L'apologia di Socrate/Capitolo XXXI

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Capitolo trentunesimo

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Platone - L'apologia di Socrate (IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Francesco Acri (XIX secolo)
Capitolo trentunesimo
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Ma con voi, che avete votato l’assoluzione, ragionerei volentieri di una cosa che m’è avvenuta, mentre i magistrati d’altro si occupano, e non è peranco l’ora di andare là dove mi aspetta la morte. Rimanete dunque con me, questo tempo: ché nulla vieta che noi conversiamo insieme, insino a tanto che è lecito: perché io voglio mostrare a voi, come ad amici, che significa mai quello che m’è avvenuto. M’è avvenuto, o giudici (chiamandovi giudici, parlo dirittamente) una certa cosa maravigliosa; perocché la solita vaticinatrice voce, quella del demone, tutto il tempo innanzi la sentiva io molto frequentemente, contrariandomi pure in piccole cose, se io stava per non far bene. Ma ora mi succedono cose, come voi stessi vedete, le quali si crederebbero e si credono gli estremi mali, e nondimeno né stamane uscendo di casa mi contrariò il segno dell’Iddio, né salendo qua in tribunale, né mentre difendevami qualunque cosa fossi per dire, benché, parlando altre volte, sovente mi fermasse la parola a mezzo. Ma ora, durante questo processo, checché facessi o dicessi, non mi contrariò mai. Quale è la cagione, quella che penso io? Ve la dirò. E’ pare che quel che m’è accaduto sia un bene, e non c’è caso che pensiamo dirittamente noi, quanti crediamo che il morire sia un male. Una gran prova è che non poteva il solito segno non contrariarmi, se io era per far cosa che non fosse buona.