La Duchessa di Leyra

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Giovanni Verga/Federico De Roberto

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RIVISTA MENSILE DEL “CORRIERE DELLA SERA„
ANNO XXII — N. 6. PROPRIETA LETTERARIA ED ARTISTICA.
RIPRODUZIONE VIETATA. TUTTI I DIRITTI RISERVATI.
10 GIUGNO 1922.

LA DUCHESSA
DI LEYRA


LLa storia della vita e del pensiero di Giovanni Verga, iniziata in queste colonne due anni or sono, quando tutta l’Italia festeggiò la gloriosa vecchiezza del Maestro, non potrebbe essere meglio ripresa, ora che egli è entrato nell’immortalità, se non parlando ai lettori dell’ultima opera sua, annunziata tante volte e sempre aspettata invano.

La Duchessa di Leyra ha condiviso in certo modo il destino del Nerone di Arrigo Boito, occupando di sè per lunghissimi anni l’attenzione pubblica prima ancora che si sapesse nulla dell’esser suo. Legati da un’amicizia fraterna, i due insigni artisti furono entrambi sovrappresi, nel pieno rigoglio del genio, dai medesimi scrupoli, dal medesimo senso di responsabilità dinanzi a sè stessi, al pubblico, all’Arte, e cessarono improvvisamente di produrre o di divulgare i frutti delle loro nobili fatiche. Bisognò che lo spirito magno del Boito uscisse dalla spoglia mortale perchè si sapesse quanta parte del Nerone, celebre prima d’esser nato, era portata a compimento; ed oggi che il Verga non è più tra noi si può finalmente dire e vedere che cosa egli ha lasciato del terzo romanzo del ciclo dei Vinti.

Nella prima concezione, questo doveva chiamarsi La Marea. Ragionando dei suoi «disegni» e delle sue «speranze» con l’amico Salvatore Paola, il 21 aprile del 1878, Giovanni Verga così spiegava il senso del titolo più tardi abbandonato:

Ho in mente un lavoro che mi sembra bello e grande, una specie di fantasmagoria della lotta per la vita che si estende dal cenciaiuolo al ministro ed all’artista e assume tutte le forme, dall’ambizione all’avidità del guadagno, e si presta a mille rappresentazioni del gran grottesco umano; lotta provvidenziale che guida l’umanità, per mezzo e attraverso tutti gli appetiti alti e bassi, alla conquista della verità. Insomma cogliere il lato drammatico, o ridicolo, o comico di tutte le fisionomie sociali, ognuna con la sua caratteristica, negli sforzi ad andare avanti in mezzo a quest’onda immensa che è spinta dai bisogni più volgari o dall’avidità della scienza, ad andare avanti [p. 402 modifica]mente, pena la caduta e la vita pei deboli e i maldestri... Il primo racconto della serie, che pubblicherò tra breve, ti spiegherà meglio il mio concetto, se ci riesco. Per adescarti dirò che i racconti saranno cinque, tutti sotto il titolo complessivo della Marea e saranno 1° Padron ’Ntoni; 2° Mastro Don Gesualdo; 3° La Duchessa delle Gargantas; 4° L’on. Scipioni; 5° L’uomo di lusso.

Il titolo del primo romanzo restava ancora Padron ’Ntoni quando l’Illustrazione Italiana ne preannunziava la pubblicazione nel 1880; ma era poi mutato, insieme con quelli del terzo e di tutta la collana: questa s’intitolava I vinti e cominciava da I Malavoglia, mentre, con più lieve modificazione, la Duchessa delle Gargantas diveniva Duchessa di Leyra. Il piano abbozzato nella lettera al Paola si precisava nelle pagine della prefazione del volume iniziale e di tutta la pentalogia:

Questo racconto è lo studio sincero e spassionato, del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosia del l’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, che si potrebbe star meglio. Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle bassa sfera è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nel Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro Don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominciano ad essere più vivaci e il disegno a farsi più ampio e variato. Pol diventerà vanità aristocratica nella Duchessa di Leyra, e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare all’Uomo di lusso, il quale riunisca tutte coteste bramosie, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni per comprenderle e soffrire...

La storia dei Malavoglia apparve nel 1881, e subito dopo l’autore poneva mano al Mastro don Gesualdo. Ma egli non vi spese meno di otto anni di assiduo lavoro, e quando lo ebbe pubblicato sulla Nuova Antologia, nel 1888, sentì ancora il bisogno di portarvi radicali modificazioni prima di raccoglierlo in volume: severità di autocritica dalla quale già si poteva argomentare che la Duchessa di Leyra non sarebbe seguita a breve scadenza.

La protagonista del terzo romanzo non era però ignota ai lettori del secondo. Essi l’avevano vista nascere dai furtivi amori di Bianca Trao col cugino Rubiera: colpa subito nascosta mediante il frettoloso matrimonio della giovanetta con Mastro don Gesualdo Motta. Nobilissima ma poverissima, abbandonata dal seduttore, Bianca non aveva potuto rifiutarsi di dare un padre legale alla creatura che portava in grembo, sposando il grossolano ma dovizioso imprenditore venuto su dal nulla; il quale, dal canto suo, ignorando la maternità di lei, e lontanissimo nella sua ruvidità dai fumi aristocratici, si era piegato ad imparentarsi con la casta signorile solamente perchè se ne riprometteva l’appoggio nelle speculazioni e negli appalti.

Nata sette mesi dopo le nozze, l’Isabellina era stata posta, ancora in tenera età, nel primo collegio di Palermo; dove il padre putativo, gonfio il cuore dalle fatiche e dai dolori durati nella lotta per la vita, andava di tanto in tanto a riposarsi presso la presunta figliuoletta.

Isabella sera fatta una bella fanciulla, un po’ gracile ancora, pallidina, a con una grazia naturale in tutta la persona gentile, la carnagione delicata e il profilo aquilino dei Trao; un fiore d’un’altra pianta, in poche parole, roba fine da signori che suo padre stesso quando andava a trovarla provava una certa soggezione dinanzi alla ragazza, la quale aveva preso l’aria delle compagne in mezzo a cui era stata educata, tutte delle prime famiglie, ciascuna che portava nell’educandato l'alterigia baronale da ogni angolo della Sicilia. Al parlatorio lo chiamavano il signor Trao. Quando volle saperne il perchè, Isabella si fece rossa...

Qui è il germe della Duchessa di Leyra, del romanzo destinato ad essere il quadro grandioso e smagliante della passione aristocratica. Fin dal suo entrare nella vita la fanciulla ha sofferto udendosi chiamare Motta, col nome del muratore arricchito; per conseguenza, non appena nel convitto, ripudia il genitore che la legge le attribuisce e rivendica il nome materno, quel sonoro casato dei Trao — virtutem a sanguine traho!— appartenente ad un’antichissima e illustre prosapia. Il ritorno nel paesetto natale, nelle selvagge campagne paterne allo uscire dal sontuoso istituto della metropoli, le procura nuove delusioni, più intense nostalgie, e la induce a cercare una consolazione nel romantico amore di un cuginetto, il poeta Corrado La Gurna. Allora la storia della madre si ripete nella figlia: anche Isabella cade, come Bianca, con uno che non può sposare; e per nascondere quest’altro fallo si ricorre allo stesso espediente di procurare un marito alla giovanetta, con questa sola differenza: che mentre sua madre, discendente da una stirpe patrizia, aveva sposato un plebeo arricchito, ella che porta il volgarissimo nome del Motta, ma ne riceve in dote le grandi sostanze, accetta più facilmente la mano di Don Filippo Alvaro Maria Ferdinando Gargantas duca di Leyra, gran signore palermitano ridotto al verde dal fasto enorme e rassegnatosi a sposare una Motta per amore di restaurare il suo blasone.

Di ciò che avviene tra i coniugi, del loro intimo e insanabile dissentimento, del nuovo lusso e delle nuove dissipazioni del duca rimpannucciato con i beni della moglie, è fatto soltanto qualche accenno, perchè il protagonista è è resta Mastro don Gesualdo, e la scena non passa nella casa ducale, a Palermo, se non nell’ultimo capitolo, quando, infermo d’una malattia mortale, Gesualdo è trasportato, poco prima che chiuda gli occhi per sempre, presso la figlia. Ma costei diviene a sua volta la figura centrale del nuovo romanzo, del quale il Verga cominciava quindi ad abbozzare la trama:

SCHEMA
DELLA «DUCHESSA DI LEYRA».

— Isabella Motta Trao, duchessa di Leyra, nata nel 1819, da Mastro Don Gesualdo e da Donna Bianca Trao.

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— Nel 1837 s’innamora del cugino Corrado La Gurna ’e fugge con lui nel 1838. — Nel maggio del 1838 sposa, costretta e riluttante, sebbene affascinata dalle lu singhe della vanità, Don Alvaro Filippo Maria Ferdinando Gargantas duca di Leyra.

— Sei mesi dopo (novembre del 1838) nella sua villa di Carini, nasce da lei un bambino, frutto dei suoi amori col cugino La Gurna, che vien messo nascostamente alla Ruota di Palermo e cresce sotto il nome di Scipione.

— Essa è come un’intrusa nella società palermitana, ove pure ha le sue relazioni e le sue parentele Puntigliosa, altera, di un’estrema sensibilità affettiva e d’orgoglio — Suo isolamento, malgrado la vita mondana — Lotta continua e dissimulata, fin col marito che sente ostile, d’un’altra razza, ferito intimamente anche lui nell’orgoglio e nel cuore.

— Il duca suo marito, gran signore, è costretto a venire a patti col bisogno, prodigo e rapace, altero e debole, soffrendo in segreto di tutte le umiliazioni che gl’infligge quella forzata unione all’onore ed alla vanità — e forse anche alla gelosia, se un istante è stato attratto dalla delicata bellezza della moglie ma troppo superbo per mendicarne, a suo credere, la simpatia e l’affezione, troppo mondano per svelare la gelosia che lo tormenta — temendo sempre che gli possa venir rimproverato a calcolo quel matrimonio. — Questo è il suo incubo, il suo spauracchio, specialmente se sospetta della nascita clandestina di Scipione — oscuro segreto fra lui e la moglie — che gl’impone la padronanza spietata di sè medesimo ad ogni minuto — e il contegno glaciale e cortese, ma segretamente ostile verso la moglie.

Prima di proseguire, il Verga tornava su questo disegno, per chiarirne qualche punto.

Come sanno i lettori di Mastro don Gesualdo, in nessuna delle 527 pagine di questo romanzo è mai detto il nome della piccola città di provincia dove la scena si svolge, nè gli stessi. Siciliani possono indovinarlo se non sono lungamente vissuti a Vizzini. Quanti conoscono a fondo quel grosso paese, che sorge in collina, a settentrione del monte Lauro, presso al confine della provincia di Catania con quella di Siracusa, lo hanno riconosciuto in qualche tratto descrittivo; ma il Verga non lo nominò mai, e talvolta negò finanche d’averlo rappresentato, per molte ragioni di indole intima. Nel secondo abbozzo di schema della Duchessa egli precisa invece in tutte lettere che Isabella Motta Trao è nata «a Vizzini». Dopo aver detto che da lei è nato Scipione, soggiunge traparentesi: «(L’Onorevole Scipioni)» rivelando così il filo che avrebbe legato il quarto romanzo al terzo. Poi riprende a schizzare la figura del marito:

Il duca suo marito, gran signore, rovinato, spensierato, superbo e costretto dal bisogno a quel matrimonio, soffre in segreto dell’onta che deve fingere d’ignorare, vendicandosi quasi senza volerlo coi maltrattamenti alla moglie, tormentandola. Non si parla mai di quel bambino, ma esso è un tormento per entrambi. Geloso a modo suo, superbo e uomo di mondo, soffrendo della sua gelosia specialmente quand’ella, innamorata di Pippo Franci, vorrebbe fare un colpo di testa. Quest’ultimo, nella vita desolata ch’ella mena in mezzo alle pompe vane, le scalda la mente e l’anima come un ritorno alla gioventù e all’amore, nel 1846. Al ricevimento del Re, corteggiata da tutti, ubbriacata dalle pompe del suo grado di Dama di Corte. Donna Eleonora Lio le ha preso d’un tratto l’innamorato non amante. Di che soffrono entrambi, continuando ad amarsi pazzamente. Pettegolezzi delle rivali. Intervento minaccioso del marito. Accenno velatissimo (artistico) al figlio illegittimo...

Qui si sorprende l’artista nell’atto di rappresentare a sè stesso la difficoltà alla quale va incontro e che, deve pur vincere. Il duca di Leyra, benchè si sia tanto padroneggiato dinanzi alla moglie ed a sè stesso, benchè abbia [p. 404 modifica]esemplarmente compiuto il dovere mondano di non lasciar trasparire la sua gelosia retrospettiva per l’antico amore di Isabella, è pur costretto ad uscire dal suo studiato riserbo quando costel gli dà un motivo di gelosia attuale. Dopo il disinganno del matrimonio, dopo il bando pronunziato contro di lei dalle signore che possono sfoggiare tutti i sedici quarti di nobiltà, ella ha trovato un nuovo motivo di afferrarsi nella vita nell’amore di Pippo Franci: legame ancora innocente, se — come si legge — il Franci è «innamorato di lei, non già amante». Ma una di quelle stesse grandi dame che più l’hanno fatta soffrire gettandole in faccia l’ignobile nome di Motta, giudicandola intrusa nella loro società, le contende anche l’amore, e Pippo Franci si lascia prendere nei lacci della Circe, pur amando Isabella. Poscia la loro passione divampa, non riesce più a nascondersi, nè il duca può più ignorarla. Intervenendo per richiamare la moglie al dovere, egli pensa più amaramente che mai al fallo da lei commesso prima del matrimonio, al figlio avuto da Corrado La Gurna, a quella creaturina la cui ombra si è segretamente frapposta tra i due coniugi, come una macchia ed un’accusa, come un rimpianto ed un rimorso; e allora il ricordo tanto lungamente e deliberatamente soffocato prorompe; tuttavia un Gargantas di Leyra non-pub, non. deve, non vuole lasciarsi prendere la mano dall’ira, e se accennerà al figlio illegittimo, il suo accenno sarà più che discreto, velatissimo, e il Verga aggiunge tra parentesi e sottolinea due volte «(artistico)», quasi per rammentare a sè stesso: «Qui si parrà la tua nobilitate...».

Quindi il secondo abbozzo dello schema prosegue:

La duchessa propone al Franci di fuggire insieme, e scopre il suo legame colla Lio. Don Guglielmo La Rocca, vecchio libertino e re della moda, s’impadronisce di sorpresa di lei come la Lio si è impadronita di Franci. Egli la impone alla società che prima non aveva voluto ammetterla, moglie del duca vendutosi a lei. Ma è geloso, secco, scettico. Scena d’ambiente, umiliazione intima di lei in mezzo agli omaggi. Scene con Pippo Franci. Ritorna di nascosto Corrado La Gurna, perseguitato dalla polizia; vuole indarno (un) ritrovo con lei. Minacce del La Rocca e arresto di Corrado. Rivoluzione del 1848. Morte di Bianca Trao lontano dalla figliuola.

Di questa morte i lettori di Mastro don Gesualdo sono già stati spettatori: nella Duchessa l’avvenimento sarà semplicemente riferito perchè se ne vedano gli effetti nell’animo d’Isabella: ella si sentirà invasa e travolta da una nuova tristezza. Ma la vanità riprende il sopravvento.

In mezzo al lusso ed agli onori ella deve fare o tollerare delle cattive azioni, subire delle umiliazioni per restarvi. La sua posizione l’incatena in un nodo indissolubile di necessità brutte e dolorose. Sacrifica Corrado. Sacrifica Pippo Franci. Sacrifica il figlio. Quando le prime rughe appaiono, si trova sola e addolorata.

L’intimo dramma della protagonista è anche accennato in un altro appunto:

S’innamora del giovane Pippo Franci, il quale la tradisce con donna Eleonora Leo. Sacrifica il padre, la madre e il figliuolo Scipione. Diviene l’amante per vanità di don Roberto Francalanza. Il quale al ritorno di Corrado La Gurna lo minaccia di farlo arrestare.

E poichè, come si vede, i nomi del personaggi si venivano mutando nelle varie redazioni del piano, il Verga pensava a formarne la lista definitiva assegnando a ciascuno i suoi caratteri fisici e morali:

PERSONAGGI
DELLA «DUCHESSA DI LEYRA»:

Donna Isabella Motta Trao, duchessa ói Leyra, 27 anni, bionda e delicata, l’avidità del padre fattasi orgoglio e vanità nobiliare, a cui tutto ha sacrificato.

Don Alvaro Filippo Maria Ferdinando gargantas, Duca di Leyra, 54 anni, ma frollo d’animo e di corpo, gran signore, una rovina materiale e morale, solo vivo l’orgoglio.

Il Balì di Leyra, 60 anni, pingue e floscio, anche al morale, vizioso, scettico, pieghevole e astuto.

Corrado La Gurna, 30 anni, logoro dalla vita intensa, il capo nelle nuvole e i piedi nel fango, l’anima sensibile e addolorata.

Donna Fernanda Rio (Donna Eleonora Lio) dei Sant’Agnese di Monteoliveto, gran dama, 50 anni, stanca e non sazia della gran vita, bellezza consunta e ardente. PIPPO FRANCI, 28 anni, bello e vuoto. If bel Guardia.

Don Carlo (Guglielmo) La Rocca (don Roberto Francalanza), 55 anni, il padre éterno dell’eleganza, scettico, mondano, egoista e amabilissimo.

La Marchesa Francesca de Limido, biondissima e bellissima, un viso d’angelo col cuore d’una cortigiana, 30 anni.

La Baronessa Ardilio, giovanissima, 20 anni, e ingenuamente avida di piaceri, freddamente viziosa, per corruzione di mente.

Il Contino Oreto...

Donna Costanza Sommatino di Santa Isola...

Donna Citta Villanis...

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Prima di scrivere la prima pagina di questo romanzo del quale aveva così fissato per sommi capi la tela e le principali figure, Giovanni Verga senti il bisogno di rendersi familiari i luoghi dove i suoi personaggi avrebbero dovuto aggirarsi ed operare. Con la grande coscienza che portava nell’arte e nella vita, egli non andò meno di quattro volte a studiare Palermo, a visitarne i grandi palazzi storici cominciando da quelli reali, a raccogliere le testimonianze dei superstiti intorno alla Corte borbonica, a cercare nelle gallerie, negli archivii e nelle biblioteche suggestioni per la sua fantasia, elementi per la sua favola e documenti per la sua ricostruzione.

Signore di nascita e d’abito, trovò la più festosa accoglienza nella migliore società e amabili collaboratori e collaboratrici dovunque. Ferdinando di Giorgi, del quale i lettori di questa rivista rammentano certamente alcune nobili pagine, gli fu di grande aiuto come perfetto conoscitore della metropoli isolana. E poichè le informazioni maggiormente importanti erano quelle intorno all’antica Corte, una elettissima dama procurò allo scrittore un documento di prim’ordine e di prima mano.

Per incarico del Conte di Caserta, capo della dinastia spodestata dalla rivoluzione, un illustre patrizio napolitano vissuto sui gradini del trono e rimasto nostalgicamente fedele ai Borboni aveva composto un Memorandum dove minutamente descriveva l’ordinamento della Casa Reale. Avrebbe egli dato una copia del suo lavoro se avesse saputo che doveva servire per un romanzo? Con una lieve ed innocente alterazione della verità gli fu detto che occorreva per un lavoro d’indole storica, ed egli sulito la mandò. In queste pagine, custodite dal Verga nella cartella della Duchessa, l’autore passava a rassegna tutte le categorie di personaggi componenti la Regia Camera: Gentiluomini di Camera con Esercizio, Maggiordomi di Settimana, Gentiluomini di Camera di Entrata e Dame della Real Corte.

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A voler rappresentare la passione aristocratica, l’ambiente non poteva essere meglio scelto. Nella Casa regnante sulle Due Sicilie vigeva la più spagnolesca etichetta ed il formalismo più meticoloso. A Napoli i Gentiluomini di Camera con Esercizio dovevano essere napolitani, con assoluta esclusione dei signori di provincia; ma in Sicilia,

oltre al principali Magnati di Palermo, si trovavano molti Gentiluomini di Camera con Esercizio fra i capi delle principali famiglie di Messina, di Catania, di Trapani e di Siracusa.

Le diverse categorie di cortigiani vestivano la medesima divisa,

ma i Gentiluomini di Esercizio e di Entrata portavano sulla divisa e sulla giubba la Chiave d’oro. Epperò i Maggiordomi di Settimana, dopo la nomina, venivano a loro dimanda annoverati fra i Gentiluomini di Camera di Entrata, appunto per conseguire il dritto di portare la Chiave Con la nomina, si aveva dal Real Palazzo la Chiave d’Oro, legata con un nastro di rasa rosso, ed apriva effettivamente le aule Regali. La Chiave si restituiva alla morte dell’investito. Ove un Gentiluomo avesse avuto la sventura di perdere la Chiave che aveva in deposito, incorreva nella penale di Ducati quasi seimila per rifare le toppe e chiavi delle aule Regali, La Chiave, detta con vocabolo spagnuolo Semsiglia, aveva, sormontata dalla Corona Reale, le tre lettere V. R. S: Vitae Regis Securitas. La chiave era molto grande, e si conservava nella casa dell’investito, usandosi un più piccolo fac-simile, senza la così detta Spunga, che si portava infilzata in un taschino a tergo, dal lato sinistro, sia dell’abito, sia della divisa. Dopo il 1815 fa tolta la Chiave effettiva, e restò il facsimile in più piccole proporzioni che si faceva a cura dell’investito, epperò non si restituiva alla morte. In processo di tempo, e quando non si viveva più nei feudi, mutò la condizione di quelli che venivano nominati semplicemente Gentiluomini di Camera di Entrata. Nessun Capo delle principali nostre famiglie più richiese la Chiave di Entrata, e veniva raramente conceduta a qualche nobile di provincia. Il che se riguardava un decoro delle parti, non costituiva splendore alla Corta del Sovrano.

Col suo rammarico per la perdita delle più severe tradizioni e con le sue osservazioni sulla vanità dei cortigiani contemporanei, l’autore forniva altrettanti spunti all’artista:

I Maggiordomi di Settimana, quando avevano il più, seguitavano a domandare il meno, ossia la nomina a Gentiluomo di Camera di Entrata, appunto per seguitare ad avere il dritto di portare la Chiave. I Gentiluomini di Camera con Esercizio facevano un turno di servizio, il primo giorno col Re, ed il domani col Principe ereditario. I Maggiordomi di Settimana anche, prestavano un duplice servizio, il primo giorno col Re, ed il domani con la Regina. I Gentiluomini di Camera di Entrata non prestavano nessun servizio e avevano semplicemente l’entrata in Galleria. Negli ultimi tempi si vide qualche rare Maggiordomo di Settimana, di Casa, non del Libro d’Oro, e nuovo nella Camera. Non si era mai promossi da Maggiordomi di Settimana che in qualche raro ceso, in cui si rappresentasse qualche famiglia a parte e con titolo.

Ma senza paragone più notevoli, e veramente essenziali per lo scrittore intento a rappresentare le mortificazioni dell’amor proprio di Isabella, erano le notizie intorno alle Dame di Corte.

L’Ufizio di Dama della Real Corte si concedeva più raramente ed era conferito alle mogli dei Gentiluomini di Camera con Esercizio, che avessero le medesime condizioni di nobiltà dei mariti.

Tale non era il caso della protagonista, entrata nella illustre prosapia del Gargantas di Leyra, ma uscita dall’ignobile razza di Mastro Gesualdo. Secondo la prammatica, dunque, Isabella non poteva essere Dama di Corte; e invece, come si è visto dallo schema, e come meglio si vedrà più avanti nello stesso testo del romanzo, il Verga aveva bisogno che questa dignità fosse conferita alla sua eroina, affinchè tutte le sue compagne, le pure, le signore della prima bussola, la tenessero in quarantena. Egli cercò quindi nel Memoriale se, come per tante altre norme, anche per questa il primitivo rigore fosse espressamente o per tolleranza temperato.

Nelle grandi cerimonie della Corte e dello Stato i Gentiluomini e Maggiordomi usavano divisa ricchissima, ricamata in oro, ed anche le Dame portavano abito di straordinaria ricchezza, detto uniforme, con lunghissimo manto, stretto alla cintura, che avevano il diritto di portare ripiegato con vaghe pieghe sul braccio dritto, a differenza delle Dame di Città, che intervenendo al baciamano una volta l’anno, avevano l’obbligo portare il manto dispiegato a terra. Quando si usava il manto si dovevano portare le barbe ossia delle bande di trina bianca che dalla testa scendevano sul petto. Se non che le Dame della Real Corte, quando divenivano Vedove, non potevano più portare l’uniforme, e nelle grandi gale indossavano l’abito di trina nera, con fodera o violetta o cenerina, ed il manto di stoffa nera. Anche le Dame di Città, Vedove, intervenivano un volta l’anno con abito e manto a bruno. Nei funerali de’ Sovrani le Dame della Real Corte intervenivano con la solita divisa di rosso e manto di stoffe nera e barba nera.

Questi particolari avevano la loro importanza per l’evocatore di un mondo morto e sepolto e per l’analista dei tormenti della vanità. Gustosissima doveva riuscire la gelosia delle Dame di Città costrette a trascinare la coda del manto, mentre quelle di Corte ne raccoglievano le pieghe sul braccio; e per questo motivo Isabella, Dama di Corte nonostante che uscisse dai Motta, doveva suscitare un vespaio fra le Dame di Città provviste di tutti i loro quarti; ma come spiegare che ella fosse, appunto, Dama di Corte?

I Capi della Real Corte fin dal 1734 venivano eletti fra i Gentiluomini di Camera con Esercizio, ed erano il Maggiordomo Maggiore, il Somigliere del Corpo, il Cavallerizzo Maggiore ed il Capitano delle Reali Guardie del Carpa. La Cameriera Maggiore della Regina, eletta fra le Dame della Real Corte, era la sola Dama effettivamente ritenuta Capo di Corte. Dal 1759 fa istituito il Cacciatore Maggiore, e abolito quest’ufficio nel 1830 fu dichiarato Capo di Corte il Cappellano Maggiore. Tutti i Capi di Corte avevano il trattamento di Eccellenza, e il diritto di portare il bastone. Per poco tempo vi furono due Capi di Corta della Regina con gli onori del bastone. La Cameriera Maggiore non fu rimpiazzata e ne fece le veci dal 1834 una Dama delta Real Corte col grado di Dama di Onore... I recenti Cavalieri di Compagnia erano reclutati tra i Gentiluomini di Camera con Esercizio ed i Maggiordomi di Settimana, e le Dame di Compagnia tra le Dame della Real Corte. Ma la sera, al Teatro, e nelle gale, sia nel Palazzo sia fuori, non facevano servizio i Cavalieri e le Dame di Compagnia, e si osservava strettamente il turno dei Gentiluomini di Esercizio, dei Maggiordomi di Settimana e delle Dame di Corte. La Dama d’Onore interveniva sempre nelle gale con la Dama di turno... Nei giorni non di gala, la guardia si prendeva presso i Sovrani o in uniforme militare, o in abito di Malta, o in abito habillé, sempre con la Chiave. Le Dame anche in abito a piacere, e così pure ne' Circoli delle mezze gale ed al teatro... I [p. 407 modifica] Maggiordomi ed i Cavalieri di Compagnia de’ Reali Principi non potevano essere de’ Gentiluomini di Camera con Esercizio, si bane de’ Maggiordomi di Settimana. Le Dame di Onore delle Real Principesse venivano elette fra le Dame della Real Corte, e raramente si è vista qualche Dama di Campagnia non Dama della Real Carte, ma sempre con nomina della Regina.

Il Memorandum volgeva alla conclusione senza che il Verga vi trovasse un paragrafo da poter giustificare la nomina a Dama di Corte d’una signora uscita, come Isabella, da famiglia triviale. Ma quando sta va per porre termine alle sue spiegazioni, l’autore scriveva:

Tutte le nomine erano ad arbitrio del Sovrano, e pare che così debbasi intendere anche per le Delegazioni.

Tanto bastava. Se la volontà del Re faceva legge, egli poteva conferire qualunque dignità alla prima venuta, nonchè alla duchessa di Leyra. Ma prima che il favore regale la distinguesse, Isabella doveva pure essere stata ammessa a Corte: in che modo? Premendo al Verga di saperlo, la gran signora palermitana alla quale egli si era rivolto, e per mezzo della quale aveva ottenuto il Memorandum, insisteva presso l’estensore di quel documento, e ne riceveva una risposta che il romanziere ricopiava di proprio pugno a tergo dello stesso Memorandum:

In esso confido che il suo amico possa trovar notizie importanti pel lavoro storico che intende pubblicere. In quanto alle Dame della R. Corte ho detto abbastanza. Ma poiché Ella mi interroga intorno alla maniera con cui le Dame d’allora si procuravano l'onore di essere ammese alla Reggia, debbo aggiungere un’altra notizia indispensabile alla piena cognizione della cosa. I componenti anche delle nostre famiglie, e non ancora di Corte, in seguito a dimanda venivano nominati Cav.ri di Città, e potevano esser compresi anche nella medesima categoria nobile di una nobiltà secondaria. Le Dame non Dame di Corte, ma mogli di componenti della Camera, e le mogli del Cavalieri di Città erano nominate Dame di Città, purché avessoro qualche grado di nobiltà. I Cavalieri e le Dame di Città intervenivano al baciamano una volta l’anno nella giornata della nascita del Re: i Cav.ri il mattino in abito di spada con tutta la Corte, Corpo diplomatico e i funzionari dello Stato. Le Dame di Città allo speciale baciamano che si teneva nell’appartamento di etichetta dalla Regina prima di andare al teatro di gala. In siffato baciamano una volta l'anno non vi era trono come il mattino, ma i Sovrani sedevano sopra due sedie dorate sopra uno strato di velluto circondati da tutta la Corte. Le Dame di Città venivano in fila, e l’una aggiustava il manto dell’altra a terra...

Particolari di questo genere, direttamente osservati dal testimonio oculare, erano preziosi per l’artista, il quale ne aveva chiesto anche intorno alla persona del Re, destinato ad apparire più volte nel corso del romanzo. Ma qui il cortese e sapiente informatore, lasciandosi prendere la mano dai sentimenti di reverenza e di ammirazione portati al suo sovrano, non tracció lo schizzo animato che il Verga si riprometteva per poter disegnare la figura del monarca borbonico, ma ne tessè una specie di panegirico. Una delle ultime istantanee di Giovanni Verga, a Roma, con la famiglia di Mario Puccini.
(2 gennaio 1921)
Null’altro potendo più apprendere per questa via, lo storiografo dei Vinti si rifece da altre parti. Il Regno delle Due Sicile era, come diceva la sua stessa denominazione, duplice, e Palermo aveva caratteri dissimili da quelli di Napoli; ma poichè il Re era uno solo, le due Corti dovevano pure rassomigliarsi nella loro stessa diversità. Quindi il romanziere in cerca di documenti raccolse e serbò gli articoli che, col titolo di Tra il vecchio e il nuovo, uno scrittore nascosto sotto il pseudonimo di Frater veniva pubblicando sul Don Marzio. Quello dove erano descritte le feste del 12 gennaio, compleanno di Ferdinando II, aveva un sommario particolarmente interessante:

Il 12 gennaio al tempo dei tempi — L’ultima gala di Ferdinando II. — Il baciamano — Fuori la reggia e dentro la medesima — I quattro cheffi e il cheffino — Corpi ed ombre del mondo che fu — La gala al San Carlo — Il granatiere immobile, I titò, i tiramole e il resto.

I cheffi erano i Capi di Corte, gli chefs, parola straniera pronunziata all’italiana, con la quale si designavano il Maggiordomo maggiore, il Cerimoniere ed il Cavallerizzo anch’essi maggiori, e il Capitano delle Guardie del corpo; il cheffino era un Capo di second’ordine nella gerarchia di Corte, ma appartenente tuttavia alla primissima nobiltà.

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Nelle sale della Reggia la sfilata si compiva con le regole più strette del cerimoniale di Spagna. I Grandi della medesima, autentici o apocrifi, di privilegio o di naturalezza, si coprivano: gli altri, siano pure principi del S. R. I. restavano a capo scoperto ed ognuno prendeva il proprio posto. Nessuna usurpazione, nessun conflitto di precedenza: testa, testa; corpo, corpo; coda, coda. Tra tante fasce, tra tante chiavi, tra tanti gentiluomini, di esercizio e di entrata; tra tante dame di palazzo o di città, ognuno teneva a’ rigori dell’etichetta, all’inesorabilità della gerarchia. I principi del santo impero, quando ve n’erano presenti: poi i baroni di Sicilia, che non mancavano mai; la superiorità accettata, sia pure brontolando, della Mastra Nobile di Sicilia sul Libro d’Oro di qua dal Faro; e dopo nobiltà generosa alternata a nobiltà di privilegio e a quella nobiltà diplomatica che aveva la prerogativa d’intervenire ai balli di corte e il diritto di non ballare... Poi gala a San Carlo. Nessuno moriva sul palcoscenico, ed aveva lieto fine anche quella Traviata che la pudicizia del tempo chiamava Violetta. E se bisognava morire, lo spettacolo si troncava vita teatral durante degli attori. Un atto, due atti e punto consecutivi: un comodo sipario, calato a tempo, accomodava tutto e metteva fine all’immobilità statuaria del granatiere sul palcoscenico, ne’ tempi ordinari, quando vi era un principe reale in teatro, o della Guardia del Corpo, gentiluomo cariatide nel palco di mezzo, quando il Re si mostrava in forma pubblica. O immobili granatieri e non meno immobili Guardie, del Corpo; o ufficiali dei Corpi della Guardia, dei granatieri e della Real Marina dagli splendidi alamari d’argento e d’oro sul petto, o uniformi rosso-fiammanti di quegli Elvetici che i Napolitani chiamavano volgarmente titò; fasce e tosoni, folla inargentata, dorata, inamidata, che è stato di voi?...

Questa folla, questa vita, appunto, l’artista doveva evocare nella cornice palermitana. Per rendersi conto di quanto c’era d’antiquato nei costumi di quella età, egli ne cercò l’origine nel Settecento, e raccolse gli articoli che Fabio Colonna di Stigliano veniva pubblicando sul Corriere di Napoli intorno alla Napoli mondana del secolo scorso. E poichè nelle grandi famiglie di Sicilia non era ancora spenta del tutto la tradizione delle tremende rivalità che avevano insanguinato i primi secoli dei tempi moderni, egli volle studiare quella dei Luna e dei Perollo e trascrisse di proprio pugno dalla Cerere, «giornale ufficiale delle Due Sicilie», una bibliografia del romanzo storico sul Caso di Sciacca di Francesco Milo Cuggino. Pensò anche di dover leggere altri romanzi siciliani del tempo che voleva ritrarre, e ricopiò la bibliografia dell’Amore di un soldato di Michele Giuffrè-Birelli.

Per conoscere quali avvenimenti erano realmente accaduti a Palermo nel periodo durante il quale doveva svolgersi l’azione romanzesca, si servì dell’inedito Diario Lobianco serbato in quella Biblioteca Nazionale otto volumi di minutissima cronaca cittadina e della stessa Cerere. Da queste colonne ricopiò la descrizione dello sbarco del Re e della Corte nel l’estate del 1846, scena con la quale il romanzo doveva iniziarsi, e prese nota delle feste di Santa Rosalia e della Natività della Vergine in Monreale, della messa dell’Immacolata celebrata nel campo militare sotto Monte Pellegrino in presenza di tutta la guarnigione, dell’uragano scatenatosi in primavera, della parata del 30 maggio in occasione dell’onomastico del Re, dell’apertura dell’Esposizione di Belle Arti nelle sale del Palazzo Senatorio, del concerto del violinista Antonio Bazzini, delle opere eseguite nel R. Teatro Carolino: il Don Pasquale, il Borgomastro, il Nuovo Figaro, il Furioso, la Chiara di Rosemberg, e dei cantanti che vi presero parte: Enrichetta Menville, Gaetano Donelli, Giovanni Zambelli.

Quale partito avrebbe egli tratto da tutta questa massa di documenti e di notizie? Come vi avrebbe spirato il soffio dell’arte, come avrebbe dato vita ai personaggi già concepiti nella fantasia, già frementi nel gran travaglio della gestazione?

I lettori potranno averne un’idea dalle pagine seguenti, dove si pubblica quanto egli lasciò del romanzo: tutto il primo capitolo ed un breve frammento del secondo.

LA DUCHESSA DI LEYRA

I.

«Ieri all’arrivo del vapore Nettuno con a bordo l’E.mo cardinal Pignatelli, arcivescovo di Palermo, reduce dal Conclave per l’elezione di Pio IX, e S. E. il Ministro Segretario di Stato Principe di Comitini, ed il signor Commendatore Corsi, segretario particolare del Re, si ebbe la grata certezza che S. M. il nostro adorato Signore sarebbe pur giunta a momenti, con la sua augusta Consorte, co’ suoi amabili Figli ed altri Individui della R. Famiglia.

Elevatosi a tale annunzio il solito entusiasmo, accresciuto dalla riconoscenza pel grazioso favore che la M.S. veniva ad impartirle, recando seco i più preziosi Oggetti dell’affezione sua, e pur partecipi del dovuto affetto di questi leali sudditi, l’attenzione pubblica andò subito a rivolgersi verso il mare.

Ma – continuava la Cerere, gazzetta ufficiale dell’epoca – ma l’ansietà pubblica non potè essere appagata prima dell’alba di questo giorno (11) allorchè si scoprirono le vele della Real Flottiglia».

Un nugolo di birri, in gran tenuta, scalmanavasi a mantenere l’entusiasmo dei leali sudditi dietro la doppia fila di «pàgnoli» schierati da Porta Felice al molo. La città scampanava a distesa, la real flottiglia rispondeva a cannonate – un baccano, un polverio, la gente fitta come le mosche alla Marina – bande dei «paesi», stormi di «villani» scesi pel Festino di Santa Rosalia che cominciava allora – e su quel mare di teste, tra le baionette luccicanti, sfilavano in processione i pezzi grossi che «dovevano recarsi ad ossequiare le LL. MM.», magistrati, ufficiali pubblici, [p. 409 modifica]uniformi scintillanti di Chiavi d’Oro e staffieri gallonati che dondolavano gravemente, reggendosi alle cinghie, dietro i carrozzoni delle Dame di Corte. La berlina di gala della duchessa di Leyra s’imbattè appunto nell’equipaggio di casa Rio all’uscire di Porta Felice, proprio faccia a faccia, le bestie superbe che si mettevano quasi le gambe addosso, e le due rivali che si salutavano per forza, all’urto dell’improvvisa fermata. Donna Fernanda Rio squadrò dalla testa ai piedi l’insolente che osava prendere il passo su di una Santapaola di Pietrapizzuta. – Casa di Leyra! – Tocca a me ch’ero primo in fila! – Accorse anche don Cosimo Teridi. Campagna di casa Verga - Entrata.
(Fotografia di Giovanni Verga)
il brigadiere vociando e sbracciando quando i due cocchieri stavano già per alzare la frusta. Ma don Leopoldo, fiero dello stemma dei Leyra su cui troneggiava un serpe, diede una vigorosa strappata di redini e passò come un Dio. Donna Fernanda Rio scese allo sbarcatoio verde dalla bile. Però era signora nata, lei, e sapeva come starci in mezzo alle sue pari, amiche e parenti, tutte che le facevano festa e se la ridevano sotto il naso.

— Cara!... Bella mia!... – Bella, ormai, ahimè!... Ma aveva un amore di paglia di Firenze che sembrava chiuderle in una carezza il visetto emaciato e fine, e una grand’aria signorile in quelle quattr’ossa vestite da Madama Martin. Poi il casato da cui usciva, la fama stessa dei suoi capricci, e quegli occhi indiavolati che vi piantava in faccia – sempre giovani. Grazie a Dio aveva del sangue nelle vene e più di un’avola discesa dai regi talami. S. E. il Signor Duca di Laurino in persona corse subito a complimentarla: – Oh, donna Fernanda! Temevo di non vederla arrivare a tempo. Le loro Maestà sbarcheranno a momenti. – Ella rispose con un ghignetto, in cui luccicò la punta del dente indorato: – C’era tanta gente per le strade! Tanti «villani»!

La «villana» era lì, a due passi, bella come un fiore, colle insegne di Dama di Corte e le rosse narici frementi di sdegno; talchè l’Intendente, uomo navigato, s’affrettò subito a virare di bordo.

— Certo, certo... l’entusiasmo è sentito... generale...

Ad ogni colpo di cannone infatti la marmaglia, laggiù, tumultuava impaziente e buttavasi fin sotto i cavalli dei gendarmi per accostarsi al padiglione ornato come un trono e brulicante di splendori. L’odore della polvere dava una specie d’ebbrezza, e le signore, un po’ pallide anche per l’ora mattutina, sbirciavano sorridenti i bei giovani della Guardia d’Onore che mandavano lampi da ogni bottone.

Il più bello, in quell’assisa, era senza dubbio Pippo Franci, tutto luccicante di tracolle e svolazzante di penne di cappone – «una rivelazione» anche per le ammiratrici che aveva da semplice borghese. S’era vero che filavano il perfetto amore colla Duchessa di Leyra e al teatro Carolino e alla trottata del Foro Borbonico, certo quella fu la volta... Donna Citta Villanis ammiccò alle amiche intorno con un sorriso malizioso mentre la Duchessa andava a prendere il posto che le spettava, in prima fila, al braccio di Sua Eccellenza, inchinata di qua e di là, più rossa delle fucsie che aveva sul cappellino – e passando dinanzi al bel Guardia che presentava l’arma gli scoccò un’occhiata che quasi gli faceva scappar di mano lo squadrone.

— Ehi?... Che fate, perdi...ana! – strillò Sua Eccellenza scansandosi a mala pena.

– Ma nulla non fa, povero Franci! – disse forte la Limido in un certo tono, con quella bocca di serafino, che tutte le altre scoppiarono a ridere. Poichè le dame rimaste in seconda fila erano pure delle prime [p. 410 modifica]in paese, e s’annoiavano a farla da spettatrici – e da testimoni anche! – La Rio, la Villanis, la principessa d’Alce, la Solarino di Sammarco – tant’altre mai – tutte che la storia patria la conoscevano, e di Pippo Franci sapevano vita e miracoli – miracoli no, anzi!

— Oh, marchesa! Oh!...

— Eh, caro mio, lo sanno tutti. Da che mondo venite voi? E in primis non state a sentire quello che diciamo tra noi donne.

Lascari si ostinò a difendere l’amico Franci per pura cavalleria – ed anche perchè aveva dovuto assisterlo in un certo affare, lui e Sciamarra lì presente – un affare gravissimo e gelosissimo, di cui si era parlato al Casino per una settimana, in gran segreto... – Ma sì, che lo sappiamo! – Ma no, che non sapete nulla, cara marchesa. Non ci si taglia la gola fra gentiluomini, per quella che sapete voi... – La principessa d’Alce sussurrò infatti il nome dell’eroina vera dello scandalo all’orecchio di donna Fernanda, la quale fissò il bel Guardia socchiudendo gli occhi – come l’assaporasse. – Sì – confermò la Solarino. Aveva perduto la testa, povera Nina! suo marito stava per fare uno sproposito.

Tutti gli occhi si volsero allora sul gentiluomo di Camera che se ne stava a testa alta fra i suoi pari, fasciato e decorato, faccia a faccia con Pippo Franci, in parata anche lui.

— Però la gola non se l’è tagliata nessuno!

— Eh, se non fosse stato per la polizia!...

— Ah, la polizia!... Sentite, voialtri?...

La Limido era più inebriante dell’odore della polvere, con quel sorriso che le arrovesciava in su il labbro color di rosa, e gli occhi proprio due stelle maliziose. — Poi lo sfarfallio di tutte quelle bellezze — le fanfare belliche — la pompa marziale — i giovanotti si accaloravano sempre più a discuter d’armi e di cavalleria, sotto agli occhi medesimi del sig. Ministro di Polizia che sorrideva indulgente, a tu per tu con Sciamarra, il quale ascoltava serio chiuso fino al collo nel soprabito verdone, col castoro buttato all’indietro e facendo la faccia sciocca di spadaccino consumato.

Ma in quella si vide un fuggi fuggi per la Marina, e naturalmente nacque anche un po’ di scompiglio fra i personaggi ch’erano ad attendere S. M. il Re (D. G.) e non si sapeva che diavoleria potesse nascere. Fortuna apparve di lì a poco in fondo alla scalinata il faccione rosso di don Cosimo il brigadiere che rassicurò ognuno:

— Niente, Eccellenza. Ubbriachi.

Le Guardie d’Onore stettero ferme come rocche in quel frangente, tanto che Sua Eccellenza li felicitò con un cenno del capo, mentre sventolava il fazzolettino bianco per invitare a gridare — Viva il Re!

La Real Flottiglia avvolta come un Sinai in un nembo di lampi e tuoni sputava fuoco e fiamme sul popolaccio addensato alla Marina: e come taceva il fragore delle artiglierie, giungeva pure a ondate dalla Cristina il suono grave e lento dell’inno borbonico, su cui palpitava la gran gala di bandiere, al sole — un bel sole di luglio che luccicava sui vetri delle cupole e sulla distesa azzurra da Capo Catalfano a Monte Pellegrino. I capelli biondi della Duchessa di Leyra erano tutti d’oro ed ella tutta rosea sotto il padiglione di velluto cremisi e gli occhi di Pippo Franci che le dicevano tante cose.

— M’ama? — Non m’ama? — Ah, no! — disse forte la Rio, mentre le altre motteggiavano piano. — Ah no, io non mi diverto qui. È un’ora che si fanno aspettare...

Sua Eccellenza si voltò ad ammonirla graziosamente. — Anche lei, donna Fernanda? — Altri dicevano: — Vengono. Vengono! — . E tratto tratto la folla dei magnati agitavasi, ondeggiava essa pure come la marmaglia lì sotto. Ma non giungeva nessuna persona di qualità ormai. Qualche modesto legno da nolo che fermavasi dietro il cordone militare, qualche funzionario in ritardo che salutava umilmente tutti, e infine, lemme lemme, a braccetto con l’inseparabile Sarino Rio, don Guglielmo Larocca, il quale dovette leticare anche con le guardie che non volevano lasciarlo passare.

— Eh, io non cerco di meglio, amici cari. Se non volete io me ne torno a letto volentieri.

Le dame invece se lo rubavano, perchè era cattivo come un asino rosso — una lingua d’inferno — impertinente poi! Ed anche perchè era nelle migliori grazie di donna Fernanda Rio, come lo era stato, un tempo, della famosa Sammarco, e perfino, dicevasi, di una testa coronata, che gli aveva lasciato in ricordo una bella Ricevitoria. — Oh voi! Oh, Larocca! — Egli grugnì un buongiorno a tutti, s’inchinò a baciare il guanto della sua bella amica, e borbottò:

— Un altro po’ mi pigliavo le coltellate anch’io. S’ammazzano laggiù: il vostro cocchiere, credo, con quello della Leyra.

— Bravo. E me lo dite così?

— Come volete che ve lo dica? Già non vi metterete a piangere per il vostro cocchiere.

— E mio marito? [p. 411 modifica]

— È rimasto a pigliarsela con quella gente. Non potevo condurvelo per mano, vostro marito.

Tirò su il bavero del raglan, pigliandosela per conto suo colla brezza mattutina e colla seccatura che gli capitava, e si piantò come un pascià ín mezzo al crocchio delle sue belle dame, secco, ripicchiato, arcigno, più nero del solito, di capelli e di umore — elegantissimo però, anzi il padre eterno dell’eleganza, come lo chiamavano gl’invidiosi, col castoro sulle ventitré e tanto di sigaro in bocca che faceva tossire la piccola Ardillo.

— O perché avete fatto questa levataccia, se avete il petto tanto delicato? — le disse infine, risolvendosi a buttar via l’avana.

— Oh bella, per vedere. E voi?

— Io è un altro par di maniche. Sono pagato apposta...

E continuò a brontolare, Santa Chiara.
La Badia della «Storia d'una Capinera».

(Fot. Porto)
prendendosela ora con la gente che va in giro a seccare il prossimo... — Adesso anche i Re si son messi a viaggiare! Per la venuta di Sua Maestà hanno fatto anche degli arresti, stanotte... Fra gli altri il baronello Sghémberi...

— Ah, povera Amelia!

— Zitti! Non saprà nulla ancora!...

Certo non sapeva nulla ancora la bella Sanfiorenzo, fresca come una rosa, con un abito bouton-d’or che andava meravigliosamente alla sua figura giapponese, e senza alcuna nube nel sorriso che le stampava una pozzetta nella guancia color d’ambra – dalla parte del cuore – tanto che Lascari, armato d’una cravatta irresistibile, giocava di scherma assai serrato con lei quel giorno – non si sa mai! – Ed essa rideva, rideva, povera bimba – povero Sghémberi...

– Eh, che non si metterà a piangere neppur lei... – rispose La-rocca scrollando le spalle.

— Ma perché l’hanno arrestato? Che ha fatto il baronello Sghémberi?

La principessa d’Alce fermò un momento il signor Ministro di Polizia che si faceva largo nella folla per chiederlo a lui questo perché. Egli si chinò graziosamente a prestar l’orecchio, sorrise, e rispose coll’aria più candida dei suoi begli occhi azzurri:

— Non so, cara principessa. Se ne fanno tante in nome mio!

E la piantò per correre alla scaletta d’approdo dov’era una gran ressa. Larocca sogghignò:

– Lui non fa mai nulla. Ora vo a salutare la Leyra per vedere se ne sa qualcosa lei...

– No! Non si può... Vedete! – interruppe la Limido maliziosamente.

Egli rizzò il capo come un cavallo di sangue, colse a volo il delizioso duetto senza parole che cantavano gli occhi della duchessa e di Pippo Franci, guardandosi, e lasciò ricadere la caramella con un moto del ciglio e un – Vedo! Vedo! – ch’erano un poema.

Allora nel brulichio e nel sussurro della attesa risuonò a un tratto uno squillo di tromba, acuto.

Una ventata immensa parve correre sulla folla, fino al Foro Borbonico. Le file dei soldati si fecero come corde, gli ufficiali galoppanti da un capo all’altro, i birri che menavano le mani, e le bande irruppero a suonare tutte insieme all’impazzata. Una baraonda, una confusione, senza più ordine né precedenze, il signor Comandante le armi colla spada presa nei merletti di una donna, il signor Intendente che belava – Prego!... Prego!... –sballottato di qua e di là. Don Cosimo: – Largo! Largo!

Finalmente, nel tumulto, nel pigia pigia, tra l’ondeggiare dei pennacchi e dei cappellini fioriti, apparve il chepì amaranto del Re, messo alla sgherra.

Donna Fernanda, combinazione, si era trovata in quella stretta proprio addosso a Pippo Franci – come gli si abbandonasse, molle e profumata, cogli occhi fissi in quelli di lui e le labbra secche. – Così che il poveraccio si sbiancò anch’esso in viso e chinò gli occhi d’aquila. Leí però più ardita, sempre la gran signora che era, gli disse in faccia, mentre le loro Maestà ricevevano i dovuti omaggi:

— Oh, Franci! Finalmente. Un secolo che non ci si vede! [p. 412 modifica]

Il caposquadrone volse un’occhiataccia. Don Mariano Larocca invece salutò il bel Guardia con un sorrisetto affettuoso, quasi si avvedesse soltanto allora di lui. Un’ondata di sangue era salita rapida al viso della Leyra, una specie di vertigine, contro cui s’irrigidì, mentre Sua Maestà le chiedeva graziosamente se il Duca fosse indisposto, giacché non era lì.

— Mi dispiace, — tagliò corto poi alle scuse che essa presentava. — Ditegli che mi dispiace di non averlo visto... Oh, la nostra Santapaola!...

Donna Fernanda strisciò la sua bella riverenza, barattò quattro parole colla disinvoltura di una di casa e si mise col seguito, dicendo forte a Franci:

— Sarò in casa anche di sera, subito dopo le feste. Mercoledì, volete?

La duchessa, pallida e fiera, le passò dinanzi, fra le Dame della Regina, senza neppure voltare il capo. Ma a pie’ della scalinata dovette fermarsi, perduta nella ressa che travolgeva ogni cosa, il corteo reale come fuggendo in una nuvola di polvere, fra il luccichio dei gendarmi e delle Guardie d’Onore, lasciandosi dietro gli equipaggi del seguito sbandati in un’orda di monelli schiamazzanti, tra la folla che rovesciavasi dalla Kalsa, da Porta Felice e dalle Mura Cattive ancora nere e brulicanti di popolo.

— Se aspettate la vostra carrozza, duchessa, state fresca... — osservò don Mommo che le si era messo alle costole.

Ella trasalì e si rivolse a lui con un sorriso pallido, gli occhi ancora pieni di sogno.

— Oh, Larocca!

— Eccoci soli e abbandonati, signora mia... — Sarino Rio gli faceva dei segni dall’altro lato della banchina. — E me la cerca a me ora sua moglie? — finì stringendosi nelle spalle.

Voleva fermare una carrozza che veniva di corsa, quando ne saltò giù Lascari tutto affannato e si vide scendere dalla scalinata la Sanfiorenzo, più morta che viva, sorretta dalla principessa e da qualche altra amica.

— Poveretta! È venuta a saperlo anche lei... No, non importa, lasciateli andare. Vedete che c’è Lascari? È in buone mani. Piuttosto mando a cercare un legno, qui, in Piazza Marina, e vi accompagno a casa.

Per dire qualche cosa, mentre aspettavano la carrozza, continuò a parlare dell’arresto del baronello Sghémberi, che metteva sossopra la povera Sanfiorenzo — per dirne una — e della Polizia ch’era sossopra anch’essa a caccia di fuorusciti pericolosi che erano tornati di nascosto, per fare un colpo.

— Lo so per sentito dire. Io ho un po’ l’orecchio da per tutto.

S’interruppe ad un tratto, quasi rammentandosi, e le piantò in faccia gli occhi acuti.

— A proposito, sapete nulla di quel vostro parente ch’era scappato all’estero, a Firenze, credo. E scriveva anche dei libri, poesia mi pare... una testa calda anche quella! Un affar serio! Altro che baronello Sghémberi.

Ella arrossì a quelle parole, quasi il ricordo del passato le fosse rifiorito a un tratto in cuore e in viso; ma subito si fece smorta con un vago sgomento negli occhi affascinati da quelli di lui, rapaci.

— No — diss’egli piano, stringendole la mano più forte che non fosse necessario per aiutarla a montare in carrozza. — Ví sono amico. Voglio esservi amico, ricordatevi.


II


— Ah! Sua Maestà si è degnata?...

Il duca sorrise leggermente così dicendo — lo stesso sorriso altero, il tono stesso di quell’altra che aveva detto «C’era tanti villani per le strade...». Le parve di vederla, proprio!

— Un altro po’ di fragole? Non hai mangiato quasi.

— Grazie — rispose lei.

— Povera Bella! È toccata a te questa!

La duchessa levò il capo a quel diminutivo carezzevole del suo nome e si guardarono in faccia un istante, vagamente turbati, senza saper perchè.

— Chi c’era dei nostri, almeno?... Ah, Larocca! Chissà cosa gli usciva di bocca, eh?

— È stato graziosissimo.

— Con te lo credo bene. — Essa alzò di nuovo gli occhi su di lui, sorpresa, ringraziandolo con l’accenno di un sorriso. — Davvero, se vuoi che t’accompagni a questo ricevimento. Se ti fa piacere.

— Certo, se fa piacere a te... Non per imitare Larocca sai! — aggiunse il duca graziosamente.

— Sì, vieni, te ne prego. Giacchè Sua Maestà...

Egli alzò le spalle: — Sua Maestà non se ne accorge neppure. Adesso vede tanta gente...

A questo punto la penna cadde di mano al grande artista. Fra le molte cause che gl’impedirono di riprenderla — dovere di far da padre ai suoi nipotini due volte orfani, cure dell’amministrazione del loro patrimonio, ne[p. 413 modifica]cessità di improvvisarsi agricoltore, lontananza dai maggiori centri della vita intellettuale, stanchezza prodotta dall’età, la più potente di tutte fu la sfiducia in sè stesso.

Dai racconti storici fanciulleschi e giovanili come Amore e Patria, I Carbonari della montagna, e Sulle lagune, alle confessioni eloquenti se pure un poco ammanierate e non scevre di enfasi retorica di Una peccatrice e della Capinera, alle storie appassionate e sempre più attentamente osservate nella vita di Eva, di Tigre reale e di Eros, Camera di Giovanni Verga (Fot. Scolia).egli aveva compiuta una lenta e dura ascensione. Giunto sulle vette dei Malavoglia e di Mastro don Gesualdo, bisognava mantenersi nelle solenni e pure altitudini faticosamente guadagnate, non discendere l’altro versante. Questo timore, questo terrore gli paralizzò la mano.

E invano egli sentì fervidamente lodare questo primo capitolo; invano gli fa detto e assicurato che le sue facoltà di osservatore e d’espressore vi apparivano integre: ne fu scosso per poco, parve riacquistare nel primo momento la fede perduta e promise anche di rimettersi al lavoro; ma poi tornò allo scoramento di prima. Rassegnatosi, col tempo, con la vecchiezza, all’inerzia ed al silenzio, una sola cosa gli dava ancora un senso di rimorso per non essersi sforzato in tempo a proseguire la Duchessa di Leyra ed a compiere il ciclo del Vinti: l’osservazione di quei critici secondo i quali il suo metodo e il suo stile, adatti alla rappresentazione del piccolo mondo delle campagne e delle province, si sarebbero dimostrati insufficienti a ritrarre la grande vita vissuta nelle grandi città dalle classi più elevate ed evolute.

Un’osservazione dello stesso genere era stata mossa in Francia contro Guido di Maupassant.

Con discrezione di filosofo Ippolito Taine gli aveva scritto:

«Voi dipingete contadini, borghesucci, operai, studenti e cortigiane. Un giorno, senza dubbio, dipingerete la società colta, la grande borghesia, ingegneri, medici, professori...». Questo, precisamente, si proponeva di fare il Verga nella Duchessa di Leyra, nell’Onorevole Scipioni, nell’Uomo di lusso. E prima ancora che i critici scoprissero la diversità e la difficoltà dei nuovi soggetti, egli stesso l’aveva definita e calcolata.

A misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno delle passioni va complicandosi: i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l’educazione ed anche tutto quello che ci può essere d’artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifizi della parola onde dar rilievo all’idea, in un’epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un’uniformità di sentimenti e di idee. Perchè la riproduzione artistica di codesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme di questa analisi, esser sinceri per dimostrare la verità, giacchè la forma è così inerente al soggetto quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell’argomento generale.

Più fortunato del Verga — in questo come nel resto — il Maupassant, che conosceva l’opera del grande La maschera di Giovanni Vergasuo confratello italiano e l’ammirava tanto da proporsi di tradurne le novelle rusticane, potè dipingere alcuni di questi quadri grandiosi. Giovanni Verga morì con lo struggimento di non aver potuto compiere quello da tanto tempo iniziato, al quale si era accinto con tanta consapevolezza, armato delle stesse forze che il Taine aveva trovate nel Maupassant: «pienezza naturale della concezione, facoltà di vedere cumulativamente, abbondanza e ricchezza d’impressioni, ricordi, idee psicologiche, mezze visioni fisiche ammassate in blocco, come fondamenta e punti d’appoggio, sotto ciascuna frase e ad ogni parola».

F. DE ROBERTO.