascato. Se lo rompessero tutti il fil delle reni!... Sentite, le ragazze si leticano. Meglio, meglio!... Li sentite gl’involti che cascano nel sotterraneo? È una cosa che fa stomaco!

Dio guardi se Dionisia rispondeva qualche cosa; si metteva allora a rammentarle amaramente il modo brutto col quale l’avevano mandata via, e la costringeva a raccontargli per la centesima volta quanto ella aveva sofferto, nei primi tempi; le stanzucce malsane, il vitto pessimo, la guerra mossale dagli impiegati: tutt’e due dalla mattina alla sera non facevano, cosí, che parlare del magazzino, e quasi ne respiravano l’aria di momento in momento.

— Datemelo! — ripeteva ardentemente Beppino, a mani tese.

La testa di cane era finita; e il Bourras ora fingeva di dargliela, ora la ritirava indietro, con fanciullesca allegria.

— Bada! ti morde!... Via, divertiti, e non lo rompere, se ti riesce.

Poi, riafferrato dal pensiero fisso, minacciava col pugno alzato la muraglia:

— Seguitate, seguitate pure, perché la casa caschi... Non l’avrete neanche se comprate tutto il quartiere! [p. 270 modifica]

Dionisia aveva ora del pane tutti i giorni, e sentiva una gran riconoscenza pel vecchio ombrellaio, di cui sapeva il buon cuore, nonostante le stizzose stranezze. Ma il vivo desiderio di lei era nondimeno trovarsi un qualche altro lavoro, perché si accorgeva ch’egli, mosso da carità, inventava il da fare senza aver punto bisogno di un’operaia in quella rovina del suo commercio. Eran già passati sei mesi, era tornata la morta stagione d’inverno. Disperava oramai di trovarsi un posto prima del marzo, quando, una sera di gennaio, il Deloche, che la stava ad aspettare in un portone, le diede un consiglio. Perché non andava dal Robineau, che doveva aver bisogno di gente?

Il Robineau s’era, in dicembre, risolto a comprare il negozio del Vinçard, con una gran paura di sciupare i sessantamila franchi della moglie. Con quarantamila aveva comprata la «specialità » delle sete; con gli altri ventimila scendeva in campo. Eran pochi, ma il Gaujean l’aiutava con la promessa di grossi crediti. Da che s’era guastato col Paradiso delle signore, costui non pensava che a suscitare rivali al colosso; e credeva possibile la vittoria se si fossero impiantati, lí attorno, negozi dove non si vendesse che un genere solo di merci, ma dove le clienti potessero trovare di quella data merce una svariatissima abbondanza. Non c’erano che i ricchi fabbricanti di Lione, come il Dumonteil, che potessero servire, per le forniture, grandi magazzini; con questi davano da fare agli operai; sulle case meno importanti si rifacevano con il guadagno. Ma il Gaujean non aveva davvero la forza del Dumonteil; dopo essere stato, per un pezzo, semplice sensale e spedizioniere, soltan[p. 271 modifica]to da cinque o sei anni aveva telai suoi propri, e doveva ancora dare gran parte del lavoro ad operai cui forniva la materia prima e pagava un tanto al metro. Per ciò non aveva potuto combattere col Dumonteil quando s’era trattato della «Parigi-Paradiso». E non gli era ancora andata giú; lieto di scorgere ora nel Robineau l’uomo adatto a dar battaglia campale a quei bazar di novità ch’egli accusava di rovinare l’industria francese.

Quando Dionisia si presentò, trovò la signora Robineau sola.

Figliuola di un impiegato del genio civile, nel commercio non ci capiva niente, e, uscita da un convento di Chartres, aveva serbato una certa ingenuità graziosa da collegiale. Era di capelli nerissimi, carina, con una dolcezza allegra che la faceva subito simpatica: adorava il marito e non viveva che di quel suo amore. Mentre Dionisia stava per dirle chi era, il Robineau entrò. L’assunse senz’altro, perché il giorno innanzi gli s’era licenziata una delle due rache stavano da lui, e ch’era voluta andare al Paradiso delle signore.

— Non me ne lasciano una che sappia fare qualche cosa! — disse lui. — Finalmente con voi potrò vivere sicuro; perché siete come me, voi; non dovete volere un gran bene a quella gente là... Venite domani.

La sera, Dionisia penò molto ad annunziare al Bourras che aveva trovato lavoro. Il vecchio le diede dell’ingrata, andò sulle furie; poi, sentendola scusarsi con le lacrime agli occhi, e dire che la sua era stata una carità gradita, si commosse anche lui, disse ch’era una bugiarda, borbottò che invece ora egli aveva moltissimo la[p. 272 modifica]voro, e che lei se n’andava proprio sul punto in cui stava per mettere in mostra un ombrello inventato da lui.

— E Beppino? — domandò.

Il bambino dava molto da pensare a Dionisia. Rimetterlo dalla Gras non osava, e neppure lo voleva lasciar solo, chiuso nella stanza, dalla mattina alla sera.

— Va bene: lo terrò io! — riprese il Bourras. — Nella bottega non ci soffre... mangeremo insieme.

E rifiutando lei, per paura di dargli noia:

— Giuraddio! Dunque non vi fidate?... Non ve lo mangerò mica, il vostro piccino!

Dionisia stette assai meglio, dal Robineau. Le dava poco, settanta franchi il mese, e il vitto soltanto, senza alcun utile sulla vendita, secondo l’uso dei vecchi negozi. Ma era trattata con molta dolcezza, specialmente dalla signora che stava, sempre sorridendo, alla scrivania. Lui, nervoso, stizzito, qualche volta era un po’ brusco di modi. In capo a un mese, Dionisia era divenuta una di casa, come l’altra ragazza, una donnina tisica, sempre zitta. Dinanzi a loro i padroni non avevano segreti: la sera a tavola, nella stanza dietro il negozio, che dava sopra un cortile pieno di luce, discorrevano liberamente degli affari. Fu lí che una sera fu stabilito d’attaccar battaglia col Paradiso delle signore.

C’era a pranzo il Gaujean. Quando venne in tavola l’arrosto, una bella coscia di capretto, da buoni borghesi, egli cominciò a parlare della faccenda col suo accento lionese, guasto dalle nebbie del Rodano.

— Cosí non si dura, — ripeteva. — Vanno dal Dumonteil, per esempio, e prendono per sé [p. 273 modifica]la proprietà d’un disegno, comprano in una volta trecento pezze e pretendono un ribasso di cinquanta centesimi il metro; e siccome pagano a danari contanti, hanno anche lo sconto del diciotto per cento... Il Dumonteil spesso non ci guadagna che venti centesimi: ma lavora, per far andare i telai. Un telaio che non va è un telaio che muore... Ma noi, che abbiamo tante macchine di meno, e dobbiamo anche ricorrere fuori, come volete che possiam resistere?

II Robineau senza batter palpebra si scordava perfino di mangiare.

— Trecento pezze — mormorò. — Ed io ho paura se ne piglio dieci, e a tre mesi... Possono darle a meno di noi, un franco, due franchi. Ho fatto il conto che i prezzi loro son piú bassi del quindici per cento almeno... E cosí il piccolo commercio va all’aria!

Era in un’ora di scoraggiamento. La moglie, inquieta, lo guardava teneramente. Non ci capiva nulla negli affari; tutti quei numeri le spezzavan la testa: era tanto facile ridere e volersi bene! che bisogno c’era di tormentarsi in quel modo? Ma bastava che il marito volesse vincere perché si appassionasse anche lei nella battaglia. Sarebbe morta lí alla scrivania.

— Ma i fabbricanti non si dovrebbero metter tutti d’accordo? — riprese con violenza il Robineau. — Invece d’assoggettarsi a ciò che vogliono gli altri, comanderebbero loro!

Il Gaujean, che aveva ripreso l’arrosto, masticava adagio adagio:

— Ah! perché, perché... Bisogna pur che lavorino, ve l’ho detto. Quando si hanno fabbriche un po’ dappertutto, nei dintorni di Lione, nel Gard, nell’Isère, non si può stare un giorno [p. 274 modifica]in ozio, che subito si scapita un subisso; noi altri, che ci serviamo qualche volta di chi ha dieci o quindici telai, non abbiam tanta paura a crescere il magazzino; mentre i grandi fabbricanti sono obbligati a levarsi d’attorno la mercanzia, il piú presto possibile. Per questo stanno in ginocchio davanti ai grandi negozi. Ne conosco tre o quattro che se li leticano, e piuttosto si rassegnano a perdere, pur d’avere ordi nazioni. Si rifanno coi negozi come il vostro. La crisi finirà come Dio vuole!...

— Ma è un’infamia! — concluse il Robineau sfogandosi in quel grido di collera.

Dionisia stava a sentire, zitta zitta. In cuor suo stava pei grandi magazzini, che rispondevano all’ideale suo della logica e della vita. Gli altri stavano zitti e gustavano i fagiolini in erba del contorno; e lei si fece coraggio e disse sorridendo:

— Al pubblico, però, non gli par vero!

La signora Robineau non poté trattenersi dal sorridere anche lei, con grande scandalo del marito e del Gaujean. Bella scoperta! L’avventore era contento perché, in fin dei conti, ci guadagnava un tanto nel ribasso dei prezzi: ma dovevano campar tutti; e sarebbe stata giusta che, per ingrassare il consumatore, si ammazzasse il produttore? Cominciarono a discutere. Dionisia fingeva di scherzare, pur portando in mezzo argomenti fortissimi; tutti i mezzani non ci avevan piú niente che vedere, agenti, rappresentanti, commissionari; e ciò bastava a fare un forte ribasso. E poi i fabbricanti stessi non potevan piú vivere senza i grandi magazzini, perché subito che questi non si servivano piú da uno di loro, bisognava che fallisse. E poi le cose andavano [p. 275 modifica]cosí per un naturale svolgimento del commercio; e nessuno poteva farle andare diversamente quando tutti o per amore o per forza partecipavano a quel moto.

— Ma dunque, voi state per coloro che v’han gettata sul lastrico? — chiese il Gaujean.

Dionisia arrossí, meravigliata essa stessa della vivacità della sua difesa. Che aveva mai nel cuore per essersi riscaldata a quel modo?

— Ma no, ma no! — rispose. — Forse ho torto io, perché voi ve n’intendete assai piú di me... Non fo che dire come la vedo io: i prezzi non sono piú fatti da cinquanta o sessanta negozi, come prima; ma da quattro o cinque soli, che con la potenza dei capitali e la larghissima clientela li han ribassati. Tanto meglio per chi compra!

Il Robineau non si stizzí; s’era fatto serio, con gli occhi sulla tovaglia. L’aveva sentito spesso, lui, quel soffio del commercio nuovo, quello svolgimento di cui parlava la ragazza, e nelle ore di mente lucida si domandava perché mai si ostinasse a resistere a una corrente tale, che doveva o prima o poi travolgere tutto. La stessa sua moglie, vedendo il marito sopra pensiero, approvava con lo sguardo Dionisia, ch’era modestamente ricaduta nel silenzio.

— Su, su! — disse il Gaujean per farla finita — teorie! null’altro che teorie!... Parliamo del nostro affare.

Dopo il formaggio, la serva aveva portato delle conserve e delle pere. Scelse le conserve, e le mangiò a cucchiaiate, con la ghiottoneria incosciente d’un uomo grasso e grosso, cui strapiace lo zucchero.

— Ecco; bisogna che voi diate addosso alla [p. 276 modifica]«Parigi-Paradiso», che quest’anno è stata la lorecchi dei miei colleghi di Lione, e vi faccio ro fortuna... Mi son messo d’accordo con paun’offerta sbalorditiva, una seta nera che potrete dare a cinque e cinquanta... Loro danno la «Parigi-Paradiso» a cinque e sessanta, non è vero? Saranno dunque due soldi di meno, e ba steranno a mandarli a picco.

Gli occhi del Robineau s’erano accesi di colpo. Nel suo continuo sussulto nervoso passava spesso cosí dalla paura alla speranza.

— Ce l’avete un campione?

E quando il Gaujean ebbe cavato dal portafoglio un quadratino di seta, si esaltò anche piú, e si mise a esclamare:

— Ma è più bella della «Parigi-Paradiso»! Comunque sia, fa piú effetto; la grana è piú grossa... Avete ragione, bisogna tentare. Ah! questa volta o cascan loro o ruzzolo io.

La signora, presa anche lei dall’entusiasmo, attestò che la seta era stupenda. Perfino Dionisia credé che potessero vincere. La fine del desinare fu perciò allegrissima; discorrevano a voce alta: pareva che il Paradiso fosse già in agonia. Il Gaujean, finendosi il vaso della conserva, spiegava che po’ po’ di sacrifici dovessero fare lui e i colleghi per dare quella stoffa a quel prezzo; ma piuttosto sarebbero andati in rovina che smettere la guerra. Si sarebbero distrutti i grandi magazzini! Quando venne il caffè, l’allegria giunse al colmo, per l’improvvisa visita del Vinçard: passando da quelle parti, egli era venuto a stringere la mano al suo successore.

— Stupenda! — esclamò anche lui, nel palpare la seta. — Non c’è piú dubbio; li avete [p. 277 modifica]tutti nel sacco!... Che regalo voglio io! ve l’avevo detto che questo era un affare d’oro!

Lui s’era presa una trattoria a Vincennes. Era un suo sogno antico, tirato su adagio adagio e chetamente verso la realtà, mentre si doveva dibattere in Via Nuova dei Petits-Champs, tremando di non riuscire a vendere tutto prima della rovina, e facendo proposito d’investire quanto gli restava ancora, in un commercio dove si potesse rubare senza tremacuori. L’idea gli era saltata in testa subito dopo il pranzo di nozze d’un suo cugino: la bocca non soffriva mode: figurarsi che avevan dovuto pagare dieci franchi un po’ d’acqua sudicia con dentro qualche pezzettino di pasta! E dinanzi ai Robineau, la sua contentezza di aver loro appioppato un cattivo affare di cui aveva disperato liberarsi, faceva sí che il viso con quegli occhiacci tondi e la bocca grande gli si spampanasse anche piú.

— E i dolori come vanno? — domandò cortesemente la signora.

— Che dolori? — rispose meravigliato.

— Quei reumatismi che vi tormentavano tanto quando eravate qui?

Si ricordò dei suoi lamenti, e non poté fare a meno di arrossire un poco:

— Eh! ne soffro anche ora, purtroppo... Ma l’aria di campagna, capite bene... Quel ch’è certo è che avete fatto un affare d’oro. Se non fossero stati quei maledetti dolori, me n’andavo con diecimila franchi d’entrata prima che fossero passati dieci anni... In parola d’onore!

Men di quindici giorni dopo, cominciò la battaglia tra il Robineau e il Paradiso delle signore; battaglia rimasta famosa, perché tenne per un po’ in viva curiosità tutto il mercato parigi[p. 278 modifica]no. Il Robineau, con le stesse armi dell’avversario, aveva menato gran scalpore di pubblicità su pei giornali: s’era messo inoltre a far le ve trine con quanta piú cura sapeva, ammucchiandovi in colonne enormi la sua seta e annunziandola in cartelloni bianchi dove spiccava a lettere cubitali il prezzo di cinque e cinquanta. Le don ne eran tutte sossopra: due soldi meno che al Paradiso, e la seta pareva anche piú forte! La Marty si comprò, per economia, un vestito di cui non aveva punto bisogno; alla Bourdelais la stoffa parve bella, ma preferí aspettare, prevedendo ciò che avvenne. Infatti, il Mouret, la settimana dopo, ribassò la «Parigi-Paradiso» di venti centesimi: col Bourdoncle e i cointeressati aveva dovuto combattere assai per persuaderli che si vendesse a scapito: quei venti centesimi erano una perdita vera, dacché prima vendevano a prezzo di costo. Il Robineau, che non avrebbe mai creduto a un tale ribasso, perché quei suicidi per la concorrenza che son le vendite a scapito erano ancora senza esempio, fu colpito terribilmente; gli avventori, spinti dal bassissimo prezzo, disertarono da Via Nuova di Sant’Agostino.

Il Gaujean accorse allora da Lione; discussero, e finalmente presero una risoluzione eroica: la seta sarebbe venduta a dieci centesimi meno, a cinque e trenta; era un prezzo sotto il quale non poteva scendere chi non fosse ammattito. E il giorno dopo, il Mouret mise la sua a cinque e venti. Cosí, preso l’aire, si andò a precipizio. Il Robineau vendé a cinque e quindici, il Mouret replicò vendendo a cinque e dieci. Tanto l’uno che l’altro non calavano piú che un soldo per volta, perché perdevano somme grosse per [p. 279 modifica]ogni ribasso che regalavano al pubblico. Le clienti, tutte contente di quel duello, commosse dai colpi furiosi che si scambiavano i due magazzini per far piacere a loro, se la ridevano. Alla fine il Mouret osò vendere a cinque franchi; tutti i suoi impiegati ebbero paura d’una siffatta sfida alla fortuna. Il Robineau, vinto, dové anch’egli fermarsi sui cinque franchi senza il coraggio di ribassare dell’altro. Dormivano, sul campo, l’uno di faccia all’altro, tra la strage delle merci loro.

Ma se l’onore era salvo, la sconfitta toccava al Robineau. Il Paradiso aveva capitali in cassa, ed una clientela che gli permetteva di guadagnare da una parte ciò che perdeva dall’altra, mentre il Robineau, sorretto dal Gaujean, senza altra vendita che quella della seta, scivolava ogni giorno piú sulla via del fallimento. Moriva per la sua temerità, per quanto la battaglia gli avesse portato una clientela numerosa. Uno dei suoi tormenti segreti era quello di vedere gli avventori tornare a poco a poco al Paradiso, dopo tanto danaro buttato via, dopo tanti sforzi fatti per chiamarli a sé.

Un giorno perse la pazienza. La De Boves era andata nel suo magazzino a vedere dei mantelli, perché alla specialità della seta egli aveva unito i vestiari bell’e fatti. La signora non si sapeva risolvere, lamentandosi della qualità delle stoffe. Finalmente disse:

— La loro «Parigi-Paradiso» è molto piú forte.

Il Robineau si frenava, e badava ad affermarle ch’ella era in errore; con la sua cortesia da negoziante, e tanto piú rispettosamente, quanto piú era sul punto di uscire dai gangheri.

— Ma guardate la seta di questa mantiglia! [p. 280 modifica]— ripeteva lei — pare una tela di ragno... Avete un bel dire; la seta loro a cinque franchi è un cuoio, a petto di questa qui!

Il Robineau non rispondeva piú, col sangue al viso, le labbra strette; proprio in quei giorni aveva pensato il tiro ingegnoso di comprare, per i vestiti belli e fatti, la seta del rivale. In questo modo il Mouret, non lui, ci perdeva un tanto. Bastava tagliare il vivagno.

— Ma davvero, la «Parigi-Paradiso» vi pare piú forte?

— Cento volte più forte! — rispose la De Boves. Non c’è nemmen paragone!

Questa ingiustizia della cliente, che a qualsiasi costo buttava giú la merce, mise a repentaglio la pazienza del Robineau. E siccome ella continuava a voltare e rivoltare il mantello con una smorfia di spregio, di sotto la fodera apparve un bocconcino del vivagno azzurro e argento, ch’era sfuggito alle forbici; allora l’altro non si poté piú rattenere, e spiattellò come stava la cosa; meglio parlare che scoppiare!

— Bene, sí, signora, questa seta è proprio la «Parigi-Paradiso!», l’ho proprio fatta comprare io! proprio cosí!... Guardi il vivagno!

La De Boves se n’andò tutta stizzita. La storiella si sparse, e molte clienti non tornarono piú da lui. E lui, in mezzo a quella rovina, quando pensava con terrore all’avvenire, non tremava che per la moglie, avvezza a vivere nella pace dell’agiatezza, incapace a campare poveramente. Che sarebbe di lei se una catastrofe lo gettasse sul lastrico, carico di debiti? La colpa era sua: quei sessantamila franchi non li avrebbe mai dovuti toccare. Bisognava che lei si mettesse a consolarlo. I denari non erano anche di lui? Le [p. 281 modifica]voleva bene, bastava; gli dava intero, lei, il cuore e la vita. Qualche volta si sentiva che si baciavano nella retrobottega. A poco per volta le cose andavano piú regolarmente; ma ogni mese le perdite erano maggiori con una proporzione lenta che faceva apparire, sebbene lontana ancora, l’ultima rovina. Una speranza tenace li sorreggeva tuttavia; si annunziava sempre la prossima sconfitta del Paradiso.

— Insomma, — diceva lui — siamo giovani anche noi! E l’avvenire è nostro.

— E poi che importa? a me basta che tu abbia tentato a modo tuo! — rispondeva lei — Contento te, contenti tutti, amor mio!

Dionisia voleva sempre piú bene a quei due che si amavano tanto. Tremava per loro, sentiva che dovevano finire in rovina, ma non osava metterci bocca. Comprese allora intera la potenza del nuovo commercio, e si appassionò per quella forza che trasformava Parigi. I pensieri le si facevano piú maturi, una grazia donnesca si svolgeva in lei, che non era piú la selvaggia bambina arrivata da Valognes. Del resto, la vita sua era abbastanza lieta, per quanto fosse grande la fatica e poco il guadagno. Dopo aver passata la giornata intera al banco, le bisognava correre in fretta e furia a casa, per occuparsi di Beppino cui il Bourras, fortunatamente, si ostinava a dar da mangiare: ma c’era sempre o una camicia da lavare o un grembiulino da ricucire, senza mettere in conto il rumore che faceva il bambino e che le rompeva il capo. Non andava mai a letto prima di mezzanotte.

La domenica era giorno di battaglia; puliva la camera, e lavorava un po’ per sé, in modo che spesso fino alle cinque non poteva pensare a [p. 282 modifica]pettinarsi. Qualche volta, nondimeno, andava a portando con sé Beppino e facendogli fare una spasso, non per piacere ma per ragionamento, bella camminata dalla parte di Neuilly: il gran divertimento che si prendevano era quello di bersi una tazza di latte da un contadino che li lasciava riposare un po’ nella corte. Gianni non ne voleva sapere: si faceva sempre piú desiderare, capitando un momento dalla sorella, di tanto in tanto, nei giorni di lavoro; poi scomparendo col pretesto d’altre visite. Non domandava piú denaro, ma aveva un aspetto di tanta malinconia, che la sorella, inquieta, aveva sempre pronti per lui cinque franchi: era quello il suo lusso.

— Cinque franchi! esclamava tutte le volte Gianni. — Per Diana! come sei buona!... Ci ho per l’appunto la moglie del cartolaio...

— Zitto! — interrompeva Dionisia. — Non me n’importa nulla di saperlo.

Ma egli credeva che intendesse con ciò accusarlo di vanterie.

— Quando ti dico ch’è la moglie d’un cartolaio!... Oh! un bel pezzo di sposa, te lo dico io!

Passaron tre mesi. Tornava la primavera, e Dionisia rifiutò di fare un’altra scampagnata con Paolina e il Baugé. Li trovava qualche volta in Via San Rocco, nell’uscire dal Robineau. Paolina, una sera ch’era sola, le confidò che forse avrebbe sposato l’amante: era lei che ancora esitava, perché al Paradiso non ce le vedevano di buon occhio le maritate. Questo disegno di matrimonio meravigliò Dionisia, che non seppe che cosa consigliare all’amica. Un giorno che il Colomban l’aveva fermata presso la Fontana per [p. 283 modifica]parlare di Clara, questa, proprio in quel punto, attraversò la piazza; e Dionisia dové svignarsela, perché il giovine la scongiurava di domandare per lui alla sua antica compagna se l’avrebbe sposato. Ma che avevano dunque tutti? perché tormentarsi a quel modo? E lei si stimava felicissima di non voler bene a nessuno.

— Sapete che c’è di nuovo? — le disse l’ombrellaio mentr’ella rientrava in casa.

— No, signor Bourras.

— Ebbene! quei birbanti hanno comprato il palazzo Duvillard... M’hanno circondato!

Scoteva le lunghe braccia in un impeto di furore, che gli sollevava la bianca criniera.

— È un pasticcio dove non ci si capisce niente — seguitò a dire. — Pare che il palazzo fosse del Credito Fondiario, e che il presidente, il barone Hartmann, l’abbia ceduto al nostro famigerato Mouret... Ed ora mi stringono, da destra, da sinistra, da ogni parte, proprio come io stringo, guardate, questo pomo di mazza.

La cosa era vera: dovevano aver firmato il contratto il giorno innanzi. La casuccia del Bourras, stretta fra il Paradiso e il palazzo, conficcata lí come un nido di rondine, in cima a un muro, pareva dovesse essere schiacciata d’un colpo il giorno che il magazzino avrebbe invaso il palazzo; e quel giorno era venuto, il colosso girava intorno al debole ostacolo, lo cingeva colle riboccanti sue merci, minacciava d’inghiottirlo con la sola potenza della gigantesca respirazione. Il Bourras sentiva la stretta che gli faceva scricchiolare la bottega, credeva di vedersela rimpicciolire, temeva quasi di sentirsi ingoiare egli stesso con tutti i suoi ombrelli e mazze, tanto già rugghiava la terribile macchina. [p. 284 modifica]

— Li sentite, eh? si direbbe che mangiano i muri! e in cantina, nel granaio, dappertutto, c’è lo stesso rumore di una sega che morde l’intonaco... Non ho mica paura io! Non mi schiacceranno facilmente; non sono di cartapesta; non mi muovo, io, neanche se mi scoperchiano il tetto, e se mi fanno cader la pioggia a catinelle sulle lenzuola.

In quei giorni il Mouret fece fare al Bourras nuove proposte: tutto compreso, non gli avrebbero dato meno di cinquantamila franchi. Il vec chio s’infuriò più che mai, e rifiutò con insolenze. Li dovevan rubare quei birbaccioni, se pagavano cinquantamila franchi ciò che non ne valeva diecimila! E difendeva la sua bottega come una ragazza difenderebbe la sua virtú, per l’onore, per il rispetto di se stesso.

Dionisia vide il Bourras in pensiero per una quindicina di giorni. Si aggirava febbrilmente, misurava i muri della casa, la guardava di mezzo alla strada come se fosse un architetto. Una mattina, finalmente, vennero degli operai. Era la gran battaglia; l’ombrellaio voleva temerariamente combattere col Paradiso ad armi uguali, e si rassegnava al lusso moderno. Quando lo vedessero splendere nella sua novità, le signore tornerebbero certo alla bottega, che pareva loro troppo triste. Da principio ristuccarono le screpolature e ritinsero la facciata; poi inverniciarono tutta la mostra di un verde chiaro, e perfino dorarono il cartello. I tremila franchi, che il Bourras teneva da parte come ultimo aiuto, se n’andarono cosí in fumo. La gente del quartiere andava in visibilio; e veniva a goderseli tutti quegli splendori: egli aveva persa la testa, e non gli pareva piú d’esser lui. Né gli pareva piú [p. 285 modifica]d’essere in casa sua tra quelle tinte chiare e quell’oro, con la sua aria spaventata, la barbona, i capelli lunghi. Dal marciapiede di faccia si fermava la gente a vederlo muovere le braccia e scolpire i suoi manichi. Preso da una strana febbre, s’ingolfava sempre piú in quel commercio di lusso dove non ci capiva nulla.

Come il Robineau, cosí il Bourras moveva guerra al Paradiso: e, argomento di vittoria, aveva esposto il suo nuovo ombrello, che doveva poi diventare di moda. Del resto, il Paradiso perfezionò subito l’invenzione, e la battaglia si fece viva sui prezzi. Il Bourras mise in vendita certi ombrelli montati in acciaio, «impossibili a rompere» dicevano i cartelli, per un franco e novantacinque. Ma volle principalmente sconfiggere il nemico coi suoi manichi di bambú, di olivo, di mirto, di corniolo, di palma, ogni sorta di manico possibile e immaginabile. Il Paradiso, piú commerciante e meno artista, guardava alla qualità della stoffa e vantava i suoi alpagà, le sue sete, i suoi taffetà. Finí col vincere, e il Bourras disperato andava ripetendo che l’arte era bell’e fritta, e che lui doveva intagliare i suoi manichi per divertirsi, senza speranza di venderli.

— La colpa è mia! diceva a Dionisia. — Come si fa a tenere quelle porcherie da un franco e novantacinque?... Dove vi posson trascinare le idee nuove! Ho voluto seguire l’esempio di quegli assassini; e peggio per me se ci crepo!

Il luglio fu caldissimo. Dionisia nella sua stanzetta a tetto soffocava: perciò, subito che usciva dal negozio, pigliava Beppino dal Bourras, e, invece di salire in camera sua, andava a prendere una boccata d’aria nel giardino delle [p. 286 modifica]Tuileries, finché non si chiudessero i cancelli stani, ebbe un tuffo al sangue: a pochi passi di Una sera, mentre cercava l’ombra degl’ippocadistanza le era sembrato di vedere l’Hutin che le veniva diritto incontro. Poi il cuore le prese a battere forte forte. Era il Mouret, che aveva desinato di là della Senna, e s’affrettava ad andar a piedi dalla Desforges. Al moto improvviso della ragazza per sfuggirgli, la guardò e, per quanto fosse già buio, la riconobbe:

— Siete voi, signorina?

Ella, stupefatta e commossa che si fosse degnato di fermarsi, non rispose: lui nascondeva, sorridendo, il suo turbamento sotto un’aria d’amabile protezione.

— Siete sempre a Parigi?

— Sí, signore, — disse Dionisia alla fine.

Adagio adagio, si scansava e cercava di salutare e andarsene. Ma il Mouret tornò egli indietro, e venne con lei sotto le ombre nere dei grandi ippocastani. Nel fresco della sera si sentivano i gridi di bambini che più in là scorrazzavano coi cerchi.

— E questo è il vostro fratellino, eh? — chiese lui di nuovo, guardando Beppino; che, impaurito dall’insolita presenza d’un signore, camminava serio accanto alla sorella e le stringeva forte la mano.

— Sí, signore, — ripeté ella arrossendo al pensiero delle infami calunnie di Margherita e di Clara.

Il Mouret capí certamente il perché di quel rossore, e si affrettò ad aggiungere calorosamente:

— Sentite, signorina; io mi devo scusare con voi... sí, avrei voluto potervelo dir prima, quan[p. 287 modifica]to ho rimpianto lo sbaglio che altri ha commesso! Troppo leggermente v’hanno accusato... Ma ormai che il male è fatto, volevo soltanto dirvi che tutti nel magazzino sanno oggi il vostro affetto per i fratelli.

E continuò con una cortesia rispettosa alla quale le ragazze del Paradiso non erano molto avvezze da parte sua. Dionisia, sempre piú turbata, sentiva ora una gioia immensa inondarle il cuore. Dunque lui lo sapeva ch’ella non s’era data a nessuno! Tutt’e due camminavano in silenzio, accanto accanto; e il Mouret cercava di regolare i suoi sui piccoli passi del bambino. I rumori lontani di Parigi venivano a morire sotto le ombre nere dei grandi alberi.

— Non posso offrirvi altro che una riabilitazione, signorina — riprese egli. — Naturalmente se volete ritornare al magazzino...

— Non posso... La ringrazio lo stesso, ma son già impegnata con altri.

Lo sapeva; gliel’avevano detto ch’era dal Robineau. E, tranquillamente, come se parlasse a un amico, si mise a discorrere di quest’ultimo, e gli rese giustizia: un giovane d’intelligenza vivace, ma soltanto un po’ troppo nervoso; finirebbe male; il Gaujean l’aveva imbarcato in un affare grossissimo, e ci resterebbero l’uno e l’altro. Allora Dionisia, vinta da quella familiarità, si aprí un po’ piú, lasciò intendere che lei stava dalla parte dei grandi magazzini, in quella battaglia fra loro e il commercio minuto. Si riscaldava, citava esempi, si mostrava al corrente della questione, metteva perfino innanzi qualche idea larga e nuova.

Il Mouret, preso da quella grazia schietta, l’ascoltava con meraviglia, cercando distinguere nel [p. 288 modifica]buio, che sempre cresceva, le fattezze di lei. Pareva sempre la stessa, vestita semplice semplice, con quella dolcezza di prima sul viso. La piccina s’era di sicuro andata maturando nell’aria di Parigi; eccola quasi divenuta una don na, che poteva far girare la testa a qualcuno; cosí giudiziosa, con quei bei capelli che parevan carichi di tenerezza.

— Ma allora siete dei nostri! — disse egli ridendo — e perché rimanete con i nemici?... Per esempio, non mi hanno anche detto che state dal Bourras?

— Un brav’uomo! — rispose lei con un fil di voce.

— No, via, via! un vecchio mezzo matto che mi costringerà a ridurlo sulla paglia, mentre me lo vorrei levare dai piedi arricchendolo!... Ma voi già non state nemmeno con lui, e la casa è una casaccia... Ci sta certa gente... — Si accorse che la ragazza era tutta confusa, e s’affrettò ad aggiungere: Ma si può essere onesti dappertutto! c’è anzi piú merito quando uno non è ricco.

Fecero qualche altro passo senza aprir bocca. Beppino pareva che stesse attento da bambino precoce, e alzava ogni poco gli occhi sulla sorella che lo meravigliava con la mano ardente, scossa da leggieri sussulti.

— Guardate! riprese allegramente il Mouret — volete farmi voi da ambasciatore? Avevo l’intenzione di aumentare dell’altro la somma, e domani offrire al Bourras ottantamila franchi... Ditegli voi prima due parole, ditegli che a questo modo si uccide da sé: forse vi ascolterà, vi vuol bene, e voi gli darete davvero un consiglio da amica. [p. 289 modifica]

— E sia! — rispose Dionisia, sorridendo anch’essa. — Farò l’ambasciata, ma non son punto sicura di riescire.

E tacquero daccapo. Con un’occhiata rapida, il Mouret aveva visto sulla cantonata di Via d’Algeri le finestre illuminate della Desforges che l’aspettava. E aveva data subito un’occhiata anche a Dionisia: nel pallor del crepuscolo la vedeva ora distintamente; c’era paragone fra lei ed Enrichetta? Perché dunque pigliarsela calda a quel modo? Un capriccio, questo suo, che non sapeva di nulla.

— Il bambino dev’essere stanco — aggiunse per dire qualcosa. — E rammentatevi che il magazzino è sempre pronto a riprendervi; siamo intesi? Basterà che picchiate, e non solo vi apriremo, ma vi daremo tutti i compensi che vorrete... Buona sera, signorina.

— Buona sera.

Subito che il Mouret se ne fu andato, Dionisia rientrò sotto gl’ippocastani, nel buio. Camminò per un pezzo senza saper dove andasse, fra gli enormi tronchi, col sangue che le era salito al viso, con la testa rimuginante idee confuse. Beppino, attaccato alla sua mano, allungava le gambe per poterle tener dietro. Se n’era dimenticata. E il piccino finí col dirle:

— Vai troppo lesta, mammuccia.

Allora Dionisia si mise a sedere sopra una panchina: e Beppino, stanco, le si addormentò sui ginocchi, stretto fra le braccia della sorella, che se lo serrava al petto di vergine, con gli occhi erranti in fondo alle tenebre. Quando, un’ora dopo, tornò pian piano con lui in Via della Michodière, aveva il solito tranquillo viso di ragazzina assennata. [p. 290 modifica]

— Giuraddio! — le gridò il Bourras quando la vide. — Il colpo è fatto!... Quella canaglia del Mouret ha comprata la casa!

Era fuor di sé, in mezzo alla bottega, dandosi dei gran pugni, con gesti tanto convulsi che pareva volesse sfondare le vetrine.

— L’infame!... Me l’ha scritto il fruttaiuolo. E sapete quanto gli hanno dato a lui? centocinquantamila franchi! quattro volte tanto quel che vale. Bel ladro anche lui!... Figuratevi che nel conto ci ha messo perfino gli abbellimenti pagati da me! Già, ha fatto valere che la casa è stata rimessa a nuovo... Non finiranno mai di canzonarmi cosí?

Il pensiero che il suo danaro, speso a rabberciare e ritingere, avesse potuto giovare al fruttaiuolo, gli faceva perdere la testa. E ora il Mouret era padrone lui! a lui dovrebbe d’ora in poi pagare il fitto; era in casa sua, in casa di quell’odiato rivale! Si sentiva rodere dalla rabbia.

— Li sentivo, io, che bucavano il muro... Eccoli qui; mi par di mangiare nel piatto loro!

E picchiando col pugno sul banco, scoteva tutta la bottega, facendo tremare ombrelli e ombrellini.

Dionisia, sbalordita, non aveva ancora potuto dir nulla. Non si moveva e aspettava che la furia scemasse: Beppino, stanchissimo, si addormentò su una seggiola. Finalmente, quando il Bourras si fu calmato un poco, lei poté arrischiarsi a fargli l’ambasciata del Mouret: il vecchio era senza alcun dubbio arrabbiato, ma lo stesso eccesso della sua collera, l’imbroglio in cui si trovava, potevano farlo accettare lí per lí.

— A proposito: ho incontrato, — cominciò lei — ho incontrato un tale del Paradiso, [p. 291 modifica]ch’è benissimo informato... Pare che domani vi verranno ad offrire ottantamila franchi.

Fu un grido terribile:

— Ottantamila franchi! ottantamila franchi? Neppure per un milione, ora!

Lei voleva che ci ripensasse un po’. Ma, mentre gli stava parlando dei suoi affari, l’uscio si aprí, e Dionisia si fece da parte, muta e pallida. Era lo zio Baudu, con la faccia gialla, invecchiato. Il Bourras acchiappò per un bottone del soprabito il suo vicino, e senza che potesse aprir bocca, eccitato dalla presenza di lui, gli urlò sul viso:

— Lo sapete quant’hanno avuto la sfacciataggine di offrirmi? ottantamila franchi! Son arrivati a questo punto, i briganti! Credono che io mi venda come una ragazzaccia... Ah! hanno comprata la casa, e mi tengono già per sconfitto. No, non l’avranno mai. Forse avrei ceduto, ma ora che la casa è di loro, se la vengano un po’ a prendere!

— Dunque è vero ciò che m’han detto? — disse il Baudu con la sua voce lenta. — Venivo per sapere come stanno le cose.

— Ottantamila franchi? — ripeteva il Bourras. — E perché non me ne offrono centomila? Son tutti questi quattrini che mi fanno rabbia. Credono coi quattrini di potermi far fare una porcheria? Non l’avranno, giuraddio! mai! Mai, mai, mai!

Dionisia ruppe allora il silenzio per dire tranquillamente:

— L’avranno fra nove anni, quando il contratto sarà scaduto.

E, per quanto fosse lí presente lo zio, scon[p. 292 modifica]giurò il vecchio d’accettare. La guerra era impossibile; troppo potenti eran gli altri! Non poteva, senza essere pazzo, dare un calcio alla fortuna in quella maniera. Ma lui con la testa faceva segno di no. Fra nove anni sperava d’esser morto, e non trovarsi al caso. Da vivo non si sarebbe arreso mai; lo giurava levando i pugni al cielo e bestemmiando.

— Avete sentito, signor Baudu? — riprese a dire. La vostra nipote sta dalla loro; e me l’hanno mandata perché mi corrompa... In parola d’onore, è d’accordo con quei furfanti anche lei!

Lo zio fin allora aveva finto di non vedere Dionisia. Alzava la testa col moto da burbero che faceva sull’uscio della bottega ogni volta ch’ella passava. Ma a poco a poco si voltò, e la guardò. I labbroni gli tremavano.

— Lo so! — rispose a mezza voce.

E continuava a guardarla. Dionisia, cui scappava da piangere, si accorse che i dispiaceri l’avevano cambiato molto; egli forse pensava, col sordo rimorso di non averla aiutata, alla vita di miseria che aveva dovuto fare per un certo tempo. Poi la vista di Beppino addormentato sulla seggiola, tra il rumore della discussione, parve a un tratto commuoverlo.

— Dionisia, — diss’egli semplicemente — perché non vieni domani a mangiare un po’ di minestra col piccino?... Le mie donne m’hanno pregato d’invitarti, se mai ti trovavo.

Ella arrossi tutta e l’abbracciò. E quando il Baudu se n’andò, il Bourras, contento di quella riconciliazione, gli gridò dietro: [p. 293 modifica]

— Correggetemela un po’: ha del buono... Io, quanto a me, la casa può venir giú, ma io non mi muovo. Mi troveranno sotto i calcinacci!

— Le nostre case crollano di già, amico mio, — disse il Baudu cupamente. — Ci resteremo tutti alla schiaccia!