Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/198

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192 la divina commedia

     Lo terzo, che di sopra s’ammassiccia,
porfido mi parea sí fiammeggiante,
102come sangue che fuor di vena spiccia.
     Sovra questo tenea ambo le piante
l’angel di Dio, sedendo in su la soglia,
105che mi sembiava pietra di diamante.
     Per li tre gradi su di buona voglia
mi trasse il duca mio, dicendo: «Chiedi
108umilemente che ’l serrarne scioglia».
     Divoto mi gittai a’ santi piedi:
misericordia chiesi che m’aprisse,
111ma pria nel petto tre fiate mi diedi.
     Sette P ne la fronte mi descrisse
col punton de la spada, e «Fa che lavi,
114quando se’ dentro, queste piaghe» disse.
     Cenere o terra che secca si cavi
d’un color fòra col suo vestimento;
117e di sotto da quel trasse due chiavi.
     L’una era d’oro e l’altra era d’argento:
pria con la bianca e poscia con la gialla
120fece a la porta sí ch’i’ fui contento.
     «Quandunque l’una d’este chiavi falla,
che non si volga dritta per la toppa,»
123diss’elli a noi «non s’apre questa calla.
     Più cara è l’una; ma l’altra vuol troppa
d’arte e d’ingegno avanti che disserri,
126perch’ella è quella che nodo disgroppa:
     da Pier le tegno; e dissemi ch’i’ erri
anzi ad aprir ch’a tenerla serrata,
129pur che la gente a’ piedi mi s’atterri».
     Poi pinse l’uscio a la porta sacrata,
dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti
132che di fuor torna chi ’n dietro si guata».
     E quando fur ne’ cardini distorti
li spigoli di quella regge sacra,
135che di metallo son sonanti e forti,