Inni di Callimaco (1827)/Delo

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Delo

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Callimaco - Inni (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Dionigi Strocchi (1816)
Delo
Diana Pallade
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DELO


E quando, ingegno mio, quando la cuna 1
     D’Apollo canterai? Sono di rima
     Degnissime le Cicladi ciascuna,
Imperocchè d’onor seggono in cima
     Nei campi d’ocean, ma per costume
     Delo cantar le Muse aman la prima,
Delo che sparse del corrente fiume
     Il re dei carmi, e nelle fasce il chiuse,
     E a lui prima inchinò siccome a Nume.
Chi non canta Pimplea spiace alle Muse,
     E chi Delo non canta a Febo spiace,
     Ed io, perchè mi sien sue grazie schiuse,
Delo rammenterò. Nel Ponto giace
     Combattuta da’ venti isola incolta
     Di smerghi più che di corsier ferace;
A lei l’Icario pelago di molta
     Schiuma flagella i lidi, a cui si accoglie
     Gente che va per le marine in volta.

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Non è però baldezza il dir, che toglie
     Quest’una il grido e l’onoranza a quante
     Di Teti e d’Oceano entran le soglie.
Ella cammina a ciascheduna innante, 2
     La Fenicia appo lei Corsica incede,
     Su le cui poste Eubea move le piante; 3
Quarta è Sardigna, e da sezzo procede
     Quella a cui riparossi il dì che a terra
     Dalle spume del mar Venere diede.
Queste un cerchio di torri affida e serra,
     Te Febo, o Delo; e quai più salde mura?
     Lo Strimonio Aquilon le pietre atterra,
Ma non atterra un Dio: tu di sventura,
     Isoletta gentil, non hai sospetto,
     Nell’usbergo di tal vivi sicura;
E poichè l’are tue drappello eletto
     Sempre fa risuonar di canti amici, 4
     Quale a scoltar più ti sarà diletto?
Canterò forse come le pendici
     Col temprato tridente dai Telchini 5
     Nettuno sollevò dalle radici?
E riversando in mar giù nei marini
     Fondi legò le poderose some
     Tutti i terrestri ad obliar confini?
O più dolce ti fia memorar come
     Correvi in libertà l’equoree strade,
     Quand’era il nome tuo d’Asteria il nome?
Che fuggendo del ciel l’alte contrade,
     E del Saturnio Dio l’ardente zelo
     In mar cadesti come un astro cade.
E mentre che li due occhi del cielo
     Latona a partorire in te non sorse
     Asteria ti chiamarono e no Delo.
Spesso il nocchier, che il mar d’Efira corse 6
     Dando le vele al vento di Trezene
     Nella marina di Saron ti scorse,

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Nè veleggiando alle medesme arene
     Te discovri, che volta eri alla sponda,
     A cui romoreggiando Euripo viene;
Laonde, se della Calcidic’onda
     Il fragoroso mareggiar ti nuoce,
     Corri nell’ocean, che Sunio inonda; 7
Ed ora a Chio ti volgi, ora veloce
     Fai di Partenia all’isola ritorno,
     Che allora non avea di Samo voce, 8
E del vicino Anceo trovi il soggiorno;
     Ma poichè Febo nel tuo grembo nacque
     Nome di Chiara ti suonò d’intorno. 9
Che i piè fermando dell’Egèo nell’acque
     Più non errasti oscuramente dove
     A fortuna di mare e ai venti piacque;
Nè te minaccia di Giunon commove,
     Che sempre pone a sua vendetta segno
     Le genitrici dei figli di Giove;
E più profondamente in cor di sdegno
     Struggesi per colei, che in tal s’incinge
     Onde sarà d’amor Marte men degno.
Dalle porte del cielo il viso pinge,
     E alla dolente ogni terren difende,
     Siccome l’ostinato odio la stringe.
A stanza della Dea Marte là scende
     Dove l’altre montagne Emo soggioga 10
     La terra a discovrir quanto si stende;
In questo mezzo i corridori alloga
     Nella spelonca, onde Aquilon mugghiante
     Per settemplice porta si disfoga;
D’altra parte la figlia di Taumante
     Tutti dell’ampio sal gli azzurri campi
     Riguardando sedea sopra Mimante,11
E ad ogni arena che Latona stampi
     Significando in minaccevol fronte,
     Che nulla in sè la peregrina accampi.

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Fuggì l’Arcade terra e il sacro monte
     D’Auge, fuggì Peloponeso in uno, 12
     E di Fenèo il vecchiarello fonte.
Egìalo ed Argo non fuggì soluno,
     E non trasse Latona a quel terreno,
     Che dell’Inaco il corso è sacro a Giuno.
Fuggì l’Aonia, e via con lei fuggieno
     E Dirce e Strofia come avesser’ali
     Strette alla man dell’arenoso Ismeno.
Con elle Asopo, e non con passi uguali, 13
     Ma lento e zoppicando a tergo sprona,
     Siccome tocco da superni strali.
Le danze per timor Melia abbandona, 14
     Che la scorza materna e le native
     Mira ondeggiar pendici d’Elicona.
Ditemi, o Muse mie, dilette Dive,
     Produce un parto una medesim’ora
     Driadi e querce per selvagge rive?
Se Giove il crin della foresta infiora
     Godon le ninfe, e se di foglie è nuda,
     Dolenti ed egre ciascheduna plora.
Ancorchè nel materno alvo si chiuda,
     Febo si accende alle magnanim’ire,
     E a Tebe fa questa minaccia cruda;
Tebe, Tebe infelice, qual desire
     Hai di sapere il tuo destino tristo,
     Perchè mi sproni mal mio grado a dire?
Del tripode di Pizia io non acquisto
     Le sedi ancora; le pilose gote
     Dell’orrid’angue che strisciò da Plisto, 15
Non sanno ancor con che piaga percote
     La mia faretra, ei tuttavia circonda
     Il Parnaso nival con nove rote.
Pur dirò ver più che di lauro fronda:
     Fuggi quantunque sai, le mie quadrella
     Io laverò del sangue tuo nell’onda. 16

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Colle di Citerone in te di quella
     Presuntuosa la semenza vive;
     Culla non mi sarà tua piaggia fella;
S’addice a buoni amar l’anime dive:
     Latona a queste voci andò retrorso
     In cor volgendo le contrade Achive.
Poichè d’Elice quivi invan soccorso 17
     E di Bura aspettò, ver la campagna
     Della Tessaglia dirizzò suo corso.
Vide lì di Chiron l’alta montagna, 18
     E dell’Anauro il rio fuggir veloci,
     E Larissa e Penèo, che Tempe bagna:
Nè allora, o Giuno, i tuoi spirti feroci
     Manco s’intenerian, quando le inferme
     Braccia levò con queste vane voci:
Ninfe, del fiume di Tessaglia germe,
     Al vostro genitor dite che stia
     Con le preste onde sue tanto pur ferme,
Che la prole di Giove al mondo io dia,
     E con pregarlo e carezzargli il mento
     Intrattenetelo: O Penéo di Ftia,
Tu non dai udienza al mio lamento,
     Sul dorso già d’un corridor non siedi,
     Perchè nel tuo fuggir disfidi il vento?
Sempre avestù così leggieri i piedi,
     Sei tu con questo vol sempre disceso,
     O sol fuggi così quando mi vedi?
Dove ti porterò, dolce mio peso?
     Abbandona la lena il corpo stanco;
     O talamo di Filira scosceso
Soggiorna tu Peliaco monte almanco:
     Vengono in tue foreste orse e leene
     A disgrevar del crudo pondo il fianco.
Con luci a lei Penéo di doglia piene:
     Necessitade! inesorabil Nume!
     Non io niego ti fo delle mie vene,

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Nè sono sconoscente a madri fiume,
     Giuno, che avvampa di gelosa rabbia,
     A questa fuga mi vestì le piume.
Non vedi tu la spaventosa labbia
     Della vigilia, che mi adocchia ognora,
     E far mi può che a lagrimar sempre abbia?
Ma se fermato in cielo è già ch’io mora,
     E questa è pur la tua soave brama,
     Vegna, vegna la mia novissim’ora.
Benchè sfregiato dell’antica fama
     Mi deggia rimaner rena scoverta,
     Ecco soggiorno: tu Lucina chiama.
Marte la vetta sollevò d’un’erta 19
     Minacciando Penéo, che incontanente
     Tutta quanta gli avria l’onda deserta.
La rotella toccò con l’asta ardente,
     E quella sì rispose alla percossa
     Romoreggiando spaventosamente,
Che le valli Cranonie i gioghi d’Ossa,
     La montagna di Pindo e la Tessaglia
     Tutta si fu per lo fragor commossa.
Non così Briareo che si travaglia
     Sotto la rupe e le caverne estreme
     Crollando, il fumo e le faville scaglia;
Nè la fornace Etnéa sì forte geme
     Quando il martello di Vulcan l’introna,
     O cadendo i treppiè cozzano insieme,
Tanto quel bronzo orribilmente suona;
     Pur non mosse Penéo le piante mai
     In fin che: vale, gli gridò Latona.
Non vo’ la mia cagion, che a mieter guai
     Abbi da cortesia: mercede degna
     A tua benigna volontade avrai.
E tragge al mare: e a qualche isole vegna
     Proda non trova a’ suoi desiri molle,
     Non l’ospital Corcira e non Sardegna,

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Che di paura sì dall’alto colle
     Di Mimante accennando Iri le punge,
     Che ciascheduna per fuggir si tolle;
Quindi agli alberghi di Calciope aggiunge, 20
     All’isola di Coo, laonde il figlio
     Con questo ragionar la tenne lunge:
Qui non gradisco al dì schiudere il ciglio,
     Nè già questa isoletta che verdeggia
     Tutta d’erbe e di fiori a vile io piglio;
Statuito dai cieli è che qui deggia
     Nascere un altro Iddio, famosa verga
     Del Macedone stel, che tanta greggia
Correggerà colla possente verga,
     Quanta non vede il mar, quanta il mar serra,
     E quanta Aurora, e quanta Espero alberga;
Tutta a sue man si recherà la terra,
     I paterni costumi avrà con seco,
     E verrà tempo un dì, che ad esso guerra
Rotta sarà comunemente meco,
     E i figli de’ Giganti il Celto Marte, 21
     E le barbare spade al lido Greco
Moveran dall’Esperia ultima parte,
     A nevi a stelle in numero sembianti,
     Quando la notte al ciel più ne comparte.
Quanti di Crissa la campagna, quanti
     La Delfica erta e la vallea Locrese,
     E tutta allor darà la terra pianti,
Quando le messi del vicino incese
     Non udran, ma vedranno, e il mio soggiorno
     Assiso, e l’are mie dall’oste offese.
Spade adunate a’ miei tripodi intorno,
     Svergognati cintigli aste e pavesi.
     Daranno al pazzo stuol tristo ritorno.
Gli scudi, visti i lor bajuli accesi,
     Del Nilo al vincitor parte si denno,
     Parte saranno a’ miei delubri appesi.

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O Tolomeo, ti loderai del senno,
     Che tuttavia sì chiuso al vero mira;
     Tu madre ascolta ciò ch’ora ti accenno.
Isola piccioletta in mar si aggira,
     Che non ha propria stanza, e come foglia
     Va secondo che Noto od Euro spira:
Liete accoglienze di benigna soglia
     Là troveremo; e di fuggir più presto
     A tal sermone ogn’isola s’invoglia.
Tu, Asteria, dall’Eubea scendevi in questo
     Le Cicladi a trovare, e i lidi pieni
     Mostravi ancor dell’alga di Geresto; 22
Veduta la dolente il corso affreni,
     E a lei porgendo le pietose braccia,
     Vieni dicesti a me, Latona, vieni.
Adempia Giuno la crudel minaccia,
     Esser non calmi a sue vendette scopo.;
     Qui terminò la faticosa traccia
Latona, e al margo si corcò d’Inopo 23
     Più ricco allor, che più con larga vena
     Cade il Nilo dal suo capo Etiópo,
E al pedal d’una palma inchina, e piena 24
     Le membra di sudor discinse i panni,
     E disperata nell’immensa pena:
Perchè, figlio, così la madre affanni?
     Noi siam venuti all’isoletta bella
     Usata aprir per l’oceano i vanni.
Nasci, nasci, diceva. Aspra sorella,
     Di Giove all’ira tua già non convenne
     Aspettarne lung’ora in ciel novella.
Spiegò per l’aria le dipinte penne
     Iride la veloce messaggiera,
     E anelando e temendo a te divenne,
E cominciò: Tu prima infra la schiera
     Sei delle Dive, ed io la tua suggetta,
     L’umile terra e la superna spera

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Regger come a regina a te si aspetta,
     O sola feminil temuta mano
     Or dirò la cagion della mia fretta. 25
Latona partorì nell’oceáno,
     Letto Asteria gli fe’ de’ lidi suoi,
     A tutte l’altre approssimossi invano.
Ahi, maledetta ragna! Or tu che il puoi, 26
     Diva, soccorri a chi nel mondo il suono
     Vola portando de’ decreti tuoi.
Disse, e locossi accanto all’aureo trono,
     Siccome i veltri di Diana fanno
     Se dal lungo cacciar racqueti sono,
Che vicin della Diva a porsi vanno
     Ubidïenti, e con le orecchie tese
     All’impero di lei parati stanno.
Similemente a Giuno Iri si rese,
     Da cui nè manco allora si dispiega,
     Che il sonno sovra i rai l’ali le stese.
Tanto la testa sonnolenta piega
     Alle colonne dell’aurato soglio,
     Nè i talari giammai nè il cinto slega.
Varco la diva qui dando al cordoglio:
     Sempre così, diceva, o concubine
     Di Giove in qualche desertato scoglio
Non altrimenti che foche marine
     Celar nozze e portati vi sia forza,
     Nè dove manco è licito a meschine.
Ira m’infiamma, e a far vendetta sforza
     Di chi male a pietà volse il desio,
     La cara Asteria ogni mio sdegno ammorza,
Perocchè le perdona ogni suo rio
     L’aver preposte le marine spume
     Ai complessi di Giove e al letto mio.
I cigni in questa le purpuree piume
     Levar dall’acque del natio Pattolo,
     I quai congratulando al novo Nume

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Sette volte accerchiâr Delo col volo,
     E quantunque fiate in ciel non tacque
     Il dolce metro del canoro stuolo,
Di tante fila d’oro a Febo piacque
     Armar la cetra sua; non era ancora
     Messo l’ottavo suon che il Nume nacque.
Intuonar l’inno di Lucina allora
     Le ninfe dell’Inopo, a cui per l’etra
     D’ogn’intorno rispose Eco sonora.
Qui per voler di Giove ira si arretra
     Dal petto di Giunon: qui Delo in auro
     Mutar le antiche fondamenta impetra,
Tinse la chioma sua l’olivo in auro,
     Spumò d’auro l’Inopo, e quel terreno,
     Che il fanciullo toccò, rifulse in auro;
Donde il togliendo e riponendo in seno
     Dicesti: o Terra immensa, che di molti
     Altari il grembo e di cittadi hai pieno,
Isole circostanti e pingui colti,
     Infeconda qual sono, avrommi vanto,
     Che Apollo nominar Delio si ascolti.
Non fia diletta a Nume altra cotanto,
     Non Cillene a Mercurio, a Giove Creta,
     E non Cencri a Nettuno, a Febo io quanto, 27
E come l’altre in mar mi starò cheta:
     Mentre favelli il figlio di Latona
     Alle materne poppe si disseta.
Da indi in quà nè Marte nè Bellona
     S’attentano appressar tue sante rive,
     E la mano di Pluto a te perdona, 28
E viene ad intrecciar danze votive,
     E l’are a te di novellizie adorna,
     Tornando il Sol nelle giornate estive,
Qual colà dove annotta e dove aggiorna,
     Quale alla piaggia di meriggio aprica,
     E quale alla gelata Arto soggiorna:

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Questa la più di ciascun’altra antica
     Boreal nazione, ogni anno manda
     Un manipolo a te di nuova spica,
E ai Dodonei custodi l’accomanda
     De’ sonanti metalli, e di là scorto
     È poi di Meli alla petrosa banda;
Quindi ritrova navigando il porto
     D’Eubea, contrade degli Abanti opime,
     Laonde a’ lidi tuoi giungere è corto.
Loxo con Opi ed Ecaerge prime
     Recâr dagli Arimaspi alle tue prode
     Queste di messe biondeggianti cime;
Le conseguia di giovinetti un prode
     Drappel, che il suol natio poi non rivide,
     Fatto immortal per sempiterna lode.
A ricordo di quelli il crin recide
     Ancor ciascuna vergine di Delo,
     Quando Imen dalla madre la divide;
E a quei garzon dell’Iperboreo cielo
     Ogni donzello consacrar desira
     Delle tenere gote il primo velo.
Te, Asteria, un cerchio d’isolette aggira,
     Te il fumo ognor degli olocausti ammanta,
     Nè te mai taciturna Espero mira.
Chi del vecchio di Licia i versi canta,
     Olen da Xanto divino poeta, 29
     Chi il suol percote con allegra pianta,
E chi di Citerea vela con lieta
     Fronda l’imago, che il figliuol d’Egèo
     Sacrò con quei, che s’allargâr da Creta,
Che il muggito e l’error Laberintéo
     Fuggendo, intorno a tua sacrata stanza
     Guidâr carole, e le reggea Teséo.
Per la memoria dell’antica danza
     Un naviglio e un drappel mandare ancora
     I Cecropidi a Febo han per usanza. 30

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Qual navigante dell’Egèo la prora,
     Isoletta gentil da te ritorse
     Per cure o per chiamar di agevol’ora,
Se prima intorno all’are tue non corse
     Sott’essi i colpi del sacro flagello,
     E avvinto nelle man l’ulivo morse? 31
Trovò tai ludi a Febo tenerello
     Una ninfa di Delo. O bella riva,
     Che, qual nel centro di ciascuno ostello
A Vesta sacro un focolar si avviva,
     Ti siedi in mezzo alle marittim’acque,
     Salve, e tu salve, o Febo, e quella Diva,
Che teco di Latona al mondo nacque.

Note

  1. [p. 41 modifica]Asteria, figlia di Ceo, sorella di Latona, fuggendo gli amplessi di Giove, cadde nel mare Egeo, ove fu mutata in quella vagabonda isoletta, che, per destino, non dovea quetarsi pria di essere divenuta culla, e nudrice di Apollo. È meraviglia che questa Ciclade sia celebrata con inni sacri insieme con gli Dei maggiori; onoranza, che non fu mai renduta ad altra Terra natale di altro Dio. Molti culti furono a lei dedicati, molte religioni per lei institituite, e non solo dalle vicine Cicladi, ma dalle tre parti del mondo, e fino dagli ultimi Iperborei le si mandavano solenni legazioni, e primizie, e per lei si faceano sacrifizii, e certami musicali, e ludi, e cori, e feste d’ogni maniera. Si potria domandare perchè Latona non si rifugiò subito ad Asteria sua sorella, o perchè Apollo, che pure così chiuso nel seno [p. 42 modifica]materno profetava, non accennò da bel principio alla madre l’unico luogo, in cui lo potea partorire. Artifizio del poeta sembrami questo, che per tal modo ha potuto comporre una macchina, e spargere di vaghissime immagini una favola per sè medesima la più sterile di tutte. Quel peregrinaggio, e quella incertezza di Latona formano appunto il nodo del dramma, che tale si può chiamare questa favola. Perlochè giudiziosamente il poeta ha taciuto per tutto l’inno questa consanguinità; attenendosi forse ancora a qualche altra teogonia a noi ignota. Virgilio si è sovente arricchito delle spoglie de’ tragici, e Callimaco di quelle dei comici non solo nella condotta delle sue poesie, ma talvolta ancora nell’espressioni, e in un certo stile familiare.
  2. [p. 42 modifica]Questa fantasia di adunare le isole nella reggia di Teti prepara assai opportunamente la fuga delle regioni, alle quali Latona si avvicina.
  3. [p. 42 modifica]Eubea era famosa per le sue acque termali.
  4. [p. 42 modifica]La lezione qui ricevuta dal Brunck è forse la più elegante; ma l’altra seguita dall’Ernesti fornisce un miglior senso; e fuorchè in questo luogo mi sono sempre attenuto alla recensione di Brunck.
  5. [p. 42 modifica]I Telchini, popoli di Candia, o di Rodi, o di Cipro, furono i primi fabbri del ferro e dell’acciajo.
  6. [p. 42 modifica]Efira, o sia Corinto.
  7. [p. 42 modifica]Sunio, promontorio dell’Attica.
  8. [p. 42 modifica]L’isola di Samo fu prima detta Partenia, perchè in essa Giunone fu educata, e [p. 43 modifica]sposata da Giove, poscia fu detta Samo dall’eroe Samo figlio di Anceo Argonauta, che ivi ebbe regno.
  9. [p. 43 modifica]Chiara è la traduzione della greca parola Delo.
  10. [p. 43 modifica]Emo monte della Tracia. Marte era il Dio più venerato in quelle contrade.
  11. [p. 43 modifica]Mimante promontorio dell’isola di Chio.
  12. [p. 43 modifica]Auge monte d’Arcadia sacro a Pane. Aonia vuol dire la Beozia. Egialo era quella parte di litorale nel Peloponneso, che giaceva tra gli Elei, e i Sicioni.
  13. [p. 43 modifica]Asopo era uno dei due fiumi di Tebe di Beozia. È notabile, che tra tanti commentatori di Virgilio alcuno non abbia scoperto il confronto di quei versi, ove si parla di Anchise toccato dal fulmine, con questo passo di Callimaco.
  14. [p. 43 modifica]Melia significa ninfa abitatrice dei frassini: e qui, conforme è l’uso del parlare poetico, si accenna una specie di ninfe pel genere loro. Uno degli ultimi recensori di Callimaco, l’eruditissimo Ernesti, a questo luogo dice così: Multa hic de singulis verbis, et rebus universis disputat Spanhemius, non autem docet quo pertineant hic dicta. Oportet intelligi fabulam de quercu in Helicone excisa eo tempore, quam nondum indagare potui. E non s’è avveduto, che questo è un modo elegante, e figurato di accennare la fuga del monte Elicone.
  15. [p. 43 modifica]Plisto fiume di Delfo.
  16. [p. 43 modifica]Accenna la strage, ch’egli farà in Tebe dei figli di Niobe e di Amfione re di quella città.
  17. [p. 44 modifica]Elice, e Bura due città dell’Acaja, che in un medesimo tempo furono ingojate per terremoto.
  18. [p. 44 modifica]I gioghi di Chirone, o sia il monte Pelio; Filira era la madre di Chirone. Vedi intorno a ciò le osservazioni dell’eruditissimo Traduttore di Apollonio Rodio, lib. 2, v. 1874 della traduzione.
  19. [p. 44 modifica]Marte sollevò la vetta di un monte, che era il Pangéo celebre per le sue miniere d’oro, e di argento.
  20. [p. 44 modifica]Calciope, di cui nacque Tessalo, era di Coo. In questa isola nacque Tolomeo Filadelfo.
  21. [p. 44 modifica]Ciò che avvenisse ai Galli quando, fugati da Camillo, portarono sotto il comando di Brenno le armi al ricco tempio d’Apollo in Delfo, e come fossero vinti e dispersi, molti tra gli antichi scrittori ne fanno parola, ma più diffusamente Pausania nella Focide. Di ciò poi che veramente accadesse sul Nilo alle reliquie di quell’esercito, altra istoria non lo racconta; ma vuolsi avere tutta la fede a Callimaco scrittore contemporaneo, e che vivea alla Corte d’Alessandria. Gli scoliasti di Callimaco raccontano, che i pochi Galli, che avanzarono al gelo, alla grandine, ai fulmini d’Apollo, alle ruine di Parnaso, furono assoldati da un certo Antigono amico di Tolomeo Filadelfo; i quali per aver voluto derubare l’erario di Tolomeo furono da lui fatti morire sommersi alla bocca Sebenitica del Nilo.
  22. [p. 44 modifica]Geresto promontorio dell’Eubea.
  23. [p. 44 modifica]Inopo fiume di Delo.
  24. [p. 44 modifica]Qui il Poeta ricorda la palma; e più [p. 45 modifica]sotto l’olivo; presso la prima fu partorito Apollo, e presso il secondo Diana.
  25. [p. 45 modifica]Τὸν αἴτιον οἴσεαι ὀργῆς. Non so perchè questo emistichio sia stato tradotto costantemente: Tu regina vendicherai il delitto: quando il senso che io ho reso, è assolutamente piano e sicuro.
  26. [p. 45 modifica]Con istile comico e per dispregio Iri chiama l’isola di Delo rete maledetta per la sua mobilità.
  27. [p. 45 modifica]Cencri promontorio nell’Istmo di Corinto.
  28. [p. 45 modifica]Tucidide e Strabone raccontano, che in Delo non si seppellivano i morti; ma si portavano nelle isole vicine. Essa siccome asilo non fu mai infestata da guerra.
  29. [p. 45 modifica]Oleno fu Poeta famoso di Licia, il primo autore degl’Inni, che si cantarono in Delo non solo, ma in tutta la Grecia.
  30. [p. 45 modifica]Gli Ateniesi mandavano ogn’anno a Delo un coro di giovani sopra una sacra nave, che si chiamava la Teoride; a memoria appunto di quella, su cui vi approdò Teseo con quella gioventù liberata dal Minotauro: τοπηῖα νηὸς ἐκείνης, che comunemente è tradotto per rudentes, funes navis il Ch. Sig. Ennio Quirino Visconti non dubita, che si debba tradurre imaginem navis, illius, e lo deriva dal verbo τοπεύω che vuol dire conjicio, arguo; onde τοπηῖα, quasi conjectationem et imaginem.
  31. [p. 45 modifica]Questo correre intorno all’ara di Delo sotto la sferza, e con le mani legate a tergo mordere il tronco dell’oliva furono, giusta [p. 46 modifica]l’antica opinione trastulli trovati da una ninfa di Delo per dilettare Apollo fanciullo; di poi furono consacrati, e divennero pratiche religiose, che non si omettevano da veruno, che s’avvenisse a passare vicino a quell’isola; della quale chi più saper ne volesse, oltre i famosi commentarj di Spanemio a Callimaco, può consultare la dissertazione dell’Ab. Sallier su questo argomento, inserita nel tomo terzo degli Atti dell’Accademia delle Iscrizioni.