Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/170

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164 la divina commedia

     Ora, se innanzi a me nulla s’aombra,
non ti maravigliar, piú che de’ cieli
30che l’uno a l’altro raggio non ingombra.
     A sofferir tormenti e caldi e geli
simili corpi la Virtú dispone
33che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.
     Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
36che tiene una sustanza in tre persone.
     State contenti, umana gente, al quia;
ché se possuto aveste veder tutto,
39mestier non era parturir Maria;
     e disiar vedeste senza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
42ch’eternalmente è dato lor per lutto:
     io dico d’Aristotile e di Plato
e di molt’altri»; e qui chinò la fronte,
45e piú non disse, e rimase turbato.
     Noi divenimmo intanto a piè del monte:
quivi trovammo la roccia sí erta,
48che ’ndarno vi saríen le gambe pronte.
     Tra Lerice e Turbía, la piú diserta,
la piú rotta ruina è una scala,
51verso di quella, agevole e aperta.
     «Or chi sa da qual man la costa cala»
disse ’l maestro mio, fermando il passo,
54«sí che possa salir chi va senz’ala?»
     E mentre ch’e’ tenendo il viso basso
esaminava del cammin la mente,
57e io mirava suso intorno al sasso,
     da man sinistra m’apparí una gente
d’anime, che movieno i piè ver noi,
60e non pareva, sí venivan lente.
     «Leva,» diss’io «maestro, li occhi tuoi
ecco di qua chi ne dará consiglio,
63se tu da te medesmo aver nol puoi».